Degli zingari si può anche parlare bene

«Il viaggio musicale dei Gitani» al MITO Settembre Musica 2008

A Milano, dal 7 al 12 settembre, la seconda edizione del MITO (Festival Internazionale della musica organizzato dai comuni di Milano e Torino) ha dato risalto alla cultura dei Gitani, con un «viaggio musicale» dal Rajasthan all’Andalusia, passando per Pakistan, Iran, Turchia, Balcani. Un’occasione per superare pregiudizi e stereotipi verso un popolo affascinante per la sua storia e cultura millenaria. 

Non è usuale per una rivista missionaria occuparsi di musica, in particolare di una manifestazione in prevalenza dedicata alla musica «classica». Pur a distanza di tempo, diventa quasi un obbligo farlo quando, nell’ambito di essa, si colgono aspetti che la rendono interessante anche oltre lo specifico valore musicale.
Il riferimento è alla seconda edizione di «MITO Settembre Musica, il Festival Internazionale che, dal 2007, vede l’esperienza trentennale della storica rassegna torinese estendersi al capoluogo lombardo e ad altre importanti città attorno alle due metropoli. Quasi un intero mese di spettacoli che ha proposto oltre 230 eventi di musica – classica, contemporanea, jazz, pop, rock, etnica -, rassegne cinematografiche, incontri di «arte e musica», cicli monografici. È stato appunto uno di questi ultimi, il «Viaggio musicale dei Gitani» a offrirci lo spunto per scriverne su Missioni Consolata.
Pur ponendosi l’obiettivo di coinvolgere un pubblico più ampio rispetto a quello che usualmente frequenta le sale da concerto, il MITO resta un festival di musica colta che, per lo più, si svolge in prestigiosi teatri quali la Scala e gli Arcimboldi di Milano o il Regio e l’Auditorium Rai di Torino; frequenta Conservatori, storici circoli dove si fa cultura, luoghi ricchi di arte e architetture monumentali; e non trascura il sacro di chiese e basiliche che offrono a credenti e non credenti momenti di significativa elevazione spirituale.
Si tratta evidentemente di un contesto che appare quanto di più lontano possa esistere dalla realtà di vicende drammaticamente tragiche e di quotidiana disperazione di vita ai margini delle nostre città, che i media ogni giorno, continuamente, descrivono quando si occupano di coloro che, semplificando, chiamiamo «zingari».
Sia chiaro, nessuno nega i problemi e le difficoltà che il porsi in relazione con queste persone presenta, né in questa sede si vogliono commentare in alcun modo i provvedimenti presi dalle autorità o quelli che si vorrebbe prendessero.
Tuttavia, il fatto che nell’ambito di un festival con le caratteristiche descritte fosse ospitata, non marginalmente ma, anzi, promossa come una rassegna di rilievo, un’intera settimana dedicata a questo particolare viaggio musicale, ci è parsa già di per sé una notizia degna di rilievo.
Un’occasione per parlare dei popoli nomadi anche in positivo. Non per nulla la musica è, forse, il linguaggio umano che più accomuna e commuove; anche nel senso letterale di «muovere con», predisponendo ragione ed emozione al rapporto con l’altro.

Così è stato oltremodo significativo che, nella stessa manifestazione, sui cui palchi si sono avvicendate grandi orchestre inteazionali come la London Symphony e l’Orchestre National de France, ad aprire la sezione del «Viaggio musicale dei Gitani» sia stata, nel salone d’onore della Triennale di Milano, proprio la «Banda del villaggio solidale».
È, quest’ultima, un gruppo musicale costituitosi nell’ambito della milanese Casa della Carità: istituzione voluta dal cardinal Martini, per aiutare le persone in difficoltà a superare la propria condizione di disagio. Don Virginio Colmegna, presidente dell’omonima fondazione che la sostiene, ricordando il migliaio di persone di 80 nazionalità accolte dalla struttura in un triennio, ha presentato l’ensemble definendolo: concreta manifestazione di un operare che vuole promuovere e far crescere l’espressione culturale dei diversi mondi ospitati; nella convinzione che dando visibilità alle rappresentazioni artistiche e musicali delle culture immigrate si possa aumentare il livello di comunicazione positiva e favorire la coesione sociale.

Le foto pubblicate in queste pagine descrivono perciò un viaggio sonoro, cominciato con saltimbanchi, musicisti e danzatrici appartenenti alle ultime caste erranti del Rajasthan (India del nord) e origine stessa del popolo Rom; gente che ha conosciuto lo scintillio delle pietre preziose di antichi palazzi come la ruvidezza delle rocce del deserto.
Un viaggio proseguito con i Gitani che hanno attraversato il Medio Oriente per arrivare fino in Tunisia. Fra questi, quelli dell’Alto Egitto tuttora tramandano nella musica l’epopea del mondo beduino del x secolo; in Turchia, invece, sono maestri di clarinetto e a loro si deve la conservazione del repertorio festivo e virtuosistico delle danze regionali, oltre all’aver posto il loro strumento in posizione preminente in tutti i Balcani.

La terza tappa ha ricondotto il pubblico in Asia, con artisti arrivati dalle montagne di Pakistan e Afghanistan, che hanno portato al MITO la loro tradizione millenaria (risalente al 4.000 a.C.), mostrandone anche le somiglianze con quelle dell’antica Grecia evidenziate, ad esempio, nel comune uso del flauto a due canne.
I contributi dall’Europa sono, invece, venuti in primo luogo da due tradizioni della Romania. Quella dei discendenti delle famiglie di «ursari» (ammaestratori di orsi) superstiti all’olocausto e alle persecuzioni della polizia comunista, che si esibiscono nel canto accompagnato da percussioni rudimentali e dal ballo delle donne che fanno roteare gonne e scialli coloratissimi.
E quella dei «lăutari», i migliori musicisti popolari di Romania. Fino alla metà del xix secolo essi erano schiavi del principe regnante, raccolti in corporazioni professionali fondate nel xvii secolo; oggi vedono rinascere l’interesse del pubblico per la loro musica, i cui stili si adattavano alla realtà storica e ambientale dei gruppi sociali cui era destinata: contadini, operai, intellettuali…
Immancabile è poi stato il passaggio attraverso l’icona della donna gitana nella musica colta occidentale: principalmente identificata nel mito della Carmen di Bizet, ma presente, affascinante e ambigua, anche in Verdi, Brahms, Leoncavallo, Liszt… fino alla grazia del chitarrista Django Reinhardt, che sedusse la Francia degli anni Trenta.
Il «Viaggio musicale dei Gitani» non poteva, infine, che concludersi con la chitarra flamenca e il cante jondo (canto profondo) che, partiti dai locali e dai porti di Siviglia, Cadice e Jerez de la Frontera negli anni ’40 del 1800, e pur restando fedeli alla tradizione, continuano però a evolversi, conservando la capacità, descritta da Federico Garcia Lorca, di trasportare il pubblico sul margine dell’abisso.
Una ricchezza dunque, quella qui tratteggiata, seppur sinteticamente, che merita di essere più conosciuta, perché il nostro giudizio su un popolo e sulla sua cultura, pur non disconoscendo le difficoltà che sono reali, non sia limitato a stereotipi negativi. 

Di Giovanni Guzzi

Giovanni Guzzi

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