Tanti amici (ma a parole)
Reportage dal paese delle nevi
Invaso e colonizzato dalla Cina, da più di 50 anni il Tibet lotta per difendere la propria cultura e libertà, riscuotendo grande interesse e simpatia da parte dell’opinione pubblica mondiale, grazie soprattutto al carisma del suo leader, il Dalai Lama. La solidarietà, però, rimane al livello teorico: nessuno stato osa inimicarsi la potenza cinese. Ma anche tra i tibetani crescono le tensioni, mettendo in discussione il ruolo politico del loro leader.
La storia, insegnano i cinesi, è una spirale: pur essendo in continuo movimento, ciclicamente ritorna su se stessa, riproponendo eventi già accaduti nel passato. Le manifestazioni avvenute recentemente in Tibet sono la conferma di questa teoria.
Cina e Mongolia hanno sempre cercato di controllare gli altipiani tibetani, influenzando in modo determinante la cultura della regione. I mongoli, ad esempio, hanno condotto la setta dei Gelukpa a prevalere su quella degli Sakya, dando inizio alla discendenza dei Dalai, termine mongolo che significa «oceano», e di cui il lama Tenzin Gyatso è oggi il xiv rappresentante.
Ma nel dizionario tibetano esiste un altro concetto, indispensabile per capire i meccanismi che hanno segnato le fasi storiche della regione: cho-yon. Tradotto in modo approssimativo, cho-yon indica la relazione secolare che lega un maestro spirituale al suo protettore laico.
Presenza ingombrante e violenta
La storia del Tibet, sin dal xii secolo, quando i mongoli si affacciarono in queste lande, si è sempre basata su questa immagine della doppia relazione. L’abilità o meno dei vari governanti nell’amministrare questo rapporto, ha spostato l’equilibrio del potere verso Lhasa o verso Pechino.
Il fatto è che i vari regnanti tibetani non hanno mai mostrato grandi capacità nel manipolare l’arte del governo: le rivalità tra i vari monasteri, vere e proprie città stato appartenenti alle diverse sette buddiste e ognuno con propri eserciti di monaci guerrieri, hanno costretto i Dalai Lama o i loro reggenti a chiedere l’aiuto ora della Cina, ora della Mongolia, sino a rivolgersi addirittura alla Russia zarista, per mantenere unito il paese.
La presenza cinese in Tibet si è sempre mostrata ingombrante, e spesso violenta, in particolar modo durante gli ultimi anni dell’impero Manciù, quando il generale Zhao Erfeng era soprannominato il «macellaio dei lama». Da parte loro, i governanti tibetani non hanno mai fatto nulla per ricercare simpatie altrove. L’unico tentativo di allacciare relazioni diplomatiche con un paese occidentale, fu fatto con la Germania di Hitler, la cui ammirazione per le religioni orientali e per la teosofia di Madame Blavatsky portava i suoi interessi nelle regioni indoeuropee. Una pagina non proprio edificante che oggi i tibetani cercano di nascondere.
È in questo contesto che i cinesi di Mao Zedong sono arrivati in Tibet, all’inizio accolti con favore dai monasteri fedeli all’altra autorità spirituale del paese: il Panchen Lama, allora in disaccordo con il Dalai Lama. La politica maoista fu quella di mantenere lo status quo della regione, evitando cambiamenti repentini e iniziando un dialogo con il Dalai Lama sulla base del cho-yon.
Fu invece sopraffatto dagli eventi. Nel 1959 il segretario del Partito comunista dello Sichuan, Li Jingquan, contro il volere dello stesso presidente, diede inizio alla politica d’integrazione totale: le proprietà vennero requisite, i monasteri chiusi, la lingua tibetana vietata nelle scuole e negli uffici pubblici. In poche settimane la situazione precipitò e il Dalai Lama fuggì in India.
Solo dopo il 1980 i cinesi cominciarono a cambiare politica verso il Tibet, accogliendo una delegazione di tibetani in esilio guidata dal fratello del Dalai Lama, riaprendo i monasteri, inserendo la lingua tibetana nelle scuole e iniziando il dialogo con il governo in esilio in India. Ma, come accaduto per altre regioni, lo sviluppo economico voluto da Pechino è stato interpretato diversamente dai tibetani: l’arrivo di migliaia di Han, la costruzione della ferrovia del Qinghai che collega Lhasa a Pechino in 48 ore, lo sviluppo turistico della regione, sono ragioni sufficienti per accusare la Cina di voler annientare la cultura locale.
Paura per tutti
È all’interno di questo quadro storico che sono tornato in Tibet, dopo essere stato testimone delle manifestazioni della scorsa primavera, cercando di comprendere cosa stesse accadendo realmente al di là delle simpatie che tutti noi abbiamo verso un popolo pacifico, oppresso da un regime che sta ancora cercando di trovare un nuovo equilibrio dopo la morte del Grande Timoniere.
Appena messo piede a Lhasa si comprende immediatamente che molto è cambiato nella società: i vicoli della parte vecchia, solitamente brulicanti di gente, sono deserti e così il mercato, che in questo periodo dell’anno ospita migliaia di pellegrini e mercanti provenienti dagli altipiani ancora innevati.
La normalità è tornata nella capitale tibetana, continuano a recitare i proclami ufficiali. Ma è una normalità fittizia, dettata dalla dura lex chinensis, che esclude ogni forma di dissenso, specie se espresso in forma autonomista.
L’Armata Rossa ha spento le fiamme della rivolta, ma tutti sanno che le braci ardono ancora sotto il sottile manto di cenere. E tutti hanno paura. Hanno paura i tibetani, che cominciano a sentirsi abbandonati dal mondo; ma hanno paura anche i cinesi i quali, nell’anno che avrebbe dovuto sancire l’apoteosi dell’economia asiatica, vedono gli occhi del mondo puntati sulla parte sbagliata della nazione. Guardiamo tutti non verso Pechino, dove si svolgeranno in pompa magna i giochi olimpici, ma al Tibet e, in misura minore, allo Xinkjiang, regione dove la repressione si esprime in forme più violente e subdole rispetto a quella tibetana.
«Pechino è infuriata: dopo aver perso i giochi olimpici del 2000 ed aver atteso questi per oltre un decennio, ora i tibetani e gli uiguri stanno rovinando tutto» afferma Mark Allison, collaboratore di Amnesty Inteational a Hong Kong. Allison aggiunge anche che la Cina non ha ancora svelato il «mistero» che circonda la figura di Gedhun Chuekyi Nyima, il quale dal 1995, anno in cui il Dalai Lama lo ha riconosciuto come undicesima reincarnazione del Panchen Lama, è tenuto segregato in un luogo segreto dalle autorità di Pechino. «Aveva sei anni all’epoca ed è stato riconosciuto da Amnesty come il più giovane prigioniero politico del mondo». Dice Allison.
Dagli slogan all’oblio
Ma quanto si concentrerà l’attenzione dell’Occidente sul Tibet? «Remember Burma», ricordati la Birmania, ammonisce Tenzing Dorma, professore di storia alla Tibet University di Lhasa, riferendosi all’oblio in cui è piombato il paese del sudest asiatico dopo l’ondata di interesse durante la repressione dei monaci birmani.
«Gli scontri del 14 marzo sono stati i più violenti dal 1989 ad oggi» dice Pasang Norbu, un monaco originario di Golmud. «Personalmente non ho visto nessuna vittima, ma molte famiglie tibetane lamentano la mancanza di questo o quel famigliare». Se Parigi valeva bene una messa, quanto varrà Pechino? Sicuramente più dei 19 morti, ufficialmente dichiarati dalle autorità, o dei 99 proclamati dal governo in esilio.
A parole «siamo tutti tibetani», ma quando si tratta di mettere in pratica gli slogan espressi durante i cortei di piazza, ecco che si preferisce delegare chi sta più in alto. Si chiede il boicottaggio dei prodotti cinesi, ma quando si tratta di comprare abbigliamento, Hi-Fi, computer, accessori per la casa, entrambi gli occhi vengono chiusi di fronte ai prezzi concorrenziali del made in China. Ancora una volta il portafogli prevale sulla coscienza: meglio che il boicottaggio lo facciano gli altri, magari i governi e magari su prodotti che non vengono venduti nei supermercati.
E così, tra i tibetani, si sta sempre più radicando la sindrome del falso amico. Un attivista indipendentista che vive a Lhasa, il cui nom-de-guerre, Songsten, rievoca il primo re che nel vii secolo unificò il Tibet, ricorda che nessuno stato occidentale ha mai voluto riconoscere il Tibet come nazione indipendente. «Si è sempre preferito assecondare il volere della Cina. Al massimo premevano per garantirci uno status di autonomia. Ma nessuno ha mai appoggiato le richieste di indipendenza».
Del resto già nel 1715 il padre gesuita Ippolito Desideri, che studiò presso l’Università di Sera e grande amico del vii Dalai Lama, incluse il Tibet entro i confini cinesi in una mappa da lui disegnata. E fu lo stesso Tibet a rigettare le offerte di relazioni diplomatiche avanzate da alcuni stati europei durante la prima metà del Novecento.
Solo con la Germania nazista, come già accennato, si stabilirono stretti contatti, sino a consentire a una spedizione antropologica alla ricerca della «razza pura» di girare in lungo e in largo la regione. «La spedizione nazista di Est Schafer, voluta da Himmler, ebbe l’appoggio del Kashag. Fu l’unica spedizione ufficialmente a scopo scientifico, a poter soggioare in Tibet per più di un anno» spiega Christofer Hale, autore del libro La crociata di Himmler – La spedizione nazista in Tibet nel 1938.
E ancora, fu lo stesso Dalai Lama ad accettare, il 26 ottobre 1951, l’«Accordo in diciassette punti» che sanciva «il ritorno del popolo del Tibet alla grande famiglia della madrepatria, la Repubblica popolare Cinese».
Dal karma al materialismo
Tutti questi insegnamenti che la storia ci propone, devono essere ricordati per capire le innumerevoli sfaccettature che offre la questione tibetana. «Abbiamo sbagliato nel passato. Lo hanno fatto i nostri padri e le loro colpe oggi ricadono su di noi. È la legge del karma, la legge di causa-effetto che regola la vita di tutto l’universo» ammette Tsultrim, vice abate del monastero di Pel Kor a Gyantse.
Alla legge del karma, i cinesi contrappongono la legge del materialismo, fatta di industrializzazione accelerata che ha costretto il governo centrale a promuovere un largo afflusso di Han e di turisti sin dal 1984. Ed anche se questo processo non era premeditato per spostare a favore degli Han l’equilibrio demografico del Tibet, come comunemente è fatto credere, è stato proprio questo a concentrare l’attenzione dei tibetani sul problema etnico.
Non è un caso che le rivolte di marzo, siano state più violente nel cosiddetto Tibet etnico, cioè in quelle regioni, come il Gansu o il Sichuan, separate politicamente dal Tibet, ma abitate da etnie tibetane. Lo stesso Dalai Lama, in base a questa classificazione cinese, sarebbe nato in Cina, visto che l’Amdo oggi non fa parte della Regione autonoma tibetana. Qui, al risentimento verso i cinesi, si aggiunge un senso di isolamento dalla «madrepatria», che si esprime attraverso forme di protesta che sfociano in veri atti di sfida. È proprio in una cittadina del Gansu, a Hezuo, che i rivoltosi sono riusciti a compiere l’azione più spettacolare: ammainare la bandiera cinese e issare quella tibetana.
Una sorta di Iwojima modea, prontamente occultata dalle autorità cinesi, che si sono affrettate a ripristinare lo status quo precedente. «La Cina afferma che il Tibet ha avuto uno sviluppo economico enorme grazie alla modeizzazione; è vero, ma per questo sviluppo abbiamo dovuto sacrificare, oltre alla cultura, il nostro ecosistema» ricorda uno studente incontrato in un ristorantino nei pressi dell’università.
Durante gli anni Sessanta, per compiere il «grande balzo in avanti» e divenire la prima potenza mondiale produttrice d’acciaio, tutte le regioni cinesi furono sottoposte a sistematici saccheggi naturali. Ma queste devastazioni ecologiche, accompagnate da installazioni nucleari e militari, non furono subite solo dal Tibet, bensì in tutta la Cina, come ha esaurientemente spiegato Jasper Becker, nel suo libro La rivoluzione della fame. Cina 1958-1962: la carestia segreta.
Il già citato Xinkjiang, ad esempio, ha patito distruzioni ben peggiori che ancora oggi si ripercuotono sulla popolazione e sulla cultura locale. Purtroppo per gli uiguri, loro non hanno un Dalai Lama e una religione «esotica» ed «affascinante» come quella buddista in grado di affermarsi tra l’opinione pubblica occidentale.
Un esilio in tensione
Inoltre, è anche vero che nella regione di Dharamsala, i tibetani, grazie ai finanziamenti ricevuti dalle organizzazioni pro-Tibet dell’Occidente, hanno «colonizzato» tutte le attività commerciali, allontanando gli autoctoni e creando tensioni che, seppur non siano mai degenerate in scontri, cominciano a causare qualche perplessità nel governo indiano.
M.K. Bhadrakumar, ex ambasciatore indiano a Mosca, Islamabad e Kabul, che mi accompagna a Dharamsala, spiega che «Dharamsala è su suolo indiano, ma oramai è come se fosse una città straniera per noi. Non abbiamo alcun controllo sulla comunità tibetana in India. Da ospiti sono diventati padroni». Poi, davanti ad una tazza di tè salato, continua: «Sono sicuro che le manifestazioni di Lhasa sono state organizzate, se non dall’entourage del Dalai Lama, dalle organizzazioni estremiste tibetane, che compongono il mosaico politico della comunità in esilio».
Le relazioni tra New Delhi e Dharamsala, ottime fino a qualche anno fa, si stanno deteriorando. Ora che l’India ha iniziato a interloquire con la Cina, la questione tibetana si sta facendo sempre più bollente e il governo di Manmohan Singh spinge affinché anche il Dalai Lama accetti di intavolare un dialogo fruttifero con Pechino. «Il problema non è tanto il Dalai Lama» spiega a New Delhi Subramanian Swamy, esperto in Cina e consigliere economico del governo Singh, «ma i suoi consiglieri, poco inclini al compromesso con Pechino. La comunità tibetana in India è formata da innumerevoli gruppi in contrasto tra loro e ognuno di questi gruppi ha, all’interno del governo tibetano in esilio, un suo rappresentante.
Uomini come Tsewang Rigzin, presidente del Tibetan Youth Congress, o Tenzin Choeving, dello Students for a Free Tibet, sono in aperto contrasto con il Dalai Lama e chiedono che il Tibet diventi una nazione completamente indipendente. Il Dalai Lama deve mediare tra tutte queste posizioni».
Il ruolo del leader tibetano, quindi non è così indiscusso come potrebbe sembrare. Il dover mediare tra opinioni in contrasto tra loro, ora che anche l’India preme affinché apra un dialogo con la Cina, lo pone di fronte a un bivio cruciale.
Se fino ad oggi, l’ambiguità del suo status politico-religioso garantito dall’esilio, gli ha assicurato la leadership, ora che è costretto a scegliere nei fatti quale politica perseguire, è inevitabile che all’interno della comunità si creino delle fratture forse insanabili. Se sceglie la linea dura si potrebbe alienare le simpatie dei governi sino ad ora a lui solidali come India e Nepal; viceversa, rigettando definitivamente l’idea dell’indipendenza (già rifiutata nei suoi discorsi sin dalla fine degli anni Ottanta), i gruppi più oltranzisti rischierebbero di rifiutare la sua figura di leader e continuare una lotta separata.
Il Dalai Lama, oramai figura ingombrante anche per l’India che lo ospita, sente la pressione del tempo che fugge e deve cercare di trovare una soluzione soddisfacente più per lui che per la Cina. Nella logica del cho-yon ora è lui ad aver bisogno di Pechino.
Piergiorgio Pescali