Tanti amici (ma a parole)

Reportage dal paese delle nevi

Invaso e colonizzato dalla Cina, da più di 50 anni il Tibet lotta per difendere la propria cultura e libertà, riscuotendo grande interesse e simpatia da parte dell’opinione pubblica mondiale, grazie soprattutto al carisma del suo leader, il Dalai Lama. La solidarietà, però, rimane al livello teorico: nessuno stato osa inimicarsi la potenza cinese. Ma anche tra i tibetani crescono le tensioni, mettendo in discussione il ruolo politico del loro leader.

La storia, insegnano i cinesi, è una spirale: pur essendo in continuo movimento, ciclicamente ritorna su se stessa, riproponendo eventi già accaduti nel passato. Le manifestazioni avvenute recentemente in Tibet sono la conferma di questa teoria.
Cina e Mongolia hanno sempre cercato di controllare gli altipiani tibetani, influenzando in modo determinante la cultura della regione. I mongoli, ad esempio, hanno condotto la setta dei Gelukpa a prevalere su quella degli Sakya, dando inizio alla discendenza dei Dalai, termine mongolo che significa «oceano», e di cui il lama Tenzin Gyatso è oggi il xiv rappresentante.
Ma nel dizionario tibetano esiste un altro concetto, indispensabile per capire i meccanismi che hanno segnato le fasi storiche della regione: cho-yon. Tradotto in modo approssimativo, cho-yon indica la relazione secolare che lega un maestro spirituale al suo protettore laico.
Presenza ingombrante e violenta
La storia del Tibet, sin dal xii secolo, quando i mongoli si affacciarono in queste lande, si è sempre basata su questa immagine della doppia relazione. L’abilità o meno dei vari governanti nell’amministrare questo rapporto, ha spostato l’equilibrio del potere verso Lhasa o verso Pechino.
Il fatto è che i vari regnanti tibetani non hanno mai mostrato grandi capacità nel manipolare l’arte del governo: le rivalità tra i vari monasteri, vere e proprie città stato appartenenti alle diverse sette buddiste e ognuno con propri eserciti di monaci guerrieri, hanno costretto i Dalai Lama o i loro reggenti a chiedere l’aiuto ora della Cina, ora della Mongolia, sino a rivolgersi addirittura alla Russia zarista, per mantenere unito il paese.
La presenza cinese in Tibet si è sempre mostrata ingombrante, e spesso violenta, in particolar modo durante gli ultimi anni dell’impero Manciù, quando il generale Zhao Erfeng era soprannominato il «macellaio dei lama». Da parte loro, i governanti tibetani non hanno mai fatto nulla per ricercare simpatie altrove. L’unico tentativo di allacciare relazioni diplomatiche con un paese occidentale, fu fatto con la Germania di Hitler, la cui ammirazione per le religioni orientali e per la teosofia di Madame Blavatsky portava i suoi interessi nelle regioni indoeuropee. Una pagina non proprio edificante che oggi i tibetani cercano di nascondere.
È in questo contesto che i cinesi di Mao Zedong sono arrivati in Tibet, all’inizio accolti con favore dai monasteri fedeli all’altra autorità spirituale del paese: il Panchen Lama, allora in disaccordo con il Dalai Lama. La politica maoista fu quella di mantenere lo status quo della regione, evitando cambiamenti repentini e iniziando un dialogo con il Dalai Lama sulla base del cho-yon.
Fu invece sopraffatto dagli eventi. Nel 1959 il segretario del Partito comunista dello Sichuan, Li Jingquan, contro il volere dello stesso presidente, diede inizio alla politica d’integrazione totale: le proprietà vennero requisite, i monasteri chiusi, la lingua tibetana vietata nelle scuole e negli uffici pubblici. In poche settimane la situazione precipitò e il Dalai Lama fuggì in India.
Solo dopo il 1980 i cinesi cominciarono a cambiare politica verso il Tibet, accogliendo una delegazione di tibetani in esilio guidata dal fratello del Dalai Lama, riaprendo i monasteri, inserendo la lingua tibetana nelle scuole e iniziando il dialogo con il governo in esilio in India. Ma, come accaduto per altre regioni, lo sviluppo economico voluto da Pechino è stato interpretato diversamente dai tibetani: l’arrivo di migliaia di Han, la costruzione della ferrovia del Qinghai che collega Lhasa a Pechino in 48 ore, lo sviluppo turistico della regione, sono ragioni sufficienti per accusare la Cina di voler annientare la cultura locale.

Paura per tutti

È all’interno di questo quadro storico che sono tornato in Tibet, dopo essere stato testimone delle manifestazioni della scorsa primavera, cercando di comprendere cosa stesse accadendo realmente al di là delle simpatie che tutti noi abbiamo verso un popolo pacifico, oppresso da un regime che sta ancora cercando di trovare un nuovo equilibrio dopo la morte del Grande Timoniere.
Appena messo piede a Lhasa si comprende immediatamente che molto è cambiato nella società: i vicoli della parte vecchia, solitamente brulicanti di gente, sono deserti e così il mercato, che in questo periodo dell’anno ospita migliaia di pellegrini e mercanti provenienti dagli altipiani ancora innevati.
La normalità è tornata nella capitale tibetana, continuano a recitare i proclami ufficiali. Ma è una normalità fittizia, dettata dalla dura lex chinensis, che esclude ogni forma di dissenso, specie se espresso in forma autonomista.
L’Armata Rossa ha spento le fiamme della rivolta, ma tutti sanno che le braci ardono ancora sotto il sottile manto di cenere. E tutti hanno paura. Hanno paura i tibetani, che cominciano a sentirsi abbandonati dal mondo; ma hanno paura anche i cinesi i quali, nell’anno che avrebbe dovuto sancire l’apoteosi dell’economia asiatica, vedono gli occhi del mondo puntati sulla parte sbagliata della nazione. Guardiamo tutti non verso Pechino, dove si svolgeranno in pompa magna i giochi olimpici, ma al Tibet e, in misura minore, allo Xinkjiang, regione dove la repressione si esprime in forme più violente e subdole rispetto a quella tibetana.
«Pechino è infuriata: dopo aver perso i giochi olimpici del 2000 ed aver atteso questi per oltre un decennio, ora i tibetani e gli uiguri stanno rovinando tutto» afferma Mark Allison, collaboratore di Amnesty Inteational a Hong Kong. Allison aggiunge anche che la Cina non ha ancora svelato il «mistero» che circonda la figura di Gedhun Chuekyi Nyima, il quale dal 1995, anno in cui il Dalai Lama lo ha riconosciuto come undicesima reincarnazione del Panchen Lama, è tenuto segregato in un luogo segreto dalle autorità di Pechino. «Aveva sei anni all’epoca ed è stato riconosciuto da Amnesty come il più giovane prigioniero politico del mondo». Dice Allison.

Dagli slogan all’oblio

Ma quanto si concentrerà l’attenzione dell’Occidente sul Tibet? «Remember Burma», ricordati la Birmania, ammonisce Tenzing Dorma, professore di storia alla Tibet University di Lhasa, riferendosi all’oblio in cui è piombato il paese del sudest asiatico dopo l’ondata di interesse durante la repressione dei monaci birmani.
«Gli scontri del 14 marzo sono stati i più violenti dal 1989 ad oggi» dice Pasang Norbu, un monaco originario di Golmud. «Personalmente non ho visto nessuna vittima, ma molte famiglie tibetane lamentano la mancanza di questo o quel famigliare». Se Parigi valeva bene una messa, quanto varrà Pechino? Sicuramente più dei 19 morti, ufficialmente dichiarati dalle autorità, o dei 99 proclamati dal governo in esilio.
A parole «siamo tutti tibetani», ma quando si tratta di mettere in pratica gli slogan espressi durante i cortei di piazza, ecco che si preferisce delegare chi sta più in alto. Si chiede il boicottaggio dei prodotti cinesi, ma quando si tratta di comprare abbigliamento, Hi-Fi, computer, accessori per la casa, entrambi gli occhi vengono chiusi di fronte ai prezzi concorrenziali del made in China. Ancora una volta il portafogli prevale sulla coscienza: meglio che il boicottaggio lo facciano gli altri, magari i governi e magari su prodotti che non vengono venduti nei supermercati.
E così, tra i tibetani, si sta sempre più radicando la sindrome del falso amico. Un attivista indipendentista che vive a Lhasa, il cui nom-de-guerre, Songsten, rievoca il primo re che nel vii secolo unificò il Tibet, ricorda che nessuno stato occidentale ha mai voluto riconoscere il Tibet come nazione indipendente. «Si è sempre preferito assecondare il volere della Cina. Al massimo premevano per garantirci uno status di autonomia. Ma nessuno ha mai appoggiato le richieste di indipendenza».
Del resto già nel 1715 il padre gesuita Ippolito Desideri, che studiò presso l’Università di Sera e grande amico del vii Dalai Lama, incluse il Tibet entro i confini cinesi in una mappa da lui disegnata. E fu lo stesso Tibet a rigettare le offerte di relazioni diplomatiche avanzate da alcuni stati europei durante la prima metà del Novecento.
Solo con la Germania nazista, come già accennato, si stabilirono stretti contatti, sino a consentire a una spedizione antropologica alla ricerca della «razza pura» di girare in lungo e in largo la regione. «La spedizione nazista di Est Schafer, voluta da Himmler, ebbe l’appoggio del Kashag. Fu l’unica spedizione ufficialmente a scopo scientifico, a poter soggioare in Tibet per più di un anno» spiega Christofer Hale, autore del libro La crociata di Himmler – La spedizione nazista in Tibet nel 1938.
E ancora, fu lo stesso Dalai Lama ad accettare, il 26 ottobre 1951, l’«Accordo in diciassette punti» che sanciva «il ritorno del popolo del Tibet alla grande famiglia della madrepatria, la Repubblica popolare Cinese».

Dal karma al materialismo

Tutti questi insegnamenti che la storia ci propone, devono essere ricordati per capire le innumerevoli sfaccettature che offre la questione tibetana. «Abbiamo sbagliato nel passato. Lo hanno fatto i nostri padri e le loro colpe oggi ricadono su di noi. È la legge del karma, la legge di causa-effetto che regola la vita di tutto l’universo» ammette Tsultrim, vice abate del monastero di Pel Kor a Gyantse.
Alla legge del karma, i cinesi contrappongono la legge del materialismo, fatta di industrializzazione accelerata che ha costretto il governo centrale a promuovere un largo afflusso di Han e di turisti sin dal 1984. Ed anche se questo processo non era premeditato per spostare a favore degli Han l’equilibrio demografico del Tibet, come comunemente è fatto credere, è stato proprio questo a concentrare l’attenzione dei tibetani sul problema etnico.
Non è un caso che le rivolte di marzo, siano state più violente nel cosiddetto Tibet etnico, cioè in quelle regioni, come il Gansu o il Sichuan, separate politicamente dal Tibet, ma abitate da etnie tibetane. Lo stesso Dalai Lama, in base a questa classificazione cinese, sarebbe nato in Cina, visto che l’Amdo oggi non fa parte della Regione autonoma tibetana. Qui, al risentimento verso i cinesi, si aggiunge un senso di isolamento dalla «madrepatria», che si esprime attraverso forme di protesta che sfociano in veri atti di sfida. È proprio in una cittadina del Gansu, a Hezuo, che i rivoltosi sono riusciti a compiere l’azione più spettacolare: ammainare la bandiera cinese e issare quella tibetana.
Una sorta di Iwojima modea, prontamente occultata dalle autorità cinesi, che si sono affrettate a ripristinare lo status quo precedente. «La Cina afferma che il Tibet ha avuto uno sviluppo economico enorme grazie alla modeizzazione; è vero, ma per questo sviluppo abbiamo dovuto sacrificare, oltre alla cultura, il nostro ecosistema» ricorda uno studente incontrato in un ristorantino nei pressi dell’università.
Durante gli anni Sessanta, per compiere il «grande balzo in avanti» e divenire la prima potenza mondiale produttrice d’acciaio, tutte le regioni cinesi furono sottoposte a sistematici saccheggi naturali. Ma queste devastazioni ecologiche, accompagnate da installazioni nucleari e militari, non furono subite solo dal Tibet, bensì in tutta la Cina, come ha esaurientemente spiegato Jasper Becker, nel suo libro La rivoluzione della fame. Cina 1958-1962: la carestia segreta.
Il già citato Xinkjiang, ad esempio, ha patito distruzioni ben peggiori che ancora oggi si ripercuotono sulla popolazione e sulla cultura locale. Purtroppo per gli uiguri, loro non hanno un Dalai Lama e una religione «esotica» ed «affascinante» come quella buddista in grado di affermarsi tra l’opinione pubblica occidentale.

Un esilio in tensione

Inoltre, è anche vero che nella regione di Dharamsala, i tibetani, grazie ai finanziamenti ricevuti dalle organizzazioni pro-Tibet dell’Occidente, hanno «colonizzato» tutte le attività commerciali, allontanando gli autoctoni e creando tensioni che, seppur non siano mai degenerate in scontri, cominciano a causare qualche perplessità nel governo indiano.
M.K. Bhadrakumar, ex ambasciatore indiano a Mosca, Islamabad e Kabul, che mi accompagna a Dharamsala, spiega che «Dharamsala è su suolo indiano, ma oramai è come se fosse una città straniera per noi. Non abbiamo alcun controllo sulla comunità tibetana in India. Da ospiti sono diventati padroni». Poi, davanti ad una tazza di tè salato, continua: «Sono sicuro che le manifestazioni di Lhasa sono state organizzate, se non dall’entourage del Dalai Lama, dalle organizzazioni estremiste tibetane, che compongono il mosaico politico della comunità in esilio».
Le relazioni tra New Delhi e Dharamsala, ottime fino a qualche anno fa, si stanno deteriorando. Ora che l’India ha iniziato a interloquire con la Cina, la questione tibetana si sta facendo sempre più bollente e il governo di Manmohan Singh spinge affinché anche il Dalai Lama accetti di intavolare un dialogo fruttifero con Pechino. «Il problema non è tanto il Dalai Lama» spiega a New Delhi Subramanian Swamy, esperto in Cina e consigliere economico del governo Singh, «ma i suoi consiglieri, poco inclini al compromesso con Pechino. La comunità tibetana in India è formata da innumerevoli gruppi in contrasto tra loro e ognuno di questi gruppi ha, all’interno del governo tibetano in esilio, un suo rappresentante.
Uomini come Tsewang Rigzin, presidente del Tibetan Youth Congress, o Tenzin Choeving, dello Students for a Free Tibet, sono in aperto contrasto con il Dalai Lama e chiedono che il Tibet diventi una nazione completamente indipendente. Il Dalai Lama deve mediare tra tutte queste posizioni».
Il ruolo del leader tibetano, quindi non è così indiscusso come potrebbe sembrare. Il dover mediare tra opinioni in contrasto tra loro, ora che anche l’India preme affinché apra un dialogo con la Cina, lo pone di fronte a un bivio cruciale.
Se fino ad oggi, l’ambiguità del suo status politico-religioso garantito dall’esilio, gli ha assicurato la leadership, ora che è costretto a scegliere nei fatti quale politica perseguire, è inevitabile che all’interno della comunità si creino delle fratture forse insanabili. Se sceglie la linea dura si potrebbe alienare le simpatie dei governi sino ad ora a lui solidali come India e Nepal; viceversa, rigettando definitivamente l’idea dell’indipendenza (già rifiutata nei suoi discorsi sin dalla fine degli anni Ottanta), i gruppi più oltranzisti rischierebbero di rifiutare la sua figura di leader e continuare una lotta separata.
Il Dalai Lama, oramai figura ingombrante anche per l’India che lo ospita, sente la pressione del tempo che fugge e deve cercare di trovare una soluzione soddisfacente più per lui che per la Cina. Nella logica del cho-yon ora è lui ad aver bisogno di Pechino. 

Di Pergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Tetto del mondo … occupato

Introduzione al Dossier

La rivolta anticinese del marzo 2008 e relativa repressione hanno riportato alla ribalta il dramma del Tibet, dal 1949 occupato dalla Cina e oggetto di una colonizzazione genocida.
In quasi 60 anni si stima che circa 1,2 milioni di tibetani siano morti in conseguenza dell’occupazione cinese; il 90% del patrimonio artistico e architettonico tibetano è stato distrutto; il trasferimento massiccio e ininterrotto di coloni cinesi (7 milioni) ha ridotto i tibetani a una minoranza nel proprio paese (6,5 milioni); la sistematica politica di discriminazione delle autorità cinesi ha emarginato la popolazione tibetana in tutti i settori, scolastico, religioso, lavorativo; lo sviluppo economico in atto in Tibet arreca benefici quasi esclusivamente ai coloni cinesi…
E la tragedia continua: migliaia di tibetani sono in carcere per reati di opinione; lingua, religione, storia, cultura sono negate; le donne sono sottoposte al controllo delle nascite mediante sterilizzazioni forzate e aborti; il fragile ecosistema del Paese delle Nevi è compromesso da sfruttamento delle risorse, deforestazione, stoccaggio di materiale radioattivo…

Negli ultimi 50 anni la questione tibetana ha attratto su di sé un reale interesse che, pur se a fasi altee, continua fino ai nostri giorni. Numerose risoluzioni dalle Nazioni Unite (1959, 1961 e 1965), del Congresso Usa, del Parlamento Europeo e di molti parlamenti nazionali hanno deplorato il governo cinese per le violazioni dei diritti umani e delle libertà democratiche, ma senza concreti risultati.
Le Olimpiadi di Pechino riportano il problema del Tibet e di altre minoranze etniche cinesi sotto i riflettori inteazionali. Alcuni capi di stato hanno deciso di boicottare l’apertura dei giochi olimpici… Basterà tale protesta per piegare il colosso cinese a intavolare un dialogo serio e costruttivo per risolvere il problema? I dubbi sono molti, ma non bisogna perdere la speranza.

di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Sotto la sabbia

Ai confini (2a)

Il lutto, la perdita di una parte della propria esistenza. Occorre rielaborare, ma anche riorganizzarsi. E per questo può essere necessario un appoggio sociale. Come i gruppi di mutuo aiuto. E per gli immigrati ci sono pure altre difficoltà. La necessità di adattarsi, senza però perdere la propria cultura.  

Tema doloroso, quello della morte. Imbarazzante, pungente, difficile da affrontare. La perdita di una persona cara è l’abbandono di un pezzo di vita, di  pochi o tanti fotogrammi che hanno composto il nastro di un’esistenza. Morte e lutto sono trasversali a tutte le etnie, a tutte le culture e gli strati sociali. E se la ferita è tanto profonda per il cittadino italiano, quali e quante risposte trova l’immigrato in un contesto di alterità? Lontano dalla propria rete familiare e dal medesimo tessuto sociale. Ne abbiamo indagato alcuni aspetti, nell’anno del dialogo interculturale.

La ricerca profonda

Lutto deriva dal latino lugere, ossia piangere. È un concetto che si lega indissolubilmente alla sofferenza e al momento delle lacrime. Certo è che, in primis, il lutto scardina e scompagina il nostro esistere. È  uno schiaffo in pieno giorno, una caduta dall’alto, un male dentro che non trova conforto. Soprattutto dalla perdita fisica della persona cara. Perché, in realtà,  qualsiasi separazione a cui l’essere umano è sottoposto nel corso della propria esistenza è un lutto. Un evento che implica uno stravolgimento e rende imperativo l’accettare che  una parte della vita si è conclusa ma che rimane intatta nella memoria e in fondo al cuore.
È il momento della ricerca del senso, di un’evoluzione più profonda, di un «ritrovarsi» in maniera autentica.
Ma cosa accade dentro la scatola umana quando si affronta tale esperienza? «Il lutto, sia esso relativo alla morte fisica di una persona, oppure a una separazione tra viventi o anche una migrazione da un contesto geografico e sociale verso un altro, necessita di tempo per essere elaborato» sono le parole di  Désirée Boschetti, 34 anni, psicologa psicoterapeuta. «L’elaborazione è un percorso emotivo attraverso il quale la persona non dimentica quanto è accaduto ma trova la forza per guardare avanti, in un certo qual modo  è la sofferenza a venire elaborata, cessando di essere invasiva e distruttiva e mantenendo inalterato il ricordo».
Il tempo diventa protagonista di un processo umano complesso e tortuoso: quello dell’elaborazione. L’orologio non si ferma, ore e minuti proseguono la loro corsa. Come avviene l’elaborazione di una sofferenza così inspiegabile? «Alcune fasi psicologiche sono ricorrenti davanti a un evento luttuoso. Si passa dallo shock iniziale, alla rabbia, alla depressione e alla tristezza, fino a giungere a una sana riorganizzazione della vita stessa. Ri-progettare l’esistenza alla luce del fatto che «l’altro» non c’è più, ri-organizzare spazi fisici e sociali. Ma come sempre questa è la prassi antologica, poi ogni lutto è a sé. Nel peggiore delle ipotesi può capitare che si faccia fatica ad uscire dalla fase depressiva, bloccando e rendendo così patologico il percorso di elaborazione. Questo accade spesso quando la relazione tra le persone era di tipo simbiotico e pertanto non si perde solo l’altra  persona ma una parte centrale della  propria identità».

Scollamento dalla verità

«Sotto la sabbia» è un film di François Ozon che, con delicatezza, restituisce allo spettatore il dramma di una moglie, che alla scomparsa in mare del marito mette in moto una scissione tra mondo reale e mondo immaginario, negando la morte anche davanti alla realtà finale.
È il dramma della separazione improvvisa, della sparizione che non offre neanche la possibilità di un ultimo commiato. «Quando la negazione è così rigida si ha uno scollamento netto dalla verità dei fatti che tende a diventare patologico. Quando parliamo di “elaborazione” tutto è soggettivo. Entrano in gioco le differenti personalità, il rapporto con il defunto, il tipo di decesso, se improvviso o “atteso”,  altri lutti recenti in famiglia e soprattutto se era una relazione pacifica o conflittuale. In questo caso, quando non è più possibile ricucire i conflitti e permangono “sospesi” verbali e affettivi, tutto si complica».
Per non passare dal dolore della perdita al dramma della non accettazione e all’incapacità di ricominciare a vivere, esiste un antidoto che si possa iniziare a prendere da «viventi»? «Sicuramente più sincera e autentica è la relazione  tra le persone,  meno il tema della morte diventa tabù e più diventa semplice salutarsi. Per quanto possibile è dunque fondamentale cercare di esteare i disagi e i conflitti, esprimerli e trovare insieme delle soluzioni. E soprattutto non nascondere “segreti significativi”, taciuti importanti della propria vita,  che possano venire alla luce dopo il decesso della persona e che possano danneggiare l’altro, mettendo alla prova l’autostima e obbligandolo a ridefinire un passato che ormai trova impregnato di finzione».

Gruppi di mutuo aiuto

In una società centrata sull’individuo e sull’individualismo non si sente la necessità di ritualizzare il lutto, di risocializzarlo? Quanto siamo cambiati e quanto si è modificata socialmente e storicamente l’esperienza del  lutto?
Marina Sozzi, docente di tanatologia (parte della psicologia che studia l’elaborazione del lutto) presso l’Università di Torino e Direttrice scientifica della Fondazione Fabretti, ci spiega: «In Occidente, fino agli inizi del Novecento, la morte di una persona si costituiva come evento sociale e pubblico. In diverse zone dell’Europa meridionale, in particolar modo in quelle rurali, esistono ancor oggi diversi rituali che coinvolgono gran parte della comunità. Queste modalità  permettono di “addomesticare” la morte.
È invece peculiare della nostra epoca modea evitare il disagio emotivo che causa il morire. Respingere e dissimulare la morte comporta però un alto prezzo da pagare. La sofferenza interiore per la perdita e la solitudine che l’accompagna incrementa le sindromi depressive e la difficoltà a ritornare a una vita normale».
Sembrerebbe quasi che parlare di morte sia diventato osceno e che la tristezza non possa essere manifesta. La privatizzazione del lutto, dunque, l’ha reso un evento troppo psicologizzato e poco sociale. Esistono rimedi o progetti per riconsiderarlo a livello comunitario e far sì che la gente si senta meno sola?
«La Fondazione Fabretti di Torino ha recentemente aperto un servizio di supporto al lutto totalmente gratuito che comprende uno sportello in città, gestito da uno psicologo esperto in materia, alcuni gruppi di mutuo aiuto, una campagna informativa presso i cittadini, la formazione dei medici di base e la collaborazione con la curia e con le molteplici associazioni di volontariato. Questo dovrebbe creare una rete di solidarietà estendibile a macchia d’olio, una specie di comunità protettiva per arginare stati di solitudine».
Nello specifico come si differenzierà lo sportello dai gruppi di mutuo aiuto e come sensibilizzerete gli operatori sanitari?
«Lo sportello si traduce in un centro di ascolto in cui è lo psicologo a valutare quali strade consigliare all’utente. I gruppi di mutuo aiuto, che nei paesi anglosassoni esistono già da diversi anni, si basano sulla formazione  di gruppi che “condividono” il medesimo disagio. Il mutuo aiuto inizia con l’auto aiuto, ossia nel momento in cui la persona riconosce l’esistenza di un problema e si attiva per risolverlo.
L’esperienza di condivisione giova a esprimere i propri sentimenti, a riflettere sulle proprie modalità di comportamento, ad aumentare le capacità individuali nel far fronte ai problemi, sia psicologici sia pratici. Ma anche  a incrementare la stima di sé e a facilitare la nascita di nuove relazioni sociali e di una migliore qualità della vita. A supportare il gruppo ci sarà un esperto, non per tecnicizzare ma per pilotare le dinamiche emotive.
La sensibilizzazione e la formazione presso i medici di base faciliterà invece la possibilità di dar valore a una relazione umana medico-paziente in modo tale che l’operatore sanitario individui campanelli d’allarme importanti nelle persone in lutto e sappia indirizzarli verso il nostro servizio.
Si cercherà inoltre di coinvolgere la curia affinché si creino nuove figure di assistenti spirituali, meno attenti all’orologio ma più aperti al dialogo e pronti a ridare speranza nella vita».

Immigrazione e lutto ovvero: adattarsi

Un’operazione capillare, dunque, per sanare ferite ma anche per ricordare al mondo che senza la condivisione è impossibile sconfiggere il malessere.
Ma cosa succede quando l’unica esperienza inevitabile della vita avviene durante la migrazione? Ne parliamo con Javier Gonzáles Diez, dottorando di ricerca in Scienze Antropologiche presso l’Università degli Studi di Torino,  studioso di religione e immigrazione, oltre che assegnatario di differenti borse di studio sul tema tanatologico, sia presso il Centro Piemontese di Studi Africani che presso il Centro interculturale della Città di Torino.
«Indubbiamente le domande di senso, in questo caso,  aumentano di intensità. Oltre a chiedersi il perché della morte, ci si chiede anche perché si muore altrove. In un altrove dove diventa ancor più complicato “normalizzare” la situazione funebre.
La lacerazione della morte necessita infatti di una sorta di spiegazione e questo può accadere solo con gli appositi rituali funebri. L’esperienza migratoria richiede un surplus di risposte sia esistenziali che antropologiche. La stessa migrazione è di per sé un trauma del quale a volte non si incontrano giustificazioni e trovare la morte in una parentesi simile lo è ancor di più».
A volte si banalizza pensando che le concezioni funebri degli immigrati vengano importate in misura identica in un contesto di alterità, senza considerare la difficoltà o l’impossibilità ad attuarle. E, ancor più sovente, non è una questione di cui interessarsi.  «La popolazione autoctona tende a dar per scontato alcune usanze funebri senza considerare che sono il frutto di un percorso storico e culturale basato sul cristianesimo. Il migrante deve invece trovare una soluzione in base alla propria religione, dovendosi dunque adattare al contesto in cui vive. Incontrando pure degli ostacoli che possono essere di tipo legislativo o pratico.
I musulmani, ad esempio, per quanto riguarda il primo caso hanno l’esigenza religiosa di essere seppelliti entro 24 ore dal decesso ma secondo la nostra legislazione occorre attendere 2 o 3 giorni. Questo è un chiaro intoppo legislativo.
Dal punto di vista pratico un rituale fondamentale per accompagnare l’anima durante il trapasso è il lavaggio  del corpo che prevede però uno spazio apposito (negli ospedali ad esempio) con una fonte di acqua pura, ossia utilizzata solo per quella evenienza. Questo è un limite che potrebbe essere superato da una maggiore sensibilizzazione e dalla buona volontà delle istituzioni, dando così il giusto rispetto che meritano i rituali delle culture “altre”. In tal senso sono in corso progetti pionieristici nel Nord Italia ma è prematuro parlarne».
Ma limitazioni di vario genere e prepotenti  gap culturali non provocano nell’ immigrato sensi di colpa a livello religioso e la necessità di doversi giustificare con sè stessi e con la famiglia rimasta nel paese d’origine? «Se consideriamo che i musulmani, per religione, dovrebbero essere inumati nella sola terra senza bara, è chiaro che siamo davanti a un adattamento forzato. A cui devono rispondere legittimando la scelta imposta, come quella della bara, e aggirando per quanto possibile la situazione. Magari scegliendo la bara più sottile e quindi più a contatto con la terra. È un po’ come se la nostra società guardasse dalla finestra la capacità di adattarsi da parte degli immigrati.
In questo senso c’è ancora molta strada da fare. Basterebbero minime modifiche nelle legislazioni, ma soprattutto maggiore informazione, attraverso convegni e dibattiti, per poter ridefinire il concetto di comunità multietnica».
Il lutto, nel suo stravolgente dirompere, può dar vita a delle nuove forme di aggregazione? «Sì, a volte sono proprio le difficoltà pratiche legate al rimpatrio della salma e alla burocrazia a esso relativa a mettere in comunicazione mondi che nei propri paesi d’origine erano agli antipodi. Si creano così  nuovi spazi sociali, nuove reti comunitarie. Dal dolore non fuoriesce sempre solo depressione e isolamento. Attoo al credo religioso, alla solidarietà e al bisogno comune si possono formare nuovi gruppi con personali identità».

Una permanenza transitoria

Il significato del rimpatrio ci offre l’idea di quanto l’immigrato consideri il suo vivere «altrove» ossia nel nostro «qui» una permanenza transitoria, ben distinta dal concetto di eternità che può essere vissuta solo nel proprio paese d’origine.
Un ritorno alla terra, in comunione con i propri avi. Il senso della famiglia, delle amicizie e delle tradizioni che la lontananza non può spezzare. «Il desiderio di portare a casa il defunto è prioritario per noi rumeni. C’è un senso di appartenenza alla propria comunità e alle proprie radici molto forte. Soprattutto in ambito rurale, tutta la collettività partecipa al rituale funerario che assume così connotati festivi. Il funerale non deve essere consumato in fretta.
Qui (in Italia, ndr), il tenore di vita è più alto ma si è perso il senso delle tradizioni più profonde. La “fretta” è diventata una costante della vita e ha cancellato l’importanza del sapersi assaporare il momento. Un passaggio doloroso, come quello di una  morte, ha bisogno di sospendere la corsa. Di riflettere, di organizzarsi, di compatire insieme».
Sono le parole di  Rodica Manciu, mediatrice culturale rumena presso l’Ospedale infantile Regina Margherita di Torino. «Da noi la veglia funebre dura tre giorni, durante i quali la vita è sospesa. Tutta la comunità accorre a casa dello scomparso, che non rimane mai  solo.
Al defunto viene lasciata una candela tra le mani, che possa illuminargli la strada verso l’aldilà. Si mangia qualcosa, si beve, si canta  e soprattutto si parla. È un dialogo diretto sulla vita, sulla morte e sulla naturalezza che tutto ciò deve avere. La paura viene esorcizzata attraverso un’autentica ritualità partecipativa».
Queste parole chiariscono l’esigenza di riportare alla terra natia il defunto. Ma i costi sono elevati e la burocrazia infinita.
Come e chi interviene a favore degli immigrati in tale situazione? Ne parliamo con Ranà Nahas, mediatrice culturale musulmana dell’associazione Alma Mater di Torino: «Le pratiche sono lunghe, il rapporto con le Istituzioni non sempre fluido. Attoo all’imam si forma la nostra comunità religiosa, che solitamente lavora insieme per arginare gli ostacoli. Quando l’esigenza è quella di rimpatriare la salma vengono richiesti  degli aiuti finanziari durante la preghiera quotidiana. Solitamente c’è molta solidarietà.
Se il defunto viene sepolto in Italia (recentemente è stato creato uno spazio apposito per i musulmani nel  Cimitero Parco, di Torino Sud), invece, si segue l’iter di presentare la documentazione al Comune che, in caso di indigenza, procura la bara e gli oamenti funerari. 
Il cammino è ancora in salita. Sarebbe auspicabile che l’informazione fosse estesa anche alla comunità italiana, affinché ci fosse un sentire comune che creasse una rete sociale sensibile più estesa e compatta in questi momenti».

Riconoscere le culture ma senza stereotipi

Come trasformare il nostro pensiero affinché si possa considerare «multietnica» la società in cui viviamo? Ci dice ancora Javier Gonzales: «La concezione in voga è quella del “pacchetto culturale”,  ma nessuna cultura va impacchettata. All’interno di un’etnia ci sono gli individui e sono loro, differenti gli uni dagli altri per mentalità e vissuto personale, a fare delle scelte. Si rischia sempre di toccare le estremità di un discorso: da un lato appiattire tutto, negando che ci siano differenze. Dall’altro estremizzare creando solo stereotipi culturali. L’ideale sarebbe riconoscere le diversità, senza applicare delle etichette, altrimenti si ricade nella società segregazionista che tanto assomiglia al modello di apartheid.
Le soluzioni non arrivano mai dall’alto, attraverso scelte autoritarie o politiche, le decisioni vanno condivise attraverso il dialogo, rendendo le persone parti attive nella negoziazione delle scelte. Questo è il modello della vera società multiculturale che profuma di elasticità mentale, informazione e soprattutto della capacità di ascoltare». 

Di Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




Avanti, c’è posto … (ma non per tutti)

Un paese in cammino verso la modeità

Toando in India a distanza di 10 anni non si può non notare i profondi cambiamenti avvenuti, soprattutto nelle grandi città. Industrializzazione e turismo creano sviluppo e ricchezza, ma non per tutti, specialmente nelle campagne, dove sembra che il tempo si sia fermato.

S orridente e impeccabile nella sua camicia bianca, il giovane Raj Koli ci accoglie all’arrivo in aeroporto e ci accompagna in auto attraverso una Mumbai che trovo molto cambiata dalla mia ultima visita: molti edifici modei, case restaurate, arterie sopraelevate e un notevole traffico di auto private.
È notte, ma per qualcuno il lavoro continua. Ragazze in motorino, avvolte in scialli, stanno ritornando a casa dal lavoro nei call centers. «Nessun problema, questa è una città tranquilla, sicura per le donne» assicura Raj. Allineati sui marciapiedi vedo figure dormienti avvolte in teli, prova che il benessere raggiunto dall’India non ha toccato tutti.
Costeggiando Mahim Bay noto che sono scomparse le capanne dei koli, gli antichi abitanti di Bombay. Chiedo a Raj se vi sia relazione con il suo cognome. «Certamente, mio padre e tutti i miei antenati erano pescatori e vivevano sul mare, sull’isola di Colaba – spiega Raj -. Da bambino ho imparato a pescare; poi sono andato a scuola e ho potuto frequentare il college». Qualche anno fa il governo ha ripulito le spiagge, fatto togliere le capanne e trasferito tutte le famiglie koli in abitazioni modee.
«Ho quasi 25 anni e i miei mi a-vrebbero trovato moglie, come da tradizione; ma voglio aspettare almeno i trenta e farmi prima una posizione» continua iI ragazzo, che mostra di avere idee chiare.
Ricordo la visita che feci 10 anni fa a Sassoon Docks, il porto peschereccio sull’estrema punta dell’isola di Colaba. All’alba le pescivendole, sedute su grandi cesti di giunco, aspettavano l’arrivo dei battelli, mentre le donne koli camminavano fiere sui moli, nei costumi tribali ricchi di colore e specchietti. Avevano il diritto di vivere sul mare che circonda Mumbai, ora abitano come Raj case dotate di acqua ed elettricità, ma raggiungibili in due ore di treno.
Il giorno dopo mi rendo conto che l’atmosfera è cambiata nella vecchia Bombay: una fiera d’arte contemporanea è aperta accanto al museo archeologico. Qui si possono vedere ragazze con il cellulare, che vestono in jeans e frequentano locali alla moda, tra i quali un paio di gelaterie italiane.
Amy, Rashna e Aban sono tre dame che incontro sulla soglia di casa, un condominio sul lungomare che conduce alla Gate of India. Le saluto, mi fermo a chiacchierare, poi chiedo: «Siete parsi?». Stupite, annuiscono e scoppiano a ridere quando rispondo alla loro curiosità, spiegando che la pelle chiara e il profilo del naso non potevano che essere parsi.
«Siamo 65 mila a Bombay, ma in questi giorni siamo molti di più: è stagione di matrimoni e riceviamo le visite della diaspora. Dall’America, dall’Australia, da ogni dove arrivano e si fermano presso amici e parenti». Nel quartiere vi sono alcuni dei 9 grandi complessi di appartamenti parsi esistenti a Mumbai, chiusi e controllati da una guardia. Vedove, anziani e famiglie vi abitano e si sentono protetti.
Questa metropoli cosmopolita mi affascina anche per la sua ricchezza culturale e la possibilità di venire a contatto con gente di diversa estrazione e cultura.

HYDERABAD
Partiamo dal moderno terminal nazionale con un aereo della Jettlite, una delle nuove compagnie indiane, diretti a sud, nel cuore del subcontinente. Sorvoliamo un territorio aspro e scuro, segnato da fratture drammatiche, dighe e laghi artificiali, oggi oggetto di polemiche e ripensamenti, a causa delle conseguenze negative sull’ambiente e sulle popolazioni.
Hyderabad è estesissima; su una superficie di 170 kmq gli abitanti sono saliti in pochi anni a 5 milioni. Nel centro congestionato dal traffico è difficile camminare: non vi sono marciapiedi e il nuovo tecnologico convive con la vecchia India di accattoni, mucche, carretti e moto.
La città si è ampliata a ovest, nei nuovi quartieri di Cyber City, dove sono sorti alti edifici avveniristici, tuttora circondati da cantieri e lembi di campagna in cui pascolano le pecore. Sui quotidiani si vedono pubblicità che ricordano l’America: qui come a Mumbai si offrono case di lusso con aria condizionata e campi da golf, nonostante l’allarme sul futuro incerto per quanto riguarda l’energia e l’acqua.

GULBARGA

L’autista che ci guida in questo viaggio verso lo stato del Kaataka si chiama Shankar, è indù e sovente si ferma per donare offerte ai templi. Robusto, dalla pelle scura e dall’in-glese incerto, mi parla con orgoglio della sua famiglia. La moglie è un’in-segnante che ha lasciato il lavoro per curare i due figli. «Voglio che i ragazzi abbiano una buona educazione e li ho iscritti in una scuola privata». Poi li chiama al cellulare e me li passa, per farmi sentire l’ottima pronuncia della lingua inglese.
A Gulbarga, una delle città del nostro itinerario, ricche di preziose architetture islamiche, non vi sono solo moschee, santuari e fortezze, ma anche ottime facoltà universitarie.
Ceniamo nella family room dell’albergo, riservata alle donne e alle famiglie. Un gruppo di studentesse di farmacia mi circonda con curiosità. Anitra e Prathisha vengono dal Kera-la e vivono in ostello con le compagne Sindhu e Prachi provenienti da Hyderabad. Tutte hanno intenzione di conseguire una specializzazione all’estero, magari in Australia o in Inghilterra. Sono ragazze forti e decise, indù e musulmane, ma non si nota differenza nel comportamento.

BIJAPUR
Bijapur è una città dalla storia interessante. Capitale di un grande regno indù, venne conquistata dai sultani di Delhi, che la arricchirono di monumenti straordinari. Tra palazzi modei, moschee ed edifici antichi in pietra scura, incontro anche una chiesa cristiana dedicata a tutti i santi, come testimonia la scritta: «All Saints Catholic Church».
Non lontano, in un viale alberato, sorge la piccola chiesa di sant’Anna, dove incontro alcuni gesuiti e giovani studenti universitari che si preparano al sacerdozio. Vengono quasi tutti dal Kerala, hanno un viso aperto e sorridente; oltre allo studio, sono impegnati su vari fronti: Arun lavora negli slums della città. Sono 90 quelli non riconosciuti dal governo, per cui sono privi di elettricità, ricevono rifoimenti d’acqua ogni 8 giorni.
A Bijapur e dintorni, mi spiega padre Teyol, vi sono cinque gesuiti impegnati in varie opere a beneficio dei più poveri: gestiscono una scuola che ospita 480 ragazzi degli slums, dal 1°all’8° grado; vicino all’o-spedale islamico hanno aperto il centro di cura per l’Hiv, che colpisce duramente la popolazione, anche a causa di carenze alimentari, mancanza di igiene e prevenzione. Diverse congregazioni di suore sono presenti nella provincia e, in particolare, a MudoI, città distante 80 km, dove si occupano di circa 4 mila disabili.
La sera sono invitata a cena nella casa dei gesuiti, che ospita anche 45 bimbi orfani. Dopo la cena a base di riso e curry e servita dagli stessi bambini a tuo, mi chiedono di intonare un canto del mio paese.

IL DECCAN
Per un breve tratto percorriamo la strada che collega Mumbai a Bangalore, dove il traffico è pesante, di soli camion. Proseguiamo su strade secondarie attraverso una campagna ben coltivata, dove la vita ha ritmi ancestrali. I contadini hanno steso il raccolto di sorgo e ceci sull’asfalto, perché vengano sgranati dalle ruote dei veicoli, per poi ripulirli dalla pula con i setacci e folate di vento. I carri sono trainati da buoi dalle lunga coa, dipinte in colore azzurro o rosso; lungo i fiumi e ai lavatorni le lavandaie usano le pietre come un tempo.
I siti archeologici che incontriamo in questo vasto altopiano sono numerosi e importanti per la storia del-l’arte indiana. Il triangolo d’oro, formato da Aiole, Badami e Pattadakal, conserva i preziosi templi di tre importanti fasi dell’architettura indù, dal v al ix secolo d.C. Numerose sono le classi scolastiche in visita, istituti d’arte e licei, provenienti da città molto lontane. Tutti amano farsi fotografare insieme a noi o fotografarci, chi possiede una fotocamera.
Hampi è un luogo magico. I resti di un antico regno indù sono sparsi in una vasta zona, attraversata da un fiume e punteggiata da grandi massi di granito. Monumenti, palazzi, templi, lunghi colonnati dei mercati sono sopravvissuti al tempo e alla distruzione portata dai sultani islamici. Restano anche le antiche canalizzazioni utilizzate per l’agricoltura, ma ridotte a oggetto archeologico, da quando è stata costruita una nuova diga, il cui vasto invaso ha provocato un’eorme quantità di zanzare che oggi infesta tutto il territorio.
A 25 km dal sito archeologico vi è un’acciaieria che assorbe grande quantità di energia e ha richiamato migliaia di persone, un tempo semplici contadini, per lavorare in questa industria. Fa parte della Jsw (Jindal South West), una compagnia che appartiene a uno dei magnati indiani, tra i primi nella lista dei ricchi della terra, come mi ha raccontato il vice direttore dell’acciaieria, signor Ugale, incontrato insieme alla sua famiglia in un ristorante dove ci eravamo fermati per il pranzo.

NAGA
«Mi chiamo Naga, come il serpente sacro, e dovrei avere 33 o 34 anni. Allora le nascite non venivano registrate – racconta la nostra guida mentre percorriamo l’area archeologica di Hampi -. Ho sofferto la fame da bambino; i miei erano molto poveri, della casta dei shudra, agricoltori. La mamma raccoglieva la legna in fascine, le caricava sul capo e andava a venderle, ma non sempre riusciva a comprare cibo per sfamarci».
Donne con fascine sulla testa se ne vedono ancora lungo le strade del Kaataka. Scalze, con anelli alle caviglie, vesti leggere dai colori vivi, il viso avvizzito dalla fatica e dal sole, a volte ricoperto dai monili tribali.
Da quando il sito archeologico di Hampi è stato dichiarato patrimonio dell’umanità, è aumentato il turismo culturale e Naga guadagna bene. «Ho studiato – continua Naga -. Sono entrato all’università con le quote riservate alle caste più basse. Dopo un anno di legge, ho conseguito il diploma di guida turistica e mi sono messo a lavorare. I miei mi hanno trovato una brava moglie che mi ha dato un bimbo, che ora ha 4 anni. L’abbiamo chiamato Ganesh, come l’elefantino figlio di Shiva, un nome che porta fortuna».
Naga vuole dare una buona educazione al figlio, che frequenta una scuola matea privata. Ora si sente forte e orgoglioso di mantenere tutta la famiglia, i nonni e perfino i due fratelli fannulloni, che non hanno voluto studiare.
Gli incontri con questi piccoli indiani, dalla pelle scura e gli occhi vivaci, ammirevoli per l’impegno e la determinazione, mi aiutano a capire il loro paese, che si sta evolvendo pur nelle contraddizioni di situazioni molto diverse.
Naga ha superato una doppia tragedia l’anno scorso. Dopo aver contribuito coi suoi risparmi alla dote di una nipote, figlia di quel perdigiorno del fratello maggiore, suo padre si è ammalato ed è rimasto paralizzato. La giovane moglie, costretta ai lavori pesanti di casa e di assistenza al nonno, ha perso la secondogenita, nata prematura.

GOA
II caldo, i colori, la polvere, il traffico, la povertà: l’India non lascia mai indifferente, quando si percorrono le sue strade in un viaggio che coinvolge profondamente anche l’anima.
Sono stanca di viaggiare in pullman. Lascio l’altipiano del Deccan con un comodo treno che da Hospet mi porta a Goa, attraverso la foresta tropicale, paragonata al bacino delle Amazzoni per ricchezza di biodiversità. La vista di tanto verde e cascate ricche d’acqua che scendono verso il Mar Arabico, è inusuale in India, paese profondamente segnato dal lavoro dell’uomo.
Goa è il più piccolo stato indiano (3 mila kmq), ma con il migliore tenore di vita per tutti i suoi abitanti, grazie alle miniere di ferro, le industrie di tecnologia avanzata, le buone scuole e, soprattutto, iI turismo. Sono diversi milioni i turisti occidentali che arrivano in inverno per godersi il sole e le splendide spiagge del piccolo stato indiano. È impressionante lo sviluppo dell’attività, dovuto alle esigenze di nuovi alberghi e alle richieste di seconde case da parte della nuova classe borghese indiana. Alcune zone sono già state rovinate dalla speculazione. Ma basta allontanarsi dalla costa per ritrovare il fascino delle antiche chiese, costruite nei secoli dai portoghesi.
Goa è una regione ricca di storia, che affonda le radici nel 3° secolo a.C., quando faceva parte dell’impero dei Maurya, per poi passare sotto il dominio dei regni indù dell’altipiano del Deccan. Nel 1312 fu occupata dal sultanato di Delhi; ma fu riconquistata nel 1370 dal re Harihara e per un secolo fece parte del grande impero indù di Vijayanagar, finché ricadde nuovamente sotto il dominio islamico, prima del sultano di Gulbarga, poi di quello di Bijapur, che ne fece la capitale del suo dominio. In fine Goa fu conquistata da Alfonso di Albuquerque (1510), che gettò le basi di quella che doveva diventare la splendida capitale della più importante colonia portoghese del subcontinente, centro di controllo per il traffico delle spezie che giungevano dall’Oriente e della diffusione della religione cristiana in tutto il continente asiatico.
La presenza portoghese durò per quattro secoli e mezzo. Quando infatti l’India si rese indipendente dal dominio inglese (1947), i portoghesi non vollero cedere la loro colonia e resistettero fino al 1961, quando furono cacciati dall’esercito indiano e Goa diventò (1987) il 25° stato della federazione indiana, il più piccolo e il più ricco.
Oggi, dell’inquieta storia dei secoli in cui indù e islamici alternarono su Goa il loro potere non rimane alcuna traccia; mentre abbondano gli edifici storici, cupole e campanili, che svettano tra gli alberi secolari che avvolgono la Vehla Goa.
Fa un certo effetto visitare la cattedrale, la chiesa di San Francesco, la basilica del Bom Jesus, dove i gesuiti custodiscono le spoglie di san Francesco Saverio, il grande missionario che portò il vangelo in Estremo Oriente. Rimango ancora più stupita nel vedere i numerosi drappelli di fedeli in preghiera, che a tutte le ore riempiono le cappelle ricche di decorazioni.

Il mio viaggio si conclude sul colle in cui sorge la piccola chiesa di Nostra Signora della Carità. Il sole sta tramontando nel Mar Arabico e lo sguardo spazia sulla densa foresta tropicale che nasconde case e mercati, segnata da fiumi e canali, percorsi da lunghe navi arrugginite, cariche di minerali. 

Di Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




Taita obispo

Vent’anni fa moriva mons. Leonidas Proaño, profeta dei popoli indigeni

La vita di Monsignor Proaño è la cronaca di un sogno, che diventa promessa e dovere: «Agli indigeni vorrei dare terra, educazione, autostima, cultura e religione». Un missionario che l’ha conosciuto negli ultimi anni della sua vita pennella alcuni tratti della sua figura nel contesto sociale e culturale dell’Ecuador che l’ha avuto vescovo e in particolare di quello indigeno
che l’ha eletto padre.

Per ricordare in modo appropriato e degno mons. Proaño, si dovrebbero raccogliere le voci del suo paese e della sua gente. Ancora oggi il segno da lui lasciato è oltremodo evidente, nonostante siano passati due decenni dal giorno della sua scomparsa e altri personaggi ne abbiano invaso e occupato il posto che gli apparteneva. La sua memoria rimane intatta; non c’è traccia di mito nei ricordi, ma nostalgia per questa persona importante e autorevole, che sapeva voler bene ai poveri ed era da essi amata.
Posso dire di averlo conosciuto da vicino per essere stato assieme a lui nei mesi introduttivi della mia presenza missionaria a Riobamba, quando mons. Proaño si era ritirato a vita privata e viveva a Santa Cruz, il centro dei raduni e degli incontri della diocesi. Sono stati due mesi preziosi, in cui ho potuto approfittare della sua esperienza.
Oggi, ho al mio attivo vent’anni di Ecuador, pienamente a contatto con il mondo degli indigeni; quegli stessi indigeni che continuano a riferirsi a mons. Proaño come loro vescovo, anche se in realtà a Riobamba si è ormai insediato da tempo un successore titolare, con altre direttive e differenti opzioni pastorali.
Per ricordare mons. Proaño bisognerebbe infine lasciare che l’Ecuador sveli la sua storia, dagli infiniti scenari e contraddizioni, rincorrendone gli eventi fino al punto in cui la terra tocca il cielo: sulle alte montagne della cordigliera dove vivono gli amici di «Taita Obispo» (papà vescovo), come nella lingua quichua gli si rivolgevano confidenzialmente i «suoi» indigeni.
La cultura coloniale
L’Ecuador è un paese multiculturale: in modo più o meno conflittuale vi coesistono la cultura meticcia e le culture delle nazioni indigene. La wipala, bandiera dei sette colori, simbolo dell’impero incaico dei «quattro orizzonti» (Tawantinsuyo) simbolizzava l’insieme di popoli integrati nello stato Inca, «liquidato» dalla conquista spagnola.
Il dominio coloniale provocò il cambiamento delle strutture sociali. La ridistribuzione della popolazione e delle ricchezze a favore dell’apparato coloniale causò la fine delle varie forme di arte urbana, espresse fino a quel momendo in oggetti di lusso per la corte e i templi. Furono distrutte le reti viarie, le irrigazioni e venne sconvolto il sistema tradizionale dei seminati. Immense estensioni di terra passarono nelle mani degli spagnoli e molte specie di piante e animali che per gli indigeni avevano un carattere sacro, furono fatte scomparire. Anche lo sviluppo delle tecnologie adeguate al medio ambiente ebbero termine. Gli indigeni si videro obbligati a consumare quello che non producevano e a produrre quello che non consumavano.
Tuttavia, nonostante la sottomissione e lo sfruttamento a cui erano soggetti, gli indigeni continuarono a essere legati alla terra e conservarono la coesione comunitaria. Terra e comunità continuano ancora oggi a essere i due baluardi con i quali gli indigeni difendono i propri valori culturali e comportamenti sociali.
Nell’epoca coloniale, che si prolungò per circa tre secoli, la classe dominante si espresse ideologicamente attraverso la religione. La chiesa gestì questo campo come patrimonio esclusivo e le gerarchie superiori erano integrate da elementi che provenivano dai settori dominanti.
Nella vita quotidiana di tutta la società si impose la rigidità dogmatica e a ogni cosa venne praticamente attribuito un significato religioso. Il modo di pensare e sentire, le tradizioni e i costumi, i divertimenti e le feste erano regolate dalla autorità ecclesiastica.
Oggi gli indigeni professano in maggioranza la fede cristiana; molti, però, conservano tracce e lineamenti culturali propri. Le loro credenze rivelano idee panteistiche e la morale sfugge i rigidi precetti cristiani, ma continua a conformarsi agli antichi precetti: non rubare, non mentire, non oziare.
Solamente con il diffondersi delle idee del liberalismo in Ecuador cominciò a formarsi una nuova cultura. I vincoli commerciali del paese con altre nazioni e lo sviluppo della borghesia mercantile promossero condizioni per il passaggio dalla cultura coloniale a una nuova, più modea e tollerante.
I cambiamenti socio-economico e le idee liberali, però, non apportarono benefici alle zone rurali. Gli indigeni continuarono a vivere e lavorare relegati nelle fattorie dei proprietari terrieri, da dove uscivano solo occasionalmente; soprattutto rimaneva negata loro ogni possibilità di esprimere le richieste e far valere il propri diritti. Emarginati dai vantaggi della vita urbana, esclusi dalla vita politica, disseminati lungo la cordigliera andina, si ribellavano all’oppressione solo mediante il reclamo delle terre.
In un paese dalle marcate contrapposizioni sociali come l’Ecuador, la cultura non è omogenea, ma essa include elementi comuni derivati dalla cultura popolare spagnola, ben radicati anche nelle piccole città della provincia. E quanto la cultura popolare spagnola venne ha contatto con le culture indigene, soprattutto nella cordigliera, è avvenuta una speci di simbiosi, un nuovo tipo di cultura articolata con elementi di origine distinta. Un esempio sono le feste popolari nelle zone rurali. 
Da quando l’Ecuador si affermò come repubblica indipendente, nel 1830, lo stato si è sempre mostrato incapace di garantire l’uguaglianza etnica dei suoi abitanti, ma attento solamente a rispondere agli interessi di una incipiente nazione ispano-ecuadoriana; per cui lo stato non è riuscito, e nemmeno ha cercato, di captare e raccogliere le caratteristiche e necessità dei popoli indigeni. In questo modo si sanzionò legalmente l’opposizione che già esisteva tra la cultura degli oppressori e le culture conquistate e oppresse.
La cultura Proaño
A partire dalla metà del secolo scorso, in Ecuador ha cominciato a farsi strada ed affermarsi una nuova cultura, tenacemente promossa da mons. Proaño, vescovo di Riobamba, diventato subito una figura di contrasto e di rottura con la cultura dominante, punto di riferimento a cui gli opposti schieramenti si rivolgevano con venerazione o di avversione. Ciò che mons. Proaño diceva, insegnava e promuoveva per gli indigeni diventava parola sacra, da ricordare e attuare.
Quella del vescovo di Riobamba è diventata una forma culturale profondamente radicata e, oggi, nessuno può dialogare con il mondo indigeno senza tenee conto, senza avere una conoscenza previa del fattore umano, religioso e culturale identificato con la figura di mons. Proaño.
Anche per la chiesa stessa, per il suo approccio pastorale alla variegata realtà culturale del paese, in modo particolare al mondo indigeno, nulla fu più come prima. Il «metodo Proaño» (che molto si arricchì attingendo alla fonte delle grandi Conferenze episcopali di Medellín e Puebla) insegnò alla chiesa a diventare comunità di fede incarnata in un contesto particolare come quello rappresentato dal mondo indigeno.
«Ascoltare la parola di Dio e metterla in pratica». Questo imperativo che Proaño fece proprio per sé, ispirò anche un metodo pastorale molto vincolante, che obbligava coloro che lavoravano con lui ad andare a qualsiasi riunione «disarmati», cioè, disposti a vedere la realtà, possibilmente con gli occhi della gente che la vive e soffre, collaborando ad ampliare questa visione con una informazione teorica che aiuti a capire le cause e le conseguenze di tale realtà.
Poi, in un momento di riflessione più profonda, la realtà veniva passata al vaglio delle aspettative di Dio; il risultato pratico doveva dare vita a un’azione capace di scatenare un nuovo vedere, un nuovo giudicare e un nuovo attuare.
Vent’anni dopo
Oggi, insieme alla coscienza della dominazione subita, gli indigeni hanno maggior consapevolezza del valore della propria cultura. Ciò include anche il rapporto con la propria lingua, il quichua, in confronto con lo spagnolo, lingua ufficiale (e dominante) dello stato ecuadoriano.
Come idioma ufficiale lo spagnolo fu imposto fin dall’epoca coloniale. È la lingua che si usa nelle leggi, nelle istituzioni statali, nell’insegnamento, nei mezzi di comunicazione collettiva, in tutti gli ambiti e istanze della vita pubblica. Si usa anche nella letteratura e nelle pubblicazioni scientifiche e tecniche.
Le lingue dei popoli indigeni sono state invece relegate agli ambienti familiari e sono rimaste circoscritte a forme di comunicazione limitata. Uno sforzo significativo per avviare un sistema educativo bilingue è stato fatto. Purtroppo l’insegnamento della lingua propria è sempre rimasto facoltativo, l’organizzazione dei corsi è sempre stata fatta in modo approssimativo; altrettanto deficitaria è stata la disponibilità di insegnanti validi e materiale didattico adeguato.
Nelle culture e lingue si radicano l’essenza e il senso di identità storica degli indios. Ogni persona che prende coscienza politica della propria oppressione, sa che deve appoggiarsi sulla lingua e sulla cultura per poter affermare la propria personalità e dignità. Sotto questo punto di vista, la spinta data dall’azione di mons. Proaño è stata fondamentale.
Oggi, per la prima volta, si vedono indios in posti pubblici; fatto, questo, che distrugge la figura stereotipata dell’indigeno. Si nota un rinnovamento culturale che porta alla maturazione di nuovi paradigmi di rapporti sociali; la rinnovata presa di coscienza dà i suoi frutti anche a livello politico. La capacità degli indigeni di far fronte comune contro le ingiustizie del sistema si ripercuote sulla situazione culturale del paese intero. Le rivolte e i sollevamenti indigeni sono attività di forte intensità sociale, che hanno generato molti studi e tesi accademiche.
La convivenza tra le culture non è cosa facile da acquisire. Multiculturalità e interculturalità suppongono una posizione ideologica infestata da interessi politici ed economici; imposta questioni di identità, alterità, differenziazione, originalità, razzismo ecc. Tuttavia bisogna sempre tener presente che la pluralità di culture interagenti non comporta la rinuncia alle differenze, ma piuttosto la loro accettazione in una unità equilibrata e totalizzante. Non si tratta di rinunciare alla cultura propria, ma di rivendicare e accettare la permeabilità delle culture secondo un processo di coesistenza che faccia del bene a tutti.
Questo criterio, alla base della pedagogia elaborata da mons. Proaño, è oggi obbligatorio per chiunque voglia avvicinarsi alla pastorale indigena. Molte idee del vescovo sono state accettate e il metodo «vedere-giudicare-agire» è premessa obbligatoria per ogni programma pastorale. Anche la pastorale d’insieme è oramai ovvia e presente ovunque.
Certe persone hanno sviluppato in maniera impressionante il dono di comunicare con la gente: vengono subito capite e altrettanto rapidamente suscitano entusiasmo. Una di esse è stato mons. Proaño. Ancora oggi, basta nominarlo che all’indigeno si accende il cuore e diventa subito pronto a riattivare i ricordi.
Per quanto mi riguarda, invece, continuo a pensare che il vangelo non sia un’opera «chiusa», ma continui ad affermarsi nella storia come composizione permanente, grazie a testimonianze encomiabili e straordinarie; ma esistono anche versioni nuove basate su come il vangelo è stato creduto, amato e praticato. Sarebbe bello e opportuno si pubblicasse finalmente «Il vangelo di nostro Signor Gesù Cristo secondo Proaño, vescovo degli indios». 

Di Giuseppe Ramponi


UNA VITA SPESA PER L’UOMO E LA COMUNITà

Leonidas Eduardo Proaño Villalba, nasce il 29 gennaio 1910 a San Antonio di Ibarra, nella provincia di Imbabura, nell’Ecuador settentrionale. È il figlio unico di Agustín e Zoila, una coppia di poveri, ma onesti lavoratori. La coscienza delle sue umili origini ne ispirerà l’approccio pastorale e il metodo pedagogico. Mons. Proaño, infatti, era solito ricordare continuamente le sue radici povere, accorgimento che gli permetteva di essere accettato dalle persone a cui si rivolgeva come uno di loro, povero tra i poveri.
Nel 1923 entra nel seminario minore della città natale. Vi rimane fino al 1930, quando inizia gli studi di filosofia e teologia presso il seminario maggiore «San José» della capitale Quito. Gli anni della formazione danno a Proaño il «gusto» per lo studio e l’apprendimento finalizzati all’impegno pastorale. Al tempo stesso il futuro vescovo matura la scelta evangelica, decisa e radicale, per i poveri e inizia a coltivare un profondo senso di disagio per la chiesa ecuadoriana del tempo, che giudica essere chiusa, conservatrice, ipocrita e troppo attaccata a potere e privilegi.
Nel 1936 viene ordinato prete e con il ministero sacerdotale inizia anche un più serio impegno a favore dei più poveri, contadini e indigeni soprattutto, schiacciati da un sistema feudale oppressivo che li riduce a veri e propri servi della gleba. È perciò con una certa sorpresa che il 18 marzo 1954 Proaño viene nominato vescovo della diocesi di Riobamba, nella provincia del Chimborazo.

Sono questi anni di fermento per la chiesa universale; gli anni della celebrazione del Concilio Vaticano II, che rafforzano la visione ecclesiale del giovane vescovo: l’immagine di una chiesa serva e non padrona, popolo in cammino e non staticamente arroccata sulle sue posizioni e privilegi, povera tra i poveri e non sodale dei poteri forti del paese.
Sono soprattutto gli indigeni, in assoluto la parte più disprezzata della popolazione, a godere dell’attenzione pastorale di mons. Proaño. Alcune iniziative – come la concessione di terre di proprietà della diocesi a una cornoperativa indigena e l’inizio di una pastorale di insieme che rafforzi il senso di comunità in una società altrimenti divisa in caste e animata da fortissimi pregiudizi razziali – lo rendono famoso e al tempo stesso gli accrescono la fama di prete scomodo che, insieme all’etichetta di comunista, si porterà dietro per tutto il resto della sua vita. Anche la creazione di Radio Erpe. (Escuelas radiofónicas populares de Ecuador) gli attira le ire delle classi «nobili» e potenti del paese, che scorgono intenti rivoluzionari nella volontà di Proaño e dei suoi collaboratori di coscientizzare gli indigeni attraverso programmi di alfabetizzazione bilingue (quichua e spagnolo), vita contadina e approfondimento della parola di Dio alla luce della realtà della gente e dei fatti quotidiani.
Gesù Cristo è per lui qualcuno con il quale arriva a stabilire una relazione personale: è il suo confidente e allo stesso tempo la sua forza. Come essere umano vive una ricerca incessante. Non si conforma con niente, non ristagna in quello che conosce, si lancia verso lo sconosciuto, mantiene uno spirito aperto a tutto quello che succede nella chiesa e nel mondo. Lo spirito di ricerca, sempre aperto all’ascolto lo rende umile, lo mette in una situazione di discepolo, prima che di maestro. In alcune occasioni dirà: «Sono un apprendista cristiano». L’avventura della ricerca lo anima a leggere con occhi sempre nuovi la parola di Dio, a scoprie la novità. La fedeltà alla ricerca è per lui fedeltà alla realtà sempre cambiante, sempre interpellante. Questo fino alla sua morte, avvenuta vent’anni fa, il 31 agosto 1988.

HA DETTO DI SE STESSO

«C redo nei poveri e negli oppressi. Credere nei poveri e oppressi è credere nei “semi del Verbo’’. Credo nelle loro grandi potenzialità, particolarmente nella capacità di ricevere il messaggio di salvezza, di capirlo, accoglierlo e metterlo in pratica. È vero che i poveri ci evangelizzano: per questo la Conferenza di Puebla parlò del «potenziale evangelizzatore dei poveri’’.
Credo nella chiesa dei poveri, perché Cristo si è fatto povero, nacque povero, crebbe in una famiglia povera, scelse i discepoli tra i poveri e fondò la sua chiesa nei poveri. Per tutto questo, allo stesso tempo che faccio la mia professione di fede nei poveri, oso prendere le parole vibranti di felicità di Cristo: Io ti benedico, Padre, perché hai tenuto nascoste queste cose ai savi e sapienti di questo mondo e le hai rivelate ai piccoli».

«T utta la mia vita è stata piena di lotte e conflitti. Penso di essere un uomo intransigente quando si tratta di difendere valori trascendentali non certamente speculativi, ma incarnati nell’esistenza umana. Sono stato intransigente nella difesa della verità perché ho sempre voluto che come uomini concreti fossimo dalla parte della verità. Sono stato intransigente nella difesa della giustizia perché sempre mi è piaciuto che come uomini praticassimo la giustizia. Quello di cui sono più grato ai miei genitori è l’educazione permanente nella libertà e verso la libertà. Sono stato intransigente nell’amore alla pace che ha come base la giustizia e l’amore; la pace che non è “una cosa che costa poco’’; la pace che si conquista con la lotta per eliminare ogni forma di oppressione e sfruttamento, di ingiustizia e discriminazione. Sono stato intransigente nella difesa dell’amore e dell’amicizia, perché ho voluto una grande autenticità nelle relazioni umane».

«P er tutta la vita ho lottato per la verità, per la vita, per la libertà, per la giustizia, valori del Regno di Dio. Questa lotta è stata molte volte bruciante. Se in quelle occasioni, ho offeso qualcuno con le mie parole e dichiarazioni, gli chiedo sinceramente perdono e, a mia volta, perdono di tutto cuore chi mi ha offeso. Sono nato povero, senza amarezza ho provato il sapore della sofferenza e delle incertezze della povertà. Divenuto sacerdote e poi vescovo, ho scelto la povertà e i poveri. Ho amato i poveri, in modo particolare gli indigeni. Come prova che ho amato la povertà, consegno il fatto di non aver accumulato beni per mio uso personale».
(Dall’autobiografia: Creo en el hombre y en la comunidad)

Giuseppe Ramponi




Piccola luce, grande speranza

Pasqua a Rumuruti, tra le vittime delle tensioni etniche e politiche

Da villaggio di frontiera, Rumuruti è cresciuto a dismisura per l’immigrazione di molte etnie del Kenya; una scintilla ha fatto esplodere le tensioni tra le due opposte culture di pastori e agricoltori, provocando una reazione a catena di distruzione e morte. I missionari hanno accolto gli sfollati e provveduto all’emergenza; ora si stanno attivando per ricostruire soprattutto il tessuto sociale, più difficile
delle ricostruzioni materiali.

Q uest’anno, Pasqua del Signore 2008, ho cambiato: ho lasciato l’ambiente familiare del santuario della Consolata in Nairobi per la missione di Rumuruti. Sono solo 232 km di strada, tutto asfalto, ma è passare da un mondo all’altro, dall’altopiano alla bassa pianura, dalla città alla frontiera. E là dove l’asfalto finisce è Rumuruti.
Scendendo da Nyahururu, a 2.366 metri slm, dopo 35 km ci si affaccia sulla piana di Rumuruti (1.845 m. slm). Il luccichio delle lastre zincate rivela la presenza del grosso villaggio, che ha le sue radici nei tempi dei coloni inglesi, che ne avevano fatto un punto di riferimento per le loro grandi aziende.
FRONTIERA ESPLOSIVA
Fino al 1990 Rumuruti era una manciata di case allineate lungo la strada, con la prigione come attività produttiva principale, e qualche negozio al servizio dei contadini e pastori di quella vasta area semi-arida; oggi è un villaggio cresciuto a dismisura per la continua immigrazione di gente di tutte le etnie: kikuyu, attirati dalle vaste fattorie dei coloni, lottizzate e messe in vendita a prezzi accessibili; turkana scappati da Baragoi (nel distretto Samburu) a causa degli scontri con i samburu; kalenjin (tugen e altri) in cerca di nuovi pascoli dal Baringo; samburu in fuga dalla siccità e dagli scontri con pokot e turkana.
Questa immigrazione di migliaia di persone ha certamente rotto gli equilibri di un tempo, in una zona che era principalmente di passaggio e per gran parte aperta alla pastorizia stagionale. Rumuruti era un villaggio di frontiera, cuscinetto tra varie etnie, terreno aperto e/o ripulito da presenze stabili e prolungate, a causa dei tanti ranch di migliaia di ettari dei grossi proprietari dediti soprattutto all’allevamento.
Dopo l’indipendenza, i coloni, a maggioranza di origine sudafricana, pensarono bene di andarsene, perché il loro modo di trattare i lavoratori locali non li aveva resi amabili. Andandosene, vendettero le loro farms ai migliori acquirenti. Alcune andarono nelle mani di altri grossi proprietari neri e bianchi (come la farm della famosa italiana Kuki Gallmann, o la farm-eden del Colchecchio di un altro italiano), altre furono vendute a gente comune, suddivise in piccoli appezzamenti, non sufficienti a produrre abbastanza per sfamare la famiglia. Altre furono vendute da truffatori a ignari contadini, che si son ritrovati con titoli di proprietà falsi in mano.
Una situazione esplosiva, aggravata dal fatto che spesso due vicini provengono da due culture diverse: l’agricoltore e il pastore. L’agricoltore tiene le sue due vaccherelle di razza nella stalla e cerca di coltivare al massimo i suoi pochi ettari di terra. Il pastore se non ha almeno cento vacche, senza contare le capre, non si sente realizzato. Ma cento vacche non possono vivere in un terreno sufficiente per due. Allora le vacche del pastore trasbordano e invadono il campicello del vicino agricoltore, divorando fino alle radici mais, cavoli, patate e tutto quello che vi è piantato…
Poi ci sono i vicini impoveriti: non sono più pastori, perché hanno perso il bestiame quando son dovuti scappare dalle loro aree originarie; non sono ancora agricoltori, perché non hanno mai avuto la possibilità di imparare. Allora vivono di lavori precari, giornalieri. Ma quando è secco, e può essere secco per lunghi mesi ogni anno, lavoro non se ne trova. Ecco allora che la via più semplice per sopravvivere è quella di rubacchiare.
RIFUGIATI NELLA MISSIONE
Lo scorso marzo, il 6 per l’esattezza, uno di questi poveracci è stato pescato a rubare capre in un villaggio a poco più di 10 km da Rumuruti. La gente del villaggio, esasperata dai continui rubalizi, ha fatto quello che purtroppo succede molte volte in Kenya, quando essa si sente abbandonata dall’apparato di sicurezza dello stato: ha linciato il malcapitato a sassate. La reazione degli amici del morto non si è fatta attendere: aizzati (e finanziati) da un altro gruppo di pastori, con connessioni politiche più potenti, si son scagliati sul villaggio uccidendo e bruciando.
Questo ha innescato una reazione a catena senza precedenti in un’area pur avvezza a tensioni e scontri. Risultato: in pochi giorni più di 20 morti, tra cui donne e bambini, case bruciate, scuole chiuse, gente in fuga, soprattutto tra i contadini, negozi chiusi, mercato del bestiame rimandato a tempi migliori.
Rifugiata in un primo tempo nei posti di polizia o nelle scuole, la gente, soprattutto donne e bambini, ha optato per la sicurezza della missione cattolica di Rumuruti, mentre la maggioranza degli uomini ha trovato sistemazione precaria tra la gente della stessa tribù alla periferia del villaggio. La missione ha aperto le porte a quelli che sono eufemisticamente chiamati Inteally Displaced People (Idp), gente «spiazzata» all’interno della propria nazione: l’inglese è incredibile a inventare sigle per tutte le situazioni.
I rifugiati interni hanno «occupato» la missione: donne e bambini nel grande salone polivalente; vecchi e ragazzi nelle classi dell’asilo; cucina in un angolo del centro pastorale; magazzino del cibo in una classe delle elementari; bagni: tutti occupati e (in breve) straripanti; acqua, fino a bruciare la pompa del pozzo…
In questa situazione padre Mino Vaccari non ha perso la calma. Chiamati a raccolta il suo viceparroco, padre Juan Puentes, le suore Dimesse, Peter Wambugu, il catechista del centro, gli altri catechisti e la gente del consiglio pastorale, ha in breve messo la missione in condizione di poter accogliere tutti con dignità e senza panico, mantenendo anzi il ritmo delle attività ordinarie soprattutto a pasqua.
NOTTE DI Venerdì santo
In questa situazione sono arrivato bel bello la mattina del venerdì santo, a pochi minuti dalla conclusione della via crucis. Dopo i primi contatti con i padri Mino e Puentes, è subito ora di pranzo. Non me la sento di andare subito in giro e sparare foto alla pazza. Prima vorrei capire dove sono.
A me tocca presiedee la celebrazione della Passione, alle 4 del pomeriggio; loro vanno a celebrare in due delle tante cappelle della vastissima missione (circa 90×60 km). Dopo la celebrazione, con il passio cantato, è subito notte, come al solito qui, prima delle sette è già buio. Dopo la cena faccio un giro con padre Juan nelle zone dormitorio. Nel grande salone alcune donne sono indaffarate a stendere in terra i grandi teloni di politene offerti dalla Croce Rossa, altre tirano fuori coperte dai sacchi ammassati sulle scalinate, solitamente riservate agli spettatori, altre preparano i bambini per la notte…
Entriamo salutando, quasi in punta di piedi. Cerco di cogliere l’atmosfera, scattando un po’ di foto senza flash per non attirare l’attenzione dei bambini, ma la luce è così povera che i risultati sono penosi. Allora sparo un paio di flash e… i bambini tornano in vita: di colpo mi trovo davanti alla lente un sacco di mani ondeggianti, riesco a convincere i piccoli che voglio le loro facce non le loro mani, ma ormai non si può più fotografare sul serio. Metto via la macchiana fotografica, scambio un po’ di saluti, cerco di memorizzare ogni particolare dell’ambiente, e poi buona notte.
Ci muoviamo verso le aule dell’asilo, dove i ragazzi più grandi e gli anziani si stanno preparando per la notte. Qui c’è un sacco di luce. In una classe i ragazzi stanno stendendo i soliti teli di politene; in un’altra stanza, i vecchi hanno già arrangiato il tutto e qualcuno sta già per sdraiarsi. Sulla porta due vegliardi pensosi, appoggiati ai loro bastoni, tristezza sul volto, sguardo distante, forse pensando alla loro casetta perduta, alle vacche rubate, al calore del fuoco scoppiettante nella notte fredda, all’odore familiare del tè che borbotta sul fuoco. Ora, qui, solo la prospettiva di un’altra giornata di tedio, lontano da casa, una notte su un giaciglio duro e freddo, in compagnia di vicini e magari amici, ma non certo la famiglia.
Per i ragazzi nell’aula vicina è invece un altro affare, non consapevoli della tragedia vivono questo momento come un grande gioco. Chiacchieriamo un po’, frateizziamo, ma niente foto. Mi sembra di aggiungere violenza a violenza.
MATTINO DI SABATO SANTO
Sole rosso stamattina, promessa di pioggia. La vita in missione comincia presto. Entro nella chiesa ancora buia, cerco l’interruttore della luce, nell’angolo dietro la porta laterale. C’è qualcosa in quell’angolo, cerco di non calpestarlo. Accendo un neon per me. Tra un salmo e l’altro, mi scappa l’occhio. Il fagotto nell’angolo si muove, due gambe emergono dall’ombra, un bastone… si alza, esce… Allora mi ricordo del vecchio turkana cieco, che ogni mattina è il primo a entrare in chiesa e si rintana là, in quell’angolo, all’ombra del tabeacolo, in silenziosa preghiera.
A colazione ci vediamo con i due missionari. I piani del giorno son presto fatti. Pulizia, distribuzione del cibo, appuntamento settimanale con i ciechi e i poveri, controllo dell’acqua, manutenzione ai bagni che sono a rischio di travasare, preparazione della veglia pasquale, incontro con i 70 che riceveranno il battesimo durante la veglia, connessione del generatore alla chiesa nel caso (normale) che la luce manchi, e tante altre piccole cose ordinarie e straordinarie…
Armato di macchina fotografica comincio a osservare la vita che ricomincia negli spazi sicuri della missione. Mamme e bambini cominciano a emergere dal salone. I vecchi sono seduti su una scalinata per riscaldarsi al primo sole dopo una notte umida e fredda. E non è solo il freddo che li rende mesti, ma è l’incertezza del futuro.
Le mamme sono già indaffarate a lavare i panni e con i panni i loro bambini più piccoli, attente a usare l’acqua con parsimonia. Anche se animata dai colori dei panni che si stanno progressivamente impossessando di ogni siepe, rete e filo della missione, la scena dà tristezza, perché quello che normalmente è gestito in privato, ora è davanti agli occhi di tutti, non essendoci spazi privati per l’igiene personale, senza arrivare al lusso di una doccia.
Bimbi e bimbe più grandi sono sparsi qua e là nel campo da pallone e quello di pallavolo. Un gruppetto gioca in un angolo: una buchetta nella terra e una manciata di sassi, e il tempo passa in allegria. Alcuni maschietti ha messo le mani su un pezzo di fil di ferro. Tutti son concentrati sulle mani del più grandicello che piega e ripiega per dar forma a quelli che dovrebbero essere un paio di occhiali.
Più in là alcune bambine vanno su e giù negli scivoli dell’asilo, mentre altre si ammucchiano su un girello fatto girare a tutta forza. Una bimbetta dalla risata facile è tutta bagnata nel tentativo di aiutare la mamma a lavare i panni. Più in là, un capanello di bambine ha trovato un nuovo gioco: sono indaffarate a rifare le trecce alla loro mamma. In un angolo riparato dal vento, dietro il centro pastorale, è la «cucina» dei rifugiati. La luce radente del mattino esalta il fumo e plasma il vapore delle pentole fumanti, piene di uji (misto di latte e farina) per la colazione mattutina.
Una ragazza in età scolare mescola e rimescola la bollente mistura prima di versarla agli anziani che, lasciato il conforto del sole, attendono, non proprio pazienti, la loro razione. La colazione diventa momento di socializzazione, tanto più che durante il giorno c’è ben poco da fare.
L’uji bollente ridona un po’ di caldo, ma la tristezza rimane. Il pensiero va alle case bruciate o saccheggiate, ai bambini senza scuola e futuro incerto, all’insicurezza generale, al timore dei vicini di etnie diverse.
Come tornare a casa, ricostruire, se sono stati proprio i tuoi vicini a bruciarti la casa e rubarti tutto? I grandi, le autorità fan presto a dire «tornate a casa»; ma quale casa? E chi offrirà la sicurezza necessaria? La polizia? Sì, di giorno si fanno vedere, ma «gli altri» si muovono di notte.
Intanto la gente arriva alla spicciolata, per tutti c’è l’uji bollente, mentre un gruppo di donne e di ragazze (a tuo) stanno già lavorando per il pranzo. Oggi è githeri (mais a fagioli), più cavoli e zucche. Primo passo è la pulizia e selezione del granturco e dei fagioli. I larghi coperchi delle pentole diventano setacci, mani veloci, occhi svelti, concentrazione, tanti sorrisi e poche parole, la selezione va veloce. In poco tempo due grosse pentole borbottano sul fuoco per le tre-quattro ore necessarie alla cottura. La scena ha un suo fascino indicibile: il fumo, il sole, la pula, i colori dei vestiti… provo e riprovo a catturare l’atmosfera grazie alla flessibilità della macchina digitale.
I POVERI DI SEMPRE…
Il sole è ormai alto nel cielo; nella missione si vanno radunando due gruppi diversi, uno di fronte alla chiesa, l’altro nel campo di pallavolo. Davanti alla chiesa ci sono donne e vecchi, ciechi e no, quasi tutti turkana (ben riconoscibili dai loro oamenti), più alcuni samburu o di altri gruppi. L’aspetto tradisce l’estrema povertà. Sembra che in particolare gli immigrati turkana (immigrati perché Rumuruti non era certo la loro area tradizionale, come non lo era delle altre etnie) trascurino i loro vecchi e i loro bambini. Questo gruppo comunque costituisce i poveri di sempre… oggi in competizione con i rifugiati dei cui privilegi (razioni di cibo, distribuzione di coperte e vestiti) vorrebbero poter godere.
Nel campo di pallavolo un grosso gruppo, donne in particolare, si stanno radunando intorno al catechista Peter Wambugu, incaricato di cornordinare l’assistenza ai rifugiati in cooperazione con la Croce Rossa. Sono i rifugiati che hanno cercato protezione nella stazione di polizia o in case di amici e conoscenti a Rumuruti, quasi duemila persone. Oggi è il giorno della razione settimanale, distribuita in collaborazione tra governo e Croce Rossa. Tutti si allineano in ordine per il rituale della registrazione e del controllo dei nomi.
C’è nell’aria mestizia, timidezza e pudore. Gente abituata a essere in totale controllo della propria vita, famiglie relativamente benestanti e contadini che riuscivano comunque a produrre il loro cibo, si trovano ora a mendicare e dover dipendere completamente da altri. C’è uno stridente contrasto tra il catechista che deve urlare i nomi per farsi sentire e il timido sussurro di chi deve registrare la propria indigenza.
Chi è registrato si sposta verso l’aula-deposito, ammassandosi in ogni zona d’ombra, visto che il sole è ormai cocente. Finalmente, con la lentezza di un rito, i sacchi di mais vengono allineati e aperti sui grandi teli di politene. Su un altro telo trova spazio un mucchio di vestiti assortiti. I nomi vengono chiamati; sporte, secchi, sacchi si vanno riempiendo. Le donne che hanno ricevuto la razione per la famiglia preparano l’involto con cura, mentre attendono di accedere al mucchio dei vestiti… Quando non si ha più niente non si può essere schizzinosi.
Mezzogiorno è passato da un pezzo; mi chiamano per il pranzo. La distribuzione continua. A tavola cerco di sapere di più, di capire che ne sarà di questa gente. Padre Mino mi assicura che il nuovo commissario distrettuale è in gamba e ha preso sul serio la questione della sicurezza. È vero, le autorità vogliono che i bambini ritornino a scuola, che le scuole riaprano il martedì dopo pasqua e la gente torni a casa. Probabilmente le scuole che hanno anche il dormitorio per gli alunni potranno riaprire, anche perché in tutte ci sono distaccamenti di soldati e poliziotti.
Ma la gente è esitante a tornare a casa. A quale casa? Per ritornare hanno bisogno di due cose essenziali: sentirsi sicuri ed essere aiutati a ricominciare. In questo momento realizzare il secondo obiettivo sembra più facile che assicurare il primo. Infatti, mentre ci sono amici e organizzazioni che possono aiutare a ricostruire (di questo padre Vaccari non ha dubbio), non basta la presenza delle forze di sicurezza per far sentire la gente tranquilla e soprattutto per ricostruire rapporti umani profondamente lacerati. Per tutta la comunità sarà una grande sfida.
Rumuruti continua a restare terra di «missione» e non solo perché i cattolici sono una minoranza (circa il 10% della popolazione), non solo per la povertà estrema e la natura semi-arida della regione, ma anche perché le ferite causate da anni di violenza richiederanno un lunghissimo paziente servizio di annuncio, guarigione, trasformazione e riconciliazione.
LUCE DI SPERANZA
La sera arriva presto. Alle sette cominciamo la veglia pasquale. Un grande fuoco è acceso nel cortile, attorno moltissima gente. Alcuni dei rifugiati guardano incuriositi da lontano; la maggioranza di loro non è cattolica. I chierichetti mi aprono il passo a fatica. Cominciamo attorno a quel fuoco la celebrazione della vita che vince la morte, della luce che scaccia le tenebre, dell’amore che guarisce l’odio.
Entrando nella chiesa alzo il cero dalla luce tremolante e canto quelle parole grandissime: «Cristo è la luce del mondo!». Mi fa pensare quell’annuncio accompagnato da quel segno così debole. Nella notte buia punteggiata dalle stelle, che in questo angolo di mondo sfavillano ancora, perché l’inquinamento non è ancora arrivato e la luna non è ancora sorta, la fiammella di quel piccolo cero osa proclamare la più grande speranza. Che splendida pazzia! E in quel posto, tra quella gente così provata da povertà, divisione, violenza, ingiustizia, sradicamento.
E il miracolo della pasqua diventa vero ancora una volta anche a Rumuruti. Quella notte battezzo oltre 70 persone, uomini e donne, vecchi e bambini, kikuyu e turkana, samburu e kipsigis… L’acqua della vita che verso abbondante, l’olio che guarisce e consacra, lo Spirito che santifica. In quella piccola chiesa nella piana desolata di Rumuruti continuava a nascere un popolo nuovo capace di dire no al tribalismo, all’odio, all’indifferenza, all’ingiustizia. 

Di Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




CARI MISSIONARI

Ricordi
indimenticabili…

Carissimo Direttore,
sono tornato da poco dal mio secondo viaggio in Etiopia. Sono carico di ricordi indimenticabili, di volti espressivi che ho sempre davanti agli occhi e di sguardi limpidi che dicono tutto.
Ho visto la nuova scuola di Daka Bora (pietre argillose) con i nuovi banchi e fra poco arriverà l’acqua in quella terra arida. Questi progetti sono stati pensati dai nonni «vigili» di Borgo Valsugana, di cui fa parte anche il sottoscritto, e sono stati realizzati grazie ai contributi e al grande cuore di uomini, donne e associazioni varie di Borgo Valsugana.
Sono stato a Waragu e Minne, villaggi poverissimi, senza acqua, luce, mezzi di trasporto. Ho trascorso giorni indimenticabili e ho visto l’altra faccia del mondo. Sono stato uno di loro fra loro. Abitano in capanne poverissime, con 7-10 bambini; vivono di pastorizia e agricoltura. Hanno una grande dignità e non si lamentano mai. Tutto viene trasportato a d’orso d’asino o sulle spalle delle donne, uomini e bambini. Salutavo tutti ed ero contraccambiato. Sono stato ospite nelle loro capanne e mi hanno offerto del pane e un bicchiere d’acqua in segno di amicizia.
Erano felici quando ho donato un paio di pantaloni all’anziano, una saponetta alla maestra, un pullover al sacerdote locale e un paio di scarpe ad un ragazzo. Le donne mi hanno sorriso quando ho portato presso le loro capanne, le taniche d’acqua o la grossa fascina di legna al posto dei loro figli.
Padre Paolo Angheben, uomo di Dio e luce per tutti gli indigeni, dirige in queste località due scuole elementari, frequentate da 2.200 bambini e con 40 maestri che vengono stipendiati con gli aiuti che arrivano dall’Italia. Con 10 euro all’anno si può adottare un bambino a distanza e aiutarlo a frequentare le scuole.
Ho conosciuto la donna etiope, che soffre, piange, ride, consola, sopporta. Donna che ama e vuole essere amata. Donna umile, tenace, che cammina per ore portando i bambini o altri pesi sulle spalle. Donna infelice, perché a volte è umiliata e violentata. Donna che spera in un futuro migliore. Ragazze che studiano duramente per cambiare il volto del loro paese. Donna di fede, che prega e bacia il pavimento della chiesa. Donne con in braccio i figli ammalati, che aspettano per ore in silenzio il loro tuo per essere visitati, curati o vaccinati presso la clinica della missione, gestita da due suore e infermiere polacche.
Sono stato nella cittadella di Asella, a 2.600 metri di altezza e 60 mila abitanti, dove ho conosciuto padre Silvio Sordella, missionario instancabile e di fede incrollabile. Ho visitato l’orfanotrofio da lui fondato e diretto per tanti anni, con i vari laboratori: luogo di salvezza, speranza e di futuro per centinaia di bambini. Alcuni di essi mi hanno preso per mano e mi hanno mostrato le loro camerette e vari locali. Erano felici di stare con me (anche per le caramelle).
Per il 2009 il mio sogno (o utopia?)  è la costruzione di un ponte sul fiume Minne (ponte della stella, della speranza, della vita?) del costo di 8 mila euro circa. Durante la stagione delle piogge (la nostra estate) per le forti correnti né uomini, né animali, né mezzi di trasporto lo possono attraversare.
Un pensiero costante durante il mio viaggio è stato quello del mio cugino missionario, padre Giovanni De Marchi, vissuto e morto da santo, come lo ricordano tutti quelli che lo hanno conosciuto in vita in questo paese. Le suore della Consolata in Addis Abeba mi hanno raccontato qualche piccolo aneddoto della sua vita, soprattutto hanno rievocato l’incontro, in quello stesso luogo una ventina di anni fa, di due figure carismatiche e spirituali, umane e cristiane: Madre Teresa di Calcutta e padre Giovanni d’Etiopia.
Iddio e la Consolata proteggano e benedicano sempre tutti i missionari e le suore. Un grazie sincero per la loro ospitalità ai padri Paolo a Waragu, Jorge Pratolongo a Modjo e il superiore Antonio Vismara ad Addis Abeba che mi hanno permesso di vivere questa esperienza indimenticabile.
Auguri di ogni bene anche a voi e complimenti per gli articoli pubblicati sulla rivista: fanno pensare e riflettere.
Giovanni De Marchi
Borgo Valsugana (TN)

Lunga vita anche a lei, signor Giovanni, perché possa continuare a sognare e vivere con lo stesso entusiasmo del suo omonimo cugino, per il bene di quelle popolazioni per le quali il grande missionario ha speso tutta la sua vita.

Scherzi della memoria

Spett. Redazione,
in relazione alla mia lettera da voi pubblicata su Missioni Consolata, maggio 2008, apprezzo la risposta del dott. Azzalin. Lungi dal voler prolungare inutilmente una polemica, che del resto mi interessa poco, vorrei solo sottolineare l’impossibilità di capire che le osservazioni esteate dal dott. Azzalin fossero rivolte solo ed esclusivamente al gruppo di cui fa parte (invito chiunque a rileggere l’articolo). Accetto senz’altro questo punto di vista pur continuando a non condividee la sostanza.
Negli anni 2001-2003 ho lavorato per l’Apa a Kahawa, presso il dispensario della missione. Il dottor Azzalin ed io dunque ci conosciamo personalmente e i nostri contatti non sono certo stati saltuari, almeno fino a quando le nostre strade si divisero. Del resto mi rendo conto che entrambi abbiamo oltrepassato la cosiddetta mezza età ed è possibile che la memoria cominci a giocare qualche scherzo. Consiglio al collega, che saluto commosso, buoni libri ed esercizio fisico. A futura memoria.  
Cordialmente
dr. Massimo Fugazza
via e-mail

PREGHIERA ALLA MADRE DI DIO CON TRE MANI

C ari amici, vi mando questa mia preghiera per condividere con voi i miei sentimenti, dopo il riconoscimento del Kosovo come uno stato indipendente. Nessuno voglio offendere; vorrei solo informarvi che sono stati calpestati i diritti di un popolo intero: il mio.
Purtroppo, non è l’unico a chiedere giustizia. Ma io, ammirando tutti quelli che combattono contro ogni forma d’ingiustizia e discriminazione in questo mondo, chiedo un po’ di attenzione per questo colpo mortale che ha subito il mio popolo. Non sono solo io; sono più di dieci milioni di persone in lutto per lo strappo di Kosovo.
Vi mando la mia preghiera e vi chiedo di pregare insieme a me, perché il Kosovo torni parte della mia Serbia, con tutto l’amore e rispetto agli Albanesi e agli altri popoli che vivono nel mio paese, che hanno diritto alla loro lingua, alla loro cultura, alla loro religione, che hanno diritto all’autonomia, ma non hanno diritto di strappare la parte più preziosa della mia terra.

Prega per noi, Madre di Dio con Tre Mani.
Prega per noi serbi cristiani.
Hanno strappato Kosovo e Metohija
il cuore della mia Serbia.

Hanno rubato il mio passato.
Memoria storica e mille monasteri:
Gracanica, Decani, Pec patriarcato
dove si pregava in serbo da secoli.

Madre di Dio con Tre Mani,
vorrei pregare per la pace;
ma l’ho persa dal mio cuore,
contratto dall’immenso dolore.

E l’unico pensiero nella mente mia,
Kosovo e Metohija sono la Serbia;
pensiero doloroso e perenne,
Kosovo e Metohija, la serba Gerusalemme.

Ringrazio Te e i nostri santi Padri
per la forza che avevano le nostre madri,
che persero figli, mariti e fratelli
nel campo dei Merli.

Con il Tuo sostegno e la Tua protezione,
loro crebbero la nuova generazione,
insegnandole l’amore, il perdono e il coraggio
e ad opporsi al peccato e al malvagio;

e trasmettevano nei secoli della storia
la fede, la lingua, il cirillico:
le tre perle della nostra nazione
per non perderci nella globalizzazione.

Aiuta anche noi, Madre di Dio con Tre Mani,
a crescere figli nel timore di Dio, e cristiani
e che non dimentichino, Santa Maria,
Kosovo e Metohija sono la Serbia.

Snežana Petrovic,
Rovereto (Trento)




Paolo di Tarso: bimillenario della nascita

I l 28 giugno scorso, nella basilica di San Paolo fuori le mura, Benedetto xvi ha ufficialmente inaugurato l’«Anno Paolino», per commemorare il secondo millennio della nascita di san Paolo. Lo «speciale anno giubilare», che si chiuderà il 29 giugno del 2009, sarà caratterizzato da numerose iniziative pastorali, religiose e artistiche, con lo scopo di conoscere e far conoscere meglio la figura del più grande missionario di tutti i tempi e la ricchezza gigantesca del suo insegnamento. In secondo luogo, la celebrazione avrà una «dimensione ecumenica», secondo le parole stesse del papa: «L’apostolo delle genti particolarmente impegnato a portare la Buona Notizia a tutti i popoli, si è totalmente prodigato per l’unità e la concordia di tutti i cristiani».
L’annuncio di tale evento era già stato dato l’anno scorso, il 28 giugno 2007, nella stessa basilica paolina. Accogliendo con gioia tale annuncio, abbiamo voluto in qualche modo anticipare le celebrazioni, dedicando alla figura del grande missionario il calendario 2008 e invitando i nostri lettori a camminare per tutto l’anno in corso «sulle orme di Paolo, apostolo delle genti». E continueremo nei prossimi numeri di Missioni Consolata a presentare alcuni aspetti della personalità e dell’insegnamento del grande evangelizzatore.

P er la sua importanza nella storia delle origini del cristianesimo Paolo è stato definito «il primo dopo l’Unico», cioè secondo solo a Gesù Cristo. È chiamato pure «tredicesimo apostolo», un titolo che egli rivendica nelle sue lettere ogni qual volta i suoi avversari cercano di screditare la sua missione: più volte si definisce «apostolo per vocazione», cioè chiamato direttamente da Cristo. Al tempo stesso, con i più intimi non esita a dichiararsi servo: «Servo di Cristo», dal quale si sente «afferrato», e «servo di tutti» per amore di Cristo (1Cor 9,19-23). Senza l’infaticabile e coraggiosa impresa missionaria di Paolo, il cristianesimo avrebbe rischiato di rimanere a lungo una fra le tante sette giudaiche. Egli ha aperto le porte della chiesa, ha spalancato gli orizzonti dei discepoli e delle discepole di Gesù e ha portato la Buona Notizia al mondo intero.
Ci sembra superfluo dire che, a duemila anni dalla sua nascita, san Paolo è ancora attuale: lo è sempre stato e lo sarà per tutti i secoli a venire. Tuttavia, è utile evidenziare uno dei suoi tratti fondamentali, capaci di ispirare e rinnovare il nostro essere discepoli di Cristo nel mondo in cui viviamo oggi: un mondo globalizzato, multiculturale, di incontri e scontri di civiltà… Un mondo con molti tratti simili a quelli in cui è vissuto il grande apostolo.
«Paolo è nato bifronte» ha scritto un esegeta, nel senso che appartiene a due civiltà che non si amavano affatto: quella giudaica e quella greca. Per di più, nei suoi viaggi missionari è entrato in contatto con molti popoli, diversi per stirpe, etnia, lingua e cultura; ha incontrato uomini e donne di differenti situazioni economiche e sociali: di tutti ha riconosciuto la dignità della persona e la chiamata a fare parte dell’unica famiglia di Dio, nella quale «non c’è più né pagano né ebreo, né greco né barbaro, né schiavo né libero, né uomo né donna» (Gal 3,28). Non è stato facile per Paolo giungere a tale convinzione, se si tiene presente che, almeno fino all’età di 28-30 anni, nelle preghiere del mattino aveva recitato, come ogni pio israelita, una tripla benedizione: «Io ti benedico, o Dio, per non avermi creato pagano, ma ebreo, per avermi creato libero e non schiavo, uomo e non donna».
Uomo senza frontiere, Paolo aveva compreso che una cosa è il vangelo e un’altra la cultura dei popoli. Con la sua vita e i suoi scritti ha lavorato con passione per costruire un’umanità unificata nell’abbraccio misericordioso di Dio: umanità egregiamente espressa con l’immagine delle molte membra che formano un solo corpo. Egli continua a insegnare che la chiesa, nella sfida di inculturare concretamente il messaggio di Cristo, può avere forme molto diverse e che nessun popolo può legittimamente imporre agli altri stili di essere, di sentire, di pensare, di agire e di celebrare.

di Bnedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




I diversi volti della malaria


Seconda classificata del «premio Carlo Urbani» racconta la sua esperienza in un ospedale di Brazzaville (Congo) e quella in Cina

 

Volevo scrivere una tesi di laurea che riguardasse la malaria. Ero già stata in Africa due volte, la prima come turista in Kenya e Tanzania, la seconda come studentessa di medicina in un dispensario «di brousse» della Repubblica Centroafricana. Ed ero sicura che ci sarei tornata. Per questo, tra tutti gli argomenti che il corso di laurea ci propone, io ero particolarmente affascinata dalla patologia tropicale. La prossima volta sarei tornata in Africa come medico, oltre che come amante di quella terra meravigliosa.
Era il 1998. L’Africa era per me una realtà appena sfiorata, un mondo pieno di fascino ancora tutto da scoprire; la malaria, una serie di nozioni apprese su libri e riviste. Ne avevo studiato l’epidemiologia, la patogenesi, le diverse forme cliniche, le terapie. Infine avevo raccolto la documentazione di tutti gli studi clinici di sperimentazione del vaccino SPf66 contro il Plasmodium falciparum, il più diffuso e pericoloso dei quattro plasmodi che causano la malaria; su queste esperienze cliniche avevo fatto uno studio di meta-analisi che era diventato la mia tesi.
A dire la verità non ne ero molto soddisfatta, forse perché era una cosa troppo astratta, troppo lontana dall’Africa che avevo conosciuto, o forse semplicemente perché la conclusione era che i risultati di questa sperimentazione erano molto deludenti. Dopo la laurea, durante un corso di Medicina tropicale in Belgio, ho imparato a riconoscere i plasmodi malarici al microscopio, su strisci di sangue periferico e su «goccia spessa», un metodo di concentrazione largamente utilizzato «sul campo» perché rende più veloce la diagnosi. I vetrini su cui studiavamo provenivano da diversi paesi dell’Africa, Asia e America Latina.
Dopo tanta teoria mi stavo progressivamente avvicinando al paziente, attraverso quei campioni di sangue in cui potevo osservare direttamente la presenza e le conseguenze dell’infezione malarica. Iniziata la scuola di specializzazione in Medicina tropicale in Italia, ho avuto l’occasione di assistere alcuni pazienti affetti da malaria, di ritorno da paesi endemici. Ma quando sono arrivata in Congo la malaria aveva tutta un’altra faccia.
L’occasione di un’esperienza lavorativa in un piccolo ospedale di Pointe Noire, sulla costa del Congo Brazzaville, mi si era presentata alla fine del terzo anno di specializzazione. Sono arrivata a Pointe Noire durante il caldo aprile congolese, alla fine della stagione delle piogge. Pointe Noire è una città petrolifera, eppure le uniche strade asfaltate sono quelle del centro, dove abitano i francesi e gli italiani che lavorano nelle società estrattive; tutte le altre strade della città sono sterrate e, in questa stagione, si trasformano in rivi d’acqua torbida dove giocano i bambini, dove passano e spesso rimangono impantanati i più svariati e sgangherati veicoli che attraversano la città.
È qui che la sera verso le sei e mezza, ora del crepuscolo equatoriale, si comincia a sentire il ronzio delle zanzare. Sono proprio le femmine delle zanzare anopheles i veicoli della malaria. Rapidamente popolano la notte e non è difficile per loro trovare un ospite, poiché la vita in Africa, si svolge prevalentemente all’aperto, anche di notte: le donne cucinano all’aperto, i bambini giocano all’aperto, gli anziani cantano e raccontano antiche storie all’aperto. Solo una piccola percentuale di famiglie possiede una zanzariera e un’ancor minore quota la impregna periodicamente d’insetticida al Cim (Centre d’imprégnation des moustiqueres) situato sull’Avenue du Général De Gaulle, la via principale della città. Così ogni notte il ciclo del parassita si perpetua. E sulle carte geografiche dell’Organizzazione mondiale della sanità, l’Africa si colora di un rosso sempre più scuro. Ricordo benissimo la prima volta che sono entrata nell’ospedale dove avrei lavorato i successivi due mesi; dando una rapida occhiata all’affollata sala d’attesa, ho capito in un attimo che avrei visto e imparato molte più cose di quelle scritte sui libri di medicina.
Uno dopo l’altro i pazienti si susseguivano nella spoglia stanzetta adibita ad ambulatorio, dove un vecchio ventilatore, nei fortunati giorni in cui c’era energia elettrica, muoveva un’aria pesante e umida. La maggior parte dei pazienti si presentava per febbre, diarrea, marcata astenia, cefalea: tutti sintomi che possono essere espressione d’infezione malarica, così come di un’infinità di altre patologie.

In un’area a così alta endemia il quadro clinico della malaria è estremamente aspecifico. Fortunatamente però la diagnosi microscopica è semplice e poco costosa: bastano pochi coloranti e un qualsiasi microscopio ottico. Quando manca la corrente si può usare una torcia a pile oppure, se manca anche quella, uno specchietto che sfrutti la luce solare. Altre indagini non sarebbero effettuabili e d’altronde non sono neanche necessarie. Perché il trofozoita, la forma ematica del plasmodio, si vede facilmente: sta all’interno dei globuli rossi dei quali provoca la lisi, le alterazioni di forma ed elasticità responsabili di tutta la sintomatologia sistemica. Così, data l’estrema diffusione dell’infezione e data la facilità diagnostica, a quasi tutti i pazienti che potevano permetterselo, veniva fatto un prelievo per la ricerca del plasmodio.
La percentuale di positività era impressionante: più del 90%. In tantissimi casi la carica parassitaria era molto elevata; in un campo microscopico era possibile vedere decine di trofozoiti, dando al vetrino l’aspetto che in gergo viene definito «a cielo stellato». E impressionante era il numero di bambini infetti: dai neonati avvolti in parei colorati, addormentati sulla schiena della madre, ai ragazzini più grandi, che venivano ad accompagnare uno sciame di fratelli e sorelle.
Ripensavo ai malati di malaria visti in Italia: turisti, uomini d’affari, missionari, navigatori, coppie di ritorno dal viaggio di nozze… erano figure ormai lontanissime nella mia mente. Adesso per me il volto della malaria era quello di un bambino o meglio di tanti bambini, dagli occhi scuri e sguardo serio e profondo, dai vestiti impolverati e la pelle madida di sudore per il caldo e la febbre. Non sempre erano sofferenti. Alcuni sembravano stare abbastanza bene, ma eseguito l’esame microscopico della goccia spessa, risultavano anch’essi parassitati, magari per la quarta/quinta volta in un anno.
Ricordo Espoir, una bambina di sei anni arrivata in ospedale con i suoi quattro fratelli; abitavano a Tché-Tché, un villaggio nella foresta proprio ai limiti della città. I fratelli avevano la febbre; uno, il più piccolo, non voleva più mangiare. Espoir invece stava bene ed era arrabbiata che l’avessero portata lì con gli altri, perché non voleva saltare la scuola e poi non voleva che le bucassero il dito per fare l’esame del sangue. Ma la loro madre voleva che tutti venissero controllati per il «palù», come chiamano loro la malaria. Delle cinque gocce spesse, quattro risultarono positive e quella di Espoir era quella con la carica più elevata: venticinque trofozoiti per campo microscopico. Il fratello minore, negativo per la malaria, risultò positivo alle indagini eseguite per la febbre tifoide.  
Altri invece arrivavano in condizioni gravi, privi di forze, alcuni in coma. Ricordo uno dei primi giorni di lavoro: ero rimasta sola, perché l’altro medico dell’ospedale era andato a lavorare due settimane sulla piattaforma dell’Agip, in mare al largo della costa di Pointe Noire. Una giovane madre in lacrime mi porta in braccio suo figlio, un bambino sui 10 anni, privo di conoscenza, con 40° di febbre, gravemente ipoteso, con le mucose congiuntivali bianche e vomito incoercibile. Non c’è tempo per alcun esame; bisogna metterlo subito sotto chinino e farmaci sintomatici, sperando che sia un attacco malarico.
Per la prima volta mi sono arrabbiata con gli infermieri, a causa della loro intrinseca flemma africana, che talvolta raggiunge livelli incredibili e che tanto contrasta con la nostra «frenesia bianca». Anche questo non è facile: trovarsi a lavorare con persone di altre culture, soprattutto così diverse, in un continuo confronto e scambio che, per quanto arricchente, in situazioni di stanchezza e di paura come quel giorno, può risultare davvero duro. Comunque alla fine riusciamo a stabilizzare Josh, il nostro piccolo paziente. La goccia spessa risulta positiva per più di 50 trofozoiti per campo; la glicemia non si può rilevare perché è finito il reattivo; l’emoglobina, calcolata con un metodo molto approssimativo, risulta di circa sei grammi/decilitro (in Italia noi trasfondiamo sotto gli otto grammi, qui trasfondono sotto quattro). La sera Josh è sveglio e io tiro un respiro di sollievo.

Per molti altri la malaria si sovrapponeva a uno stato di malnutrizione grave, infezioni gastrointestinali, anemie congenite come la drepanocitosi, sieropositività Hiv, andandone a peggiorare il quadro. Secondo la mia formazione «occidentale» non avrei avuto dubbi: tutti questi bambini avrebbero dovuto essere ricoverati, trattati, monitorati; si sarebbero dovute prevenire e curare le complicanze più pericolose quali anemia severa, ipoglicemia, insufficienza renale. Questo avevo studiato sui libri.
Ma qui la malaria è un’altra cosa. È proporre a un padre il ricovero del figlio e sentire il suo rifiuto per l’impossibilità di pagare. È ordinare una sacca di sangue e non vederla infondere perché costa troppo e poi si rischia l’Hiv e Hcv. È prescrivere un farmaco antimalarico e vedere comprare altri, al mercato, al banco vicino a quello della manioca, conservati a quaranta gradi e forse scaduti. È vedere un’infermiera che tra un tuo e l’altro si mette su, da sola, la sua flebo di chinino e, finita quella, riprende a lavorare: perdere un giorno di lavoro può voler dire perdere il lavoro.
Così l’altro volto della malaria, forse quello più vero, si mostra in tutta la sua durezza. E a me adesso non importa più niente del meccanismo d’azione dei farmaci, degli studi comparativi di efficacia e tollerabilità delle diverse terapie, del vaccino SPf66. Adesso vorrei solo poter pagare il ricovero di Michelle, le sacche di sangue di Josh, i farmaci di Emar, la giornata di lavoro di Augustine. Si perché adesso la malaria non è più un articolo di giornale né un vetrino brulicante di plasmodi, ma è una sala d’aspetto gremita di persone, ognuna con il suo nome e la sua storia, i suoi problemi ed esigenze. Ognuna con un immenso bisogno di essere ascoltata. Ognuna, almeno così credevo, con il diritto di essere curata. Fa parte della nostra cultura, nonostante tutti i suoi limiti: non possiamo accettare che una persona muoia perché non può pagare. Ma qui è così. È come se il costo di una malattia fosse un sintomo e in alcuni casi quel sintomo diventa il fattore prognostico determinante, diventa la complicanza più grave.

Così un giorno dopo l’altro trascorrono in un lampo i miei due mesi in Congo. Ormai è giugno e siamo nel pieno della stagione secca. Mentre preparo le valigie che, non si capisce perché, ma al ritorno non si riescono mai a chiudere, provo a riordinare dentro di me le immagini, le sensazioni, le esperienze di questo periodo. Ma è ancora troppo presto. Ci vorrà un po’ di tempo per assimilare tutto questo, per dare un ordine e un senso a ogni cosa vista e vissuta, probabilmente molto tempo. Per adesso mi rendo solo conto che porterò a casa molto più di due valigie.
Mi viene in mente la dedica che avevo scritto come introduzione alla mia tesi; era la citazione di una poesia di Montale e l’avevo scritta perché mi piaceva, ma senza darle un significato particolare: «… Sotto l’azzurro fitto del cielo qualche uccello di mare se ne va; né sosta mai perché tutte le immagini portano scritto: “più in là”». È come se la capissi soltanto ora.
Tornata in Italia, nel reparto di Malattie infettive dove ho terminato la specializzazione, ho ritrovato i «miei» pazienti, la maggioranza dei quali sono Hiv positivi.
Ora più di prima non posso fare a meno di porre attenzione al prezzo dei farmaci antiretrovirali, ogni volta che ne consegno una scatola. E penso che in Africa questa sarebbe una complicanza mortale. Guardo questi malati e provo a immaginare quale volto avreb­bero gli stessi pazienti laggiù, nel piccolo ospedale di Pointe Noire. Ma questo è un altro capitolo.

di Chiara Montaldo
 

Chiara Montaldo

 



Costruire insieme un futuro

Convegno della Fondazione Ivo de Caeri a Pemba

A Pavia, a partire dall’esperienza sanitaria della Fondazione de Caeri in Africa,
si è parlato di cooperazione, malattie dimenticate ed etica.

Sono passati 30 anni, ma la frase riportata nella Dichiarazione di Alma Ata, alla Conferenza internazionale sulle cure primarie del settembre 1978, non ha trovato la sua realizzazione. Era riportata la possibilità di un «livello di salute accettabile» per tutti, entro il 2000.
Il termine è passato, la Dichiarazione dopo 30 anni è ancora attuale. Salute di base, sistemi sanitari, interventi di cooperazione e loro sostenibilità, malattie dimenticate e popolazioni dimenticate sono temi che hanno animato una giornata di relazioni a Pavia, presso l’Almo collegio Borromeo. Il Convegno, «La Fondazione Ivo de Caeri a Pemba: un’esperienza sanitaria locale per un confronto globale», organizzato dal Collegio stesso e dalla Fondazione Ivo de Caeri di Milano, con il patrocinio della Fondazione Irccs Policlinico San Matteo di Pavia, si è svolto il 16 aprile scorso: a partire dal lavoro della Fondazione sull’isola di Pemba (arcipelago di Zanzibar, Tanzania), ha proposto un percorso di riflessioni sulla situazione sanitaria dei più poveri del mondo.

SULL’ISOLA DI PEMBA

«È tutt’ora prevedibile che molte parassitosi continueranno ancora per molti anni ad affliggere gli strati più poveri delle nostre popolazioni e intere nazioni in zona tropicale». Sono parole di Ivo de Caeri, professore di parassitologia all’Università degli studi di Pavia e consulente dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), dalla prefazione della prima edizione del suo testo sulle malattie parassitarie, anno 1961.
Le ha ricordate Alessandra Carozzi, presidente della Fondazione de Caeri (www.fondazionedecarneri.it), nata nel 1994 in memoria del parassitologo (scomparso l’anno prima), nella relazione sulle attività di cooperazione e formazione sanitaria e sostegno alla ricerca scientifica.
La missione della Fondazione («promozione dei piani di lotta alle malattie parassitarie nei paesi in via di sviluppo e incremento degli studi di parassitologia») ha portato a costruire un Laboratorio di sanità pubblica a Pemba, a sostenee strategie, attività e ad avviare interventi a fianco della popolazione locale, dal sostegno a un dispensario materno infantile al progetto di controllo delle malattie trasmesse dall’acqua, con la formazione di laboratorio e la riabilitazione della rete idrica, all’invio di chirurghi per il sostegno e la formazione di personale locale.
Il laboratorio si propone come esperienza di cooperazione nuova e per certi versi difficile. A otto anni dall’avvio delle attività, Marco Albonico, direttore scientifico della Fondazione e consulente dell’Oms, ha stimolato la riflessione sui punti di forza e i nodi da risolvere in un progetto di sostegno alla sanità pubblica e di un centro di esami di qualità. Il laboratorio sostiene le attività di salute pubblica del ministero della Sanità di Zanzibar: svolge attività di monitoraggio e valutazione dei programmi di controllo, esegue controlli di qualità per le diagnosi dei laboratori periferici, promuove la ricerca secondo le priorità locali, raccoglie e analizza i dati epidemiologici sociosanitari, è attivo nella sorveglianza delle epidemie e svolge attività di aggioamento e formazione.
Vi sono diversi aspetti positivi dell’esperienza. Vi è impiegato personale locale con un salario dignitoso e possibilità di formazione. Il profilo scientifico è alto e, ha raccontato Albonico, «i progetti hanno dato buoni risultati: studi scientifici, raccomandazioni per politiche sanitarie, pubblicazioni scientifiche»; nel corso degli anni è «sempre più un servizio trasversale che affronta molteplici problemi sanitari, col potenziale di migliorare il cornordinamento e la supervisione dei centri di salute periferici e degli ospedali».
Al tempo stesso, tuttavia, non è stata ancora raggiunta un’autonomia da parte del personale stesso, un senso di appartenenza che porti a costruire in modo autonomo possibilità di lavoro e di ricerca. Il laboratorio in questi anni è stato anche fonte di dibattito fra gli operatori della sanità locale e ha incontrato difficoltà nell’essere compreso dalla popolazione come elemento importante per la sanità. Il percorso non è dunque concluso, ma si hanno di fronte le sfide da cogliere, prima fra tutte la completa autonomia locale del progetto.

MALATTIE UNITE ALLA POVERTÀ

Quando Ivo de Caeri arrivò la prima volta a Pemba erano in atto ricerche sulla schistosomiasi, che fa parte del gruppo delle malattie tropicali dimenticate. Queste malattie, oggetto di una relazione al Convegno, hanno come denominatore comune la povertà, nella quale prosperano e che loro stesse alimentano, ostacolando l’istruzione, le possibilità di lavoro, diventando causa di emarginazione e isolamento per le lesioni e disabilità che provocano, ostacolando lo sviluppo economico.
Ne sono elencate indicativamente 14 dall’Oms (colera/malattie diarroiche, dengue/febbre emorragica di dengue, dracunculosi, elmintiasi, filariasi linfatica, lebbra, leishmaniosi, malattia di Chagas, oncocercosi, schistosomiasi, tracoma, treponematosi, tripanosomiasi umana africana, ulcera di Buruli), indicativamente perché la lista può comprenderne altre.
Nel mondo circa un miliardo di persone presenta una o più malattie dimenticate, presenti soprattutto in comunità povere e isolate; la maggior parte di queste malattie può essere prevenuta o eliminata. Rappresentano una minaccia per la salute locale, ma hanno poco peso politico, sono economicamente poco interessanti. Per alcune vi sono concrete possibilità di diagnosi e terapia, programmi di controllo su più malattie; per altre invece il percorso è più difficile, i farmaci sono vecchi, costosi o tossici. Molte sono trasmesse da vettori (insetti) e hanno collegamenti con l’ambiente; sono ben presenti in posti con acqua non sicura, condizioni igieniche sanitarie scadenti e accesso limitato a cure sanitarie di base.
Le strategie nei confronti delle malattie dimenticate seguite dall’Oms sono state oggetto della relazione di Albis Gabrielli, dell’Oms. Vengono distinte in due gruppi principali: le elmintiasi, causate da elminti (vermi), visibili a occhio nudo, e le protozoosi, causate da protozoi, non visibili a occhio nudo: «L’Oms è impegnata nell’elaborazione di strategie globali che siano adattabili ai paesi in cui queste malattie sono presenti, cioè per la massima parte del Sud del mondo. La strategia per le elmintiasi, chiamata chemioterapia preventiva, consiste nel trattare a intervalli regolari, con farmaci sicuri, efficaci e accessibili dal punto di vista del costo, interi gruppi di popolazioni che vivono in aree dove le malattie sono diffuse. La strategia contro le protozoosi prende invece il nome di approccio clinico intensificato. A causa di strumenti diagnostici e terapeutici vecchi e costosi, di difficile utilizzo e tossicità alta, non è possibile il trattamento di popolazioni, bensì individuale, a opera di personale specializzato, che deve agire con una strumentazione adeguata. La strategia si focalizza pertanto sul garantire un accesso al trattamento al numero più alto possibile di persone».
Ma uno degli aspetti critici della sanità nei paesi poveri è proprio la carenza di personale locale. Maurizio Bonati, dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, ha tracciato un quadro del ridotto numero di operatori sanitari, a partire dall’esperienza personale, da un lato di cooperazione in paesi del Sudamerica, con interventi in villaggi sperduti ove si cerca di portare aiuto ma anche di formare personale che possa proseguire nel lavoro, dall’altro di formazione in Italia di persone che dovrebbero poi portare le proprie conoscenze a vantaggio del paese di origine. Dovrebbero, perché talora le condizioni locali non permettono l’utilizzo delle conoscenze acquisite o la persona stessa, una volta raggiunte capacità superiori, preferisce cercare lavoro in posizioni migliori all’estero.
Si aprono dunque spunti di riflessione sull’importanza non solo della formazione di personale nei paesi del Sud del mondo ma anche di condizioni locali di lavoro che ne favoriscano il ritorno o la permanenza.

LO SGUARDO DELL’ETICA

Cooperazione, malattie dimenticate, operatori sanitari, Sud del mondo. Nel filo conduttore del Convegno è stata data la voce all’etica della salute e degli interventi. Laura Palazzani, della Lumsa (Libera università Maria ss. Assunta) di Roma ha approfondito il tema della bioetica, a partire dai diversi tipi: etnocentrica, multietnica e interculturale; quest’ultima delineatasi in contrapposizione alle prime due: «La rilevanza della bioetica interculturale consiste nella ricerca critica di una continua mediazione e integrazione interculturale tra i diritti umani e le esigenze specifiche delle diverse culture, nel tentativo di evitare la prevaricazione, per affermare la logica relazionale della diversità nell’uguaglianza. In tal senso, il dialogo interculturale in bioetica non sarebbe né conflitto né accettazione passiva di un compromesso, ma piuttosto ricerca costruttiva di integrazione».
Una comprensione della bioetica interculturale come punto di partenza per ragionare sulla cooperazione sanitaria, l’equità sanitaria, la salute come diritto. Aspetti ripresi da Gaia Marsico, dell’Università di Padova (Bioetica-Scienze politiche), che ha parlato di accesso ai farmaci, ricerca nel Sud del mondo e ruolo della bioetica. Perché le domande sulla ricerca nei paesi poveri non possono prescindere dal chiedersi quali sono i bisogni reali e gli orientamenti della ricerca in generale: «Se vogliamo interrogarci sulle criticità e gli aspetti etici della ricerca nel Sud globale (non solo in senso geografico), dovremmo partire dal senso, dalla rilevanza e modalità della ricerca in generale; delle ricerche che promuoviamo e vediamo svilupparsi nei nostri paesi. Da chi è disegnato questo progresso, in funzione di chi lo si costruisce?».
Tanti interrogativi e questioni aperte. Mettersi in discussione di fronte alla sofferenza dimenticata di centinaia di milioni di persone, per capire il modo migliore di porsi e costruire, insieme, una possibilità di vita uguale per tutti, indipendentemente dal luogo di nascita.

di Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri