Per neutralizzare o per rieducare?

La necessità di ripensare il carcere e la pena

Il 70% dei condannati torna a commettere reati (la recidiva, che porta al fenomeno detto della «porta girevole») entro 5 anni dalla conclusione della detenzione. Le misure alternative, pur in crescita, vengono guardate con sospetto dall’opinione pubblica. Mentre tra i carcerati è altissimo il tasso di suicidio. Da qualunque lato lo si guardi, così com’è il sistema non funziona.

«Lei aveva sempre inteso dire che voleva aiutarmi ad aiutare me stesso, e ciò era quello che mi aspettavo e desideravo». «Aiutarmi ad aiutare me stesso», sono le parole che si leggono più volte nella storia autobiografica di Edward Bunker («Educazione di una canaglia», Einaudi). La «lei» della storia di Bunker si chiama Miss Louise Wallis, una ex diva del cinema hollywoodiano che prende a cuore l’esistenza di un giovane detenuto che si chiede se sia stato lui a dichiarare guerra alla società o se sia stata quest’ultima a volere la guerra. E, in questa dichiarazione di guerra, il carcere non rappresenta che un campo di battaglia, in cui Bunker esperisce il suo percorso iniziatico di «canaglia».

PERCHÉ IL CARCERE?

Nei 250 anni da cui esiste la prigione modea molti studiosi ed operatori sociali si sono interrogati su quale sia l’utilità sociale di tenere rinchiusi degli individui a causa dei loro reati. Ma se dovessimo rispondere alla domanda che il sociologo norvegese Thomas Mathiesen si poneva nel titolo di un suo lavoro di qualche anno fa «Perché il carcere?», forse l’unica risposta che avrebbe qualche chanches di resistere alle obiezioni degli abolizionisti, è quella che esso dovrebbe aiutare ad essere aiutati coloro che vi entrano per scontare una pena. Sull’utilità del carcere, peraltro, il dibattito pubblico sembra avere pochissimi dubbi. È dato per scontato che il carcere sia il principale, se non unico, strumento di lotta alla criminalità. Ad ogni fenomeno che produce allarme sociale, dal cybercrime ai maltrattamenti degli animali, dal doping nello sport alla violenza negli stadi, la risposta standard attraverso la quale il sistema mediatico-politico sembra poter testimoniare la propria attenzione è quella dell’introduzione di nuove fattispecie di reato con relativa appendice di sanzione detentiva.
L’ultima vicenda dell’indulto del 2006 ha evidenziato come la funzione che la nostra società implicitamente richiede alla pena detentiva è quella della mera neutralizzazione delle persone condannate. Se le carceri tornano a sentire il problema del sovraffollamento, infatti, la risposta più ovvia sembra essere quella di costruie di nuove, ignorando che gli organismi inteazionali (ad esempio, il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa presieduto dall’italiano Mauro Palma) hanno sconsigliato i governi nazionali di adottare questa soluzione perché in molti paesi le nuove carceri sono state in breve tempo riempite, riproponendo gli stessi problemi di sovraffollamento, ma in dimensioni più estese. Inoltre, considerati gli altissimi tassi di recidiva fatti registrare dalle persone condannate alla detenzione, che cosa significa auspicare un maggior uso della stessa se non legittimare la funzione meramente neutralizzativa della pena, contraddicendo il principio costituzionale (art. 27) dello scopo rieducativo della pena?
Il carcere dunque come principale risposta alla criminalità. E se questi sono i messaggi che giungono dal sistema mediatico-politico non ci si può stupire se i numeri della carcerazione crescono nuovamente. L’indulto aveva riportato la popolazione detenuta ad un livello accettabile. Nel luglio 2006 si era raggiunta la cifra record per la storia repubblicana di oltre 61mila detenuti, dopo il provvedimento clemenziale, alla fine del 2006, tale cifra si era abbassata a circa 39mila. Nel breve volgere di qualche mese, tuttavia, siamo ritornati a quote di sovraffollamento inquietanti: nel giugno 2007 siamo risaliti a quasi 44mila ed oggi abbiamo superato i 49mila, a fronte di una capienza regolamentare di poco superiore alle 43 mila unità.
Ma quanto è efficace lo strumento carcere per combattere la criminalità? I dati anche rispetto a questo aspetto sono poco confortanti. Un carcere socialmente utile dovrebbe «produrre» degli individui meno inclini a violare la legge. Come scriveva Alexis de Tocqueville più di 150 anni fa, se non per intima convinzione nel rispetto delle leggi per lo meno per timore della pena o per avere acquisito in prigione l’abitudine a rispettare la legge. Le poche ricerche accreditate (la più recente svolta proprio dal ministero della giustizia) ci dicono che quasi il 70% dei condannati torna a commettere reati entro 5 anni dalla conclusione della detenzione.
Si parla, al proposito, del cosiddetto fenomeno «porta girevole», nel senso che molti detenuti continuano ad entrare ed uscire dal carcere come seguendo la rotazione delle porte di un albergo. È sufficiente analizzare la composizione sociale della popolazione reclusa per rendersi conto che si tratta di persone la cui marginalità sociale rende altamente probabile l’esito carcerario e la recidiva. Un quarto di tale popolazione ha problemi di tossicodipendenza e/o di alcoldipendenza, oltre il 35% di essa proviene da paesi stranieri ed è in attesa, una volta scontata la pena, di essere rimpatriata perché giunta in Italia clandestinamente.

MISURE ALTERNATIVE:
VALIDE, MA IMPOPOLARI

Il carcere, secondo il nostro ordinamento giuridico, dovrebbe costituire l’extrema ratio delle modalità punitive, riservato solamente ai reati considerati più gravi. Che fine hanno fatto le forme alternative alla carcerazione introdotte con la lontana riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975? Rispetto alle misure alternative, esse risultano in aumento nel corso degli ultimi anni se pensiamo che le persone sottoposte ai vari regimi di limitazione della libertà (semilibertà, detenzione domiciliare, affidamento in prova ai servizi sociali) sono arrivate ad essere pari a quelle detenute in carcere.
L’opinione pubblica, tuttavia, è frequentemente chiamata a scandalizzarsi di casi di cronaca in cui condannati a misure alternative commettono altri reati, dimenticando peraltro che la percentuale di questi casi è bassissima e che i progetti di reinserimento sociale dei reclusi necessitano di un periodo di verifica che non può che passare attraverso forme, anche limitate, di libertà del condannato. Le ricerche dimostrano che coloro i quali hanno scontato la pena in misura alternativa fanno registrare tassi di recidiva molto più bassi rispetto a quelli degli ex detenuti (la percentuale già citata del 70% cala a poco più del 20%). La stessa cultura giuridica degli operatori del diritto stenta a considerare le pene alternative come una sanzione penale vera e propria e tende quindi a concederle con sempre maggiore riluttanza: quest’estate ha destato scalpore la rapina commessa dall’ex brigatista Piancone, mentre stava scontando la misura alternativa, benché avesse scontato la pena detentiva per la durata di 25 anni! Del resto, non si intravede una politica di potenziamento delle strutture pubbliche chiamate a svolgere le attività di reinserimento sociale.
La percentuale di personale che all’interno delle carceri è addetta al trattamento è ancora oggi estremamente ridotta rispetto a quella che si occupa della sicurezza. Mentre esiste in media più di un agente di polizia penitenziaria per ogni detenuto, ancora oggi ci sono carceri che ospitano 200/300 reclusi che dispongono dell’intervento di uno o due educatori! Lo stesso provvedimento dell’indulto è stato approvato nel periodo estivo, quasi alla chetichella e prontamente disconosciuto dalle stesse forze politiche che l’avevano approvato, senza un serio piano di reinserimento sociale e di accoglienza delle persone scarcerate con i soggetti del privato sociale operanti sul territorio. In buona sostanza, una occasione perduta per dimostrare all’opinione pubblica come il carcere possa e debba mantenere una valenza risocializzativa.

TROPPI SUICIDI NEGLI 
«ALBERGHI A 5 STELLE»

Di quando in quando emerge nell’opinione pubblica che le carceri siano «alberghi a 5 stelle». Non è proprio così, se consideriamo che gran parte dei nostri istituti penitenziari sono fatiscenti o perché vetusti, o perché nati vecchi in quanto costruiti non per il bene pubblico, ma per soddisfare interessi privati di consorterie di potere (ricordate lo scandalo delle «carceri d’oro»?). Inoltre, la maggior parte delle persone detenute sono costrette ad un ozio forzato, in quanto la possibilità di svolgere lavori all’interno del carcere è garantita per non più di un quarto della popolazione reclusa a causa di croniche carenze di finanziamenti statali e della latitanza dell’imprenditoria privata che, nonostante la retorica sul capitalismo sociale, non sembra molto propensa ad investire nel recupero delle persone che hanno sbagliato (la Corte costituzionale, infatti, ha ribadito che i detenuti non perdono i loro diritti di lavoratori…).
Un altro diritto che i detenuti non dovrebbero perdere entrando in un carcere è quello alla salute. Tuttavia, le condizioni della sanità penitenziaria non sono certo in grado di garantire tale diritto per tutte le persone recluse. La cosiddetta riforma Bindi, che ne prevedeva, dopo una fase di sperimentazione in alcune regioni, il passaggio al servizio sanitario nazionale è stata a lungo inapplicata e forse l’anno 2008 sarà quello decisivo per una sua positiva realizzazione. Nel frattempo la situazione sanitaria delle carceri si è fatta sempre più critica, appena migliorata dalla boccata di ossigeno dell’indulto, ma ben presto di nuovo sotto pressione con l’incremento dei detenuti degli ultimi mesi. Anche qui tagli ai finanziamenti pubblici, resistenze di potentati corporativi, disorganizzazione complessiva dell’amministrazione penitenziaria, riluttanza della società extra-muraria di farsi carico della questione hanno prodotto una realtà sanitaria che, soprattutto in alcune regioni, non può considerarsi a livello di un paese civile.
Ma c’è un dato del mondo carcerario che risulta ancor più inquietante: il tasso dei suicidi. Negli ultimi anni in Italia tale tasso tra i detenuti ha superato l’uno per mille abitanti, il che significa che in prigione ci si ammazza 15 volte di più che nella società dei liberi. Proprio nelle ultime settimane quattro episodi di suicidi tra gli agenti di polizia penitenziaria hanno riproposto l’attualità del tema anche nell’ambito del mondo degli operatori penitenziari. Possiamo considerarli un ennesimo esempio di morti bianche sul lavoro? Direi proprio di sì. Condizioni di sovraffollamento, stato di abbandono da parte della famiglia e degli operatori sociali, difficili rapporti con i compagni di detenzione o di lavoro, condizioni igienico-sanitarie degli stabilimenti penitenziari non idonee a costruire un ambiente di lavoro accogliente; tutte situazioni che incidono negativamente tanto sui detenuti quanto sul personale di custodia e che contribuiscono ad aumentare quella dimensione di sofferenza umana che emerge dagli istituti di pena italiani.
Jean-Pierre Faye a chi gli chiedeva una definizione di Europa rispondeva: «l’Europa è là dove non esiste la pena di morte». Affermazione ancor più significativa dopo la moratoria approvata dall’Onu proprio su istanza dei paesi europei.
Uno Stato che voglia definirsi europeo non può quindi accettare che sussistano nei propri istituti penitenziari delle condizioni che inducano suoi cittadini a privarsi di quel bene, la vita, per la protezione del quale è stato costituito lo stesso patto sociale. 

Di Claudio Sarzotti

Claudio Sarzotti




Ricerca in campo minato

Un’accurata ricerca sulla presenza islamica in Piemonte

Eventi recenti hanno suscitato vari interrogativi sulla presenza delle comunità islamiche in Italia: quanti sono, cosa fanno, come sono organizzate… Per rispondere a tali domande, almeno per quanto riguarda il Piemonte, il «Centro Federico Peirone» ha condotto una ricerca esemplare e stimolante, capace di fugare paure e razzismo.

Durante la trasmissione televisiva «Annozero» (febbraio 2007), una moschea di Torino era stata denunciata come «covo di propaganda anti-occidentale» e il suo imam marocchino è stato espulso (gennaio 2008), perché ritenuto «una minaccia per lo stato». La stessa sorte era toccata al suo predecessore nel settembre 2005.
Denunce del genere vengono spesso riportate dai quotidiani nazionali con titoli sensazionali, che parlano di scoperte di «scuola di terrorismo» collegata ad Al Qaeda, «covi di propaganda dell’odio», «schegge impazzite dell’islam» con sede in Italia… Ma mentre gli agenti di polizia, protagonisti di tali scoperte, ricevono encomi e complimenti, alcuni studiosi di islam, che con le loro ricerche spesso offrono «piste valide» alle stesse forze dell’ordine, sono accusati presso i tribunali di «vilipendio della religione islamica, come è capitato ai professori Allievi e Guolo, denunciati dal discusso Adel Smith (vedi riquadro).
In un paese dove cresce la nevrosi «da paura» e «razzismo» nei confronti del mondo arabo, sono proprio gli studi degli onesti ricercatori spesso anche apprezzati analisti di importanti quotidiani su questo «campo minato», che insegnano a «disceere», a non fare di «tutte le erbe un fascio», a distinguere tra «islam moderato», a cui appartiene la maggioranza dei musulmani residenti nel nostro paese, da quello marginale ma micidiale del «terrorismo fai-da-te».
In questo filone s’inserisce l’importante ed esemplare ricerca «Musulmani in Piemonte», promossa dal Centro Studi Federico Peirone, in collaborazione con docenti dell’Università di Torino, a cui ha offerto autorevoli contributi anche il «denunciato» prof. Renzo Guolo.
metodo e ambiti
«La ricerca si è confrontata con i seguenti quattro campi di analisi: le appartenenze all’islam, la costruzione dell’islam, i profili identitari dei musulmani, pratiche e ideologia  degli imam», scrive nell’introduzione Luigi Berzano, docente di sociologia all’Università di Torino, evidenziando subito come sia complesso studiare un settore del «fenomeno immigrazione» che ormai caratterizza l’Italia.
Pensata nel 2002, la ricerca si è sviluppata «sul campo» dall’ottobre 2003 al novembre 2004, con approfondite interviste su un campione ben bilanciato di 1.352 immigrati musulmani (917 uomini e 435 donne) residenti nelle nove province del Piemonte e provenienti da Marocco, Albania, Senegal, Tunisia, Egitto, Somalia. Altri 50 sono stati intervistati fra i 124 immigrati musulmani detenuti in carcere.
Nell’analisi dei dati statistici gli albanesi sono stati quasi sempre scorporati dalle altre nazionalità, per la loro accentuata laicità. Inoltre, dopo essere riusciti con fatica a compilare un elenco di 43 moschee (in molti casi «sale di preghiera») in Piemonte, se ne sono identificate 20 (7 in Torino) per «le visite e interviste approfondita ai dirigenti».
Nel 2005 si è conclusa la stesura dei testi e presentato il libro «Musulmani in Piemonte» (ed. Guerini e Associati-Milano) a cura di Augusto Tino Negri (direttore Centro Studi Federico Peirone) e Silvia Scaranari Introvigne (professoressa di filosofia e collaboratrice del Centro Peirone). Questa ricerca è stata possibile grazie al contributo dell’Associazione Torino-Europa, Fondazione San Paolo, Assessorato alle Politiche sociali Regione Piemonte.
Il libro, rigoroso e ricco di dati attendibili, è accurato nel presentare la metodologia della ricerca (appendice) e nell’approfondire alcuni aspetti della «presenza islamica in Piemonte» e «in patria»: viene così proposto un «quadro di confronto» per «analizzare tendenze e dinamiche dell’islam in Piemonte con quelle nazionali ed europee», è raccontato dettagliatamente «la visita alle moschee e le interviste agli imam», si descrivono le peculiarità degli «ethnic business» a Torino, vengono tratteggiati eventuali scenari futuri dell’islam in Piemonte e in Italia.

PRATICA RELIGIOSA

Secondo i dati Caritas, nel 2004 gli immigrati in Italia erano 2.194.000 (senza contare i circa 300 mila clandestini), il 33% dei quali sono musulmani (circa 825 mila), residenti il 30% a nord-ovest, 28,4% a nord-est, 21,5% al centro, 14% nelle isole. Il campione degli intervistati è stato estrapolato dai circa 50 mila musulmani presenti in Piemonte nel 2001 (attualmente sono circa 60 mila).
Il questionario, rigoroso ed essenziale, è stato suddiviso in tre parti in modo da identificare:  le caratteristiche socio-economiche dell’intervistato (genere, provenienza, professione); importanza dell’aspetto religioso nella vita del soggetto; indagare quanto l’appartenenza islamica influenzi la coesistenza con la società d’accoglienza.
Inoltre, il questionario ha posto particolare attenzione sulle 5 pratiche (i pilastri dell’islam) che «la sunna e il diritto islamico considerano obbligatorie: fare la professione di fede islamica, preghiera rituale (salat), elemosina rituale (zakat), digiuno del ramadan, pellegrinaggio alla Mecca una volta nella vita.
Circa dieci intervistatori, provenienti dai paesi degli intervistati, sono stati addestrati bene per ottenere risposte attendibili.
Dalle risposte ottenute dagli intervistati risulta che la religione islamica è considerata importante dal 60%, con punte altissime per somali e senegalesi (90%); la frequenza delle moschee per la preghiera del venerdì è del 31%, mentre il 53% prega 5 volte al giorno; il digiuno di ramadan è praticato dal 96%, il pellegrinaggio alla Mecca è stato compiuto dal 10%, mentre l’86% vorrebbe compierlo. L’elemosina, versata nel mese di ramadan, è rispettata dal 65% degli intervistati, in prevalenza arabi (Marocco 71%, Tunisia 68%, Egitto 65%).
Per quanto riguarda l’occupazione, il 45% dei musulmani intervistati svolge un lavoro dipendente, il 10% un lavoro autonomo con partita Iva, l’8% un lavoro autonomo senza partita Iva (sommerso), il 19% è disoccupato, il 6% è formato da studenti (da 18 anni in su), l’11% si occupa della cura domestica. Tra i lavoratori dipendenti, la maggioranza proviene dall’Africa subsahariana, mentre nel campo del commercio e piccola imprenditoria prevalgono gli arabi.

Islam politico e islam moderato

Alla domanda se «una buona società dev’essere governata dalla shari’a», il 43% degli intervistati ha risposto «sì», il 53,5% «solo per certe cose» e il 3,5% ha risposto con un netto «no».
«La shari’a è la legge positiva di origine religiosa – spiega il prof. Guolo -. Le sue fonti sono le stesse della teologia: il Corano, la sunna, il consenso della comunità (ijma), l’ijtihàd, ragionamento individuale di tipo analogico, che permette un margine di interpretazione e adattamento. La shari’a regola questioni assai diverse, dalla modalità della preghiera allo statuto della famiglia».
E analizzando le risposte, prosegue: «Tra i più favorevoli al modello sciaratico si riscontrano coloro che provengono dall’Egitto (57%) e dalla Somalia (50%), paesi investiti negli ultimi decenni dall’onda lunga del “risveglio islamico”. Ed è proprio tra i seguaci dell’orientamento islamista che si trovano molti di coloro che si dichiarano a favore delle pene coraniche (61%), richieste in maggioranza da egiziani (67%), marocchini (63%), somali (62%) e tunisini (61%)».
Stupisce che nessuno degli intervistati abbia chiesto chiarimenti sull’applicazione della shari’a, se essa riguardi il paese di provenienza o anche l’Italia. Sarebbe interessante appurare che cosa intendono coloro che hanno risposto «solo per certe cose»: e cioè, per regolare questioni intee alla comunità islamica o con incidenza sulla società civile del paese che li ospita.
I ricercatori hanno tratteggiato le seguenti identità socio-politiche, per cercare di individuare il gruppo di appartenenza degli intervistati:
1- islam-politico: ritiene che una buona società debba essere governata con la shari’a; vuole le pene coraniche e la Banca islamica;
2- islam-moderato: ritiene che una buona società debba essere governata con la shari’a solo per certe cose, vuole il velo per chi lo desidera, sceglierebbe una scuola statale con insegnamento dell’islam;
3- islam-laico: ritiene che una buona società non debba essere governata con la shari’a, non vuole né pene coraniche né banche islamiche.
Interessante è l’analisi dei dati su questi parametri: solo il 13,61% dei musulmani albanesi intervistati (4,5% del campione totale) appartiene all’identità socio-politica dell’islam laico. Tutti gli altri intervistati sono suddivisi tra islam-moderato e islam-politico, e un modesto gruppo residuale (2,8%). Il 67,16% (64,64% senza albanesi) appartiene all’islam-moderato (72% albanesi, 64% marocchini, 76% senegalesi, 65% tunisini, 57% egiziani, 51% somali); mentre il 24,44% degli intervistati (32,56% senza albanesi) appartiene all’islam-politico (33% marocchini, 8% albanesi, 21% senegalesi, 33% tunisini, 44% egiziani, 42% somali).
Commenta il prof. Guolo: «Il processo di individualizzazione, che segna la progressiva autonomia del singolo e l’autopercezione di sé come soggetto, segna sempre più l’essere musulmano in occidente… Quello che emerge dalla ricerca è dunque un islam sfaccettato più che monolitico».

 moschee e loro dirigenti

«Ogni moschea è indipendente dalle altre – chiarisce Tino Negri -. I suoi dirigenti esprimono l’ideologia politico-religiosa del gruppo che frequenta la moschea, o per lo meno del gruppo fondatore, e colui che solitamente è definito imam ne incarna i fini e gli obiettivi sulla scena sociale. Non esiste una struttura “ecclesiale” nell’islam, né una gerarchia di governo dell’istituzione. Sono sbagliate dunque le equazioni imam-prete (o vescovo) e moschea-chiesa».
Negli anni ‘90 i centri islamici si sono moltiplicati in Torino e provincia, intessendo tra di loro «reti associative allo scopo di negoziare con maggior forza le proprie richieste nei confronti dell’ambiente circostante, dell’autorità locale e dello stato».
Sono stati identificati tre tipi di «centri di culto», in base alla capienza degli edifici: grandi (ospitano 200 persone), medi (da 100 a 200), piccoli. «I locali sono, a volte in buono stato, altre volte, fatiscenti, ma sempre sistemati con cura, con tappeti, suppellettili e simboli essenziali… Quasi tutte le moschee, eccetto quelle molto piccole, assicurano la scuola coranica e di lingua araba per i ragazzi, che si svolge nei giorni di vacanza scolastica, il sabato pomeriggio e la domenica».
A Torino sono stati identificati due poli del «culto islamico piemontese» a San Salvario e a Porta Palazzo, sviluppati soprattutto dopo il 1995, che spaziano dall’islam radicale a quello moderato, oppure «etnico, comunitario, solidale e devozionale» dei senegalesi. 
Dal 2003 al 2004 i ricercatori, in periodi diversi, hanno monitorato la frequenza alle 20 moschee scelte e intervistato i «dirigenti» (2 hanno rifiutato l’intervista). Si preferisce usare l’appellativo «dirigente» invece di imam. «Sommersi dalle critiche per i comportamenti e la sovraesposizione mediatiche di noti leader islamici, le comunità hanno estromesso dal loro lessico il termine imam. Oggi i leader delle moschee preferiscono presentarsi come “dirigenti” dell’associazione che amministra la moschea».
Interessante è rilevare la disparità nel grado d’istruzione dei «dirigenti» intervistati. «Dei 20 centri visitati, solo 2 vantano un vero imam, o alim (dotto islamico), che ha compiuto studi pluriennali in una università islamica (Fés, Casablanca, Mecca); in altri 5 centri, troviamo 5 imam che hanno frequentato la scuola liceale per imam (3 anni) a Casablanca o che hanno seguito le lezioni di un alim impartite nella moschea; negli altri 13 centri, le guide della preghiera sono scelte tra coloro che meglio conoscono il Corano e la sunna, senza aver fatto studi specifici».
La sfaccettatura dell’islam in Piemonte si deduce anche dai fini e obiettivi delle «sale di culto». «Delle 20 moschee visitate, 4 s’ispirano alla corrente islamica wahhabita, puritana, lealista nei confronti dei principi sauditi dell’Arabia, favorevole allo stato islamico e all’applicazione della shari’a “dal basso”; 6 moschee s’ispirano alla corrente dei Fratelli musulmani che ha optato per l’islamizzazione “dal basso”, di cui 3 simpatizzanti e 2 aderenti all’Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia); 1 moschea s’ispira alla corrente più radicale e separatista dei Fratelli musulmani, che auspica l’islamizzazione “dall’alto”; 2 moschee sono salafite. In conclusione, il 55% delle moschee piemontesi appartiene all’area politica».

Commenti, esiti possibili

C’è una forte discrepanza tra la frequenza alla moschea dichiarata dagli intervistati e quella dichiarata dai «dirigenti» e rilevata dai ricercatori. «Mentre il 26% dei fedeli afferma di recarsi tutti i venerdì in moschea, secondo gli imam l’affluenza sarebbe del 5% e del 4% secondo le nostre rilevazioni. Durante il mese di ramadan, la frequenza dichiarata è del 37%, quella stimata dagli imam del 12%, mentre quella che emerge dai nostri rilievi del 7%».
Tra i dirigenti dei luoghi di culto, «generalmente sono condannati gli attentati alle Twin Towers di New York, quello in Spagna e quelli in Turchia. Le moschee aderenti o simpatizzanti dell’Ucoii menzionano la condanna pubblica degli attentati dell’11 settembre 2001 e dell’11 marzo 2004 pronunciata dall’Ucoii».
Inoltre, questi dirigenti «approvano la frequenza degli oratori parrocchiali da parte dei ragazzi, purché non ci sia né proselitismo né promiscuità». I ricercatori, infatti, affermano: «Non riscontriamo in nessuna delle guide delle moschee, quella reciprocità nel rispetto dell’altro e delle sue credenze né quella passione di ricerca intellettuale che sono irrinunciabili in un dialogo autentico». E constatano che «i dirigenti-imam delle moschee, in Piemonte (come in Italia e in Europa), affrontano il rapporto della comunità islamica con la modeità con gli strumenti della tradizione classica medioevale, assunta e ritrasmessa letteralmente, senza mediazioni; in secondo luogo i mediatori dell’incontro-scontro con la modeità sono soprattutto quegli autori contemporanei che provengono dall’area dell’islam-politico».
Malgrado la frequenza alle moschee non sia così alta bisogna rilevare che «le comunità musulmane in Occidente, compresa quella piemontese, mantengono uno stretto rapporto con la umma mondiale e le realtà nazionali e associative di appartenenza… Vivere a Torino e guardare al-Jazira o frequentare l’islam on line è esperienza diffusa».
A detta dei ricercatori, i processi visibili tra i musulmani in Piemonte sono: «Privatizzazione della sfera religiosa, reislamizzazione identitaria, secolarizzazione. A seconda del prevalere di questa o quella tendenza si definirà non solo il futuro di parte rilevante dell’islam in Italia, ma anche il quadro di convivenza tra società italiana e musulmana». 

Di Silvana Bottignole

Silvana Bottignole




Processi sconvenienti

Reportage: 30 anni dopo il regime dei Khmer Rossi

A 30 anni dalla fine del potere dei Khmer Rossi
e a 10 dalla morte del loro leader sanguinario,
Pol Pot, poco o nulla è cambiato per buona parte della popolazione cambogiana: non pochi nutrono una certa nostalgia per i tempi in cui si stava peggio e a nessuno interessa il processo dei principali responsabili del famigerato regime.

A l posto di confine di Poipet, il funzionario controlla perplesso ogni pagina del mio passaporto. «Non ha il visto cambogiano, deve farlo qui. Le costerà 30 dollari» mi dice. «Ho il visto fatto tramite internet. Ecco la ricevuta» ribatto mostrando la stampa dell’avvenuto rilascio dell’e-visa. Il poliziotto storce il naso, mugugna qualcosa, legge attentamente il foglio che gli porgo e dopo averlo timbrato, senza alcun sorriso me lo riconsegna, facendomi un cenno veloce con la mano di passare.
Guardo il gruppo di turisti francesi che sono dietro a me: li sento protestare con il doganiere perché ufficialmente il visto di entrata costa solo 20 dollari; i 10 dollari di maggiorazione andranno direttamente nelle tasche del poliziotto di tuo che li dividerà con i suoi colleghi. Un modo come un altro per arrotondare il magro stipendio che il governo offre ai suoi impiegati.
CORRUZIONE E INEFFICIENZA
È con queste premesse che rientro per l’ennesima volta in Cambogia. La corruzione, male ormai endemico del paese che ha infestato ogni ganglio della pubblica amministrazione, sembra non riesca ad essere debellata, anche se l’avvento della tecnologia informatica ha iniziato a dare i suoi frutti. Il visto emesso in via elettronica, infatti, è stato introdotto dal ministero degli Esteri, dopo le innumerevoli lamentele di turisti costretti a pagare il visto rilasciato in entrata ai posti di frontiera, sino al 50% in più della tariffa ufficiale. La brama di denaro colpiva anche i diplomatici e i volontari delle Ong che nel paese lavorano.
Accontentati i turisti, però, c’è ancora molto da fare in Cambogia per renderla una nazione pulita. E non parlo solo dal punto di vista della corruzione finanziaria. No, questo sarebbe il minimo. La Cambogia è corrotta nel suo interno, nell’animo.
Dalla caduta dei Khmer Rossi, avvenuta nel 1979 dopo l’invasione vietnamita, le speranze di ricostruire un paese nuovo, libero e moralmente virtuoso, si sono infrante di fronte agli scogli del potere. Un potere impersonificato in primo luogo dai politici, dal padre-padrone della nazione, il primo ministro Hun Sen, all’inconcludente Sam Rainsy per terminare con l’inaffidabile Norodom Ranariddh, figlio dell’ex re Norodom Sihanouk, che dal padre ha ereditato l’instabilità e la follia, ma non il carisma.
Nessuno, nei quasi 30 anni di decorso post-Khmer Rosso, è mai riuscito a defenestrare questa triade che tiranneggia i 14 milioni di cambogiani. «Non viviamo meglio oggi di quanto vivevamo sotto Pol Pot» mi dice Sok Bunroeun, un ottantenne di Siem Reap che ha vissuto l’odissea di Kampuchea Democratica tra il 1975 e il 1979.
Nonostante abbia lavorato sino a cinque anni fa, Sok Bunroeun è costretto a fare affidamento sui suoi tre figli sopravvissuti ai Khmer Rossi per sopravvivere. «La pensione che mi passa lo stato basta appena a comprare riso sufficiente per un pasto al giorno. Mi può dire quale è la differenza tra la vita durante Kampuchea Democratica e quella a cui siamo costretti oggi?».
Faccio fatica a sentire Bunroeun: nella bolgia di Angkor; la sua sommessa voce viene sovrastata dai megafoni delle guide che accompagnano i turisti tra le rovine del sito archeologico più famoso del Sud Est Asiatico. Le bancarelle mostrano «autentici» finti reperti archeologici, che vengono venduti a un prezzo pari a due interi mesi di pensione di un cambogiano.
DA ZONA PROIBITA
AD ATTRAZIONE TURISTICA
Decido di uscire da questo supermercato archeologico e mi dirigo verso Anlong Veng. Un tempo la strada che da Siem Reap conduceva a questo minuscolo villaggio, era la più militarizzata di tutto il paese. A pochi chilometri dalla città correva l’invisibile frontiera che divideva la Cambogia di Hun Sen da quella dei Khmer Rossi ribelli, di cui Anlong Veng era il quartier generale.
Nel 1995, dopo aver faticosamente ottenuto il lasciapassare da parte dei guerriglieri comunisti, avevo cercato di raggiungere il villaggio con una pattuglia. Il tragitto fu tanto breve quanto disastroso: la jeep sulla quale viaggiavamo incappò in una mina e subito dopo un conflitto a fuoco con l’esercito regolare cambogiano rischiò di farmi filare dritto in galera con l’accusa di spionaggio.
Oggi, dopo la resa dei Khmer Rossi alla fine degli anni ‘90, le regioni un tempo controllate da Pol Pot non sono più proibite. Per la verità non sono molti gli stranieri che si sobbarcano il faticoso viaggio di sei ore per raggiungere questo avamposto sperduto nella foresta cambogiana. Del resto perché privarsi delle comodità degli alberghi di Siem Reap, dotati di ogni confort, per dormire negli alberghetti decrepiti di Anlong Veng?
Dopo la disavventura del 1995, ero riuscito a tornare ad Anlong Veng, riuscendo anche a intervistare Pol Pot.
Un maldestro tentativo da parte del governo cambogiano di trasformare l’ex quartier generale dei Khmer Rossi, in un’attrazione turistica, è miseramente naufragato nel dimenticatornio. Complice la solita corruzione, che ha prosciugato i fondi stanziati per lo sviluppo del villaggio, prima ancora che si giungesse a un accordo con la popolazione locale. Too a visitare i luoghi dove avevo avuto le interviste con i massimi leaders Khmer Rossi: la casa di Ta Mok, quella dello stesso Pol Pot, di Nuon Chea, suo braccio destro… Case in muratura, ma assolutamente spoglie. Nulla a che vedere con i principeschi palazzi dei politici di Phnom Penh.
È facile, allora, capire perché il progetto turistico si sia arenato: che avrebbero detto i cambogiani, gli stranieri, vedendo in che umili condizioni avevano vissuto i leaders Khmer Rossi? Il paragone con Hun Sen, Sam Rainsy e altri politici sarebbe stato disastroso per questi ultimi. È anche per questo che nel paese si respira un senso di disappunto per il presente a cui fa contrappunto un sentimento di «nostalgia» per il passato.
SULLE TOMBE DEI CRIMINALI
La maggioranza dell’attuale popolazione cambogiana è nata dopo gli anni ‘80 e non conosce ciò che i loro genitori e nonni hanno dovuto sopportare. La scuola, inoltre, non è ancora pronta ad affrontare seriamente il periodo di Kampuchea Democratica. Trent’anni, se possono sembrare tanti per la nostra percezione del tempo immediato, sono un’inezia per la Storia e per poter confrontarsi con essa con obiettività.
E così ecco che ad Anlong Veng incontro un gruppo di pellegrini che vanno a rendere omaggio alle tombe di Pol Pot e Ta Mok. Sì, proprio a loro, i principali responsabili del milione e settecentomila cambogiani morti durante i 40 mesi in cui sono stati al governo. Quest’anno, infatti, ad Anlong Veng si celebrerà il decimo anniversario della morte di Pol Pot e migliaia di cambogiani arriveranno da tutto il paese per pregare sulle loro tombe.  Seguo il gruppo di viaggiatori al luogo in cui è stato cremato l’ex leader: una semplice tomba in legno con inciso il suo nome. Recitano le loro litanie, depositano del cibo e dei regali.
Con loro ci sono diversi bonzi. «Veniamo tutti da Khompong Thom. Abbiamo viaggiato tre giorni per arrivare fin qui – mi dice uno di loro -. L’esercito ci ha trasferiti da Phumi Romeas nel 2002. Fino ad allora abbiamo vissuto sotto il controllo dei Khmer Rossi. I trasferimenti forzati sono stati migliaia e il governo ha fatto in modo di emarginarci dal resto della società. Nessuno vuole avere a che fare con noi. Hanno paura che il governo si rivalga su di loro se ci aiutano».
Quello dei trasferimenti forzati è un problema che le organizzazioni che si occupano di controllare il rispetto dei diritti dell’uomo conoscono fin troppo bene. «Da quando abbiamo cercato di protestare per la politica del governo nei confronti dei cambogiani che hanno vissuto con i Khmer Rossi, non abbiamo più il permesso di entrare nelle aree che controllavano. Sappiamo che le evacuazioni continuano e che l’esercito tortura molti contadini del luogo» confida un membro di Human Rights Watch, l’organizzazione che, assieme ad Amnesty Inteational, si occupa di diritti umani e che, per questo, è stata messa al bando dal governo di Hun Sen.
PUNIZIONI PER LE VITTIME IMPUNITà PER I CARNEFICI
Per comprendere meglio come è mutata la vita dei contadini dopo il cambio di potere avvenuto all’inizio del 2000, mi addentro nelle zone meno battute e visito diversi villaggi. Subito mi accorgo di come molte risaie siano state abbandonate; inoltre le infrastrutture idrauliche, non più mantenute in modo adeguato, sono praticamente inservibili.
«Ta Mok veniva spesso qui – spiega In Kong Kea, un contadino di 35 anni -. È lui che ha progettato i canali, il sistema di irrigazione ed era ancora lui che si occupava della manutenzione. Riuscivamo a mietere tre raccolti all’anno. Ora, invece, il governo ci ha negato ogni sovvenzione e tutto quanto sta andando in rovina. I nostri campi riescono a produrre due scarsi raccolti all’anno».
In un altro villaggio, Vichea Kanleakhana, madre di sei figli, si lamenta per la chiusura della scuola e dell’ospedale. «Phnom Penh ci vuole punire per non esserci ribellati ai Khmer Rossi. Ma perché ci saremmo dovuti rivoltare quando ci davano tutto quello di cui avevamo bisogno? Se vogliono veramente che appoggiamo l’attuale governo, che ci diano almeno cibo, scuole, ospedali come ce li davano i Khmer Rossi…».
Mi dirigo a Pailin, ultimo rifugio della dirigenza comunista prima che venisse arrestata, accusata di genocidio dal tribunale patrocinato dall’Onu. Pailin è stata per lunghi anni il centro di una sorta di regione autonoma governata da Ieng Sary, ex ministro degli Esteri di Kampuchea Democratica, ex cognato di Pol Pot, ex Khmer Rosso.
Dal momento in cui Sary ha smesso i panni del guerrigliero comunista, il paesino al confine con la Thailandia è divenuto il rifugio più sicuro per tutti i leaders Khmer Rossi che, uno ad uno, abbandonavano le file del movimento. Mak Ben, Chounn Youran, Khieu Samphan e Nuon Chea, tutti si sono trasferiti qui, protetti dal potente esercito personale di Ieng Sary, finanziato da tycornon thailandesi.
Gli interessi attorno alla regione sono enormi: a pochi metri dall’unico albergo della città, sorge il Cesar Palace, un casinò costruito per ospitare ricchi uomini d’affari thailandesi (il confine è a pochi chilometri) in cerca di ebbrezza e nuove esperienze.
Oltre al casinò, però, vi sono altre ricchezze nel forziere di Pailin: le colline che si scorgono tutto intorno sono ricche di rubini e zaffiri. Sapendo di non poter fronteggiare militarmente Ieng Sary, Hun Sen ha sempre cercato di mediare con lui e dividere i proventi del commercio di pietre preziose, arrivando addirittura a concedergli l’amnistia, fino a garantirgli l’immunità in caso la comunità internazionale si fosse impuntata per avviare il processo per genocidio all’ex dirigenza di Kampuchea Democratica.
Ma Hun Sen non si può certo dire sia un esempio di coerenza. Il potere, per lui, è sempre stato il principale obiettivo sin da quando, alla fine del 1978, disertò le file dei Khmer Rossi, di cui era quadro, per affiancarsi ai vietnamiti durante l’invasione avvenuta nelle settimane seguenti. Da allora, e parliamo di ben 27 anni, questo caparbio politico cambogiano è sempre stato al vertice del governo cambogiano, trasformando l’intera nazione in un suo feudo personale.
NON CONVIENE A NESSUNO
Alla fine del mio viaggio mi trovo proprio a Phnom Penh, la bella capitale deturpata dalle piaghe sociali della droga e della prostituzione, caratteristiche di una società alla deriva e priva di valori. È qui che si sta svolgendo il processo ai dirigenti superstiti di Kampuchea Democratica: Nuon Chea, vice di Pol Pot, Khieu Samphan, presidente di Kampuchea Democratica, Ieng Sary e Kang Kech Eav (Duch), direttore del carcere S-21 dove venivano imprigionati e uccisi tutti gli oppositori a Pol Pot.
Passeggiando per Phnom Penh, è chiaro quanto poco interessati siano i cambogiani a questo processo. «Preferiamo sentirci parte del mondo andando in discoteca, nei night club, vestendo abiti firmati. Cerchiamo di vivere il presente. Un processo che parla di fatti accaduti 30 anni fa non ci interessa» spiega Phuong, una ragazza ventenne incontrata a Tuol Sleng.
In un’intervista in esclusiva, Ieng Sary ex Ministro degli Esteri dei Khmer Rossi e uno dei principali accusati al processo, denuncia anche il coinvolgimento di governi occidentali: «Se siamo incriminati, si dovranno cercare le cause di ciò che è successo più a fondo: nei bombardamenti illegali degli Stati Uniti in Cambogia durante la guerra del Vietnam, l’appoggio dato al nostro governo dall’Onu dopo l’invasione vietnamita, l’invio di armi al nostro movimento da parte della Gran Bretagna». È da queste parole che si capisce come mai, per ben 30 anni, nessuno ha voluto portare alla sbarra i Khmer Rossi, aspettando invece che la dirigenza storica venisse decimata.
A questo punto ci si potrebbe chiedere quanto possa essere equo e giusto un processo intentato in un paese dove il potere giudiziario è diretta emanazione di quello politico. Infine, un processo equo e giusto, dovrebbe ricercare le responsabilità delle sofferenze del popolo cambogiano anche in chi, come Norodom Sihanouk, ha accettato di condividere il potere con Pol Pot, perorando la sua causa nelle sedi inteazionali. O come Hun Sen, fino all’ultimo grande equilibrista e opportunista. O anche nell’Onu, ombrello politico di Kampuchea Democratica dal 1979 al 1982 e della coalizione antivietnamita di cui erano a capo i Khmer Rossi fino al 1993.
Nuon Chea, in una delle sue rarissime interviste che mi ha concesso pochi giorni prima di essere arrestato si chiedeva: «Se mi processeranno potrò dire tutto quello che penso? In tal caso la comunità internazionale dovrà interrogarsi sul fatto che noi abbiamo agito con il loro appoggio diplomatico. Ma non penso che mi lasceranno dire questo. Ciò che vogliono è un processo che condanni chi non può difendersi, per assolvere le proprie coscienze». 

Di Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




LE ORME DI LAETOLI

Museo etnografico / Contemplando una vetrina…

La vetrina in questione racchiude un calco con le orme di un adulto e di un bambino, risalenti agli albori dell’umanità. È uno delle migliaia di oggetti che i missionari della Consolata hanno raccolto in oltre 100 anni di presenza tra popoli e culture diverse e li conservano nel loro Museo. Una autentica «finestra sul mondo».

«Credo che queste orme siano allo stesso livello delle più fantastiche e illuminanti scoperte di questo secolo…». Così si espresse l’antropologo Tim White in un suo rapporto a un gruppo di studiosi ricercatori, e continuò: «Orme come quelle di esseri umani modei. Se ce ne fosse una su una qualsiasi spiaggia, oggi, e si chiedesse a un bambino di quattro anni di cosa si tratti, quel bimbo direbbe subito che si tratta di orme lasciate da qualcuno che camminava. Non le troverebbe differenti da altre centinaia».
Il calco di queste orme lo si può ammirare anche a Torino, Corso Ferrucci 14, nel Museo etnografico dei missionari della Consolata. In un silenzioso angolo di questo ricchissimo museo è obbligatorio fermarsi di fronte a una speciale vetrina, che riporta quanto successe agli albori dell’umanità. È un angolo d’Africa trasportato tra noi, incurante dello sferragliare dei tram e dello stridio delle gomme delle auto transitanti nel corso.
Mi son fermato, per lungo tempo, di fronte a questa vetrina e ho sognato. Ma un sogno vero, accaduto 3 milioni e mezzo di anni fa…

Siamo in una sperdutissima località che oggi i tanzaniani chiamano Laetoli. Il vulcano non troppo distante chiamato Sadiman, ha eruttato un’ennesima fitta nube di ceneri di carbonatite: una sostanza simile a quella di una nostra spiaggia dalla sabbia molto fine.
Sul terreno rimane un sottile strato di poco più di un centimetro. Poi cade la pioggia. La cenere si impregna di acqua, formando come una pastina di cemento fresco. Creature, abitanti nei dintorni, cominciano a muoversi e a imprimere le loro orme su questo strato di ceneri: elefanti, giraffe, antilopi, maiali, lepri, struzzi, uccelli, insetti… e creature umane.
Lo strato di cenere si indurisce presto al sole e, prima che torni a piovere, un’altra eruzione e un’altra ancora in un tempo non lungo, forse poco più di un mese. Lo spessore raggiunge i 20 centimetri. Venti centimetri di polveri vulcaniche in balia del vento, ma anche terreno fertile per la crescita, in tempi dovuti, dei primi licheni.
Passano gli animali e passano anche gli uomini. Sulla regione cade per sempre il silenzio, dopo che i vulcani hanno tuonato per l’ultima volta. E il silenzio dura per 3 milioni e mezzo di anni fino a un certo giorno del 1935.
Quella mattina la valletta verde di Laetoli si sveglia da un sogno. C’è un bianco venuto da Nairobi alla ricerca di qualcosa da incuriosire la fretta degli antropologi, che in tutta l’Africa si danno da fare per scoprire gli «albori dell’umanità». Il suo nome è Louis Leaky, un pastore protestante che ha anche contagiato la moglie Mary della stessa sua passione.
Come un segugio in cerca di preda, Leaky osserva e accatta roba quasi incomprensibile. Poi eccoti un bell’esemplare. «Un canino di vecchio babbuino» lo definisce senza troppo pensarci; e con questa etichetta lo spedisce in «omaggio» al British Museum di Londra.

Quel dentino restò pacifico, nascosto tra i tanti altri, fino al 1979, quando un giovane studioso, Tim White, lo notò e lo studiò a fondo. Quel dente finì per essere «riscoperto» come il più antico reperto fossile di ominide (superato poi dalla scoperta di «Lucy» e altre poche più recenti). Se Leaky l’avesse saputo, avrebbe fatto salti di gioia nonostante i suoi proverbiali dolori artritici.
Sulla scia di Leaky, si fece avanti un tedesco, Kohl Larsen, il quale a sua volta raccolse un pezzo di mascella con un paio di premolari. Anche questo studioso si accontentò di classificare detto reperto come quello di una scimmia antropomorfa. Era infatti inconcepibile per gli studiosi ante guerra (si tratta di studiosi di oltre 50 anni orsono) pensare a fossili del genere Homo o Ominide vecchi di milioni di anni.
Povero Leaky e povero Larsen! Avevano la gloria in tasca e non lo seppero mai.
Ma fortuna e gloria stavano bussando in casa Leaky: ad aprirla fu la moglie. Nel 1979, Mary Leaky decise di fare un ennesimo safari a Laetoli in cerca di materiale. Aveva addestrato un autentico fenomeno kenyano, Kaymoya Kimeu, a conoscere i fossili. Non ci vollero molti giorni e Kimeu portò a Mary un bel fossile di ominide. Il gruppo di ricercatori si ingrossò e il caiere si riempì di 42 denti di ominidi e un teschio con infissi ben 9 denti. Il mondo paleoantropologico lo conosce era come il fossile ominide LH4.

M a Laetoli riservava una incredibile sorpresa. Il gruppo di ricercatori, annoiati da tanto sole e assai poco divertimento, presero un giorno a giocare alla… guerra. I proiettili usati consistevano nell’abbondante sterco di elefante disseminato in quell’area. A un certo punto, un giovanetto di nome Andrew Hill, mentre tentava di sfuggire al lancio di un proiettile e raccattava dal suolo… munizioni, notò strani incavi nel letto asciutto di un torrentello; si fermò come una statua a contemplare delle impronte che egli definì subito come orme di animali…
Dovette trascorrere un altro anno, quando Philip, figlio della Mary Leaky, scoprì altre tracce che somigliavano sospettosamente a orme di… piede umano.
Mary Leaky diede la notizia al mondo, esagerando forse e giocando di fantasia: parlò addirittura di primi uomini in viaggio verso un ipotetico pozzo d’acqua e di animali impauriti, che fuggivano di fronte all’incombente pericolo del vulcano eruttante. Qualche antropologo rise sotto i baffi, perdonando alla Leaky il troppo sole equatoriale dei suoi tanti anni africani; ma un’esperta americana, Louise Robbins, accettò di unirsi al gruppo per ulteriori ricerche. Le orme trovate, fotografate e poi studiate con calma, finirono di creare disaccordo. Una di esse, però, trovata da un certo Paul Abell, aveva caratteristiche assai strane. Meritava di continuare la ricerca.
Ma esasperazione e disaccordo avevano ormai raggiunto il culmine. Mary Leaky diede ancora, ma a malincuore, il permesso di cercare e scavare. «Un piccolo scavo – disse Mary -, ma piccolo piccolo». Era così sicura che non ci fosse altro da trovare, che affidò il compito a Ndibo, un africano pacioccone addetto alla pulizia del campo base.
Ndibo si mise al lavoro, imitando come per scherzo i suoi «professori». Toò il giorno dopo tutto giulivo e disse alla Mary: «Vieni a vedere, mama Mary, ho trovato due orme: una grande e una piccola».
Pur credendo che si trattasse di uno scherzo, Mary andò a vedere e rimase con gli occhi sbarrati. Le orme si dirigevano verso nord, in un intrico di vegetazione, protetto da una zona erbosa. Il gruppo si precipitò con rinnovato entusiasmo al lavoro di pulitura: orma dopo orma, con certosina pazienza, liberarono un lungo pezzo di terreno: alla fine apparvero più di cinquanta orme appaiate, una piccola e una molto grande, per circa 23 metri. La ricerca proseguì, scoprendo oltre 200 metri di terreno.
Ominidi a stazione eretta, camminarono qui 3 milioni e mezzo d’anni or sono, lasciandoci il ricordo del loro passaggio. La serietà degli studi sul tufo vulcanico in cui le orme sono state impresse, non lascia spazio a dubbi. Con il metodo potassio-argo è stata confermata a più riprese la datazione dei due tipi di tufo esaminati: 3,59 e 3,77 milioni di anni.
Laetoli è stato per tanti anni un’esclusiva del passaggio «firmato» con i piedi dai nostri… progenitori. Oggi il sito divide la sua esclusiva con altri luoghi che conservano orme di piedi umani: Damasco, Ungheria, Nizza (Francia) e Italia.

I visitatori del Museo etnografico e di scienze naturali dei missionari della Consolata, sostando davanti alla vetrina che racchiude il calco di Laetoli, possono immergersi, senza troppa fatica, in un passato tanto remoto e immaginare una mamma e un bimbo per mano, scalzi, forse impauriti dal brontolio del vulcano, diretti verso un luogo più sicuro e più protetto. Un luogo dal quale non hanno mai fatto più ritorno.
Il museo offre ai visitatori altre possibilità di sogno, immergendosi nel mondo di altri popoli e culture. In cento anni di presenza tra popoli dell’Africa, Asia e America Latina, i missionari della Consolata hanno raccolto migliaia di oggetti, che vengono conservati come testimonianza di civiltà scomparse o in via di estinzione sotto l’incalzare della civiltà del mondo globalizzato. Un immenso patrimonio, che in tanti casi sarebbe andato distrutto per sempre.
I missionari sono lieti di accogliere, previo accordo, scolaresche e gruppi vari che hanno piacere di farci visita. Sarà una visita guidata che approfondirà tante nozioni già ascoltate dai loro insegnanti. Sarà, soprattutto, un’occasione per «aprire una finestra sul mondo». 

Di Giuseppe Quattrocchio

Giuseppe Quattrocchio




La terra dei passerotti

Majune: una missione a tutto campo

Da 3 anni tre missionari della Consolata si sono stabiliti nella missione di Majune, nel cuore del Niassa. Sono chiamati a sanare le ferite lasciate da decenni di violenza, per ricostruire nel tessuto sociale i valori di solidarietà e gratuità. Un lavoro duro, ma non impossibile.

Il distretto di Majune, a 150 km da Lichinga, capoluogo del Niassa, è il luogo in cui lavoro. Il suo nome mi aveva incuriosito sin dai primi tempi del mio arrivo, finché un giorno un anziano me ne spiegò l’origine.
Due secoli fa, Mataca, regolo del popolo ayao, voleva aumentare il numero dei suoi sudditi, favorendo l’immigrazione di gente proveniente dal sud del Niassa. Ma i nuovi arrivati rimanevano nei villaggi un anno o due e poi se ne andavano via, con vivo dispiacere del capo, che un giorno gli scappò detto: «Vengono, rimangono un poco e volano via proprio come i majune». I majune, infatti, sono degli uccellini gialli, tipici di questa regione. E da allora la zona cominciò a chiamarsi «Mataca Majune», terra dei passerotti di Mataca, e più tardi solo Majune.
«Povertà assoluta»
Gli economisti definiscono la maggioranza dei contadini mozambicani «poveri assoluti», perché vivono con meno di un dollaro al giorno. Per il contadino più povero, un dollaro deve servire per mangiare non uno, ma tre giorni; ciò significa che, prima o poi, qualcuno della sua famiglia morirà di fame.
Tale «povertà assoluta» è una conseguenza di decenni di guerra, prima per raggiungere l’indipendenza dal colonialismo, poi di conflitto civile che ha dissanguato il paese; ma è frutto anche di arretratezza. Buona parte dei contadini, infatti, hanno a disposizione solo la zappa; non conoscono né concimi né irrigazione; per avere un buon raccolto, devono sperare nella pioggia. Quando l’annata è buona, raccolgono qualche quintale di cereali e qualche chilo di fagioli, giusto il necessario perché la propria famiglia possa sopravvivere. Ma se le piogge non sono regolari, arriva la fame, soprattutto per bambini e anziani.
A Majune la fame non è occasionale, ma ricorre ogni anno e colpisce con violenza quasi tutte le famiglie contadine, che costituiscono la maggioranza della popolazione del distretto.
La fame costringe noi missionari ad assistere a spettacoli strazianti: persone che svengono al mercato, solo a vedere il cibo in vendita, ma che non possono comprare, perché hanno le tasche vuote; una mamma che prepara il pasto per due bambine bollendo qualche foglia di patata nella speranza di «ammazzare la fame»; una vecchia tutta pelle e ossa, con una zappa in spalla che va in cerca di qualche radice; neonati che piangono in continuazione, perché da giorni la mamma non ha più latte da dargli e il papà se n’è andato chi sa dove…
Una domanda assilla da tempo la mia mente: com’è possibile tutto questo? La regione di Majune non è una zona desertica; anzi, la terra è nera e fertile, vi scorrono due fiumi importanti e vari torrenti e ruscelli, tutti ricchi di acqua e pesce. Ci sono terreni umidi, adatti all’orticoltura o alle risaie. La savana è ancora ricca di cacciagione. Le piogge non mancano, anche se non iniziano e cessano con puntualità cronometrica.
Allora perché la fame? Ho voluto fare qualche domanda alla gente del posto. Un vecchio contadino mi ha risposto: «Un tempo non c’erano le carestie che sperimentiamo in questi anni, perché i vicini si aiutavano l’un l’altro. Quando, per esempio, il proprietario di un campo doveva assentarsi, ci pensavano le famiglie più vicine a vigilare le coltivazioni perché non venissero danneggiate da babbuini, elefanti e ippopotami. Oggi invece, bisogna guardarsi dai vicini più che dagli animali selvatici».
Un anziano portoghese ormai trapiantato in Africa ha aggiunto: «Quando il Mozambico era una nostra colonia, non riceveva tutti gli aiuti che riceve oggi. Anzi, era proibito ai portoghesi esportare capitali nelle colonie, perché queste dovevano essere autosufficienti. Certo, i missionari portavano avanti le loro attività come fanno oggi, ma a livello governativo, la colonia doveva arrangiarsi con i propri mezzi».
Anche alcuni dei nostri animatori fanno autocritica: «I nostri campi producono poco perché siamo pigri. Potremmo dedicarci molto di più alle colture, per organizzare un sistema d’irrigazione, togliere le erbacce, rinforzare le recinzioni, concimare con il letame… Invece, molti di noi passano il tempo nelle bettole. E poi sprechiamo il cibo. Quando i granai sono pieni, tanta gente consuma più del necessario e, magari, baratta sacchi di mais con bottiglie di bevande alcoliche, senza preoccuparsi di conservare le scorte fino al prossimo raccolto».
VALORI APPANNATI
I mozambicani non amano intristirsi con preoccupazioni economiche e politiche; è gente che, anche di fronte alle avversità, preferisce conversare e ridere insieme, meglio se davanti a un fuoco e a una bevanda. Inoltre, l’ospitalità è ancora un valore: il viandante affamato può bussare a una qualsiasi porta e la padrona di casa non gli farà mancare un po’ di polenta con fagioli e un bicchiere d’acqua, anche se ha tanti figli da sfamare e l’acqua deve attingerla, un secchio alla volta, da un pozzo lontano. Se uno ha un problema con la bicicletta o la moto, può sempre contare su un passante che si ferma per aiutarlo, con grande profusione di sudore e allegria.
Soprattutto, il Mozambico è un paese giovane: buona parte della popolazione mozambicana ha meno di 15 anni. E Majune non fa eccezione: basta entrare in un villaggio e si è subito attorniati da un nugolo di bambini.
Solidarietà e famiglia sono ancora valori fondamentali nei villaggi di Majune, come nel resto della società mozambicana. Ma siamo molto preoccupati, perché vediamo che tali valori si stanno sgretolando. In molte famiglie i bambini crescono in una specie di anarchia; i genitori tentano, a volte, di intervenire per richiamarli all’ordine, ma non riescono a farsi rispettare; forse anche perché non sempre danno il buon esempio e non sempre si interessano del benessere dei propri figli.
Di conseguenza, una volta cresciuti, molti figli non si occupano dei genitori, specie quando sono anziani. E quando si indebolisce la solidarietà familiare, viene meno anche la solidarietà verso le fasce più deboli della società, come malati, poveri, drogati.
In un villaggio di Majune, un giovane drogato, sorpreso mentre rubava, è stato bruciato vivo dal proprietario del negozio; l’assassino è in libertà, perché nessuno ha voluto testimoniare contro di lui, sebbene l’omicidio sia stato compiuto di fronte a molta gente. La domenica seguente, in chiesa, durante la messa, nessuno ha ritenuto fosse il caso di denunciare tale misfatto; l’ho fatto io negli avvisi parrocchiali, suscitando sorpresa e stupore tra la gente.
LA «MANO TESA»
Una volta non era così. Esisteva la «famiglia allargata», dove tutti si aiutavano in caso di bisogno: genitori e figli, zii e nipoti, cugini e altri membri della parentela. Oggi, nella «famiglia nuova», non sono molti i genitori che hanno la fortuna di avere figli che si prendono cura di loro. Ho incontrato tanti anziani che hanno figli benestanti, funzionari pubblici o commercianti, che si sono dimenticati dei propri genitori.
Anche questa situazione è una delle conseguenze della lunga guerra civile (1977-1992). Tanta gente è stata costretta ad abbandonare la propria casa per fuggire dalla violenza, creando la mentalità del «si salvi chi può», costringendo gli sfollati a pensare solo a salvare la propria pelle. Senza contare che molti bambini sono cresciuti da soli, orfani, senza avere altri valori di riferimento se non quelli della violenza e del sopruso. La guerra ha diviso famiglie, distrutto valori, fatto crescere una generazione priva di istruzione ed educazione morale.
Insieme all’egoismo, si sta affermando, a Majune come nel resto del paese, anche una «cultura della mano tesa». Se un bianco entra in un bar, o cammina per strada o viaggia in treno o in bus, incontra sempre qualcuno che tende la mano per chiedere un aiuto. E non sono solo i poveri.
La «mano tesa» sta diventando un malore endemico anche ai livelli più alti della società, da quando piovono gli aiuti inteazionali, in dollari o euro, per la ricostruzione delle strutture del paese, per iniziative di sviluppo nei 138 distretti in cui è organizzata l’amministrazione del Mozambico, per mantenere 140 mila funzionari, insegnanti, poliziotti, netturbini…
Tali aiuti sono indispensabili per evitare il fallimento di tutta la nazione; ma provocano pure il fenomeno della corruzione a tutti i livelli e, soprattutto, la diffusione della «cultura della mano tesa», che a sua volta affievolisce l’iniziativa privata e aumenta il complesso di inferiorità.
Mi è capitato spesso di vedere persone sgranare gli occhi per lo stupore di vedere un bianco andare a piedi o in bicicletta, o viaggiare nel cassone di un camioncino. Qui il bianco che si rispetti viaggia comodamente nella propria automobile. Anche più scioccante è stata l’espressione pronunciata da un alunno delle classi superiori della scuola di Majune: «Ci è andata male: siamo nati negri».
Non tutti i mozambicani si fanno abbattere dai pregiudizi razzisti; c’è anche chi lavora sodo per migliorare la propria situazione economica; ma anche in questo caso può capitare che amici e parenti lo apostrofino: «Adesso, vuoi metterti a fare il bianco mentre non sei altro che un negro come noi?». Se qualche amico apprezza il suo successo, gli chiede, magari, l’indirizzo dello stregone che gli ha procurato la fortuna.

Essere missionari a Majune

È questo l’ambiente in cui noi missionari della Consolata ci troviamo a lavorare; e non è un lavoro facile. La missione di Majune conta 42 villaggi: 14 di essi hanno una comunità cristiana di una certa consistenza; altri tre villaggi contano appena uno o due cristiani, spesso infermieri o insegnanti di passaggio, in attesa di essere trasferiti in luoghi più comodi.
La missione non è nuova. È stata fondata nel 1965; è intitolata a Santa Isabel (Santa Elisabetta), regina di Portogallo. Ma noi missionari della Consolata siamo presenti dal gennaio 2005 con una équipe stabile, formata da tre missionari: il padre kenyano Felix Odongo, il brasiliano fratel Ayres Osmarin e il sottoscritto, missionario laico, incaricato della caritas parrocchiale.
I missionari che ci hanno preceduto avevano avviato numerosi progetti di evangelizzazione e promozione umana: scuole, centri per la nutrizione infantile, allevamenti di bestiame, orti, corsi di taglio e cucito… Ma la guerra e poi la partenza dei missionari, ha provocato il fallimento di vari progetti, anche perché la popolazione non si è sentita interessata. «Abbiamo bisogno di qualcuno che ci tolga le bende dagli occhi» mi confidava un vecchio catechista.
È quello che vogliamo fare. Fin dall’inizio della nostra presenza a Majune abbiamo spiegato ai nostri parrocchiani che vogliamo lavorare insieme a loro, meglio ancora in progetti proposti da loro stessi, piuttosto che da noi missionari.
Uno dei primi progetti intrapresi riguarda la cura dei poveri, vedove, orfani, anziani soli, malati cronici. Non si è trattato di togliere le bende dagli occhi, ma anche dalla mente. Molti cristiani (e musulmani) pensano che aiutare i più bisognosi sia un compito esclusivo dei missionari. Ma noi abbiamo insistito e continuiamo a insistere che in ogni villaggio è tutta la comunità, cristiani e musulmani insieme, che deve farsi carico dei più diseredati. Per questo andiamo spesso nei villaggi, parliamo con i capi tradizionali, con gli imam musulmani e gli animatori cristiani e insieme visitiamo i bisognosi e decidiamo insieme come aiutarli.
Per gente abituata a chiedere aiuti, ma riluttante a dare qualcosa gratuitamente, non è facile far capire il valore della gratuità. Eppure qualcosa si sta muovendo: alcuni animatori hanno smesso di chiederci un po’ di tutto e ci sostengono nel convincere la popolazione dei propri villaggi a rivitalizzare e promuovere un minimo di solidarietà. Anzi, sono passati all’azione concreta: in alcuni villaggi gli incontri di preghiera sono accompagnati dalla raccolta di cereali, legumi e qualche soldo da destinare ai poveri. Oppure rivolgono appelli per chiedere che qualche volontario si presti a fare qualche lavoro a favore di chi non è più in forze. E c’è sempre qualcuno che si offre. Perfino i musulmani si sono uniti ai cristiani e, dopo la preghiera del venerdì, raccolgono cibo e denaro.
Da alcuni mesi abbiamo lanciato in 12 villaggi un progetto per aiutare i malati di Aids e i bambini che hanno perso i genitori a causa di questa malattia. Nel progetto lavorano 24 animatori (due per ogni villaggio) e vi sono coinvolte 180 famiglie che si occupano di oltre 350 bambini orfani.
Ma l’impegno più urgente è la formazione del personale coinvolto nelle varie iniziative. Non si tratta solo di spiegare la natura e le conseguenze della «malattia del secolo», ma di fornire anche gli strumenti più elementari per la sopravvivenza. Per questo i nostri formatori sono preparati per insegnare le tecniche più semplici di agricoltura, orticoltura, zootecnia, igiene, nutrizione infantile, conservazione dei raccolti e qualche trucco di… mercato.
In generale sono le donne che frequentano tali incontri di formazione. Alcune seguono con attenzione, mentre altre sono sopraffatte dal sonno. Quando però si parla di soldi, sono tutte sveglie: viene loro spiegato che, se vendono una tanica di mais nel mese di aprile, ricavano 510 meticais (14 euro), nel mese dicembre, invece, il prezzo sale a 2.550 meticais (72 euro), una somma sufficiente per comprare una bella bicicletta.
Il nostro impegno più importante, tuttavia, è l’evangelizzazione. Per questo abbiamo bisogno di formare catechisti e animatori maturi e responsabili. Anche sotto questo aspetto c’è bisogno di togliere le bende dagli occhi e dalla mente. Per qualcuno, infatti, l’incarico di animatore della comunità è sentito come un’investitura paragonabile a quello di un capo tradizionale, col rischio della ricerca del potere, invece della disponibilità al servizio.
Anche in questo campo il lavoro non è facile e non mancano i momenti di scoraggiamento. Eppure facciamo nostro un motto ormai in disuso: la lotta continua, per formare comunità cristiane sempre più mature, responsabili e solidali. E speriamo di farcela. 

Di Paolo Deriu

Paolo Deriu




Cari missionari

Passione
per la Parola di Dio

Cari missionari,
il commento di don Paolo Farinella alla parabola del Figliol prodigo è un dono grande. Don Paolo è riuscito in un’impresa che riesce a pochi, quella di coniugare rigore scientifico e cuore, passione, capacità di coinvolgere il lettore in profondità. Con la sua esegesi don Paolo ci ha comunicato qualcosa di veramente importante, ci ha dimostrato che la parola di Dio non è mai scontata, che è sempre in grado di dare, a chi le lascia un minimo di spazio, nuovi stimoli, nuovo slancio, nuovo vigore.
Per me don Paolo è come quella terra fertile di cui ci parla Gesù nella parabola del seminatore, una terra capace di produrre ora il trenta, ora il sessanta, ora il cento per uno. Spero che quel che ha fatto con la parabola del Figliol prodigo don Paolo possa presto farlo anche con altre pagine evangeliche, per esempio la parabola dell’amministratore disonesto (Luca 16,1-14). Cordiali saluti.
Ludovico Torrigiani
Pesaro Urbino

Sono molti che, come il signor Torrigiani, ringraziano per il commento alla parabola del Figliol prodigo. Siamo grati anche noi a don Paolo per la sua collaborazione, per la «passione» con cui ci spezza il pane della Parola e ce la rende affascinante e «coinvolgente».
La lunga spiegazione della parabola è nata dalla lettera a lui scritta da un nostro lettore; per cui benvenuti altri suggerimenti, come quello del signor Torrigiani.
A proposito
di morti bianche

Cari missionari,
anche se non sono di Torino e finora l’ho vista solo in televisione e sui giornali questa bellissima città, la città della Madonna della Consolata, la simpatia che ho per lei è grande ed è proprio questo sentimento di simpatia che mi fa sentire in dovere di scrivervi per esprimere alle famiglie di Antonio Schiavone, Roberto Scola, Angelo Laurino, Bruno Santino, Rocco Marco, Rosario Rodinò, Giuseppe Demasi, tutto il mio cordoglio e la mia vicinanza.
Da decenni si ripete che in Italia ci sono troppe morti bianche, che si investe troppo poco in sicurezza, che coloro che dovrebbero fare le ispezioni sono troppo pochi e persino che, spesso e volentieri, gli imprenditori vengono avvisati dell’arrivo dell’ispettore, per cui l’ispezione stessa si risolve in una farsa…
Nello stesso tempo però, ci si lamenta che l’Italia corre poco, il suo Pil cresce troppo lentamente, le imprese hanno troppi vincoli, gli imprenditori, quando vogliono licenziare qualcuno, incontrano ostacoli inconcepibili e che tutto questo ci fa sempre più regredire nella classifica della competitività. C’è addirittura chi sostiene che bisogna dare nuovo impulso all’edilizia, che le aree fabbricabili vanno aumentate, che i giovani debbono smetterla di fare i bamboccioni e che è ora di piantarla con la storia del lavoro precario che scoraggia la ricerca dell’autonomia, della flessibilità che deprime il desiderio di creare nuovi nuclei familiari e dei contratti a termine che scoraggiano la mateità. Guai anche a ricordare che il tasso di abortività è in crescita tra le lavoratrici extracomunitarie, guarda caso, quelle più esposte ai ricatti padronali.
Ecco, io credo che, se vogliamo veramente bene alle vittime dei roghi, delle cadute dalle impalcature, del caporalato, del mobbing, degli abusi – sessuali e non – sul posto di lavoro, non possiamo astenerci dal dire queste cose, non possiamo – e qui mi rivolgo innanzitutto al clero e all’episcopato – fare campagne giuste, anzi sacrosante contro l’aborto e la RU486 e poi girare gli occhi dall’altra parte quando un movimento, sindacato, partito chiedono, ad esempio, l’estensione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori a tutte le aziende, siano esse acciaierie, calzaturifici o aziende agricole, e a prescindere dal fatto che abbiano 1, 5, 15, 100 o un milione di persone alle loro dipendenze.
Cari vescovi e cari preti, che ogni prima domenica di febbraio riempite le sedie e le panche delle chiese di volantini inneggianti alla bellezza e alla vita e invitate i Casini e gli Sgreccia a tener conferenze contro la mentalità abortista e relativista, dove stavate rintanati domenica 15 giugno 2003, giorno del referendum sull’articolo 18? Perché tante belle omelie contro il liberismo selvaggio delle multinazionali, quando presiedete le esequie funebri di chi muore in incidenti come quello alla ThyssenKrupp e tanto, tanto silenzio (in alcuni casi addirittura ostilità…) quando, attraverso proposte di modifiche legislative, qualcuno cerca semplicemente di responsabilizzare chi gestisce un’azienda e togliergli l’illusione pericolosa (pericolosa per lui e i suoi familiari oltre che per gli operai e comunità civile…) di essere anche giudice supremo, oltre che imprenditore e manager, e che certe sue decisioni sono insindacabili, incontestabili e irrevocabili? Cordialmente.
Francesco Rondina
Fano (PU)

Errata corrige

Cari missionari,
la vostra rivista è bella e interessante, la trovo anche varia nella scelta degli argomenti e scritta in modo semplice, ma comunque di un buon livello culturale. Però, forse, andrebbe un po’ più curata nei particolari, nella correzione delle bozze, perché qualche strafalcione, purtroppo, ogni tanto si trova.
Due esempi. Nel numero di ottobre-novembre 2007, a pag. 106 si parla della moglie di Maometto, dicendo che è vissuta nel xvi secolo e che era una donna musulmana. Il profeta Muhammad, ovviamente, è vissuto mille anni prima, e la moglie non può, a rigore, essere definita musulmana, considerando che, al momento delle nozze con Maometto, l’islam non era ancora sorto. Invece, nel numero di gennaio 2008, a pag. 46, si dice che della non violenza «l’antesignano fu Indira Gandhi»; ovviamente non è il Mahatma Gandhi, con cui non era neppure imparentata.
Scusate la pignoleria, ma mi sembra giusto collaborare, affinché MC diventi sempre migliore, anche grazie alla necessaria precisione nei contenuti.
Franco Eustorgio Malaspina
Milano
Prima di tutto grazie per la collaborazione. Sono due strafalcioni imperdonabili, di cui avremmo dovuto accorgerci prima di passare le bozze alla correzione finale.
E poi, ci scusiamo con i nostri lettori.

Kosovo indipendente – Interesse d’Italia

Cosa farebbero gli italiani se un giorno gli albanesi (o qualsiasi altro gruppo etnico presente nel territorio) diventassero la maggioranza in una delle regioni italiane, perché le famiglie italiane hanno pochi figli, e decidessero di proclamare quella regione «Repubblica indipendente»?
Gli italiani non hanno conosciuto  gli effetti della «lotta demografica» (significa fare più figli possibile) per poter vendicare il diritto di «autodeterminazione», una volta diventati maggioranza assoluta.
Forse gli italiani pensano che questo non potrebbe mai succedere  alla loro terra, o credono di poter adottare due misure nel reagire: una  per se stessi e l’altra per gli altri?
«È nell’ interesse d’Italia il Kosovo indipendente»! Per questo motivo l’Italia è pronta a riconoscere l’indipendenza del Kosovo, legittimare lo strappo di un territorio a un paese sovrano, indipendente, riconosciuto come tale dal diritto internazionale. Ma è veramente questo l’interesse d’Italia? Non è il vero interesse di un paese pensare al futuro delle giovani generazioni, trasmettere loro dei valori, e guardarsi di  fare quello di cui quelle generazioni possano vergognarsi?

I serbi sono un popolo con profonde radici cristiane, che nel corso dei secoli è riuscito a sopravvivere e a trasmettere alle generazioni dei valori cristiani, nonostante il secolare dominio ottomano, nonostante mezzo secolo di ateizzazione comunista. Sopravviverà anche in questa Europa, che ha rinnegato le proprie radici cristiane, proprio perché ha sempre avuto la ricchezza spirituale che è il Kosovo.
Nei Balcani non è cominciato tutto il 28 giugno 1989 con Milosevic, come dicono i giornali, informati dall’Osservatorio dei Balcani, ma secoli prima: il 28 giugno 1389 con il sultano Murat e lo zar Lazzaro, quando entrambi persero la vita in battaglia sul Campo dei Merli (Kosovo), mentre Murat occupava e Lazzaro difendeva la Serbia. I serbi per la prima volta persero il Kosovo e vissero per secoli sotto dominio turco.
La seconda volta lo persero durante il comunismo di Tito, che proclamò il Kosovo e la Metohija una provincia autonoma, accolse tutti gli albanesi che venivano dall’Albania, favorì la loro natalità essendo lui stesso il padrino di ogni famiglia che aveva più di nove figli.
Gli albanesi possono impossessarsi della terra che non appartiene loro, dei monasteri medievali della chiesa ortodossa serba, e presentarli ai turisti come fossero loro, come stanno già facendo, possono edificare il «loro stato» sulle altre bugie, e cercare sostegno e protezione dei potenti che non temono Dio, ma questo non può durare. È passato l’impero ottomano, è passato il comunismo, passerà anche questo nuovo impero, che sfrutta, sottomette o cancella il più debole.
I serbi continueranno a trasmettere ai loro figli la via, verità e vita che è Gesù Cristo, convinti che quello è il più grande interesse di ogni generazione.
Snežana Petrović, Rovereto (Trento)

Comprendiamo l’amarezza della signora Petrović, da molti anni nostra collaboratrice, e ne condividiamo le ragioni, per la perdita di una parte storicamente così importante del territorio del suo paese. Ogni separazione, a qualsiasi livello e in qualsiasi ambito, porta solo dispiaceri. Proverei anch’io gli stessi sentimenti, qualora un pezzo d’Italia dichiarasse unilateralmente la propria indipendenza o si staccasse per confluire in un altro stato.
Nei decenni passati, anche in Italia ci sono stati (e ci sono ancora) movimenti indipendentisti o separatisti, come quello dell’Alto Adige o Südtirol, caratterizzato da tensioni e attentati terroristici, per ottenere la secessione dall’Italia e l’unione con l’Austria. Ma grazie al dialogo e agli accordi pacifici tra i maggiori responsabili delle due nazioni, le tensioni sono state dissolte. Da quando, poi, anche l’Austria è entrata nella Comunità europea, nessun tirolese si sogna di modificare i confini tra i due paesi.

S ulla nostra rivista abbiamo seguito con apprensione e rammarico le tensioni e violenze etniche che hanno insanguinato l’ex Jugoslavia negli ultimi anni. Più che ricercare i colpevoli della tragedia balcanica, abbiamo riportato le testimonianze di persone impegnate nella pacificazione tra i popoli, mediante il dialogo e la cooperazione disinteressata: unica strada valida anche per il futuro.
Auguriamo che Serbia e Kosovo entrino nella grande famiglia di popoli che è l’Unione europea, in cui i confini geografici perdono la loro importanza, i nazionalismi vengono stemperati e le identità e i diritti delle minoranze etniche più garantiti… con l’aiuto di Dio, che guida la storia dei popoli.




Quale profezia?

La storia dell’uomo si evolve grazie alle impronte lasciate da pochi e capaci di influenzare i più. La storia della chiesa e della missione non fa eccezione. Fermo restando che in questo campo bisogna riconoscere allo Spirito Santo un protagonismo indiscusso, i grandi cambiamenti sono fenomeni che nascono da una base pressoché elitaria. Se non tutti sono santi o profeti, va però detto che tali figure non appartengono alla galassia dei superuomini, ma vivono tra noi. Anzi, la «zampata» decisiva, quella che lascia il segno indelebile sulla storia, potrebbe essere uno di noi a darla. Perché no?
Ciò che caratterizza la profezia è la spontaneità assoluta, l’imprevedibilità radicata nell’iniziativa di Dio, in seguito accolta e, quindi, tradotta in realtà. La profezia va letta nel quotidiano, scovata negli anfratti della storia, stanata dalle pieghe della marginalità. La profezia alberga nelle stanze degli esclusi e per tal ragione è poco visibile, anche se di per sé illuminante.
Quali profezie si scorgono, in atto o in potenza, nell’oggi della missione in Italia?
Se lo sono chiesti più di cento missionari e missionarie che hanno preso parte nel mese di febbraio al Forum della C.I.M.I., la Conferenza che riunisce i superiori provinciali degli istituti esclusivamente ad gentes presenti in Italia. Al di là della bella esperienza del trovarsi insieme a Pacognano, nella penisola sorrentina, qualcosa non ha funzionato.

Gli interrogativi non sono mancati, anche se sono stati conditi da un senso di smarrimento, inadeguatezza, difficoltà ad adattarsi a un mondo – quello europeo e italiano – che a molti sembra non appartenere geneticamente al Dna del missionario. Le conferenze su un’Europa da ri-conoscere e nella quale ubicarsi efficacemente come missionari, sulla contestualizzazione del lascito carismatico dei fondatori dei vari istituti missionari e della teologia per una missione in Europa hanno offerto solo in parte piste da percorrere. Le proposte finali su un’ipotesi di lavoro missionario comune sono rimaste imbrigliate nel tentativo di fare giusta sintesi tra utopia e disincanto.
I momenti di maggior impatto si sono avuti grazie ad alcune testimonianze, offerte sia da ospiti estei, come anche da partecipanti al Forum. Il condividere esperienze missionarie significative, talvolta difficili, di frontiera e nello stesso tempo gratificanti, ha dato fiducia all’assemblea, indicando cammini possibili per una missione profetica in Italia e ribadendo ancora una volta la centralità del racconto come strumento di animazione missionaria.
Il missionario, abitualmente un grande fagocitatore e ripetitore di storie, pare faticare una volta rientrato in Europa a nutrirsi del racconto dell’altro. Commette, forse, l’errore di pensare di esser l’unico ad avere una narrazione che vale la pena di essere ascoltata e si chiude alle storie di chi incontra. In che altro spazio merita andare a cercare uno spunto profetico se non nel vissuto di chi ci circonda? Una delle immagini di maggior impatto di tutto il Forum è stata quella del confine. Il missionario, una volta inviato ad «attraversare» i confini, è ora chiamato ad «abitare» quei bordi sfrangiati che la modeità ha ricavato dall’erosione costante delle frontiere geopolitiche, sociali, generazionali, ecc. Occorre far sì che tali confini si riempiano di storie di vita vissuta, da raccogliere, ripensare ed elaborare, al fine di costruire la missione di domani. Un approccio che non tenga conto di questi racconti già in atto potrà forse costruire un’ideologia della missione, ma non troverà la strada per la missione profetica sulla quale ci si interroga e di cui si ha bisogno.
di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Si placheranno i «tamburi di morte»?

Viaggio nella Repubblica islamica

In attesa di capire chi sarà il nuovo inquilino della Casa Bianca, per Washington l’Iran rimane uno «stato canaglia» da tenere sotto stretta osservazione. Nel paese, la gente ha paura, perché ogni momento ed ogni scusa sono buoni per scatenare una nuova guerra. Ancora Oriente versus Occidente. Follia contro ragione. Ipotesi troppo pessimistiche? No, tutto è già avvenuto con il confinante Iraq.

480 a.C. Il re persiano Serse decide di invadere la Grecia riprendendo la guerra iniziata da suo padre Dario I. Per bloccare l’avanzata dell’esercito persiano, le città greche formano un’alleanza guidata dal re spartano Leonida. L’intera guardia del corpo del re, composta da 300 opliti, viene inviata a difendere il passo montuoso delle Termopili per permettere al resto dell’esercito greco di organizzarsi per il confronto con il nemico. La loro resistenza, eroica, fino al totale sacrificio, è annientata da mostri assetati di sangue, feroci soldati-schiavi al servizio di un sovrano semi-dio, scellerato e capriccioso. Serse, appunto.
Domenica 6 gennaio 2008. «Stretto di Hormuz. È stata una danza di guerra, è durata venti minuti ed è sembrata l’alba del nuovo conflitto. Succede alle cinque di domenica mattina nel mezzo dello stretto di Hormuz, in quel budello di mare tra Repubblica islamica e Oman, dove transita il 20 per cento della produzione mondiale di greggio. In quel budello strategico cinque motovedette iraniane costringono tre navi statunitensi a ballare sull’orlo dell’abisso. Una danza di venti minuti, un balletto che, per poco, non trascina marinai e nazioni allo scontro irreparabile. Prima il lancio di misteriosi galleggianti bianchi, poi l’affondo di un barchino puntato come una torpedo suicida, infine – mentre gli americani son pronti al fuoco – l’ultima, provvidenziale virata».
Il primo racconto è la trama di «300», un colossal cinematografico, adattamento dell’omonimo graphic-novel di Frank Miller (tratto da un episodio storico della guerra tra greci e persiani), piuttosto applaudito, intriso di sangue e stereotipi, che esalta i valori del coraggio, della libertà, della razionalità, della nobiltà d’animo, dell’amor patrio e familiare quale retaggio tutto occidentale, e li contrappone alla forza bruta, alla follia cieca, alla schiavitù dell’Oriente, rappresentato dall’impero persiano. Uno scontro di civiltà pre-moderno, anticipatore di quello (o quelli, i nemici della nostra civiltà, sembra, sono tanti) attuale.
Il secondo è la cronaca narrata da Il Gioale, quotidiano della famiglia Berlusconi, sull’incidente che avrebbe potuto scatenare l’ennesimo conflitto. Ancora, Oriente versus Occidente. Follia contro ragione.
Spiega ancora Il Gioale: «In quella strozzatura, larga nel punto più angusto meno di cinquanta chilometri (…) transitano le navi americane e le portaerei che da un anno battono il Golfo Persico. Lì nell’aprile del 1988 la marina statunitense affondò due navi e sei motoscafi iraniani. Due mesi dopo, sempre lì, abbatté un volo di linea di Teheran uccidendo 290 civili» (1).
A gennaio di quest’anno, George W. Bush, presidente Usa uscente, ha ribadito che l’Iran costituisce un grave pericolo per gli Stati Uniti e per l’Occidente.
I tamburi di morte battono forte: Hollywood, media mondiali, Pentagono, governi, ci stanno prospettando un nuovo scenario di guerra. Il copione è ormai collaudato ed è stato distribuito. Gli attori stanno provando le scene. A noi tocca il ruolo di spettatori. E, forse, di vittime. Non è un film già visto?

Vediamo cosa ne pensa Scott Ritter (2), capo delle ispezioni Onu sugli armamenti dal ‘91 al ‘98, in «Obiettivo Iran. Perché la Casa Bianca vuole una nuova guerra in Medio Oriente» (Fazi Editore, 2007):
« (…) sul tema Iran, stiamo assistendo a una replica della storia. Sono colpito dalla somiglianza tra il modo in cui gli Stati Uniti, Israele, l’Europa, la Russia e le Nazioni Unite hanno continuato a percorrere un passo falso dopo l’altro, la strada che portava alla guerra all’Iraq sulla base di una premessa fasulla (cioè l’esistenza di ADM, armi di distruzione di massa, in Iraq), e quel che oggi trapela per quanto riguarda l’Iran: sembra proprio che stiamo procedendo, lungo lo stesso percorso che porta al conflitto, inseguendo i fantasmi di un programma di armamenti nucleari che non si è mai manifestato in alcun modo, se non nelle esagerazioni e nella retorica delle congetture di quanti vogliono un cambio di regime a Teheran, assai più che l’autentica non proliferazione e il disarmo» (pag. 20-21).
«Parlare della nascita di questa crisi e riportare la storia degli individui e delle organizzazioni coinvolte vuol dire raccontare una vicenda fatta di hybris, pathos, integrità e inganno. Una storia di perspicacia e indifferenza, e di paura nata dall’ignoranza. (…) È una storia dominata da un nauseante senso di deja vù, come se avessimo già passato tutto questo, quando il dito accusatore era puntato in direzione dell’Iraq, invece che dell’Iran. Siccome questa storia l’abbiamo già vista svolgersi, stavolta, mentre la raccontiamo, siamo in grado di scorgere un percorso diverso da quello che conduce all’abisso di un conflitto con l’Iran (…)» (pag. 22-23).
Forse proprio quei valori e quella razionalità, retaggio della civiltà occidentale, dovrebbero aiutarci a non cadere, ancora una volta, nella trappola dei guerrafondai, dei mestieranti di morte e rapina.

Teheran. Redazione di Al-Vefagh, in strada Khoramshahr. È un quotidiano nazionale iraniano in lingua araba. Nel palazzo c’è la sede di altri quattro giornali: in farsi, in inglese (The Iran Daily), in breille, e un giornale sportivo. Appartengono tutti e cinque allo stesso gruppo editoriale, Al-Iran, vicino al governo.
Incontriamo il dott. Mosayeb Naimi, direttore del gruppo di redazioni, nel suo ufficio, al fondo di una grande stanza dove numerosi giornalisti stanno lavorando.
Nonostante la propaganda mediatica anti-iraniana ci spieghi che le donne vivono in condizione di grave subalteità e disparità, balza subito agli occhi che in quest’ufficio maschi e femmine condividono spazi e discussioni, apparentemente piuttosto alla pari e in un clima amichevole. Alcune giornaliste sono in chador, altre hanno un semplice foulard colorato poggiato sul capo e indossano completi eleganti e alla moda.
Naimi è un tipo simpatico, dallo humor mediterraneo. Il discorso cade subito sul potere delle donne in Iran, forse perché la traduttrice è una donna, un medico e docente universitario, che ha a lungo soggiornato in Italia, o forse perché, nella redazione ce ne sono parecchie.
«Qui in Iran – racconta divertito – sono le donne che comandano gli uomini. I mariti cercano di non perdere l’amore delle loro mogli. Molte sono quelle che raggiungono alti gradi di carriera. La famiglia, comunque, rimane sempre al centro dell’attenzione nella nostra società».

Tra le cinque testate che lei dirige, c’è un quotidiano in arabo e uno in breille. Come mai questa scelta?
«Sono stato per 11 anni responsabile dell’Ia, l’agenzia stampa iraniana, in Libano. Poi ho lavorato in Quwayt. Conosco bene, quindi, sia la lingua sia le varie realtà del mondo arabo. Per questa ragione, abbiamo ritenuto importante creare un giornale in lingua araba. Inoltre, abbiamo scelto questo nome, “Amicizia” (al-Vefagh), perché sono molti gli aspetti che condividiamo con gli arabi. Quanto all’edizione per non-vedenti, è nata 10 anni fa. È il primo giornale in breille in Iran e nel resto del Medio Oriente, e viene distribuito in abbonamento. Tutti i redattori sono ciechi, tranne il capo della redazione. Abbiamo constatato che ha molto successo presso la popolazione di non-vedenti (attualmente, circa 300 mila): i lettori ci inviano messaggi, interagiscono con noi. È un buon mezzo di comunicazione».

Come vi mantenete?
«Con la pubblicità. Ogni spazio pubblicitario può costare anche 1.700 dollari. In questo modo possiamo mantenere 500 tra redattori e personale vario. L’edizione in farsi tira 400.000 copie giornaliere. Le altre sono più ridotte».

Il suo gruppo non è «di stato», ma nel consiglio di amministrazione c’è anche un rappresentante della Repubblica islamica. Idee e pensieri, in Iran, hanno libertà di espressione e circolazione?
«Ci sono molte testate giornalistiche. Inoltre, la risposta a questa domanda dipende da chi le sta davanti. Chi appartiene alla classe alta, con l’abitudine al lusso dell’epoca dello Shah (dove c’era una enorme disparità fra il povero e il ricco), le dirà che ora non c’è libertà. Questi sono molto arrabbiati con il governo. Per i ceti medi e bassi (3), è diverso. In questi anni c’è stato un cambiamento profondo e il divario sociale si è ridotto, anche se la povertà esiste ancora, così come la ricchezza. Ma la cultura e la scolarizzazione si sono diffuse».

L’attenzione internazionale sull’Iran è crescente, in particolar modo nei media. Come vive questa pressione il popolo iraniano?
«La propaganda negativa è percepita molto chiaramente. I media occidentali stanno cercando di dimostrare che l’Iran è un paese pericoloso, nemico, raccontando tutto fuorché la realtà. Bush lo ha definito “l’asse del male”. Per fortuna, sappiamo che non tutti gli occidentali abboccano e prestano fede alle bugie veicolate dai mezzi di informazione. Noi stiamo lavorando per far arrivare notizie veritiere anche in Occidente, attraverso il nostro giornale in lingua inglese. L’Iran ha una storia millenaria, che la “pubblicità negativa” vorrebbe cancellare o manipolare. Per raggiungere questo obiettivo, sono stati prodotti di recente anche Colossal cinematografici che raccontano dei persiani come violenti e miserabili. La propaganda lavora su tutti i fronti, non solo quello politico ed economico, ma anche mediatico».

Prendete sul serio le minacce belliche statunitensi? Temete di essere attaccati?
«Pensiamo si tratti solo di minacce. L’uso del nucleare per scopi pacifici è un nostro diritto, che ad altri Paesi è garantito. Gli Usa hanno interessi che esulano dalla tutela dei diritti umani: in Iraq è sotto gli occhi di tutti. L’Iran non ha intenzione di dotarsi di bomba atomica: lo ha dimostrato rendendosi disponibile alle ispezioni dell’Aiea (Inteational Atomic Energy Agency, ndr), che ha piazzato telecamere nei siti dove sono situate le centrifughe. L’Iran, comunque, è disponibile a lavorare per la produzione di energia nucleare sotto il controllo internazionale.
Non crediamo che gli Stati Uniti ci attaccheranno: sanno che non abbiamo le bombe nucleari. La propaganda di guerra serve per spaventarci, ma noi non abbiamo paura. Siamo tranquilli. Se dovessero attaccare, risponderemo. E il peggio toccherà all’Europa: da noi sono impiegati numerosi operai e tecnici europei. In caso di conflitto, saranno mandati via e questo inciderà pesantemente sulle aziende e sulle famiglie.
Durante la guerra tra Iran e Iraq, Saddam era protetto con armi e soldi da Francia, Germania e Stati Uniti. Ma nessuno di loro ha ottenuto da noi ciò che voleva. Cosa dovrebbero ottenere ora? Noi iraniani siamo intelligenti e pazienti: sappiamo aspettare e ascoltare. Non inizieremo a sparare per primi. Reagiremo se verremo attaccati».

E la popolazione come reagirà?
«Si compatterà a fianco del governo, dello stato. La storia dell’Iran lo dimostra: nessuno può averla vinta con noi». 

Di Angela Lano

(*) La prima puntata di questo reportage è stata pubblicata su MC nel settembre 2007.

(1) È il 3 luglio 1988: siamo alle battute finali della guerra tra Iran e Iraq. Il Golfo Persico è pattugliato da diverse navi militari statunitensi che difendono le petroliere del Kuwait (Quwayt). L’incrociatore USA Vincennes abbatte il volo di linea 655 dell’Iran Air, decollato da Bandar Abbas e diretto a Dubai. A bordo ci sono 290 civili, tra cui 66 bambini. L’aereo viene colpito da due missili e precipita. Non ci saranno superstiti.
(2) L’autore Scott Ritter fu il capo delle ispezioni Onu sugli armamenti iracheni dal ‘91 al ‘98. Già nel 2002 aveva negato – come racconta nel libro «Guerra all’Iraq» (Fazi editore) – l’esistenza di armi di distruzione di massa nel paese di Saddam. Nonostante i continui tentativi di discredito da parte dei media statunitensi, la sua attendibilità è rimasta intatta.
(3) In realtà, l’opposizione al regime iraniano è presente anche nei ceti medi intellettuali, laici e di sinistra, che criticano sia la retorica del loro presidente, Ahmedinejad (ritenendola pericolosa per la sicurezza del paese, laddove, in particolare, lancia strali provocatori contro Israele e gli Usa), sia l’«islamizzazione» della politica e del governo. Tuttavia, più d’un iraniano «oppositore» ha sottolineato come, in caso di attacco Usa, tutta la popolazione si unirebbe di fronte al nemico esterno, dimenticando, forse, i problemi interni, come sottolinea Naimi alla fine dell’intervista.

Angela Lano




Le «travolgenti» olimpiadi cinesi

Reportage/ La capitale cinese attende le Olimpiadi

Quando si prepara il massimo evento sportivo mondiale, non si guarda in faccia alcuno.  
È avvenuto e sta avvenendo anche per le imminenti Olimpiadi organizzate dalla Cina. Pechino ha l’opportunità di mostrarsi al mondo come una nazione modea e felice e non soltanto come una potenza economica che cresce il 10 per cento all’anno. O come un paese che avrebbe molto da spiegare nel campo dei diritti umani (se qualcuno avesse il coraggio di chiederglielo…). Storie
di ordinaria ingiustizia dalla capitale che attende atleti da ogni parte del globo.

Pechino. Il cuore pulsante di Pechino, gli spazi urbani più vivaci e intimi della megalopoli si chiamano hutong, termine che ci riporta indietro nel tempo: da hottog, che in mongolo significa «pozzo d’acqua», ricordano la «città del khan», Khanbaliq, e le prime aggregazioni urbane in prossimità dei pozzi. La traduzione «vicoli» ne riduce l’importanza: gli hutong sono luogo di incontro, comunicazione e socialità. Costituiscono una rete labirintica di stradine su cui si affacciano gli siheyuan, tradizionali complessi residenziali costituiti da quattro edifici disposti intorno a un cortile, di cui dal vicolo si vede solo l’alto muro grigio che li racchiude e i portali lignei d’ingresso finemente intagliati, decorati con scritte augurali e lantee di un colore rosso acceso. I chioschi e le bancarelle fanno da sfondo agli anziani che mangiano jiaozi, i ravioli ripieni, e giocano a mahjong, seduti su bassi sgabelli, mentre i bambini giocano e uomini in pigiama e vestaglia discutono sulle novità del quartiere. Il chiacchiericcio delle donne, le grida dei bambini e il parlottare degli anziani, il fruscio delle foglie degli alberi che abbelliscono e proteggono le corti, vengono interrotti solo dallo sferragliare dei risciò a pedali, gli unici a turbare la quiete di luoghi in cui la vita familiare, sociale, amministrativa e religiosa si svolge prevalentemente nello spazio comune che è la strada o il cortile. Oggi negli hutong il nemico temuto non è più lo sfrecciante risciò a pedali guidato da un affaticato ciclista, ma la ruspa. Le Olimpiadi del 2008 rappresentano la fine di questi antichi distretti e infliggono alla città ferite permanenti.

Dazhalan,
morte di un distretto

Sono proprio queste ferite che preoccupano Ma Lian: «I bulldozer stanno cancellando centinaia di anni di storia. Tutta la mia famiglia ha sempre abitato nello stesso hutong, qui a Dazhalan. Anche io sto aspettando che la mia casa venga demolita». Circondato da cumuli di macerie e case sventrate, ogni mattina il 60enne Lian continua ad alzare la saracinesca del chiosco dove vende sigarette, bevande fresche e semi di zucca. Gli occhi vispi, in bocca solo due denti, dalla sua voce trapela rabbia: «Il turista dovrebbe rimanere colpito dalla ricchezza artistica di Pechino, ma ciò che vi troverà per le Olimpiadi sarà solo una città rifatta e priva di carattere».
Nessuno sa cosa sorgerà al posto di Dazhalan, un distretto popolare a cinque minuti da piazza Tiananmen, intreccio di hutong a sud della Città Proibita. La sua storia testimonia la peculiarità dell’area: il suo nome, in pechinese Dashilar, «grandi cancelli», risale al 1670, quando per editto dell’imperatore fu ordinata la chiusura nottua dei vicoli. Mentre l’intero complesso della «Città Proibita» era circondato da alte e spesse mura e sottoposto al ferreo controllo del potere, a Dazhalan si garantiva la libertà di commerciare e divertirsi. Inoltre, in epoca Qing, quando l’imperatore vietò l’apertura di attività artistiche e commerciali all’interno delle mura della sua residenza, Dazhalan divenne il luogo che meglio di tutti gli altri accolse il fermento culturale e imprenditoriale degli abitanti di Pechino. Teatri, case da tè, antiche farmacie, cappellerie, templi, negozi di giada e seta, e «case dei fiori», i tradizionali luoghi di divertimento notturno, resero Dazhalan un’attrattiva per mercanti, pellegrini e viaggiatori. Ancora oggi vi si trovano antiche librerie e antiquari, ristoranti dove si degustano le specialità di Pechino come l’anatra alla pechinese, attività artigianali di ogni tipo e teatri tradizionali. Ancora per poco.
Lo sguardo dell’anziano Feng si perde tra alti coicioni di legno finemente intagliati, ormai scoloriti e rovinati dal tempo e dall’incuria. Barba bianca e canottiera nell’afa dei vicoli, così ricorda il passato del quartiere. «Questi erano tutti palazzi di artigiani della giada. Dopo le riforme di Deng Xiaoping, negli anni ’80, sono cominciate ad apparire piccole attività commerciali, ristorantini e negozietti. Ho più di 70 anni e questo è sempre stato il mio mondo». La giada arriva nella capitale dal lontano Xinjiang, la provincia nord occidentale a maggioranza musulmana. Minerale considerato quasi sacro per le sue presunte proprietà medicamentose e taumaturgiche, era il preferito alla corte dell’imperatore.
«Non so quando me ne dovrò andare – continua Feng -, le ruspe arriveranno sicuramente nei prossimi mesi, prima delle Olimpiadi: tutto deve essere rinnovato. C’è altra soluzione? Noi laobaixing (gente comune, vedi glossario a pag. 63) possiamo solo obbedire».
A Dazhalan ci sono edifici che risalgono al XVI secolo, palazzi che portano con sé la storia di due dinastie imperiali, quella dei Ming e quella dei Qing.

Per le ruspe
il lavoro non finisce mai

L’agenda politica della «Commissione per la pianificazione e lo sviluppo» della Municipalità di Pechino dedica un capitolo a parte alla tutela della città storica: le aree coinvolte sono 25, il 17% della Pechino antica, ma, dietro la retorica, sono in agguato speculazione edilizia e perdita di identità culturali.
Zhao Lianmiao è un artista che vive nel suo studio-abitazione di meno di 10 metri quadrati, ancora per poco di sua proprietà. Alle pareti sono appesi i suoi dipinti, davanti a una tazza di tè al gelsomino racconta la sua vita a Dazhalan, le persecuzioni subite durante la «Rivoluzione culturale», e quanto gli piacerebbe comprare una nuova casa in quella zona. «Stanno distruggendo tutto, è un vero peccato, io vivo qui da sempre e sono molto affezionato a questo quartiere. A un certo punto appare un foglio appeso a un muro nei vicoli che ci intima a sgomberare nel giro di un mese». Anche Fu Zheqing, giovane donna che conduce un’attività commerciale per i cui locali paga l’affitto, non sa quale sarà il suo destino: «Io e la mia famiglia viviamo nel retro del negozio, ma non essendo proprietari le cose sono un po’ diverse. Dovrò semplicemente cercare un altro locale ma di certo non a Dazhalan: dopo il rinnovamento del quartiere i prezzi saliranno alle stelle, sicuramente non riuscirò più a trovare nulla per i 150 yuan che pago qui!».
Secondo Hu Xinyu, responsabile del gruppo «Friends of Old Beijing» (Amici della vecchia Pechino), già nel 2003 la metà dei 3.000 hutong della città storica era stata demolita, e migliaia di persone trasferite in sobborghi anonimi, mentre un alto rappresentante del governo – citato in forma anonima dal Financial Times – ha paragonato i danni causati dalle odiee politiche urbanistiche alle distruzioni della «Rivoluzione culturale».  
Nel 2005 più di 800 edifici giudicati vecchi e pericolosi sono stati demoliti nella caratteristica via del Carbone, e centinaia di siheyuan risalenti al XIV sec. hanno lasciato il posto a nuovi palazzi. Ma le ruspe non hanno ancora finito il loro lavoro. Il piano del governo prevede un dislocamento di 5 milioni di residenti dal centro di Pechino alle periferie nell’arco di 15 anni, motivazione ufficiale: traffico urbano e alta densità di popolazione.
Dietro al progetto di ristrutturazione e modeizzazione delle aree storiche e fatiscenti fanno capolino dinamiche di discriminazione sociale.
«Ci stanno rubando i nostri soldi! – grida Li Wu -. Per andarmene mi daranno 10.000 yuan al metro quadro, ma i nuovi edifici saranno rivenduti a 50.000! Il governo ci sta ingannando: ha potuto attuare le sue politiche senza incontrare resistenze, qui la gente è povera, quel poco che ci danno per andarcene è sufficiente per ottenere il silenzio. Ci trasferiamo in quartieri dormitorio in nuovi appartamenti al ventesimo piano e ci illudiamo che la nostra vita migliorerà». Wu vive e lavora in uno hutong tra i più vivaci e trafficati, dove in un piccolo spazio ripara di tutto, dai vestiti agli orologi. Il rumore delle ruspe che demoliscono la casa vicina è assordante. Di fronte alla sua officina i resti di un ristorante musulmano, una vecchia targhetta in caratteri arabi a ricordare la presenza nel quartiere della minoranza islamica degli hui.

Il coraggio
della protesta

Ou Ning, che ha dedicato particolare attenzione e impegno al caso di Dazhalan, è un affermato regista e videomaker originario di Canton, ma che da anni vive e lavora a Pechino. Il giovane artista non giudica direttamente l’operato del governo, ma preferisce porre l’accento sul concetto di scelta: tutti dovrebbero avere il diritto di decidere dove e come vivere, non è giusto imporre dall’alto modelli di vita, né di città.
L’artista è uno dei promotori di Dazhalan Project, organizzato assieme a «Kulturstiftung des Bundes», fondazione tedesca che si occupa dei processi di allargamento e sviluppo dei centri urbani. Zhang Jinli è una figura chiave di questo esperimento che monitorerà l’esito delle Olimpiadi e si chiuderà nel 2008. «Abbiamo conosciuto Zhang mentre stavamo filmando la situazione a Dazhalan – ricorda Ou Ning seduto sul divano al ventesimo piano di un edificio moderno e colorato che fa parte del complesso residenziale Xiandai Soho, vicino alla city pechinese -. Stava affiggendo cartelli di protesta. Un mese dopo aveva in mano una telecamera, per riprendere la sua vita nel quartiere alla vigilia dello sgombero». Jinli conduceva una osteria frequentatissima in uno hutong chiamato Meishi jie: la sua forza è stata quella di mettere in atto forme di resistenza pubblica per difendere i suoi diritti in quanto residente in attesa di essere rimosso. «Il governo gli aveva imposto di lasciare la casa e l’attività, ma lui riteneva che la compensazione offerta fosse inadeguata – racconta ancora Ou Ning -, che sarebbe stato giusto ottenere l’assegnazione di un altro ristorante nel nuovo quartiere». La telecamera è stata usata come arma per criticare le politiche governative: l’esperimento di Zhang Jinli ha dato vita a un video (Meishi street) e a una pubblicazione (The Story of Zhang Jinli). Il prezzo pagato per aver attuato queste forme di protesta è alto: Jinli è stato sottoposto a una fortissima pressione psicologica. Inoltre, nonostante le numerose richieste, le autorità non hanno mai concesso un incontro ai responsabili di Dazhalan Project.  
«Jinli ha avuto il coraggio di denunciare l’ingiustizia delle compensazioni e ha contribuito a far nascere una certa consapevolezza nel vicinato». Uno degli obiettivi principali di Dazhalan Project (www.dazhalan-project.org) è analizzare l’influenza delle politiche governative sulle diverse realtà urbane, fino ad arrivare a quelle più piccole, all’individuo. «Nel marzo 2006, dopo mesi di protesta e sensibilizzazione della comunità, le ruspe hanno distrutto la casa e il ristorante di Jinli». Ou Ning non è contrario alla modeizzazione: «Le città devono migliorare, ma noi ci preoccupiamo di quale influenza abbia questo sviluppo sulle persone, di quali siano gli spazi per la gente nel contesto di una città nuova. La storia di Zhang Jinli rappresenta la rottura dell’equilibrio tra tradizione e sviluppo», prosegue l’artista. Secondo Ou Ning, «a Dazhalan ogni proprietario avrebbe ristrutturato le case gradualmente, lasciando invariata la zona. Invece il cittadino non ha possibilità di scelta, né sa come si trasformerà il quartiere, davanti agli occhi ha solo quelle fotografie sulle transenne che lasciano immaginare un ricco distretto commerciale». Politiche urbanistiche che distruggono il senso di comunità, cancellando la vita di strada e la vivacità delle città cinesi. «Per la Costituzione cinese la terra appartiene al popolo, ma in realtà è del governo, che si muove solo in base a valutazioni di tipo politico-economico – conclude il videomaker -. Studenti, ricercatori, studiosi e gente comune in Europa e in America si sono interessati al nostro progetto, ma le autorità non ascoltano, a meno che non ci siano scontri e dei morti. Il nostro obiettivo è far conoscere questa situazione sensibilizzando e coinvolgendo il maggior numero di persone, solo così il futuro potrà essere diverso».
Il traffico e lo smog di Pechino ricoprono di suoni e polvere una città in continuo mutamento, come mutevoli e incerte sono le vite degli abitanti di queste aree. Un tempo ricche e fiorenti, si sono impoverite con l’ingresso del Paese nel mercato globale: le  manifatture artigianali sono state soppiantate da quelle delle fabbriche della Cina sud orientale, teatri e «case dei fiori» sono stati sostituiti da night club e da centri per massaggi. 

Di Alessandra Cappelletti

Alessandra Cappelletti




Perù. Ollanta e Nadine

Incontro con Ollanta Humala Tasso, fondatore del Partito nazionalista

Ollanta Humala Tasso è un personaggio che suscita sentimenti opposti. Presidente del «Partito nazionalista peruviano»,  nel 2006 ha vinto il primo tuo delle elezioni presidenziali, per essere poi sconfitto da Alan García, l’attuale presidente. Ollanta, che ha soltanto 45 anni, gode di un forte seguito tra la popolazione povera, soprattutto fuori Lima. Idealmente vicino a Hugo Chávez ed Evo Morales,  è inviso a molti avversari politici e ai media, dentro e fuori il Perú. In questa lunga intervista abbiamo cercato di scoprie i veri motivi.


Lima. «Ma scendete qui?», il taxista è sorpreso. «Allora andate dal comandante!», aggiunge sempre più incuriosito.   
Sì, andiamo dal comandante Ollanta Humala Tasso, fondatore e presidente del «Partito nazionalista peruviano» (Partido nacionalista peruano, Pnp). Vorremmo cercare di capire se egli sia un astro o una meternora della politica peruviana, nonché per cercare di comprendere da cosa nasca tanta ostilità (politica e mediatica) nei suoi confronti.
La sede del Pnp è una sobria casetta di colore verde davanti ad un bel parco di San Isidro. L’unico elemento che la distingue da una normale abitazione è un grande cartellone elettorale posto sul tetto che riproduce un Ollanta Humala sorridente.  «La gran transformacion sigue en marcha…», recita lo slogan.
Oltre la porta d’ingresso c’è un piccolo giardino dove, appoggiato al muro, sta un altro cartellone dell’ultima campagna elettorale. In esso Ollanta è ritratto con la giovane e bella consorte, Nadine Heredia: «El verdadero cambio sin mentiras, corrupción ni falsas promesas».
Cynthya, la segretaria di fiducia, ci introduce in un ufficio al primo piano, moderno e luminoso. Sulla lavagna bianca dietro la scrivania sono ancora visibili le scritte di una discussione sull’argomento, sempre spinoso, della produzione di foglie di coca.
Il nostro interlocutore arriva in maglietta estiva e blu-jeans. Giovanile e sorridente.

Il nazionalismo per «de-privatizzare»

La stampa italiana ed europea parla molto male di lei… Chi è realmente Ollanta Humala?

 «Sono un padre di famiglia. Ho due figlie piccole. Oggi sono un militare in congedo. Nell’anno 2000 (leggere la cronologia, ndr) ho guidato una sollevazione militare contro il governo dittatoriale di Fujimori e Montesinos».

Lei è fondatore e presidente del «Partito nazionalista peruviano». Il problema è che l’aggettivo «nazionalista» viene guardato con molto sospetto…
«Il concetto nazionalista è diverso da quello che avete voi in Europa. Noi non parliamo di un nazionalismo imperialista, che tanti danni fece nella storia europea. Stiamo parlando di uno stato nazionale. A differenza dell’Italia, il Perú è un paese sottosviluppato e semi-coloniale. Siamo stati per 300 anni sotto una dominazione spagnola che ha lasciato il segno. Una minoranza, legata ai poteri economici transnazionali, si è appropriata dello stato peruviano e lo ha privatizzato.
Un paese ricchissimo di ricchezze naturali come il nostro ha 7 milioni di abitanti su 28 che vivono nell’esclusione economica, sociale e politica.  Ci sono milioni di persone che vivono senza i servizi minimi. Che abitano in case di esteras (stuoie di bambù intrecciate, ndr). Che non possono dare ai loro figli una vita degna».

In concreto, che cosa proponete?
«Il nostro nazionalismo vuole recuperare lo stato nazionale per risolvere questi problemi.  Siamo nazionalisti proprio per questo: per poter “de-privatizzare lo stato”.  Soltanto così è possibile portare educazione e salute a tutti coloro che oggi non li hanno».

Toiamo alle elezioni presidenziali del 2006. Lei vinse nettamente al primo tuo, poi perse nel ballottaggio con Alan García. Fu tutto regolare?
«Il secondo tuo è un artifizio tecnico per costruire delle maggioranze. Si sono alleati tutti – politici, detentori del potere economico – per impedire il cambiamento che con noi sarebbe avvenuto. Lo stesso presidente Toledo fece campagna contro di me, commettendo una grave violazione costituzionale.
 I mezzi di comunicazione mi hanno fatto una guerra incredibile. Che ero antigiudeo. Che con me saremmo andati alla guerra con il Cile. Mi accusarono di essere un assassino. Che con me si sarebbe instaurato un regime comunista. Che con me non si sarebbe rispettata la proprietà privata. Si disse di tutto. Addirittura che io avrei fatto fucilare gli omosessuali! La mia famiglia venne dipinta come la peggiore famiglia del Perú».

Quando un candidato  è «anti-sistema»

È vero. Provo imbarazzo a dirlo, ma anche in Italia si sono sentite cose incredibili su di lei. Per esempio, i due principali quotidiani italiani – il “Corriere della sera” e “la Repubblica” (1) – l’hanno descritta o come un populista o come una macchietta…
«Quando una persona vuole cambiare le cose, tutto diventa più difficile. Se io fossi stato un candidato pro-sistema, che parla di neoliberismo, che non andrà ad intaccare i privilegi dei ricchi e a risolvere i problemi della grande maggioranza, non sarei stato tanto stigmatizzato, ma anzi mi avrebbero descritto come un perfetto democratico.
Come lei sa, qui a Lima può incontrare quartieri molto belli, ma appena passa alle barriadas trova gente che vive con meno di un dollaro al giorno. Quella del Perú non è una democrazia, ma una dittatura dei poteri economici nazionali ed inteazionali».

Mario Vargas Llosa,  il  più famoso scrittore peruviano, molto conosciuto in Europa, ha fatto una propaganda feroce (2) contro di lei…
«Uno scrittore celebrato come Mario Vargas Llosa, nemico dell’attuale presidente, chiese di votare Alan García (pur tappandosi il naso), piuttosto che dare il voto a me.
Il cambio è possibile in Perú, ma è una sfida molto difficile. Io perdo molto tempo ad affrontare i giudizi intentati contro di me, ma non mi pento. Andrò avanti.
Noi nazionalisti andremo al potere. Stiamo instaurando rapporti di fratellanza con gli altri partiti progressisti latinoamericani, che possono chiamarsi socialisti (in Venezuela), indigenisti (in Bolivia) o altro, ma che hanno tutti un obiettivo comune: cambiare il modello economico neoliberista. Con loro dobbiamo allearci.
Anche perché oggi i principali problemi sono sovrannazionali: quello della fame, della salute. Sono problemi che oltrepassano le frontiere».

Come i Trattati di libero commercio (Tlc)…
«Certo. Noi, come molti altri paesi latinoamericani, siamo contrari al Tlc con gli Stati Uniti».

I media e i politici occidentali la criticano anche per le sue relazioni con Hugo Chávez ed Evo Morales. Che rapporti ha con i presidenti di Venezuela e Bolivia?
«Ho un’amicizia con loro, che si basa su un’affinità ideologica, su un cammino comune, anche se ogni paese ha le sue particolarità.
Credo che Hugo Chávez ed Evo Morales (3) siano il nuovo volto dell’America Latina. Dopo che negli anni precedenti, il popolo ha cacciato presidenti in Argentina, Ecuador e qui in Perú per Fujimori».

Da questi sommovimenti nascono le proposte nazionaliste?

«Voglio insistere ancora: il concetto nazionalista in Europa è diverso da quello in Perú, anche se il nome è lo stesso. Come quando in Europa è giorno e qui è notte, quando là fa caldo, qui fa freddo.
Come la Francia durante l’occupazione tedesca, anche qui vogliamo liberarci dall’oppressione straniera».

La Guerra del Pacifico, pur lontana nel tempo (1879-1884), riesce ancora ad avvelenare i rapporti tra Bolivia e Perú da una parte, Cile dall’altra. Come sono le relazioni con Santiago?
 «L’economia del Cile si basa molto sul rame (cobre), che proviene da Arica e Tarapacá, territori che appartennero al Perú fino alla Guerra del Pacifico. Oltre a questo, il Cile sta occupando 65mila chilometri quadrati di mare e 37mila di terra ferma, che corrisponde alla nostra Costa Sud.
Fissiamo una volta per tutte la questione delle frontiere e poi parliamo di integrazione economica».

Le questioni con il Cile devono essere risolte sempre per via diplomatica?
«Certamente! Mai abbiamo parlato di soluzioni diverse da quella diplomatica. I due popoli sono popoli fratelli. Il problema è a livello politico».

E che può dire delle relazioni con gli Usa di George W. Bush?
«La politica nordamericana in America Latina è sempre stata molto questionata. È stata caratterizzata da interventi diretti o indiretti. In Perú l’ambasciatore Usa è un uomo molto potente, più dello stesso presidente peruviano. Noi non abbiamo ragione per litigare con il paese più forte del mondo. In più, dal loro popolo possiamo imparare molto.  È una nazione che è nata su valori importanti come la libertà e la democrazia. Detto questo, credo che si dovrebbe stabilire una relazione equa e di mutuo rispetto.
Ci sono questioni importanti come la politica antidroga, in particolare quella contro la foglia di coca che in Perú è stata fallimentare. Come dimostra il fatto che in 20 anni la quantità prodotta di foglie di coca si è moltiplicata.
Normalmente i governi affrontano il problema dal lato più debole, colpendo piccoli coltivatori di foglie di coca. Invece di prendersela con le vere mafie che sono coloro che vendono il cloridrato, che esportano la coca, eccetera».

Un aggettivo per Alberto Fujimori, Alejandro Toledo e Alan García…
«Fujimori: un delinquente.  Toledo: un pusillanime. Alan García: un traditore».

In che senso il presidente García è un traditore?
«Perché in campagna elettorale disse alcune cose, ma giunto al potere le dimenticò. Ad esempio, sul “Trattato di libero commercio” prima disse no e poi sì.  Anche per frenare l’asse Caracas- La Paz.
Ha detto di tornare alla vecchia costituzione, perché quella del dittatore Fujimori è una costituzione delinquenziale. Neppure questo ha fatto. Non ha messo imposte sugli extraprofitti delle compagnie minerarie, facendo perdere milioni al Perú. E poi la questione del Cile e le forze armate senza soldi. Per tutto questo dico che lui è un traditore».

Alan García goveò molto male durante la sua prima presidenza. Eppure, è stato di nuovo votato dai peruviani. Possiamo dire che l’hanno votato perché avevano paura di una sua vittoria?
«Possiamo dirlo. In Perú i mezzi di comunicazione sono una forza poderosa. Possono distruggere o portare alle stelle chiunque, allo scopo di difendere interessi specifici, come quelli delle imprese minerarie».

La interrompo: la maggioranza delle imprese minerarie sono straniere, giusto?
 «Sono tutte straniere».

Stava parlando dei mezzi di comunicazione…
«Hanno dipinto il sottoscritto come un mostro: fascista, nazionalsocialista, hitleriano, di tutto insomma. È una parte della prostituzione dei mezzi di comunicazione o comunque del cattivo uso che si fa della libertà di espressione. A chi mi insulta viene subito dato credito, anche ora».

Alan García starà al potere fino al 2011. Come goveerà?
«Sta facendo quello che sa fare meglio: aprire la strada alla corruzione, far arricchire chi è già ricco, tenere nella povertà la maggioranza dei peruviani. È una tappa penosa, ma credo che sarà l’ultima. Dal 2012 si potrà costruire una nuova società».

Guerra e diritti:  le colpe dello Stato

Qualche considerazione sulla storia del Perú, quella caratterizzata dalla guerra sporca e sulla quale ha indagato la Commissione per la verità.
«È stata una guerra intea tra movimenti sovversivi  e stato. Quest’ultimo altro non fece che inviare l’esercito, senza un confronto ideologico e politico. La guerra terminò con circa 60.000 morti ed 8.000 scomparsi. Si formò una “Commissione per la verità e la riconciliazione” (4). Secondo la sua relazione, il principale colpevole fu Sendero Luminoso, ma ciascun protagonista tiene la sua quota di responsabilità.
In ciascun lato, sono stati identificati i responsabili che stanno pagando per le loro colpe (5). Per Sendero Luminoso c’è Guzmán, per l’Mrta c’è Campos, ma per lo Stato non c’è nessuno…
I primi due movimenti hanno pagato con i loro leader in carcere, ma nessuno ha pagato per lo Stato. Anzi, i responsabili di allora sono quelli oggi al potere. Guardiamo ad Alan García. Durante la sua prima presidenza ci furono numerosi massacri, sparizioni, assassini nelle carceri. Che ha fatto lo Stato? Ha accusato i soldati che parteciparono nella guerra e non i politici. Insomma, manca un giudizio politico sullo stato peruviano per la partecipazione alla guerra».

Come giudica il lavoro della Commissione?

«È stato lo studio più serio e completo sulla guerra intea del Perú. Io non sono stato accusato di nulla. E il nostro partito è stato l’unico a mettere nel programma il compimento delle raccomandazioni della Commissione».   

Cosa sono per lei i diritti umani?
«Significa dare tutte le sicurezze e le libertà perché una persona sia non solamente una persona ma anche un cittadino.
Essere cittadino significa avere obblighi, ma anche diritti. Non solo diritti alla vita ma anche al lavoro, alla salute, all’educazione. In questo contesto, il più grande violatore di diritti umani è lo Stato, che nega un’educazione di qualità ai bambini, che nega una sanità accessibile e di qualità alla maggioranza dei peruviani, che nega sicurezza e stabilità economica agli anziani che hanno lavorato per 30-40 anni. Non hanno una pensione degna. Ebbene, in tutto ciò io credo stiano i diritti umani».

Il futuro che cosa potrebbe riservarvi?
«Siamo un partito giovane, un partito del Siglo XXI. Credo che siamo nati per contribuire a migliorare la società, per cambiare questo sistema che si chiama “democrazia rappresentativa”, ma che in questo momento non rappresenta la maggioranza dei peruviani. Occorre una “democrazia partecipativa”.
Abbiamo ridato speranza a questo popolo. La nostra sfida per il futuro è di riuscire ad organizzare questa speranza».

Con metodi pacifici?

«Sempre. Mai abbiamo parlato di uscire dai limiti dello stato di diritto. Se cammina per le nostre strade, vede molta fame, molta disperazione, molto scontento. In questa situazione, si trova sempre qualcuno disposto a cambiare attraverso la violenza. Noi, i nazionalisti, siamo contrari a soluzioni violente. Anche se ci hanno accusato di ogni nefandezza, mai abbiamo parlato di abbandonare lo stato di diritto. In Perú tutti siamo stanchi della violenza. Io so cos’è la guerra e la violenza. E so che non è quello che chiede la famiglia peruviana».

Lei è ancora un militare?
«Sono un militare in pensione».

Cosa le ha lasciato la carriera militare?
«Provengo dalla classe media e pertanto avevo una certa idea del Perú. Nell’esercito entrano invece persone di ogni provenienza così ho potuto conoscere veramente il mio paese.
Ho capito che lo Stato non rappresentava la grande maggioranza. Da quando sono in pensione mi sento in dovere di ricostruire questo paese. Ho 2 bambine e non voglio che vivano in un Perú con questa classe dirigente».

La famiglia   

In Italia e in Europa i media hanno dato rilievo a dichiarazioni discutibili da parte di suo padre Isaac, sua madre Elena, suo fratello Antauro. Che può dire al riguardo?
«Nell’ultima campagna elettorale ci sono state differenze con la mia famiglia. Riconosco che alcune posizioni di mio padre e di mio fratello sono piuttosto estremiste e per questo io non le condivido. Durante la campagna elettorale avversari politici e media unirono le nostre posizioni come fossero un tutt’uno. Certamente noi non siamo un partito razzista perché non si fa politica in base al colore della pelle. Noi chiediamo soltanto di riscattare la cultura e i valori ancestrali. Io rifiuto qualsiasi divisione in bianco, nero, giallo».

Abbiamo iniziato questo incontro con la famiglia. Vorremmo concludere allo stesso modo:  sua moglie e le sue figlie sono con lei?
«Siamo una squadra. Per fortuna, le mie due figlie non sanno ancora leggere. Altrimenti quante cose mi avrebbero domandato…
L’appoggio di mia moglie Nadine è importante perché in Perú la politica è una cosa molto difficile. Quando una persona vuole cambiare le cose, la prima mossa che le forze al potere fanno è di attaccare la sua credibilità. In questa situazione, se non stai bene in famiglia, è facile arrivare al divorzio». 

Di Paolo Moiola

Cronologia essenziale 1963-2008
LA POPOLARITA’ DI OLLANTA METTE PAURA

27 giugno 1963: la nascita
Ollanta Humala Tasso nasce a Lima da Isaac Humala ed Elena Tasso, discendente di Termilio Tasso, un italiano arrivato in Perú nel 1850 (assieme al naturalista Antonio Raimondi). Ollanta sarà il secondo di 8 figli.

1982- decennio ‘90: guerra e sospetti
Dopo aver frequentato il collegio peruviano-giapponese di Lima, Ollanta inizia la carriera militare. Negli anni Novanta combatte Sendero Luminoso. In seguito, i suoi avversari e i media diranno che proprio in questo periodo il comandante Ollanta si rese colpevole di violazione dei diritti umani (Huallaga, 1992). Accuse peraltro mai comprovate.

29 ottobre 2000: la sollevazione
Ollanta Humala, con il fratello Antauro ed altri ufficiali dell’esercito capeggiano una sollevazione a Locumba (Tacna, vicino alla frontiera con il Cile) per esigere la rinuncia del governo guidato da Alberto Fujimori. Vengono amnistiati qualche mese dal governo transitorio di Valentín Paniagua.

2002-2003: all’estero
Sotto il governo di Alejandro Toledo, Ollanta Humala viene inviato come funzionario militare alle ambasciate peruviane di Francia e Corea del Sud. A Parigi, frequenta corsi di diritto internazionale alla Sorbona.

1-3 gennaio 2005: il fratello Antauro
Antauro Humala con un gruppo di 160 militari assalta un commissariato a Andahuaylas (Apurímac) per suscitare una sollevazione popolare contro Toledo. Il gruppo si arrende dopo 2 giorni. Ollanta Humala condanna l’azione del fratello. Le loro strade si dividono.

aprile 2005: il partito nazionalista
Ollanta Humala, Nadine Heredia Alarcón ed altri fondano il «Partito nazionalista peruviano».

28 giugno 2006: commercio
Il parlamento peruviano uscente approva il Trattato di libero commercio (Tlc) con gli Stati Uniti.

9 aprile 2006: vince Humala
Al primo tuo delle elezioni presidenziali si impone  Ollanta Humala con il 30,6% dei voti validi. Al ballottaggio con lui andrà Alan García Pérez, che ottiene il 24,3% dei consensi.

4 giugno 2006: vince García
Al secondo tuo, vince Alan García con il 52,62% dei voti contro il 47,37% di Ollanta Humala. Quest’ultimo vince in 14 province.

14 dicembre 2007: il gradimento
Secondo un’inchiesta dell’Università cattolica l’approvazione per l’operato del presidente García è al 29 per cento. Con punte del 15-13 per cento fuori di Lima.

gennaio 2008: intanto…
Il governo peruviano presenta un’istanza alla Corte Internazionale di giustizia di La Haya, perché delimiti i confini marittimi con il Cile. Nel frattempo, la congressista Keiko Fujimori annuncia la nascita di «Fuerza 2011», il partito fujimorista che si presenterà alle prossime elezioni presidenziali.

gennaio 2008:  lotta senza esclusione
La magistratura peruviana chiede 15 anni di carcere e l’espulsione dal paese per Ollanta Humala per i fatti accaduti ad Andahuaylas nel 2005. Il leader nazionalista viene difeso da Chávez e Ortega durante la riunione dell’Alca a Caracas. Il governo di García protesta per l’ingerenza negli affari peruviani.

30 gennaio 2008:  manifestazione
A Lima c’è una grande manifestazione in favore di Ollanta Humala e contro le manovre per allontanarlo dal paese.

Paolo Moiola

Nadine Heredia, consorte di Ollanta
UN SORRISO E UNA PENNA: LA CAMPAGNA DI NADINE

Eliane Karp, moglie dell’ex presidente Alejandro Toledo,  era spesso sui media peruviani. Antropologa ebrea di nazionalità belga, la Karp si fece conoscere a causa di dichiarazioni avventate, liti familiari e da ultimo anche per scandali finanziari. Anche Nadine Heredia, moglie di Ollanta Humala, è spesso sui media del paese, ma non come oggetto di scandalo, bensì come giornalista ed opinionista. Scrive sul quotidiano La República, uno dei più importanti del paese, che da gennaio 2007 le ha concesso una rubrica settimanale.  Siamo andati a spulciare tra i suoi articoli.

Sulla democrazia e il Tlc – «Viviamo un paradosso: poche volte come ora si parla tanto di democrazia e poche volte, come ora, le istituzioni appaiono tanto lontane dai cittadini, dai loro problemi, dalle loro aspettative.  (…) Buon esempio è il Tlc che il governo applica per beneficiare alcuni senza preoccuparsi dei danni: questo Tlc consente il disboscamento indiscriminato nella nostra Amazzonia e l’inquinamento dell’ambiente. Nello stesso tempo, permette l’entrata di prodotti agricoli sussidiati (i prodotti Usa, ndr) e prolunga il monopolio delle multinazionali farmaceutiche impedendo la concorrenza dei farmaci generici. Il Tlc, inoltre, aggrava la situazione e i diritti del lavoro e censura le organizzazioni sindacali attraverso la pressione del licenziamento. Infine, con questo trattato si accentua la frattura sociale che in Perú va unita alle altre di carattere etnico e geografico» (30/04/07).

Sull’Amazzonia e le multinazionali minerarie – «Da tempo i media lanciano l’allarme sulle mafie che operano nel settore del taglio illegale del legno.  (…) I grandi trafficanti hanno addirittura invaso riserve naturali e terre riservate a comunità native allo scopo di estrarre e commercializzare, con documenti falsi, il ricercatissimo mogano (…). Come per il narcotraffico, il profitto ottenibile è in media 170 volte più del costo di estrazione, profitto condiviso con funzionari statali corrotti»  (21/05/07). «Per consolidare lo sviluppo del settore minerario non solo si aprì il mercato, ma si offrirono incentivi per dare impulso agli investimenti (…). Questi benefici hanno fatto in modo che le imprese minerarie godano di privilegi e guadagnino molto denaro a fronte dello sfruttamento delle nostre risorse non rinnovabili e di una manodopera poco costosa, oltre agli alti prezzi delle materie prime sul mercato internazionale. Il Perú di oggi non è quello di prima, con un contesto politico violento e in recessione. Perché dunque si mantengono  le agevolazioni fiscali per le grandi imprese generando perdite di entrate per le casse statali? (…) Occorre riequilibrare la relazione tra i sovraprofitti del settore minerario e i tributi che esso genera. (…) Il governo deve cambiare questa situazione. In un contesto stabile, non è necessario che un’attività con una redditività tanto alta mantenga le agevolazioni fiscali e con ciò danneggi l’economia del paese che la ospita» (12/11/07).

Sulle foglie di coca e la politica antinarcotica – «Lontani da ogni sciovinismo, la foglia di coca non ha però incontrato alcuna difesa da parte dei nostri governi anche se costituisce elemento della nostra identità originaria (…). Questa mancanza di identificazione ha permesso la proscrizione della foglia all’Onu, frenando la ricerca sulle sue proprietà.  (…) Se si vuole agire senza ipocrisia, occorre impegnarsi nell’investigare e penalizzare i commercianti di prodotti chimici (con i quali si trasforma la foglia di coca in cacaina, ndr) e gli organizzatori  del business della droga, prima di attaccare i coltivatori di coca. La realtà dimostra che la eradicazione non funziona;  insistere su quella potrebbe sollevare ancora di più il sospetto di una pressione statunitense per giustificare certe loro presenze periferiche (le basi).  La proposta di coltivazioni alternative, accettata dai cocaleros, deve essere redditizia  e lo può essere se gli Stati Uniti reindirizzeranno i loro fondi per la commercializzazione di questi prodotti alternativi sul proprio mercato. Non esiste un problema della foglia di coca, esiste un problema di narcotraffico»  (19/03/07).

Paolo Moiola

Paolo Moiola