Voci e lacrime attraverso il muro

Essere cristiani in Terra Santa oggi

Esperienze di viaggio, pellegrinaggio e permanenza  in Terra Santa si trasformano nella narrazione di piccole storie quotidiane. Racconti che parlano di fatica, violenza, sofferenza e resistenza dei cristiani che vivono nei territori occupati.

Il 10 ottobre 2008, il Centro di animazione missionaria dell’Istituto Missioni Consolata di Torino ha ospitato l’incontro-dibattito «Essere cristiani in Terra Santa: affrontare l’occupazione, riscattare la speranza».
La serata è stata promossa dalla rivista «Missioni Consolata», dalle edizioni Paoline, da Pax Christi e dalla redazione di «Infopal.it».
Erano presenti don Nandino Capovilla, referente di Pax Christi per la Palestina; Betta Tusset, di Pax Christi; Gianluca Solera, cornordinatore del network Anna Lindh per il dialogo tra le culture; p. Ugo Pozzoli, direttore di «Missioni Consolata»; Filippo Fortunato Pilato, direttore di «www.Jerusalem-Holy-Land.org»; Angela Lano, direttrice dell’agenzia stampa «Infopal.it», moderatrice dell’incontro.
Durante la conferenza sono stati presentati i libri: «Bocche scucite», di N. Capovilla e B. Tusset, edizioni Paoline; «Voce che grida nel deserto», di Michel Sabbah, (a cura di Nandino Capovilla), edizioni Paoline; «Muri, lacrime e za’tar», di Gianluca Solera, edizioni Nuovadimensione. 
Abbiamo rivolto alcune domande a Solera e Capovilla sulla situazione che descrivono in dettaglio nei loro libri.

La difficile quotidianità dei cristiani in Terra Santa

Essere cristiani in Terra Santa, quali sono le difficoltà e le sfide, che, nella vostra esperienza di viaggio e pellegrinaggio, avete potuto constatare?

Gianluca Solera: «Credo che la grande sfida consista nel saper vivere la fede in una situazione di oppressione politico-militare che determina tutta la storia di un popolo, e farlo parlando di speranza e riscatto alla propria gente.
Vorrei rispondere raccontando anche dell’esperienza del pellegrinaggio in sé. Lo spirito dei pellegrinaggi in Terra Santa soffre di un problema di poca permeabilità, dell’incapacità di voler entrare in contatto con le comunità cristiane locali senza ridursi a percorrere itinerari «museali» tra Santo Sepolcro e Monte delle Beatitudini. Come vincere questa resistenza alla permeabilità? Innanzitutto bisogna sconfiggere una pigrizia di fondo da parte dei promotori di pellegrinaggi, che spesso sono ciechi alla condivisione dell’esperienza del pellegrinaggio con la chiesa incarnata di Terra Santa. Per un qualsiasi pellegrino che non conosce la realtà locale, è molto difficile entrare in contatto e comunione con le comunità cristiane del posto. In secondo luogo bisogna sfidare la politica di separazione e isolamento imposta dalle autorità israeliane su villaggi e città palestinesi, che rende complicato l’accesso alle comunità cristiane in Cisgiordania. Sono convinto che un pellegrinaggio che non sfida quest’isolamento, è un pellegrinaggio povero umanamente e già morto in partenza nello spirito».
Don Nandino Capovilla: «I cristiani di Terra Santa sono essi stessi un appello vivente, fortissimo, alla presenza, alla condivisione delle loro sofferenze. Dai vescovi al credente: tutti aspettano con trepidazione che, dall’Occidente, arrivi qualcuno a sostenerli, a portare solidarietà, a conoscere la drammatica situazione in cui sono costretti a vivere sotto occupazione».

Sia in «Muri, lacrime e za’tar» sia in «Voce che grida dal deserto» e in «Bocche scucite» emerge, a un certo punto, il tema dell’«insicurezza» dei cristiani che vivono a Gerusalemme e in Israele. Essi si sentono trattati dalle autorità israeliane come «cittadini di serie B». Qual è la vostra esperienza?

Solera: «Ho percepito i cristiani soffrire in silenzio, quel silenzio che è proprio di chi si sente minoranza. L’insicurezza dei cristiani è anche quella dei musulmani, ovvero di tutti gli arabi israeliani che vivono in un regime di effettiva discriminazione e di isolamento. D’altro lato, i cristiani in quanto minoranza sono più esposti al rischio di scomparire, di vedere i loro diritti umani e civili calpestati giorno dopo giorno, di vivere la tentazione del ripiegamento nel privato. Il sinodo diocesano delle chiese cattoliche di Terra Santa, conclusosi nel 2000, ha sollevato questa questione e ha chiesto un impegno pubblico maggiore da parte della comunità cristiana araba in Israele. I risultati delle ultime elezioni politiche nel paese hanno manifestato questa volontà di emergere e di farsi ascoltare, con l’elezione, per la prima volta, di tre arabi cristiani a membri della Knesset (parlamento israeliano, ndr). Credo che sia la pista giusta. Maggiore senso di responsabilità pubblica da parte dei cristiani arabi di Israele e Gerusalemme significherebbe maggiore attenzione ai problemi effettivi della convivenza e coesistenza inter-religiosa e soprattutto maggiore azione sociale contro la discriminazione etnica in Israele».
Capovilla: «Sì, in Israele si sentono cittadini di serie B, perché lo stato continua a sostenere l’ebraicità come valore assoluto, quindi sia i cittadini cristiani sia i musulmani – cioè, gli arabi palestinesi – soffrono per le discriminazioni che colpiscono tutti gli ambiti della loro vita. Interessante è la sintesi tracciata da Sabbah nel suo libro:  “Noi siamo discriminati in quanto palestinesi, non in quanto cristiani”».

Persecuzioni islamiche
anti-cristiane?

In entrambi i testi sopracitati si parla di cristiani che lasciano la Palestina. Una certa informazione, anche italiana, punta il dito contro i musulmani. Tuttavia, sia monsignor Sabbah sia i religiosi intervistati da Solera smorzano queste tesi e accusano, invece, l’occupazione israeliana. Qual è la vostra opinione?

Solera: «Credo che non vi sia una volontà egemonica da parte dei musulmani palestinesi. La questione è che i numeri fanno la differenza, e i musulmani si fanno demograficamente più numerosi che i cristiani, con conseguenze materiali sulle regole e gli spazi della convivenza. Ma credo che la convivenza sia possibile, anzi necessaria per preservare la diversità, che è una delle ricchezze fondanti del “carattere palestinese”. Che le autorità israeliane possano usare possibili tensioni intee alla società palestinese non è da escludere, e fa parte delle armi utilizzate per indebolire la coesione sociale palestinese e quindi la capacità di lotta nazionale. Ho personalmente conosciuto dei palestinesi cristiani che, alle ultime elezioni politiche hanno votato Hamas in distretti quali Betlemme o Ramallah, e questo la dice lunga sulla complessità delle relazioni intee, che non si possono semplificare in una visione conflittuale interreligiosa».
Capovilla: «I cristiani non lasciano la Palestina a causa dei musulmani. Lo confermano le dichiarazioni autorevoli di Sabbah che, in “Voce che grida dal deserto”, scrive:  “Da alcuni anni è in atto una campagna che vorrebbe far risaltare un’ipotetica persecuzione dei cristiani da parte dei musulmani. Che vi siano difficoltà nei rapporti, per una ragione o per l’altra, tra maggioranza e minoranza, è comprensibile e avviene qui come in ogni altro contesto. Noi palestinesi, cristiani e musulmani, siamo un solo popolo. Abbiamo le radici nella stessa terra, la Palestina. Le apparteniamo entrambi”.  Le sue parole sono una garanzia del nostro dovere di smontare tale propaganda, che è favorevole e funzionale, in Occidente, ad alimentare lo “scontro di civiltà” e quindi la “crociata anti-Islam” attualmente in corso. Il patriarca ripete sempre: “Siamo una piccola minoranza e quindi ci sono problemi di convivenza, come in qualsiasi  società, ma è ben altra cosa approfittare di piccoli episodi di criminalità trasformandoli in atti di discriminazione anti-cristiani e in propaganda”».

Cos’è cambiato da quando Hamas ha vinto le elezioni, nel gennaio 2006, e come viene considerato il movimento islamico tra i cristiani?

Solera: «Ripeto, molti cristiani votarono Hamas per ragioni politiche. Non so se farebbero lo stesso ora, dopo aver conosciuto le conseguenze dell’embargo imposto dalla comunità internazionale, ma questa è un’altra storia. Tra alcuni cristiani vi è apprensione, si teme che un movimento politico di ispirazione islamica possa marginalizzare la comunità cristiana e stimolare passioni irrazionali anti-cristiane. A metà settembre, quando stavo a Gaza, incontrai alcuni cristiani e feci la stessa domanda: ne ricevetti una risposta insperata, ovvero che non si sentivano minacciati da Hamas, ma piuttosto dai conflitti intestini, e che “Hamas li lasciava in pace”. La conclusione che ne traggo è che la comunità cristiana soffre certamente dell’animosità Hamas – Fatah, esponendo i suoi membri ai rischi della spirale di una lotta politica fratricida, ma che l’emersione di Hamas quale movimento di ispirazione islamica non comporta necessariamente l’affermazione di una politica di persecuzione su basi religiose».
Capovilla: «Purtroppo, il nostro modo di percepire e comprendere le varie dimensioni del conflitto è spesso lontano dai fatti reali. I cristiani, pur essendo contrari a radicalismi fondamentalisti che si scontrano con la natura laica della Palestina, non hanno problemi con Hamas. Il loro rapporto non è negativo: ad esempio, le autorità di Hamas nella Striscia di Gaza dimostrano rispetto nei loro confronti».

Il Muro che nasconde
la sofferenza dei palestinesi

I pellegrini si accorgono del «Muro di annessione»?

Solera: «Purtroppo no, nella maggior parte dei casi. Anche quando raggiungono Betlemme provenienti da Gerusalemme, passando con l’autobus attraverso quell’orrendo muro alto quasi nove metri, non si rendono conto di cosa significhi essere circondati da una barriera di cemento. Non fanno l’esperienza fisica dell’isolamento a cui è sottoposto un qualsiasi cittadino di Betlemme. Purtroppo, per “accorgersi” del Muro, è necessario vivee almeno un poco le conseguenze, mentre le facilitazioni al transito concesse esclusivamente ai pellegrini contribuiscono a rendere falsa l’immagine che uno straniero porta a casa della politica di segregazione imposta con la costruzione del Muro. Un poco di condivisione della sofferenza della segregazione in Terra Santa non farebbe male ai nostri pellegrini, e lo dico con franchezza».
Capovilla: «Lo vedono con gli occhi, ma non lo percepiscono. Vengono subito istruiti dalla guida sui “motivi di sicurezza” sottostanti… Ormai, con questa scusa tutto è possibile: anche chiudere milioni di persone in una grande prigione. Da qualche anno a questa parte, tutti i venerdì, alle 17, a Betlemme, in prossimità dell’apertura del Muro destinata a lasciar passare gli autobus dei pellegrini, un gruppo di suore organizza un rosario. Una preghiera contro il Muro. Nonviolenta. I pellegrini vengono invitati a scendere dai pullman e a unirsi alla preghiera, ma nessuno lo fa…».

Cosa si può fare, o si sta già facendo, per sensibilizzare l’opinione pubblica italiana, in particolare quella cattolica?

Solera: «Si sta facendo molto, ma sempre poco se compariamo gli sforzi di informazione e sensibilizzazione compiuti con il numero importante di pellegrini che visitano la Terra Santa senza un’adeguata preparazione culturale e politica. Quando si prega per la pace in Terra Santa, lo si fa spesso con quell’astrattezza e neutralità che rivela una mancanza di conoscenza della reale quotidianità delle comunità cristiane di Terra Santa. Credo che un buon modo di pregare per la pace sarebbe quello di gemellarsi con una delle molteplici parrocchie della Palestina, a cominciare da quelle più isolate, come quelle di Gaza o di Nablus. In altre parole, vedo necessaria una campagna di “adozione” delle parrocchie palestinesi da parte delle nostre e un lavoro pubblico che non esiterei a definire di contro-informazione sui cristiani di quella regione».
Capovilla:  «È importante preparare i pellegrini che partono, attraverso un lavoro paziente, spirituale e anche storico. Questa “apertura degli occhi” è un dovere morale e spirituale, pastorale, ancor più doveroso per noi, come cristiani».

Ebrei e israeliani «contro l’occupazione»

In Israele ci sono gruppi, movimenti, singoli cittadini ebrei che sostengono e lottano a fianco dei palestinesi. Sono gli «israeliani che chiedono giustizia»: Parents’ Circle, Icahd di Jeff Halper, i Refuseniks, i Naturei Karta, Bat Shalom, giornalisti come Amira Hass e Gideon Levy, storici come Ilan Pappe e tanti altri di cui i nostri media non parlano mai. Che peso hanno, secondo voi, queste organizzazioni e queste persone, in Israele?

Solera: «A metà settembre di quest’anno, ho incontrato Gideon Levy a Tel Aviv e Amira Hass a Ramallah, e ho posto loro la stessa domanda. Questi movimenti sono l’anima critica, la parte più sana della società civile israeliana che rifiuta di cadere nella logica dominante di disumanizzazione dei palestinesi e di compressione dei valori e delle libertà civili all’interno di Israele. Certo sono una minoranza, ma una minoranza necessaria, che rifiuta di parlare di pace senza giustizia. Debbo anche riconoscere, tuttavia, che la frustrazione e il pessimismo si sono accumulati in questi anni anche tra queste voci coraggiose. Gideon Levy riceve continuamente minacce verbali dal pubblico ebreo israeliano, e questo logoramento indebolisce anche lo spirito di un giornalista come lui. Amira Hass, che continua a vivere a Ramallah, è ancora più pessimista sul livello di apertura dei suoi concittadini verso un dibattito franco sulle cause profonde della crisi israelo-palestinese, e si aspetta un ciclico ritorno alla violenza, quasi che solamente la sofferenza possa scuotere le coscienze. Durante lo stesso viaggio, ho incontrato molte delle organizzazioni israeliane che lottano contro l’occupazione. Tutte hanno segnalato il rischio che alcuni settori del potere israeliano cerchino di “normalizzare” i rapporti israelo-palestinesi anche attraverso iniziative della cosiddetta società civile. La “normalizzazione” è una parola che non piace alle organizzazioni anti-occupazione, e l’unico modo per evitarla è avere propositi chiari ed espliciti ed azioni coerenti con essi, perché la “normalizzazione” è percepita dai palestinesi come un tentativo di pacificare senza giustizia. Oggi come oggi, queste organizzazioni sono in difficoltà anche logistica, e richiedono il nostro sostegno politico, civico e anche finanziario. Il loro successo starà nella capacità di creare spazi “binazionali” in cui ebrei israeliani e arabi lavorino insieme per un’alternativa alla politica di segregazione (come fanno ad esempio Parents’ Circle e Combatants for Peace). La loro missione consiste nel continuare a protestare sui cantieri del Muro e nel sensibilizzare israeliani e palestinesi sulla necessità di trasformare il loro modo di pensare il conflitto.
Queste organizzazioni sono accomunate da una visione critica del processo di pace e dell’iniziativa di Annapolis (Usa), del novembre 2007; credono che le parti che negoziano siano deboli e delegittimate di fronte all’opinione pubblica, e vogliono lavorare su un terreno più ampio che quello dell’opposizione alla costruzione degli insediamenti o del Muro di separazione. Ovvero, sulla memoria, sulla pianificazione territoriale alternativa, sulla demilitarizzazione della società, sugli stereotipi culturali, sulla preservazione delle risorse naturali come l’acqua, e soprattutto sulla formazione di un pensiero critico tra le persone. Gideon Levy mi diceva: “La società israeliana ha bisogno di uno scossone (breakthrough) emotivo”. Per questo, il lavoro coraggioso di queste organizzazioni che alcuni israeliani vorrebbero bollare come “traditrici della patria” è così importante».
Capovilla: «Io credo che la loro presenza incida più di quello che vediamo. Mons. Sabbah risponde a questa domanda puntando lo sguardo sulle future generazioni. Speriamo che esse possano superare i blocchi del passato e aprirsi alla dignità di tutti gli esseri umani e al rispetto dei diritti civili».

Violenza e nonviolenza
in Palestina

Il tema della «resistenza nonviolenta» è caro a molti cristiani e musulmani impegnati per la giusta soluzione alla causa palestinese, e mons. Sabbah ne parla ripetutamente nel suo libro. I villaggi palestinesi di Nil’in e Bil’in, ma non solo, ne sono un coraggioso esempio. Che cosa ne pensate?

Solera: «È sicuramente una strada da percorrere, e l’esempio di Bil’in, dove tutti i venerdì, da tre anni, gli abitanti del piccolo villaggio palestinese di Bil’in manifestano contro la costruzione del Muro è straordinario. Tuttavia, credo che non possa essere esclusiva. Come mi diceva Molly Malekar, direttrice dell’associazione di donne israeliane Bat Shalom che lavora per una giusta riconciliazione, i soldati del suo paese hanno picchiato pure lei durante una manifestazione non-violenta contro il Muro. Ovvero, il messaggio di Malekar era: “Non dobbiamo illuderci che la pratica non-violenta possa essere sufficiente a debellare la macchina dell’oppressione e a indebolire la forza militare e la volontà politica israeliana”. Condivido questa preoccupazione. Credo che si debba simultaneamente lavorare alla costruzione di un pensiero critico e alternativo dentro la società israeliana. D’altro lato, non possiamo neppure negare il diritto alla resistenza dei palestinesi, che potrebbe manifestarsi anche in modo armato, sempreché rispettino i canoni del diritto internazionale, che richiede, ad esempio, di non coinvolgere civili e inermi in eventuali scontri o azioni di difesa. Se da un lato dobbiamo ammettere che la resistenza palestinese non sia stata sufficientemente creativa e si sia definitivamente screditata con l’utilizzo dei kamikaze, d’altro lato dobbiamo riconoscere ai palestinesi il diritto all’autodifesa, e aiutarli a trovare il modo più efficace di esercitarlo, senza ulteriormente alimentare il vortice cieco della vendetta e della ritorsione violenta. Come cristiani è un dibattito difficile, ma necessario. Credo che la cultura della nonviolenza possa contribuire a ridisegnare i termini della legalità dell’uso della violenza stessa, che attualmente poteri statali come quello israeliano pretendono esercitare con diritto in forma esclusiva».
Capovilla:  «Con la nonviolenza si può: Michel Sabbah ha fiducia in questo mezzo. La forza sta nel lavoro sotterraneo e nel non valutare il risultato dall’effetto immediato, che è tipico, invece, della violenza».

«La pace è nelle mani di Israele», afferma Sabbah, che aggiunge: «l’ostacolo più grande alla pace è rappresentato dall’occupazione militare israeliana». Perché in Occidente si pensa che, invece, tutto dipenda dai palestinesi e che Israele non abbia «interlocutori validi»?

Solera: «Credo che tre siano le ragioni: il senso di responsabilità storica nei confronti degli ebrei, che ci porta a esser parziali nel nostro giudizio; il senso di prossimità culturale maggiore nei confronti degli israeliani, percepiti come europei rispetto agli arabi o ai musulmani, per i quali proviamo invece un inconscio sentimento di diffidenza, se non di ostilità; infine, la scarsa informazione disponibile in Occidente sulla vita che si svolge nei territori occupati. Quest’ultima ragione ha giocato un ruolo decisivo nel convincermi a scrivere il mio libro. Contribuire a diffondere in Occidente un’informazione corretta e prossima alle ragioni dei più oppressi è un imperativo per coloro che come noi hanno conosciuto la realtà dei territori occupati».
Capovilla: «Dobbiamo rilevare con amarezza che di fronte allo stato di Israele, ogni critica è avvertita come un attacco al popolo ebraico. Questo impedisce di accettare che la pace sia davvero nelle mani di Israele, come dice Sabbah».

Cisgiordania e Gaza sotto assedio

La popolazione palestinese, a Gaza e in Cisgiordania, è ormai allo stremo. Quali azioni di solidarietà ritenete valide e possibili?
Solera: «Due sono le azioni necessarie: rompere l’embargo e l’assedio a cui è sottoposta soprattutto la Striscia di Gaza, e sostenere politicamente i movimenti palestinesi. Molti dei palestinesi che ho incontrato mi dicevano:  “Non vogliamo il vostro pane, ma il vostro sostegno politico”. Ridurre la Palestina a un problema umanitario significa confondere le conseguenze con le cause, e contribuire indirettamente a mantenere lo status quo».
Capovilla: «Ci sono tantissime iniziative di solidarietà con il popolo palestinese, ma i media non ne parlano mai. Hanno prestato attenzione alla missione del Free Gaza Movement, forse perché più eclatante o forse perché a bordo delle due imbarcazioni, che ad agosto sono giunte al porto di Gaza rompendo virtualmente l’assedio, c’erano alcuni personaggi di spicco internazionale. In generale, i mezzi di informazione non parlano delle azioni di sostegno alla popolazione assediata, quindi, molti pensano che non si faccia nulla…».

Gerusalemme assiste a una forte ebraicizzazione, sia dal punto di vista urbanistico sia culturale e sociale. I luoghi santi cristiani e musulmani sono a rischio?

Solera: «Certamente lo sono in quanto luoghi di fede vivi, spazi sociali per cristiani e musulmani. Non credo che i luoghi sacri rischino la distruzione fisica. Ciò che mi preoccupa è che vengano trasformati in “reliquari” di archeologia religiosa, a cui non possono accedere i credenti locali per pregare o per incontrarsi. La giudaizzazione di Gerusalemme è anche questo: decomporre gli spazi comunitari e collettivi delle comunità cristiana e musulmana locali e banalizzare il patrimonio storico religioso a recinti di memoria».
Capovilla: «Non penso sia questo il problema reale, quanto piuttosto il fatto che il volto della Città Santa è ormai sfigurato. E ciò la mette a rischio di non poter diventare, un giorno, la capitale dello Stato palestinese. La stessa diplomazia internazionale che non concede a Israele di spostare a Gerusalemme le sedi delle ambasciate straniere dovrebbe impegnarsi affinché essa non diventi possesso di un solo Stato, di una sola comunità». 

Di Angela Lano

Angela Lano




Cari missionari

Giustizia per tutti…

Egregio Direttore,
mi permetto di fare qualche appunto all’articolo di padre Giuseppe Ramponi sul vescovo ecuadoregno Eduardo Proaño (M.C. 7-8 2008, p.16)) e, in genere, sul tono di moda in questi decenni, una visione dei popoli vicina a Rousseau: popoli originariamente buoni e dalla vita sociale quasi paradisiaca, rovinati completamente dai cattivi europei per di più cristiani.
L’evangelizzazione dell’America Latina ha le sue ombre, ma anche le sue luci: Turibio di Mongrovejo e Pietro Claver ne sono piccoli esempi… C’è poi la mentalità in molti popoli di dare sempre la colpa ad altri dei loro mali, ai cattivi sfruttatori: ieri il colonialismo, oggi il mercato globale e capitalismo selvaggio…
Noi popoli dell’Europa a chi dobbiamo chiedere i danni? Ai cartaginesi, ai romani, agli unni, ai mongoli, ai turchi… Siamo usciti da una lunga storia di guerre, stupri, pestilenze, fame e miserie d’ogni genere… A scuola ci hanno insegnato l’aspetto positivo della cultura greca che con Alessandro Magno ha unificato il mondo antico, così come poi il latino con Roma e con la chiesa: e oggi l’inglese, il francese, lo spagnolo non hanno forse portato anche qualcosa di buono nella crescita dei popoli?
L’ America Latina e specialmente l’Africa sono state evangelizzate, o meglio scolarizzate, da migliaia di missionari e missionarie usciti da tante povere famiglie e, pur con tutti i loro limiti, non sono andati in paesi lontani per imporre i loro usi e costumi e neppure per portare la rivoluzione delle armi, ma un po’ di vangelo secondo le loro capacità. Anche la grande emigrazione dall’Europa verso le Americhe non è stata principalmente un fatto di potenti contro poveri, ma un incontro e uno scontro di poveracci con poveracci. In Europa abbiamo impiegato più di mille anni per capire che forse è meglio non scannarci a vicenda e formare invece una comunità.
La creazione geme nelle doglie del parto… Il mondo nuovo, dove la giustizia ha stabile dimora, verrà dopo la fine di questo… saluti e buon lavoro.
Don Silvano Cuffolo
Oropa (BI)

Grazie, don Silvano, per questa sua riflessione. Siamo d’accordo. Ma intanto dobbiamo darci da fare perché il Regno di pace e di giustizia per tutti cresca già in questo mondo.

«Chi inquina uccide»,
non solo con i Suv

Dopo la lettura delle pagine dedicate ai Suv (M.C. 2-2008 p. 66-67) sono ancor più convinto che l’acquisto degli Sport Utility Vehicle sia una moda più che una necessità, un cedimento alla macchina pubblicitaria più che la risposta alla domanda di sicurezza sulle strade. Al tempo stesso mi sembrano doverose alcune puntualizzazioni.
Primo: anche la critica al Suv rischia di diventare una moda, se è disgiunta dalla critica a tutto un modo di concepire il diritto al lavoro, mobilità, svago. Consideriamo, ad esempio, il settore della pesca: l’aumento del prezzo del gasolio ha messo in grossissima difficoltà le compagnie; ci sono state molte agitazioni, scioperi, richieste di aiuto economico all’Unione Europea, oltre che ai governi nazionali e alle amministrazioni locali. Ma una congiuntura economica drammatica come questa non dovrebbe essere anche l’occasione per cominciare a prendere finalmente e seriamente in considerazione l’ipotesi di sfruttare le risorse del mare in modo più saggio, più equilibrato, più responsabile?
Se è vero, come è vero, che alcuni colossi della navigazione commerciale (Cosco Container Lines, K Line, Yang Ming, Hanjing Shipping, ecc…) hanno raggiunto un accordo sulla riduzione delle velocità delle loro navi da 25 a 21,5 nodi e probabilmente si accorderanno per ulteriori riduzioni (studiosi e tecnici hanno calcolato che una diminuzione della velocità del 10%, per un portacontainer può significare una riduzione del consumo di combustibile del 30%), perché non si dovrebbe trovare un’intesa analoga anche per il settore della pesca e per quello della navigazione da diporto?
E quell’Europa che spinge tanto per la rottamazione, ridimensionamento e rinnovamento delle flotte pescherecce (troppi i pescatori, troppi e troppo vecchi i natanti), non potrebbe spingersi un tantino più in là ed esigere da armatori e costruttori la messa in atto di tutti gli accorgimenti e soluzioni aerodinamiche che la modea tecnologia offre, per consentire all’uomo di lavorare e magari anche di divertirsi in mare senza rovinarlo?
Secondo: non mi convince affatto la linea scelta da alcuni governi nazionali e, soprattutto, locali che hanno deciso di far pagare l’ingresso dei Suv nei centri storici (a Londra, per esempio, Jeep & C. entrano solo se pagano l’equivalente di 33 euro al giorno…). È una cosa altamente diseducativa, una ignominiosa resa alla logica del «vuoi inquinare? Paga!».  No, cari premier e cari sindaci, sempre più innamorati delle tasse, erano molto più convincenti ed educative le domeniche senza auto: quelle che, nell’ormai lontano inverno 1973-1974, trasformarono non solo le città, ma anche le strade extraurbane (autostrade comprese) in piccoli paradisi.
Vorrei ricordarvi che chi inquina uccide: lo ha detto tante vole anche papa Giovanni Paolo ii, lo ha ribadito il suo successore; e su MC lo hanno documentato magnificamente il dott. Topino e la dott.ssa Novara.
In uno stato che funziona nessuna autorità può dire a chicchessia «vuoi uccidere? Paga!». No, in uno stato di diritto non può esserci spazio per approcci del genere, che non differiscono molto da quelli che caratterizzano il mondo dei contrabbandieri, bracconieri, camorristi, mafiosi.
Nessun medico serio si permetterebbe di dire a un paziente, pieno di problemi a causa della sua golosità, «per contenere i danni della gran mangiata e gran bevuta che ti farai, ingoia questa pasticca, fatti questa iniezione».
Smettiamo, quindi, di prendere di mira i proprietari di Suv, come se fossero tutti gradassi, prepotenti, ubriaconi, carnefici, e di difendere gli altri automobilisti, motoscornoteristi, camionisti, come se fossero tutti umili, sobri, vittime. Ridimensioniamo anche la storia che chi mangia pesce, rispetto a chi mangia carne, fa meno male alla salute propria e agli equilibri planetari: sia in mare che nelle acque intee, la pressione sulle risorse ittiche ha raggiunto livelli intollerabili, così come è intollerabile la tragedia delle morti bianche a bordo delle imbarcazioni: fonti Fao riportano che «ogni giorno almeno 70 persone muoiono in incidenti di pesca nei mari dei quattro continenti», numero ben maggiore di quello che si riscontra in edilizia e agricoltura.
Guglielmo De Tigris
Urbino

UN MURO CHE NON DIVIDE

Il 20° secolo, il più sanguinario che la storia ricordi, ha dato luogo a catastrofi umane senza precedenti, che hanno leso la dignità di milioni di persone. A 90 anni dalla fine della Grande guerra, la parrocchia di Ciano del Montello ha voluto realizzare, nel piazzale della chiesa, un «Monumento alla pace», inaugurato la sera del 27 settembre scorso.
Questo piccolo lembo di terra veneta, in prima linea ai piedi del Montello e lambito dal fiume Piave, fu teatro di avvenimenti drammatici e vide i suoi abitanti lasciare i luoghi natii come profughi o combattenti, pagando un prezzo altissimo in termini di vite umane e privazioni generalizzate, senza dimenticare i caduti dei paesi all’epoca nemici. 
L’intento principale dell’iniziativa è quello d’attuare una sorta di consegna intergenerazionale, per far sì che il ricordo sopravviva nella memoria e divenga, nel tempo, segno concreto per la tutela della libertà e della pace.
Il parroco, don Saverio Fassina, e gli animatori dei gruppi estivi si sono fatti promotori dell’opera, riflettendo a lungo su come poterla realizzare in maniera da rendere protagonisti i bambini e i giovani, così lontani nel tempo da quei tragici eventi, eppure eredi e diretti destinatari di sottesi messaggi di speranza per l’avvenire.
Avvalendosi della professionalità dell’architetto Giampaolo Blandini, si è scelto di valorizzare il muro dell’antico cimitero, che un tempo sorgeva accanto alla chiesa, applicandovi formelle in ceramica variopinta, create dai ragazzi, e aventi come tema predominante la pace. Accanto a queste ne sono state inserite altre, provenienti da viaggi o pellegrinaggi in diversi paesi del mondo, spesso martoriati, quali Etiopia, Palestina e Irlanda; esse contengono non solo messaggi iconografici, ma anche simbologie cristiane. Sul muro s’incontrano altresì iscrizioni islamiche, giunte dal Marocco, per affermare quella vicinanza umana che vuole andare oltre le etnie e le confessioni religiose.
Chiunque giunga in questi luoghi può sentirsi, così, accolto dalle parole: «La pace sia con te», espresse in varie lingue, fedi e immagini. Queste sono le «pietre vive» che coesistono, si sovrappongono e dialogano.

Il fulcro di tutto il progetto si sviluppa su un’area quadrata di circa quattro metri per quattro. Su uno dei lati è rappresentata il Montello, con tralci d’uva ed elementi plastici che rimandano alle case e chiese del territorio; sull’altro vi è un richiamo al Monte Grappa, definito da alti alberi e percorso da aneliti di vita, prematuramente spezzati…
Nel mezzo della composizione è collocata una fontana per quanti, assetati d’acqua e di giustizia, si fermeranno per trovare ristoro. Alla base di questa sono disposti i sassi del fiume Piave, di diverse dimensioni e fattezze, per evocare l’incertezza traballante di passi confusi, tormentati da angoscia e paura. L’acqua, elemento vivificante, intende favorire la purificazione della memoria, personale e collettiva, e la rinascita.
Per evidenziare maggiormente questa idea di rinnovamento, un velo d’acqua ha il privilegio di scorrere sui versi di una poesia dell’ecuadoriano Jorge Carrera Andrade (1903 – 1978), pioniere della difesa della natura e della bellezza del mondo, sulla quale vedeva incombere il rischio dello sfregio di una ragione senza spirito.
«Verrà un giorno più duro degli altri:
scoppierà la pace sulla terra
come un sole di cristallo.
Un fulgore nuovo avvolgerà le cose.
Gli uomini canteranno nelle strade
liberi ormai della morte menzognera.
Il frumento crescerà sui resti delle armi distrutte
e nessuno verserà il sangue del fratello.
Il mondo allora sarà delle fonti
e delle spighe che imporranno il loro impero
d’abbondanza e freschezza senza frontiere».

La speranza è che quanti lo desiderano, piccoli o grandi, continuino ad apporre nuove formelle, provenienti da diversi luoghi ed esperienze, su questo «muro di pace». L’intero complesso è concepito, pertanto, come un’opera in divenire, un monumento vivo.
In questi luoghi, quasi completamente distrutti dalla guerra, bambini e ragazzi di Ciano, tramite questa esperienza, hanno compreso in maniera tangibile che l’infanzia e la giovinezza sono un momento privilegiato per diventare, in prima persona, portatori e costruttori di pace. Il compito loro affidato è di diffondere questo giornioso messaggio. In opere e parola. Perché non sempre i muri dividono.
Rosella Cervi
Ciano del Montello (TV)




Sogno un Natale …

Notte di Natale, la più santa che ci sia, con stelle, campane, musica celestiale. Quanto vorrei che assieme a tutta questa luce e poetica tenerezza ci fosse anche la visione di Dio, per capire se siamo sulla stessa sintonia o se ci perdiamo in un’altra lunghezza d’onda con un mondo, una vita e un sentire completamente differenti.
Io so che quel bambino adagiato sulla paglia in una stalla, perché la povertà dei suoi genitori non consentiva di avere un altro posto, era figlio di Dio. Non vennero riconosciuti i suoi diritti di Signore del cielo e della terra per i tratti umani che mostrava. Che tragico errore di categorie mentali ingiuste che condannavano Dio solo perché si mostrava uomo povero! Che tragedia! Avessero mai saputo o anche soltanto immaginato che in quel bambino si celava la pienezza della natura divina… chissà che feste, che celebrazioni imponenti e spettacolari.
Nelle sacre scritture non ho mai letto che Dio ordinava la preparazione di liturgie straordinarie. Ha sempre ribadito di preferire la misericordia, di dare priorità al diritto e alla giustizia. Dio ha fatto sapere esattamente cosa vuole. È ancora scritto e nessuno lo ha cancellato: «Io voglio – dice Dio – essere per voi un padre, e che voi siate miei figli».
Lungo i secoli, i «devoti» hanno costruito una serie di esigenze, che sono entrate nella mentalità comune, e tutti accettano pacificamente sacrifici, offerte, olocausti, manifestazioni gloriose.

Nel mondo indio, che ho conosciuto direttamente, la festa di Natale è quasi ignorata come celebrazione trionfale, a differenza degli altri che invece si indebitano, per fare cose pompose e straordinarie da ricordare e vantarsene. Gli indios ne rimangono ai margini, partecipandovi solo se ingaggiati come comparse per i balli folklorici, che accompagnano le parate e le processioni del Bambin Gesù. Ricordo che non ho mai avuto fede accogliente per queste celebrazioni natalizie, dove si mangia e si beve, ma non nasce niente di Gesù, di Cristo, di Figlio di Dio, di Padre Divino.

Io sogno un Natale che fa nascere un mondo differente, un mondo che viene affidato alla nostra fede e alla nostra carità per diventare senza mali, senza offese e discriminazioni, senza ostentazioni a scapito della solidarietà amata e promossa a tutti i livelli, comunitari e sociali. Il Natale è Dio che si è avvicinato per essere padre e figlio, per incarnare il suo amore e la sua misericordia. Natale vuol dire che la grazia diventa grazia ricevuta e Dio, finalmente, può arrivare a tutti, con la sua benevolenza e dolcezza. In questo modo, il Natale diventa la più bella notizia per l’uomo e per il mondo, canto di dignità per il povero e l’umiliato, sorgente perenne di libertà e speranza per tutti.
Non succeda mai che si celebri il Natale di Gesù, senza far posto alla sua nascita nella nostra vita. Non ci può essere Natale di Gesù senza la sua nascita in noi.

Giuseppe Ramponi




Perù. La bianca che voleva farsi Ashaninka

Lima: incontro con una donna speciale

Italiana per nascita, tedesca per matrimonio, peruviana per adozione. Etnologa con alle spalle molti anni vissuti tra le popolazioni indigene del Perú. Un’avventura affascinante, vissuta con una passione e un entusiasmo incredibili. Lei si chiama Maria Heise Mondino. Siamo andati a trovarla nella sua casa di Lima.

Lima, quartiere di Monterrico. Maria abita in una bella casa con il figlio, la moglie di lui e la nipotina. «Datemi del “tu” , così mi sento meno vecchia». Maria è nata a Parma nel 1928, ma la sua freschezza mentale farebbe invidia ad un giovane.

Maria, vediamo se abbiamo capito bene: tu sei italiana di nascita, tedesca per matrimonio e peruviana per adozione… È così?
«È proprio così. Conobbi mio marito ad Innsbruck, in casa di un’amica. Mio padre non era tanto contento di avere un fidanzato tedesco per sua figlia dato che era stato prigioniero dei tedeschi. Alla fine cedette, noi ci sposammo e andammo a Berlino dove mio marito era assistente all’Università. Rimasi in Germania dal 1956 al 1978.
Laureata in lingue straniere alla Bocconi di Milano, io volevo insegnare, ma in Germania la mia laurea non era accettata. Dopo un periodo di depressione, decisi che dovevo ricominciare a studiare, anche se avevo già 41 anni.
Scelsi etnologia (1) con specializzazione su Centro e Sud America».

Come venne l’idea di venire in Perú?
«All’epoca davano delle piccole borse di studio per chi stava facendo ricerche particolari. Io presentai un mio progetto: volevo andare a vedere come funzionava l’educazione nella sierra peruviana per i bambini che parlavano quechua. Io sapevo che l’educazione era impartita soltanto in spagnolo. Lo accettarono e il 9 febbraio dell’anno 1973 partii con destinazione Huanta, una delle province di Ayacucho».

Come fu l’impatto con la gente che parlava quechua?
«Forte. Io avevo studiato la lingua a Berlino, ma mi mancava la pratica. Però provai subito una grande simpatia per loro. Era un villaggio di contadini molto poveri che lavoravano quasi come schiavi nelle aziende del luogo.
  Quella mia prima esperienza fu tanto interessante che ci tornai per alcuni mesi anche l’anno seguente.  E poi ancora nel 1977. Infine, la cooperazione tedesca mi offrì di seguire un progetto sull’educazione bilingue a Puno».

Si dice che a Puno faccia sempre freddo…
«Tanto che gli abitanti stessi giocano sulla parola estación, che significa stagione ma anche stazione dei treni. A Puno – dicono – ci sono 2 estaciones, quella invernale e quella del treno.
Verso mezzogiorno la temperatura sale anche a 22-23 gradi, ma la notte scende terribilmente. Puno è a quasi 4.000 metri d’altezza. L’unica cosa bella è il Lago Titicaca. In compenso, la regione ha una grandiosità e paesaggi incredibili.
Io andavo in lungo e in largo con un Wolkswagen per cercare le scuole che potessero entrare nel progetto».

Le lingue quechua e aymara

Dove si parlano il quechua e l’aymara?
«L’aymara si parla da Puno verso la parte boliviana, mentre il quechua si parla da Puno verso Arequipa».

Ma che tipo di lingue sono?
«Le due lingue hanno un’origine comune. Sono lingue agglutinanti, che hanno la particolarità di essere formate da tanti pezzettini che si uniscono tra di loro.
Si aggiungono questi suffissi che danno il significato alle parole. Suffissi locativi, di direzione, di movimento, eccetera.
Come tutte le lingue amerindie, anche il quechua e l’aymara sono molto differenti dalle lingue indoeuropee. E sono molto differenti anche tra loro. Per esempio, molto diversa è la lingua che si parla nella selva tra gli ashaninka, con cui io lavorai dopo l’esperienza di Puno».

Dalla sierra alla selva. È un bel passaggio…
«Passai in effetti da 4.000 metri sul livello del mare alla foresta, dove  l’ambiente vegetale ed animale era completamente diverso. Per me la selva è di una bellezza straordinaria.
All’epoca poi era incontaminata o quasi. Si arrivava al Rio Tambo con un piccolo aereo Cesna».

Per seguire un progetto di educazione bilingue con chi…
«Con gli ashaninka, popolazione che parla una lingua completamente diversa dal quechua e dall’aymara. Gli ashaninka sono il gruppo più numeroso della selva: si calcola che siano 50.000. Assieme agli aguaruna, sono un gruppo particolarmente combattivo. Difesero il loro territorio fino all’inizio del Novecento, quando entrò l’esercito e con esso commercianti e faccendieri».

Gli ashaninka e Sendero Luminoso

Gli ashaninka divennero famosi durante gli anni di Sendero Luminoso. Tu cosa ricordi di quel periodo?
«Arrivarono in un caldissimo pomeriggio. Il villaggio era semideserto perché la gente era uscita al mattino presto con le 2 canoe. Dalla mia capanna intravidi la canna di un fucile. Andai fuori e trovai almeno 7 persone che mi puntavano addosso i fucili. “Noi siamo dell’esercito di liberazione Sendero Luminoso”, dissero. “Venga con noi che dobbiamo interrogarla”.
Va bene, dissi. Poi, aggiunsi: “Mi mancano le mie sigarette. Sono sul mio tavolo. Se non ci credete, venite con me”.  “Vada, vada, signora”, risposero.
Fui di una sfacciataggine immensa. E ancora oggi mi chiedo “ma come ho fatto?”. Presi dunque le sigarette e poi li seguii fino alla Posta medica. Era tutta pitturata di rosso e avevano issato due bandiere rosse. Due capi, a volto scoperto, cominciarono a farmi domande.
Faceva un caldo terribile, ma uno dei due indossava uno di quei copricapo di lana che coprono anche le orecchie. Mi faceva una pena, ma decisi che era meglio non dire nulla.
Assieme a me, avevano catturato anche un collega, che sembrava piuttosto spaventato, e soltanto due ashaninka, dato che tutti gli altri erano riusciti a dileguarsi nella foresta.
A questi due, che quasi non parlavano spagnolo, chiesero: “Ma come vi tratta questa signora?”. Io pensai che si metteva male per me, ma loro risposero: “Bene, bene”.
C’era un gruppo di uomini di Sendero, molto giovani (avranno avuto 17 anni), che parlavano quechua. Detto per inciso, l’odio degli ashaninka verso quelli della sierra è rimasto anche perché loro li associano a quelli di Sendero.
Il capo politico, quello che faceva i discorsi, disse: “Noi non rubiamo niente. Accettiamo soltanto delle donazioni”. Mentre parlava, vidi uno dei ragazzi che se ne stava andando con la mia valigetta. “Guardi, guardi”, dissi al capo, che subito intervenne facendosi portare la valigetta. Me la fece aprire. C’erano una macchina fotografica e un impermeabile, cioè due strumenti di lavoro. Ed una stecca di sigarette. Io di nuovo sfacciata dissi: “Facciamo metà per uno”. Il capo accettò. Aprì subito un pacchetto, mi offrì una sigaretta e me l’accese con un fiammifero.
Alla fine, ci dissero che se ne andavano e che dovevamo non uscire di casa per mezzora».

«Quella gringa è stata fortunata»

«La sera raccontammo l’avventura agli ashaninka tornati al villaggio. Decidemmo che era opportuno andarsene a Lima per almeno 15 giorni. Perché da una parte potevamo essere accusati dall’esercito di essere collaboratori di Sendero, dall’altra i guerriglieri avrebbero potuto tornare.
Fummo fortunati. Il giorno dopo arrivò un’altra colonna di Sendero, ma questa era molto più dura della precedente. “Dove sta la gringa?”, domandarono subito. “È andata a Lima”, risposero gli indios. “È stata fortunata, perché l’avremmo ammazzata e con lei tutti gli altri”.
Questa vicenda con Sendero segnò però la fine del progetto. Avevo il cuore a pezzi dal dispiacere.
Tutta la zona del Rio Tambo da allora fu sotto il controllo di Sendero per alcuni anni. Gli ashaninka furono costretti a lavorare per i guerriglieri.
In condizioni simili alla schiavitù, dato che la quasi totalità di loro era contro i senderisti, anche a causa del loro spirito libero e indipendente che contraddistingue i popoli della selva e gli ashaninka in particolare. Era come mettere un uccello in gabbia. Sopportarono per alcuni anni.
Un giorno arrivò nel mio ufficio di Lima, Emilio Rios, capo degli ashaninka del Rio Tambo. “Sono venuto per dirti che da ora siamo in lotta armata contro Sendero”.  “È un suicidio”, gli dissi subito. Voi non avete armi. “Abbiamo i fucili con cui andiamo a caccia. Abbiamo i nostri archi e le nostre frecce. Ma non possiamo più sopportare. Per convincerci ad obbedire ai loro ordini, sono arrivati ad uccidere con il machete le nostre donne incinte. Fanno togliere il feto ed obbligano i familiari a mangiarlo.
Fecero anche questo per rompere la loro resistenza.
Cominciò allora una lotta terribile, veramente terribile, senza esclusione di colpi (anche fino al taglio delle teste), tra Sendero e gli ashaninka del Rio Tambo. Però alla fine gli ashaninka riuscirono a respingere Sendero. Fu la sola popolazione indigena, che con le sue sole forze riuscì a vincere, a obbligare Sendero ad andarsene. Fu una pagina eroica di  resistenza, mai adeguatamente ricordata».

Razzismo alla peruviana: «Bianco è meglio»

 Nella tua trentennale esperienza peruviana non hai visto il paese diventare meno razzista?
«No, il Perú continua ad essere razzista. Una cosa che m’indigna riguarda il colore della pelle: più chiaro sei, più vali…».

È ancora molto diffusa questa idea?
«La cosa che più mi scandalizza è che l’idea è diffusa anche fra le classi più modeste. C’è una signora che viene qui tutti i giorni. È un po’ robusta, sui 45 anni.  Un giorno, visto che era nato il suo nipotino, le ho chiesto: “Signora Carmen, com’è il suo nipotino?”. “È molto carino – mi ha risposto -. Assomiglia tutto a me. È bianco come me!”. Non avevo mai osservato il colore della sua pelle e ti posso assicurare che non è tanto bianca. Ma lei ne è orgogliosa… Ha un colore normale, ma lei si vede chiara. Probabilmente questo suo pensare di essere l’aiuta a superare un complesso di inferiorità».

In questi anni i popoli indigeni sono stati protagonisti in America Latina. Come in Bolivia, in Ecuador, in Cile. È stato lo stesso in Perú?
«Non vedo che ci sia questo fenomeno in eguale misura anche qui in Perú, il movimento indigeno è ancora troppo debole».

E diviso?
«Sì. Forse diviso, perché Lima è sulla costa. A Lima c’è tanta popolazione indigena, ma non si fa sentire come dovrebbe».

Eppure in questo paese un indio è stato eletto presidente della Repubblica. Ci riferiamo ad Alejandro Toledo (2001-2006)…
«Per me Toledo è stato una grande delusione. Da quando io sono in questo paese, il migliore è stato Velasco».

Maria, sui libri e su internet si legge che Velasco (1968-1975) più che un presidente fu un dittatore… Ai nostri giorni, lo stesso trattamento viene riservato al presidente venezuelano Hugo Chávez…
«Velasco era molto ingenuo, mal consigliato, male accompagnato. È stato quello che ha fatto la riforma agraria e la riforma educativa, fondamentali… Ma la sinistra invece di appoggiarlo fece di tutto per boicottare le sue riforme e farlo cadere. Imperdonabile.
Ricordo che io arrivai in piena riforma agraria che prevedeva la distribuzione delle terre ai contadini.
Per farti capire come fossero la maggioranza dei latifondisti, ti racconto cosa accadde ad una festa.
C’era una ragazza che teneva un bambino con quei fazzoletti tipici della sierra. Mi disse che nella casa non c’era posto e che avrebbe dormito fuori. Eravamo a duemila metri, e di notte faceva freddo…
Mi venne in mente che avevo ancora il mio sacco a pelo e volevo darglielo. Ma la padrona saltò su come una furia. “Tu creeresti un precedente deleterio… Se tu fai questo, io ho conoscenze molto in alto e ti faccio buttare fuori dal Perú. Ti faccio negare il permesso di soggiorno”.
La ragazza ha dormito fuori coprendosi solo con una coperta…  Io mi sono detta: che mostri che sono queste proprietari terrieri. I loro lavoratori li consideravano poco più che animali».

Insomma, la riforma agraria di Velasco era una cosa necessaria. E quella educativa?
«Un’altra cosa che m’indignò fu l’affossamento della riforma educativa, che era stata elaborata dai migliori pensatori ed educatori del Perú.
Un giorno mi invitarono ad una riunione di maestri. Si cominciò a leggere:  primo articolo bocciato, secondo bocciato, eccetera. Non si discuteva nulla perché arrivava tutto dalla riforma di Velasco. Poi si arrivò ad un articolo che diceva: si fa obbligo a tutti i maestri del Perú di conoscere una lingua veacola. Allora chiesi la parola.
“Guardate – dissi loro – che questo articolo sarebbe a favore dei vostri fratelli campesinos, contadini che soffrono tanto perché i maestri non sanno la loro lingua. Quindi, questo articolo non lo potete bocciare”.
Invece, tutti in coro gridarono: “No, no. Dal governo di Velasco non c’è da aspettarsi nulla di buono”. Mi venne voglia di dire una brutta parola… Invece, salutai e me ne andai».

Rimanendo sui presidenti di questo paese, nel 2006 i peruviani hanno rieletto Alan García, anche se la sua prima presidenza era stata disastrosa…
«Altro che  disastrosa era stata… C’era un’inflazione a tre cifre… mensili. Sicuramente la cattiva gestione dell’economia da parte di Alan García portò alla vittoria di Fujimori, che era sconosciuto all’epoca…
Pensa che Fujimori abitava nella casa di fronte…  E già a quel tempo era separato da sua moglie, Susanna, un’architetta. Lui veniva qui a vedere i suoi figli ogni 15 giorni.
Un giorno, appena rientrata dall’ Europa, vidi che c’era un cartello fuori della loro casa: in vendita. Allora chiesi in giro e mi dissero che erano andati via perché lui si era messo in politica. Pensavo potesse mirare ad essere rettore universitario, deputato, senatore e invece un bel giorno me lo ritrovai presidente».

Ma Fujimori che tipo di persona era?
«Ricordo che un giorno, forse in campagna elettorale, voleva andare per il Rio Ene. Lui arrivò con una grande carta e disse:  “Voglio andare lì con amici evangelici” (si era messo con le sette evangeliche). Gli dicemmo che era molto pericoloso andare perché era area di Sendero, ma lui insistette e andò con l’elicottero. Lo incrociai tempo dopo e gli chiesi com’era andata. Lui disse: bene. Ancora oggi non so perché fosse andato là e per cosa. Forse aveva dei traffici anche con Sendero…
Comunque, Fujimori era una persona poco appariscente».

E di Alan García che puoi dirci?
«Non l’ho conosciuto di persona, ma non mi è mai piaciuto.
Penso che ad un certo punto ci sia stato un grande imbroglio. Alan García doveva essere processato, ma lui scappò in Francia. Poi, negli ultimi giorni del governo Fujimori, lo graziarono.
Alan García è tornato e ce lo siamo ritrovati prima libero, poi addirittura presidente. Che vergogna. Proprio un bel regalo del signor Fujimori. E adesso io mi domando se Alan García, per ricambiare quel regalo, non farà tornare Fujimori in libertà».

Appunto… Se Alberto Fujimori tornasse libero e potesse ripresentarsi alle elezioni, quanti lo rivoterebbero?
«Purtroppo molta gente, io penso. Ci sono tanti fujimoristi anche fra le classi medio-alte… Andava molto bene, perché ha fatto le strade, faceva regali a tutti, magliette con il suo nome, aveva ristabilito l’ordine… Era un grande populista!».

Anche nella selva le donne…

Tu hai raccontato delle tue esperienze tra gli indigeni. Che ci dici della condizione delle donne indigene, oggi?
«Che anche nelle comunità indigene le donne sono quelle che lavorano più di tutti e che anche gli uomini della selva sono dei macisti.  Gli abbandoni della famiglia da parte dell’uomo sono frequenti e la donna è quella che paga e lavora. Poi la vita vuole che arrivi un altro uomo, lei si illude che possa andare diversamente e nascono altri figli. Poi anche questo se ne va e lei continua a mandare avanti da sola la famiglia…
Mia figlia ha lavorato qui nella salute pubblica, come ostetrica e nei programmi infantili. Quando tornava a casa, raccontava delle cose pazzesche.
Mi raccontò ad esempio di un uomo, compagno di una donna che aveva una figlia 14enne, di cui lui abusava. La bambina rimase in stato interessante. Ma il brutto della storia è che la mamma non buttò fuori casa l’uomo, ma la figlia.
Quando tornava dal lavoro, mia figlia aveva una rabbia… In particolare verso gli uomini…».

«Valiamo per quello che facciamo»

Maria, per concludere, sono 30 anni che ti sei stabilita in Perú. E molti di essi li hai trascorsi a sostenere le istanze indigene. Cosa vorresti dire per chiudere questa lunga intervista?
«Che credo nella popolazione indigena, nei suoi diritti. Credo nell’idea dell’interculturalità della quale tutti parlano ma nessuno sa cosa vuol dire. Nell’idea che tutti valiamo uguali, valiamo per quello che facciamo, non per il colore della nostra pelle. Che se una persona ha una cultura differente dobbiamo cercare di capirla e non pensae male perché è diversa dalla mia. Questo è un errore fondamentale che la gente fa. Ci sono tanti preconcetti, tanto razzismo…». 
Grazie , Maria.  

di Paolo Moiola

L’infinita lotta per la terra

Un sogno che non si avvera

È una pubblicità che rimane nella testa quella della Ong Mani Tese: c’è la suola di uno scarpone da lavoro su cui è rimasta attaccata della terra e sopra una frase tanto significativa quanto lapidaria: «Terra di proprietà. In America Latina milioni di contadini possiedono solo la terra che rimane sotto le loro scarpe».
Passano gli anni, ma il problema della proprietà e della concentrazione delle terre rimane quasi ovunque insoluto. Neppure il presidente brasiliano Lula è riuscito nell’intento di varare una seria riforma agraria che portasse ad una distribuzione delle terre. Anzi, ha fatto arrabbiare sia lo storico movimento dei semterra che gli indios dell’Amazzonia (vedi articolo a pagina 45). Identiche situazioni si riscontrano in Argentina, Ecuador, Colombia e su verso nord fino al Guatemala.
In Perú, in vista della prossima entrata in vigore  (1 gennaio 2009) del discusso «Trattato di libero commercio» (Tlc), il 20 maggio 2008 il governo del presidente Alan García ha approvato il decreto legislativo 1.015 con cui si riduce – dal 66,6% al 50% dei voti dei membri della comunità campesina o indigena – il consenso necessario per vendere o dare in concessione le terre comunitarie. Addirittura, la percentuale del 50% non dovrà più essere calcolata sui membri effettivi delle comunità, ma soltanto sui partecipanti all’assemblea, con il rischio quindi che decisioni di vitale importanza vengano prese da una minoranza.
Il decreto 1.015 è dunque un tentativo esplicito di aprire la strada alle imprese e alle multinazionali, in violazione dei diritti delle comunità campesine ed indigene della sierra e della selva.
D’altra parte, la filosofia ultra-liberista del presidente Alan García era stata già manifestata. In un articolo pubblicato su El Comercio (1), il principale quotidiano del paese,  García accusava chi non consente lo sfruttamento delle risorse del Perú. In primis, dell’Amazzonia. Nonostante l’età e l’esperienza, certi presidenti non migliorano mai. Alan García è certamente uno di questi: fu disastroso durante la sua prima esperienza di governo, oggi prosegue su quella stessa strada.

di Paolo Moiola

Note:
(1)  El síndrome del perro del hortelano, pubblicato su El Comercio del 28 ottobre 2007.

Popoli indigeni ed identità linguistica

¿Runasimita rimanquichu?  

Si chiamano Hilaria Supa Huaman e Maria Cleofé Sumire de Conde sono due donne elette al Congresso peruviano per il partito nazionalista di Ollanta Humala (1). Entrambe provengono dal dipartimento del Cusco e soprattutto sono quechua. Nell’agosto del 2006, le due congressiste sono salite agli onori della cronaca nazionale a causa delle polemiche suscitate dalla loro scelta di giurare in lingua quechua anziché in spagnolo. 
Il quechua (runasimi, nella terminologia nativa), lingua nativa americana, è parlata da circa 10 milioni di persone in vari stati sudamericani: Perú, Bolivia, Ecuador, Colombia (meridionale), Argentina (nord-occidentale), Cile (settentrionale). Fu lingua ufficiale durante l’impero Inca. Per importanza, il quechua precede altre due lingue native, l’aymara e il guaraní.
In Perú, il quechua è idioma ufficiale accanto all’aymara e allo spagnolo. È parlato da circa 3 milioni di peruviani (su 28 totali). Tuttavia, gode di scarsa considerazione e rispetto, come dimostra la vicenda delle due congressiste, forse perché è parlato soprattutto da gente di bassa condizione sociale (indigeni, contadini, donne).
¿Runasimita rimanquichu? ¿Hablas quechua? (2) Parli quechua?

di Paolo Moiola

Note:
(1)  Su Ollanta Humala si legga: Paolo Moiola, Ollanta e Nadine, MC marzo 2008.
(2)  Abbiamo preso a prestito il titolo da un interessante articolo di Hildegard Willer, pubblicato su Noticias Aliadas / Latinamerica Press, 25 aprile 2007.

Paolo Moiola




Acqua alla gola (scempio e follia)

L’acqua un bene vitale in grave pericolo (prima puntata: la situazione italiana)

Un tempo, nelle acque del Po, il principale fiume italiano, era possibile la balneazione. Altri tempi. Oggi il fiume soffre di ogni sorta di inquinamento. E così gli altri corsi d’acqua, i laghi, i mari. Ipossia, anossia, eutrofizzazione: un disastro provocato dalle attività umane, mai adeguatamente regolamentate, mai interessate a salvaguardare i beni della collettività. Il conto è salato, anzi salatissimo. Forse impagabile.

Siamo abituati a fare giri in bicicletta sulle piste ciclabili torinesi, tra cui quelle che costeggiano i fiumi principali della nostra città, il Po ed il suo affluente, la Dora Riparia. Durante questi giri, ci è capitato di osservare varie situazioni di degrado, che interessano i due corsi d’acqua. Ciò che più ci ha lasciati allibiti è stata la scoperta di cospicui sversamenti di cromo esavalente nelle acque della Dora, provenienti dalla tristemente famosa Thyssen
Krupp e dalle Ferriere Fiat, di cui abbiamo già parlato (MC, luglio 2008).
Non basta: a livello della costruzione del nuovo passante ferroviario di Torino, nel punto in cui esso passerà sotto la Dora, attualmente si possono vedere vere e proprie montagne di «smarino», che poggiano per buona parte sulla «tombatura» del fiume (la Dora per quasi un chilometro è coperta da una soletta di cemento, che fungeva da base di una parte delle Ferriere) e su di loro passano camion, che continuano a versare materiale in grande quantità, mentre il letto del fiume è stato ridotto ad un terzo della sua ampiezza, sotto il ponte adiacente, per consentire gli scavi sotto il letto del fiume stesso.
Viaggiando invece in riva al Po, abbiamo osservato per mesi la realizzazione di una pista ciclabile sull’argine del fiume; per costruire questa pista sono stati riversati, direttamente nel fiume, macerie provenienti da cantieri edili e cemento, che sono andati ad occupare circa tre metri dell’ampiezza del letto del fiume.
Osservazioni del genere ci fanno chiedere in quali condizioni siano i corsi d’acqua nel nostro paese. In generale, quali sono le condizioni delle acque dolci, comprese quelle di falda, in Italia? E nel resto del mondo? In questa prima puntata della nostra rubrica prenderemo in considerazione la situazione italiana.

Poveri fiumi italiani

Il Po, il maggiore dei nostri fiumi (652 chilometri), percorre una delle aree più densamente popolate ed industrializzate del bacino del Mediterraneo: la pianura Padana, dove vivono circa 20 milioni di persone nonché 12 milioni tra bovini e suini d’allevamento, più diversi milioni di polli. Dalle abitazioni, dalle industrie e dagli allevamenti di bestiame viene immessa nel Po una quantità di rifiuti organici pari a quella di una popolazione di circa 119 milioni. Il fiume inoltre bagna quattro delle regioni più produttive d’Italia, cioè il Piemonte, la Lombardia, l’Emilia-Romagna ed il Veneto, regioni dove si trova circa il 50% dell’industria nazionale con una produzione annua di circa 25 milioni di tonnellate di rifiuti industriali, la maggior parte dei quali raggiunge l’Adriatico.
Un’analisi delle acque del Po, lungo tutto il suo percorso, eseguita da Legambiente nel 2005, ha rivelato che solo a Crissolo, in prossimità della sorgente, l’inquinamento è irrilevante, cioè di classe 1 (le classi d’inquinamento vanno da 1 a 5 e sono rispettivamente: 1 – non inquinato, 2 – lievemente inquinato, 3 – inquinato, 4 –  molto inquinato, 5 – gravemente inquinato). Procedendo verso valle, già a 50 Km dalla sorgente, cioè a Saluzzo, l’inquinamento è di classe 3. Nel tratto lombardo le cose peggiorano ed in provincia di Piacenza è stato rilevato un inquinamento di classe 4. Solo nel tratto da Guastalla (RE) al delta è stato rilevato un inquinamento di classe 2, ma questo esito potrebbe essere stato falsato dalle condizioni atmosferiche, caratterizzate da piogge intense, che hanno aumentato la portata del fiume, prima delle analisi. Probabilmente con una portata normale, i risultati sarebbero stati peggiori.
Secondo un rapporto dell’Istituto Ambiente Italia di maggio 2006, tra i grandi fiumi italiani solo l’Adige mantiene una qualità delle acque buona o sufficiente, mentre le condizioni del Po, del Tevere e dell’Ao sono critiche. Gli obiettivi di qualità chimica e biologica posti  per il 2016 sono oggi assolti solo da un terzo dei bacini idrici italiani, ma anche quelli posti per il 2008 sono pienamente rispettati solo in Trentino Alto Adige, Liguria e Valle d’Aosta, mentre le situazioni peggiori si hanno complessivamente in Emilia, Lazio, Lombardia, Marche e Campania. Nelle regioni meridionali, il sistema di monitoraggio è ampiamente insufficiente, infatti su 620 punti di campionamento, solo il 15% si trova nelle regioni meridionali e mancano del tutto i dati relativi alla Puglia ed alla Calabria.
Invece il Piemonte e la Valle d’Aosta rappresentano da sole il 23% dei dati nazionali. I dati si basano sull’indice SECA (introdotto dal Dlgs 152/99 sulla tutela delle acque), che integra i risultati delle analisi chimico-fisiche e microbiologiche (LIM) con i dati di qualità biologica dell’Indice Biotico Esteso (IBE), un parametro chiave per definire la qualità delle acque, che si basa sull’analisi della struttura della comunità d’invertebrati, che popola il letto dei fiumi. Secondo il Dlgs 152/99 entro il 2016 ogni corso d’acqua superficiale dovrà raggiungere lo stato di qualità ambientale «buono», per cui, entro il 2008, esso dovrà presentare almeno i requisiti dello stato di qualità ambientale «sufficiente».
Sempre secondo l’analisi di Legambiente, il 21% dei fiumi italiani risulta inquinato in modo da non raggiungere la sufficienza e ciò si verifica specialmente in Emilia-Romagna, Toscana, Lazio, Sicilia e Sardegna.

Come ti inquino un fiume, un lago, un mare

Che tipo di sostanze inquina i nostri fiumi? Possiamo innanzitutto dire che le sostanze inquinanti provengono dai settori civile, agro-zootecnico ed industriale. I principali inquinanti del settore civile sono le sostanze organiche biodegradabili. Il settore agro-zootecnico inquina con sostanze fertilizzanti, fitosanitari e pesticidi. L’industria invece emette sostanze organiche alogenate e metalli pesanti come mercurio, arsenico, cromo, cadmio e piombo. Oltre a queste sostanze, da ripetute analisi, effettuate nel Polesine sulle più comuni specie di pesci presenti nel Po, sono state rilevate quantità preoccupanti di diossina e di policlorobifenili (PCB), che rendono impossibile la pesca sul fiume, anche se purtroppo qualcuno comunque continua a pescare ed a mangiare questo tipo di pesci, correndo seri rischi, dato l’elevato potere cancerogeno della diossina e dei PCB.
Per quanto riguarda le sostanze biodegradabili organiche provenienti dal settore civile e da quello agro-zootecnico, la diretta conseguenza è il progressivo impoverimento di ossigeno delle acque, causato dai batteri, che assimilano e poi decompongono il materiale organico, consumando ossigeno in questa loro attività. Ciò determina un’ipossia, se non addirittura un’anossia delle acque, che progressivamente porta alla morte di ogni forma di vita presente e questo vale soprattutto per le acque marine, che ricevono dai fiumi l’enorme carico di sostanze organiche biodegradabili, in essi riversate. Inoltre i fertilizzanti agricoli riversano nelle acque dei fiumi enormi quantità di derivati dell’azoto e del fosforo, cioè sostanze nutrienti, che una volta raggiunto il mare favoriscono il fenomeno dell’eutrofizzazione, cioè l’abnorme crescita di alghe. Quando queste ultime muoiono, precipitano sul fondo marino e vengono degradate dai microrganismi esattamente come i liquami, accentuando così l’impoverimento d’ossigeno delle acque, con conseguente moria di pesci e perdita della biodiversità.
I problemi dell’impoverimento d’ossigeno delle acque e quello dell’eutrofizzazione stanno interessando allo stesso modo anche i principali laghi italiani. Il problema dell’inquinamento dei nostri fiumi e del Po in particolare è sorto dopo gli anni Sessanta, in concomitanza con l’espansione delle grandi città e degli impianti industriali, nonché con l’instaurarsi di un tipo di agricoltura e di allevamento intensivi. Prima di allora nelle acque del Po era possibile la balneazione. Ora è proibito fare il bagno, perché il rischio di malattie è estremamente elevato. Una curiosità: tra le malattie, che si possono contrarre facendo il bagno nei nostri fiumi, c’è la leptospirosi, malattia mortale per l’uomo, trasmessa dall’urina dei topi e dei ratti, che infestano le rive dei fiumi e più in generale le nostre città.

Stati Uniti: i diritti… degli inquinatori

I problemi legati all’inquinamento, di fiumi e laghi italiani sono presenti negli altri paesi industrializzati o in via di sviluppo, alla stessa maniera, se non peggio.
Vandana Shiva, nel suo Le guerre dell’acqua, riferisce il caso del fiume Cuyahoga a Cleveland, Ohio, Stati Uniti, che serviva da discarica per le industrie del luogo e che nel 1969 era così contaminato dai prodotti chimici, che prese fuoco.
Negli Stati Uniti, nel 1972 venne approvato il Clean Water Act, il quale stabiliva che nessuno può inquinare l’acqua e che tutti hanno diritto all’acqua pulita. Tale legge si poneva l’obiettivo di riportare entro il 1983 le acque dei fiumi in condizioni idonee per la pesca e per il nuoto. Purtroppo nel 1977, a seguito delle pressioni degli industriali, anziché puntare alla regolamentazione degli scarichi, si passò a considerare lo standard della qualità dell’acqua. Tale standard è stabilito dal governo, però, relativamente ad un’area designata e ciò in relazione all’acquisizione dei permessi di scarico o Tdp (Tradable Discharge Permits), da parte delle aziende, cioè una compravendita dei diritti d’inquinamento. In pratica, in tal modo, il governo passa da protettore del diritto all’acqua per tutti i cittadini, a quello di sostenitore dei diritti degli inquinatori. Tra l’altro, la quantità d’acqua necessaria per la fabbricazione di molti prodotti a livello industriale è impressionante e molto superiore a quella, che si consumerebbe fabbricando a mano lo stesso tipo e lo stesso quantitativo di prodotti. La lavorazione della pasta di legno per la produzione industriale della carta determina un consumo d’acqua tra i 270.000 e gli 855.000 litri per tonnellata di carta. La sbiancatura del cotone consuma dai 216.000 ai 324.000 litri d’acqua per tonnellata di cotone prodotto. Anche la modea industria informatica contribuisce in modo pesante all’inquinamento dell’acqua. Basta pensare al fatto che un singolo wafer di silicio da 6 pollici (cioè la piastra, su cui sono stampati i circuiti integrati e da cui si ottengono i chip che rappresentano, ad esempio, la memoria del computer, che stiamo usando, o quella di un telefono cellulare) richiede per la sua fabbricazione circa 10.237 litri d’acqua deionizzata, oltre a 90 metri cubi di gas generici, a 0,6 metri cubi di gas tossici, a 900 grammi di prodotti chimici ed a 285 kilowattore di energia elettrica. Se poi pensiamo al fatto che lo stabilimento Intel di Rio Rancho nel New Messico, di wafer di silicio ne produce 5.000 alla settimana…

Cina: un disastro dietro l’altro

Dall’altra parte del mondo, in Cina, dove è in corso una rivoluzione industriale senza precedenti, la situazione dei grandi fiumi, che bagnano il paese e dei loro affluenti, nonché dei laghi è, a dir poco, agghiacciante. Si calcola che siano inquinati il 90% dei fiumi e dei laghi cinesi, specialmente al nord, con oltre il 70% delle acque dei fiumi Giallo o Huang He (il più lungo dei fiumi cinesi, che va dall’altopiano del Tibet al golfo di Bo Hai, nel Mare Cinese orientale, dopo 5.460 Km), dello Huai e del Hai, nonché dei loro affluenti e che le loro acque siano troppo inquinate per l’uso umano.
I dati ufficiali dicono che oltre 320 milioni di contadini cinesi non hanno accesso all’acqua potabile e che circa 190 milioni bevono acqua sicuramente inquinata. Inoltre l’acqua inquinata dei fiumi viene usata per irrigare i campi, i cui prodotti vengono poi commercializzati ed esportati (ad esempio le mele Fuji, che troviamo nei nostri supermercati). Anche molti prodotti ittici provengono da zone altamente inquinate.
Tutto questo si sta traducendo in una strage silenziosa tra gli abitanti di molti villaggi, situati lungo le coste dei fiumi cinesi. Emblematico è il caso di un villaggio, Xiaojiadian, che si trova lungo le rive di un affluente del fiume Giallo, a 250 Km dal delta. Si tratta di un villaggio di circa 1.300 persone, dove negli ultimi cinque anni sono morte 70 persone, per cancro allo stomaco od all’esofago. Nei villaggi vicini, nello stesso periodo, sono morte altre 1.000 persone, per cause analoghe. A monte di questi villaggi, negli ultimi 20 anni sono sorte numerose concerie, cartiere ed industrie. In questa zona, l’incidenza del cancro all’esofago supera di 25 volte la media nazionale, al punto che il distretto di Dongping viene considerato la capitale mondiale del cancro, dagli oncologi che studiano questi casi. Peraltro, un rapporto del 2007 del ministero della Salute cinese imputava all’inquinamento atmosferico e delle acque un allarmante incremento dell’incidenza di tumori in tutta la Cina, in particolare del 19% nelle aree urbane e del 23% nelle aree rurali.
I problemi legati all’inquinamento vanno ad aggiungersi ad altri altrettanto gravi, che interessano questi fiumi ed in particolare il fiume Giallo, le cui acque vengono captate in enorme quantità: il 65% per l’agricoltura ed il resto dall’industria e dalle città in rapido sviluppo. Il risultato è che il fiume, già sottoposto a lunghi periodi di siccità, che sempre più caratterizzano la Cina, soprattutto nella sua parte settentrionale, pur essendo stato in passato responsabile di inondazioni catastrofiche, attualmente stenta a raggiungere il suo delta, essendo la sua portata ridotta ad un decimo di quella originale, ed in effetti, negli anni Novanta, per qualche tempo, non lo ha raggiunto affatto. Ciò comporta una concentrazione di sostanze tossiche, riversate nelle sue acque ed una grave ripercussione sia per quanto riguarda l’approvvigionamento idrico di moltissime città, sia per la produzione di cereali, la cui diminuzione inciderà pesantemente sul mercato cerealicolo mondiale. La crisi idrica cinese è sicuramente cominciata con l’instaurarsi di un clima più secco e caldo, che sta interessando l’intera regione, con un aumento del processo di desertificazione (basti pensare che sono già scomparsi 3.000 su 4.077 laghi nella provincia del Quinghai). Nei mesi estivi, le piogge sono così scarse, che il governo cinese ha attuato un programma di «inseminazione» delle nubi, consistente nel bombardare queste ultime, nell’area sovrastante la sorgente del fiume Giallo, con cristalli di ioduro d’argento, per aumentare il tasso d’umidità e stimolare le precipitazioni. La situazione di questo fiume, già resa precaria dal clima, che ne ha ridotto la portata, per effetto della riduzione del 7% all’anno dei ghiacciai, che lo alimentano, è resa ancora più difficile dalla presenza di 20 grandi dighe, che ne frammentano il percorso ed aggravano il problema della siccità.

Nel frattempo, il riscaldamento globale…

Come sappiamo il problema della siccità è una delle conseguenze del progressivo rialzo termico (vedi il riquadro di pagina 54), che sta interessando il nostro pianeta, grazie all’effetto serra causato dall’immissione nell’atmosfera di gas quali l’anidride carbonica, il metano, l’ossido di azoto ed i clorofluorocarburi, dispersi in miliardi di tonnellate annue sin dagli inizi della rivoluzione industriale.
In particolare, l’anidride carbonica (CO2), da sola, è responsabile del 50% dell’aumento della temperatura. Fonti primarie di questo gas sono i combustibili fossili (petrolio, benzina, carbone) e la deforestazione, soprattutto l’abbattimento delle foreste pluviali. Il metano (CH4), che è responsabile per il 18% del rialzo termico, è in aumento ed è rilasciato da batteri presenti in zone acquitrinose, come paludi, torbiere e risaie, ma è anche presente nell’apparato digerente dei ruminanti, come i bovini; la sua molecola ha un’incidenza sul riscaldamento terrestre 20 volte superiore a quella dell’anidride carbonica. L’ossido di azoto (N2O) aumenta nell’atmosfera dello 0,8% all’anno e con ogni probabilità è rilasciato dai fertilizzanti agricoli; la sua molecola, ai fini dell’effetto serra, ha una potenza 200 volte superiore a quella dell’anidride carbonica.
I clorofluorocarburi (CFC), oltre a distruggere la fascia dell’ozono atmosferico, hanno un notevole ruolo per l’effetto serra, poiché contribuiscono tra il 17% ed il 24%, ma soprattutto la loro molecola ha un effetto 20.000 volte maggiore di quello dell’anidride carbonica. I CFC sono usati negli impianti di condizionamento e nei refrigeratori, nonché nelle materie plastiche espanse, negli aerosol e nei solventi.
Se l’emissione di questi gas continuerà con il ritmo attuale (teniamo presente che le automobili sono tra le principali responsabili di queste emissioni), si calcola che la temperatura media della superficie terrestre aumenterà di un grado entro il 2030 e di tre gradi, entro la fine del secolo e questa sarà la prima volta che la terra si troverà ad affrontare un simile rialzo termico in così pochi anni, considerando che dall’ultima era glaciale la temperatura media è salita di 4-5 gradi in 10.000 anni. Peraltro il progressivo inaridimento, che già colpisce parecchie regioni della Terra, non sarà ubiquitario, dal momento che l’innalzamento della temperatura porterà ad un aumento dell’evaporazione acquea degli oceani, accelerando il ciclo dell’acqua. Sono piuttosto prevedibili situazioni sempre più estreme, con territori maggiormente colpiti da siccità ed altri da alluvioni, per l’estensione delle precipitazioni, conseguente all’aumento dell’umidità media in certe zone. Le temperature più alte porteranno ad una più rapida evaporazione acquea dalla terraferma e quindi il suolo si seccherà più velocemente. Già ora molti fiumi, come appunto il fiume Giallo, presentano una consistente riduzione della loro portata. Questa situazione sta già interessando anche l’Italia.

L’Italia s’inaridisce

Secondo i dati della Protezione civile l’Italia sta diventando in parte arida. Il problema viene inoltre aggravato dalle captazioni d’acqua a fini produttivi e ad uso civile. In particolare per l’agricoltura vengono captati 20 miliardi di metri cubi d’acqua all’anno, cioè il 49% di tutta l’acqua disponibile (nel resto d’Europa, il consumo per uso agricolo rappresenta il 30%), mentre l’industria ne consuma il 21% e per gli usi civili se ne capta il 19%.
L’enorme quantitativo d’acqua usato in agricoltura è strettamente correlato alla necessità di foraggio per gli allevamenti intensivi di bovini e di suini, oltre naturalmente alle colture per uso alimentare umano.
Un ulteriore problema, che sicuramente in Italia non incentiva al risparmio dell’acqua in agricoltura e nell’industria è il suo costo, che è in media di 52 centesimi di euro al metro cubo per uso civile, mentre per uso agricolo o industriale costa cento volte di meno. Inoltre, in certi casi i reali consumi per uso agricolo non sono nemmeno fatturati, oppure viene fatto un forfait. È chiaro che finché non ci sarà corrispondenza tra il costo ed il consumo reale dell’acqua, saranno pochi gli agricoltori che limiteranno le irrigazioni.
Ci sono poi le aziende imbottigliatrici di acque minerali (cfr. il Dossier di MC del giugno 2006) , che, pagando l’acqua ad una cifra irrisoria (meno di un centesimo di euro al metro cubo), realizzano guadagni esponenziali (al supermercato un metro cubo d’acqua minerale vale mediamente 516 euro). Infine, lo spreco d’acqua dovuto ai singoli individui, ma anche alle perdite nelle condotte, che si lasciano dietro il 42% dell’acqua captata, che non giungerà a destinazione (con la punta massima del 70% a Cosenza). 
(Fine prima puntata – continua)

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

Riscaldamento globale ed informazione

Colpi di sole

La mancanza di responsabilità verso le problematiche ambientali è conosciuta. Soprattutto in Italia. Eppure esistono giornalisti che, minimizzando o addirittura negando i problemi, incentivano l’illusione che le attività umane non siano dannose per la terra e per il futuro di tutti. 

L’Amazzonia è sempre presa come esempio di disastro ambientale inarrestabile. Ma – purtroppo – non c’è soltanto il polmone del mondo in pericolo. Secondo un recente libro fotografico1 dell’agenzia Onu per l’ambiente (United Nations Environment Programme, Unep), negli ultimi 30 anni l’Africa ha subito mutamenti devastanti: ghiacciai che scompaiono (ad iniziare dal Kilimangiaro in Tanzania), deforestazione selvaggia, biodiversità a rischio. Ma occorre andare lontani per vedere i disastri prodotti dal riscaldamento climatico (global warming): il Trentino, terra di montagne innevate (almeno fino a qualche anno fa) e boschi, da anni vede i propri ghiacciai (sono 83) assottigliarsi (uno per tutti, l’Adamello, il più esteso delle Alpi italiane). A tal punto che la provincia di Trento ha messo in campo iniziative di studio e ricerca per affrontare il problema2.

Scetticismo contro precauzione – Nel 1992, al Summit di Rio, si formalizzò il «principio di precauzione» per le questioni ambientali. Quel principio è stato clamorosamente disatteso, come dimostra l’affossamento del Protocollo di Kyoto (1997), che pure è molto timido nel fissare limiti alle emissioni di gas serra (anidride carbonica e metano, in primis). Nel frattempo, nei 15 anni trascorsi da Rio, la situazione ambientale si è notevolmente aggravata e gli studi scientifici hanno dato conferme alle ipotesi iniziali. «Catastrofismo ed esagerazioni», qualcuno nega l’evidenza stessa. Come giustamente sostiene Mario Tozzi, «lo scetticismo è il sale della scienza». Ma, secondo il ricercatore e giornalista scientifico, la stragrande maggioranza degli scienziati «dice la stessa cosa, cioè che il clima sta cambiando e che al 90% è colpa nostra».

La situazione secondo i rapporti Onu – Nel suo quarto rapporto (2007)3, il Comitato internazionale sul cambiamento climatico (Ipcc) afferma che «il riscaldamento del sistema climatico è inequivocabile, come evidenziano gli aumenti riscontrati della media mondiale della temperatura dell’aria e dell’oceano, il disgelo generalizzato di nevi e ghiacciai e l’aumento della media mondiale del livello del mare». Secondo il rapporto redatto dai 2.500 scienziati dell’Ipcc, le cause sono da ricercare nella concentrazione di gas serra che sono aumentati notevolmente a causa delle attività umane a partire dal 1750, ma in maniera particolare negli ultimi 50 anni.   
Ma non è tutto qui. I mutamenti climatici, infatti, esasperano le ingiustizie tra ricchi e poveri, tra Nord e Sud del mondo, come ha evidenziato l’ultimo rapporto del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp): le conseguenze dei cambi climatici – siccità, inondazioni, eventi meternorologici estremi, migrazioni forzate – colpiscono tutti, ma i più deboli in particolare. «Sono i più poveri – si legge nel rapporto4 -, che non hanno contribuito e continuano a non contribuire in misura significativa alle emissioni di gas serra, a essere i più vulnerabili».

Il fantomatico «complotto» ambientalista – Nonostante la netta maggioranza degli scienziati concordi sul riscaldamento globale e sulle cause che lo determinano, ci sono giornalisti e divulgatori che negano il problema e così facendo producono disinformazione molto dannosa, considerando lo scarso spirito di responsabilità che politici, amministratori e cittadini hanno nei confronti dei problemi ambientali. In Italia, paese noto per la scarsissima vocazione ambientalista, stanno percorrendo questa strada due giornalisti del quotidiano Avvenire, Riccardo Cascioli e Antonio Gasperi, che sull’argomento hanno sfornato ben tre libri (citati a piè di pagina), tutti incentrati sulla negazione del riscaldamento globale e – udite, udite – su un presunto «complotto ambientalista», ordito da Onu, Ipcc, No-global ed associazioni. Le ardite tesi ed argomentazioni di Cascioli e Gasperi sono scientificamente smontate in un recente libro di Stefano Caserini (vedi piè pagina), professore al Politecnico di Milano, che nella premessa scrive: «Alla base del negazionismo italiano ci sono ragioni forse più di ordine psicologico e sociologico, la volontà di difendere l’attuale modello di sviluppo senza metterlo in discussione o la ricerca della visibilità che dà il cantare fuori dal coro; oppure, semplicemente, la pigrizia. “L’uomo non c’entra” è una tesi comoda, evita le grane delle politiche ambientali; obiettivo raggiunto anche dalle successive evoluzioni del pensiero negazionista: “ridurre le emissioni costa troppo” e “il riscaldamento globale fa bene”».

Gli irresponsabili difensori dello status quo – Di norma, in un mondo dominato dal «pensiero unico», sarebbe auspicabile e benvenuta una partecipazione critica alle scelte che influiscono sulla vita delle persone. Come ben sappiamo, ciò non avviene. Ironia della sorte (o mero prodotto dell’insipienza umana), il pensiero unico viene a mancare proprio dove invece servirebbe.
Sembrava che le problematiche ambientali potessero spingere gli stati ad unire le energie per affrontare questioni di enorme portata. In tutta evidenza, dal protocollo di Kyoto fino all’ultima riunione (luglio 2008) del G8 a Hokkaido, in Giappone, non è così. C’è sempre qualche presidente (di uno stato o di una multinazionale) che preferisce difendere lo status quo. E c’è sempre qualcuno pronto a scrivere che quel presidente ha ragione e che quegli scienziati raccontano «balle» (sì, è proprio questo il termine utilizzato).

di Paolo Moiola

Roberto Topino e Rosanna Novara




MASSACRO ( complotti, interessi, bugie)

40 anni dall’uccisione di padre Giovanni Calleri

«Questa è la storia di un martirio. Di un uomo che voleva portare la pace, ma ha trovato la morte».
Padre Silvano Sabatini questa storia la conosce bene, sia per averla in parte vissuta, sia per aver condotto un’approfondita inchiesta alla ricerca di giustizia. Ma molti sono ancora i misteri che circondano questo massacro.
Continua Sabatini:  «Non si può capire la realtà di Roraima di oggi se non si conosce questa storia».
Il primo novembre prossimo ricorre un triste anniversario: il massacro di padre Giovanni Calleri, missionario della Consolata e di 8 suoi compagni della missione di pacificazione in terra Waimiri-Atroari.
Nel 1968 il governo brasiliano stava costruendo la strada BR174, per collegare Manaus con Boa Vista e, più a Nord, con il Venezuela. Si stava tagliando una fetta di foresta amazzonica che attraversava da Sud a Nord lo stato di Roraima. Ma i lavori erano stati perturbati dai frequenti attacchi degli indios Waimiri-Atroari, che si opponevano alla strada, in quanto questa passava sul loro territorio.
Nel 1967 il rapporto Figueredo aveva reso pubblici massacri e vessazioni ai danni delle popolazioni indigene dell’Amazzonia ad opera di militari e poteri locali brasiliani interessati a invadere le loro terre ricche di legnami e minerali di ogni tipo. L’inchiesta fu bloccata ma in parte trapelò, causando uno scandalo internazionale.
Il governo dovette fare un’operazione di facciata, creando la Funai (Fondazione nazionale dell’indio) in sostituzione dell’Spi (Servizio di protezione dell’indio). La Funai era costituita da personaggi più o meno credibili. Di fatto, però tutto continuava come prima.

Missione di pace

Fu proprio la Funai che chiese a padre Giovanni Calleri di guidare una missione per pacificare gli indios Waimiri-Atroari, che in caso contrario, sarebbero stati massacrati, per far spazio alla BR174 (cosa che poi avvenne). Calleri, nato a Carrù nel 1934 era arrivato in Brasile a fine ’64 e aveva subito mostrato una grande capacità di relazione con gli indios diventandone buon conoscitore. Lavorando a Catrimani, aveva inventato un sistema iconografico per avere la collaborazione degli yanomami: il «Mamo», ancora utilizzato fìno al 1980, ed era riuscito a pacificare malocas (gruppi o comunità) avversari.
Il progetto di Calleri, appoggiato dall’Istituto nella persona di padre Domenico Fiorina, superiore generale, era chiaro. Convincere gli indios a spostarsi in una zona a 200 km dal sito scelto per la strada, e qui creare un «parco protetto» per preservare il loro gruppo e la cultura. Per far questo, la missione di padre Calleri avrebbe convinto altri indios come intermediari, andando nella zona del rio Alalaù. Questi, trasferitisi nella zona del parco, avrebbero attirato anche il gruppo del rio Abonarì (quelli più vicini al tracciato della strada), che avrebbero così abbandonato le ostilità.
Ma i missionari non sapevano qualcosa di molto importante, che avrebbe influito su questa storia. Nel febbraio del 1968, in quell’area si era recata una missione di prospezione mineraria, guidata dal colonnello William Thomson, con l’appoggio della missione protestante Meva, basata a Kanaxen, in Guyana. La Meva era rappresentata dal suo pastore statunitense Claude Leawitt. Questi, rimase poi quattro mesi nell’area.
Si seppe più tardi che quella zona celava importanti giacimenti di minerali, più o meno preziosi: niobio, tantalite, zirconio, terre rare, cassiterite e uranio. In quella zona alcuni anni dopo si impiantò la compagnia mineraria brasiliana Paranapanema per estrarre (ufficialmente) cassiterite. L’area è ancora oggi super protetta ed è impossibile penetrarvi.

Cambio di programma

Il progetto di Calleri era geniale, ma si scontrava con gli interessi di alcuni potenti locali e stranieri.
Giunto a Manaus il 25 settembre, cinque giorni dopo il padre viene costretto a un cambio di programma: la missione si recherà direttamente presso gli indios del rio Abonarì, per convincerli a cessare le ostilità. «Per accettare una modifica così drastica e rischiosa il padre fu minacciato» racconta Sabatini, che ebbe un lungo colloquio con il missionario subito dopo. Il colonnello Carijò, capo della Der-am (Dipartimento delle strade dell’Amazzonia) promette a Calleri l’appoggio di un elicottero e viveri e materiale.  La Funai dell’Amazzonia è la mandante della spedizione.
Gli altri componenti della missione, sette uomini e due donne, gli furono imposti. Tra loro Alvaro Paulo da Silva, personaggio ambiguo, pagato dalla Der-am.
La spedizione parte da Manaus in aereo il 14 ottobre e raggiunge la base al km 220 del rio Abonarì. Da qui dovrà spostarsi nell’interno. Ci sono i primi conflitti tra il padre e Alvaro Paulo. Questi vuole che la missione si sposti via terra, il padre invece sceglie il fiume.
«In quel momento nella stessa area è nascosto un gruppo di bianchi, brasiliani, organizzati da Alvaro Paulo» riportano le testimonianze raccolte da Sabatini presso gli stessi indios «e vi arriva anche Claude Leawitt, accompagnato da quattro indios Wai-Wai». Anche loro sono lì per far fallire la missione.

Il progetto dei bianchi

«Il disegno era di fare massacrare la spedizione dagli indios. I bianchi avrebbero dovuto verificare che tutto ciò avvenisse».
Ma non andò così. Il genio di Calleri fece in modo da farsi accogliere dai Waimiri-Atroari della maloca del capo Maroaga come visitatore e non aggressore. Alvaro Paulo (allontanato dal gruppo da Calleri che aveva constatato il tradimento) e Claude Leawitt dovettero minacciare «pesantemente» gli indios per farsi accompagnare all’accampamento della spedizione, nel cuore della notte. «Ma furono loro, i bianchi, a compiere il massacro, con armi da fuoco. Poi obbligarono gli indios a trafiggere i corpi di frecce» ricorda padre Sabatini. Era il primo novembre del 1968. Di quel gruppo furono recuperate solo le ossa, 30 giorni più tardi, dai paracadutisti del Parasar, corpo speciale brasiliano.
Tutti i giornali parlarono del massacro di una missione di pace, perpetrato dai bellicosi indios Waimiri-Atroari, che non volevano la BR174 sulla loro terra. Questa è la versione ufficiale, ancora oggi dopo 40 anni. Qualcuno voleva liberarsi di questo popolo, e per far questo occorreva dimostrare che erano feroci indios impossibili da pacificare. Da qui il disegno di una spedizione votata al massacro.
 «Calleri non voleva convertire gli indios nell’immediato. Voleva salvarli. Fu martire della carità, della difesa dell’uomo e dei suoi diritti, della sua identità e cultura» continua padre Sabatini. I Waimiri-Atroari da 3.000 che erano nel 1968 furono sterminati e ridotti a circa 300. Oggi sono un migliaio.

La missione di pacificazione si scontrò con qualcosa di molto grosso e ignoto ai missionari. Tutta la zona tra Roraima, stato di Amazzonia e Sud della Guyana è un’importante regione mineraria. Già nel 1944 gli statunitensi vi avevano fatto missioni di esplorazione mineraria. Potenti locali, politici e militari, avevano questa informazione. La stessa Missione evangelica Meva, basata a Kanaxen, ma presente anche a Roraima, non è estranea a interessi inteazionali in quest’area. Ma non basta. Nel 1999 il governo brasiliano, attraverso l’Industria nucleare brasiliana, pubblica un dato: nella zona del bacino del rio Uatuma (ribattezzato rio Pitinga) sono presenti (almeno) 75.000 tonnellate di uranio, di quello buono. La quantità sarebbe addirittura di 200.000 tonnellate, secondo le più recenti pubblicazioni. Il che porta il Brasile al quarto posto al mondo come riserve del prezioso minerale.

 Di Marco Bello

Marco Bello




TERRA INDIGENA, TERRA CONTESA

Roraima: continua la lotta per la terra

Dopo 30 anni di lotta gli indios di Roraima ottengono legalmente la loro terra. Ma i potenti locali non ci stanno. Così, a furia di ricorsi (e di pressioni), costringono la più alta Corte federale a  rivedere il decreto. Intanto continuano le violenze, nella totale impunità. E il parlamento brasiliano sta per approvare la legge sullo sfruttamento minerario delle aree indigene. Dove si celano giacimenti di minerali che sconvolgeranno i mercati mondiali. Primo fra tutti quello dell’uranio.

Aprile 2005, dopo tre decenni di lotta degli indios, il presidente Ignacio Lula da Silva, firma il decreto di «omologazione» dell’area indigena nell’estremo Nord dello stato di Roraima (e del paese).
Zona di savana, di circa 17.400 chilometri quadrati, vi abitano oltre 16.000 indios di cinque gruppi principali: Macuxi, Wapichana, Taurepang, Patamona e Ingarikò. La società civile, come il Consiglio indigeno di Roraima (Cir), e gli stessi missionari della Consolata, che vi lavorano dagli anni ’50, avevano spinto, alcuni anni prima, l’allora candidato presidente a fare dell’omologazione una delle sue promesse elettorali. Ma Lula, solo durante il secondo mandato riesce a fare un colpo di mano e ad apporre la fatidica firma. Forti gruppi di potere locali, ma anche nazionali, sono contrari a questa operazione. Romero Jucà, senatore di Roraima, è rappresentante del governo al senato. Ha dichiarato di essere contro la politica indigena di Lula.
Con l’omologazione scatta anche il decreto di espulsione di tutti quelli che abitano o sfruttano la terra in zona indigena. Lo stato ha previsto un indennizzo per chi è costretto ad andarsene. Così la polizia federale inizia a mandare via i contadini e fazendeiros non indigeni.
Questo non piace ai possieros, alcune famiglie (6 per l’esattezza) che «possiedono» o meglio sfruttano la terra dentro l’area indigena.
«Sono famiglie potenti che coltivano riso nell’area indigena Raposa Serra do Sol. Alcuni in buona fede altri meno. Oriundi del sud del Brasile, discendenti di giapponesi, italiani. Si sono integrati nel potere e si sono fatti un capitale in questa terra di confine» racconta fratel Carlo Zacquini, missionario della Consolata originario di Varallo Sesia (Vc), dal 1965 a Roraima a fianco degli indios.
«Gli invasori si sono organizzati e hanno formato bande e fatto azioni anche terroristiche. Chi entrava nell’area era minacciato di sequestro». Nel 2004 furono sequestrati pure tre missionari, mentre nel settembre del 2005 fu incendiata la scuola di Surumù. «E questo nella totale impunità, nessuno è mai stato punito. È una legge a favore dei ricchi, hanno in mano gli avvocati migliori, addirittura quelli del governo dello stato sono messi a disposizione» racconta Zacquini.
L’ultimo attacco sanguinoso è del 5 maggio scorso. Un gruppo di indios della comunità Barro stava costruendo delle case in una zona espropriata. I posseiros li hanno fatti sloggiare attaccandoli con bombe molotov. Dieci sono stati i feriti. I responsabili sono stati in prigione pochi giorni e subito liberati.

Un balzo indietro

Ad aprile di quest’anno la svolta. Il Tribunale supremo federale del Brasile accoglie uno dei numerosi ricorsi contro la terra indigena Raposa Serra do Sol che, dal 2005, sono presentati dai potenti dello stato di Roraima (dei 30 ricorsi uno è depositato dal governo dello stato). L’omologazione così com’è oggi è definita «continua» ovvero delimita un territorio nella sua integrità, a eccezione del municipio di Uramutã, dalla caserma del sesto plotone e da alcune strade principali. I fazendeiros propongono una nuova demarcazione «discontinua» o a macchia di leopardo, in modo che molte aree restino sotto il loro controllo. Così l’alta corte brasiliana dovrà decidere sulla costituzionalità o meno dell’omologazione.
«Se il Tribunale supremo darà loro ragione si rischia di minare un diritto acquisito dagli indios e sancito dalla costituzione del 1988. Si creerebbe un pericoloso precedente, per cui tutte le altre aree indigene potrebbero essere rimesse in discussione». La posta in gioco, soprattutto in termini di diritti degli indigeni è dunque elevatissima, ricorda Zacquini.
Proprio per presentare questo dramma a inizio luglio una delegazione di indios di Roraima, composta da Jacir de Sousa (macuxi) del Cir e Pierlangela Nascimiento de Cunha (wapichana), ha visitato alcuni paesi europei, tra i quali l’Italia. Il 2 luglio sono stati ricevuti da Benedetto XVI, che ha dichiarato: «Faremo tutto il possibile per aiutarvi a proteggere le vostre terre». La Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb) si è già pronunciata apertamente a favore della questione indigena, e così tutti i livelli della chiesa cattolica del Brasile.

Il contesto: qualcosa cambia

«In questi ultimi anni, c’è qualcosa al di fuori dalla normalità, anche del particolare contesto di Roraima» racconta il missionario. «C’è una grande campagna per screditare tutte le attività delle persone e delle entità che lavorano per la causa indigena. In modo nuovo, più accanito, cattivo, con calunnie e divulgazione di false notizie». Anche Abin (Agenzia brasiliana di intelligence), il servizio informazioni del governo federale, divulga notizie false in ambienti calcolati affinché non possano essere contestate. Mi ha sconvolto perché ero convinto che Lula avesse cambiato qualcosa all’interno di questo organo. Portano avanti una guerra di informazione».
Oltre a questo, è stato difficile portare alla luce la realtà di corruzione presente nelle istituzioni che si occupano di sanità indigena. Dopo anni di denunce alcuni dei personaggi coinvolti in queste truffe sono stati arrestati, ma subito rilasciati e sono rientrati nello stesso organo.
Il numero dei progetti di legge tendenti a togliere alcuni privilegi degli indigeni sono aumentati anche con il governo Lula, denuncia fratel Carlo.
«Viviamo inoltre manifestazioni frequenti di autorità, anche militari, contrastanti con le affermazioni e misure pratiche del governo di Lula. Ultimo gravissimo fatto: i generali hanno dato appoggio pubblico a manifestazioni anti indios nella caserma di Boa Vista».
Alcuni militari, in pubblico, hanno detto: «in Brasile chi comanda è Lula, ma in Amazzonia siamo noi». Purtroppo in Raposa Serra do Sol sembra una cosa vera. Il governo federale potrebbe influire di più sulla politica locale di Roraima che è marcatamente anti indigenista.

Divisioni e propaganda

Molti indios, pagati o stipendiati dai posseiros, si schierano contro l’area indigena. La propaganda afferma che sono «la maggior parte degli indios di Roraima». Assolutamente falso, secondo i missionari.
Gli argomenti citati dagli invasori sono sempre gli stessi: pericolo per la frontiera (con il Venezuela e la Guyana, ma non ci sono mai stati problemi) e l’impossibilità di avere un reale sviluppo per lo stato senza sfruttare questa terra.
«Roraima ha una superficie quasi vasta come l’Italia, ma vi abitano 400.000 persone, non vedo come l’area indigena sia così necessaria allo sviluppo» commenta Zacquini.
Hanno creato associazioni miste, bianchi – indios, che danno appoggio agli invasori. Sono una minoranza ma hanno molto spazio sulla stampa.
Dall’altra parte la società civile indigena e chi la appoggia, in lotta per la terra e i diritti dei nativi di queste terre. Il Cir, l’Associazione dei professori indigeni di Roraima, Associazione dei popoli indigeni, l’Organizzazione delle donne indigene, Associazione terra di São Marcos. Solo per citae alcuni.

Oltre al riso, l’uranio

Un’altra questione molto importante sta scuotendo il mondo degli indios e di quelli che vi stanno attorno, di Roraima e tutto il bacino amazzonico: lo sfruttamento minerario dei territori indigeni.
La Costituzione non riconosce agli indios il sottosuolo, che è dello stato federale. Ma piuttosto la superficie della terra, sulla quale possono vivere e avolgere le loro attività tradizionali. Manca però una legge ordinaria che metta in applicazione la Costituzione.
Le aree indigene sono ricchissime di minerali anche molto pregiati: oro, diamanti, tantalio, niobio, terre rare, cassiterite e uranio (vedi anche box). Strategici per l’energia e per l’industria ad elevata tecnologia. «Ve  ne sono quantità enormi, che sconvolgerebbero i mercati mondiali» ricorda fratel Carlo. «Il Brasile possiede la quasi totalità delle riserve conosciute di niobio del mondo, la maggior parte localizzate nell’alto Rio Negro, in Amazzonia, in un’area trasformata in riserva naturale in seguito a pressioni degli ambientalisti inteazionali» scriveva, nel febbraio 1999, Alerta en rede, agenzia brasiliana on line. In quell’epoca infatti furono rese pubbliche le riserve minerarie (e parte dei giacimenti di uranio) dell’area di Pitinga, già sfruttate dagli inizi degli anni ’80.
È attualmente al vaglio della camera la «Legge per lo sfruttamento minerario delle terre indigene», che è già passata al senato, dove è stata promossa proprio da Romero Jucà.
La legge definisce un insieme di regole per poter accedere alle ricchezze del sottosuolo anche nelle aree protette. Con il «permesso» degli indios. In questo caso l’impresa sfruttatrice dovrà pagare delle royalitis. «La mancanza di una legge sugli indios,  implica che le imprese firmino con individi e non con i  rappresentanti dei popoli» ricorda padre Silvano Sabatini, «questo cavillo giuridico renderà molto più facile lo sfruttamento».  «È ovvio che c’è una lobby spaventosa per questa legge.   Vediamo già pressioni sugli indigeni per avere poi i permessi» ricorda Zacquini.
Ed è già iniziata la propaganda per convincere gli indios che grazie ai soldi delle concessioni potranno avere scuole, strutture sanitarie, ecc. «Tutte cose che il governo ha il dovere di fornire, al di là delle royalitis minerarie».

Biodiversità

Senza contare che la presenza di indios è anche garanzia di preservazione della foresta amazzonica e della sua biodiversità. Lo prova il fatto che in alcuni stati brasiliani, dall’analisi della copertura vegetale si scopre che questa è ancora presente solo dove ci sono terre indigene . Una delle conseguenze dell’invasione delle terre degli indios sono infatti i disboscamenti massicci.
L’omologazione delle aree (come nel caso di Raposa) fornisce una copertura legale perfetta, ma in pratica gli invasori ci sono sempre stati, fanno quello che vogliono e di solito restano totalmente impunti (come i numerosi cercatori d’oro in area yanomami).
«Il ruolo dei missionari non è parlare al posto degli indios, ma appoggiarli affinché abbiano condizioni reali di difesa, sappiano farsi rispettare, capiscano l’importanza di queste cose. Questo significa favorie l’accesso all’educazione e all’informazione necessaria per giudicare se è un vantaggio o no una certa legge. Ad esempio quella sull’estrazione mineraria. Dare loro gli strumenti necessari affinché possano fare valutazioni serie e non siano ingannati». 

Di Marco Bello

Il volontario

VERSO CATRIMANI

Siamo partiti da Ajaranì 1, caricando la barca, facendo l’ultima colazione in questa palafitta di legno che ci aveva ospitato per due giorni. Lasciamo quell’odore di pesce e di farinha che era la base dei nostri pasti, pronti per partire su questo fiume instabile sapendo che dopo 5 ore incontreremo la zona più difficile dove ci sono delle rapide. Uno yanomami siede sulla punta della barca per guardare se sotto il pelo dell’acqua incontriamo degli alberi caduti o delle pietre. Io viaggio in uno stato di stupore, senza fermarmi dal guardare questa natura selvaggia: uccelli di tutti i tipi che scappano al rumore del motore, qualche scimmia che si muove sugli alberi più alti.
Mi sembra di vivere dentro ad un documentario, pensando di essere sperduto in questo punto lontano da tutto quello che la nostra società è riuscita a «toccare». È emozionante vivere questo viaggio pensando di aprire un nuovo cammino per arrivare a Catrimani. L’ultima volta la strada è stata percorsa nel 2000, pian piano la foresta l’ha inghiottita e i numerosi ponti sono caduti. La missione è ora accessibile solo attraverso un piccolo aereo per 5 persone.

Per arrivare ad Ajaranì 2 percorriamo a piedi questi ultimi sette km che ci separano dalla maloca dove pensiamo di chiedere ospitalità. L’umidità, gli insetti si fanno sentire. Bisogna passare sopra o sotto gli alberi caduti, uscire dal tracciato perché le piante sono più fitte che nella foresta. Quando ci avviciniamo alla maloca i primi a circondarci e a darci il benvenuto sono i bambini, le donne immersi nella loro vita: che vita! Tutto si svolge dentro ed intorno a questa grande casa comunitaria: vicino alle amache c’è sempre il fuoco acceso, qualcuno prepara la farina, altri arrivano dagli orti portando banane o frutti che ancora non conosco.
Il bambino più piccolo è ancorato con una corda alla schiena della mamma. Più tardi giungono gli uomini dalla caccia, dalla pesca, con i loro archi, frecce e qualche preda nelle borse fatte di erba intrecciata.
Mi siedo su una panca a osservare, facendo un salto nel passato, dimenticando tutte le mie convinzioni. In quel momento ho gli occhi del bambino che guarda senza sapere niente.

Il mattino dopo padre Laurindo parte con la bici per percorrere da solo gli ultimi 40 km e andare a prendere il trattore. Jenesio è già partito con un gruppo di yanomami per pulire il tratto di strada che porta fino al fiume. Io mi ritrovo da solo. Si avvicina qualche bambino e senza fare grandi giochi rimaniamo lì, cercando di trovare un contatto con i gesti, sorrisi… Poi non sapendo cosa fare improvviso una piccola lezione di matematica che prende la dimensione di un gioco.
Il primo giorno non  riesco a mangiare niente guardando la pentola in cui abbiamo preparato il riso il giorno prima. Sul nostro cibo girano liberamente scarafaggi e altri insetti. Mi trovo già davanti al mio primo limite e guardandomi capisco che per me è difficile. Reagisco accettando di mangiare come loro. All’inizio chiudo un po’ gli occhi e la gola sembra non volersi aprire, poi inizio a sentirmi tranquillo e con la voglia di vivere pienamente quello che mi circonda…

Nove giorni dopo arriviamo insieme a Catrimani, base centrale, un’isola in questa foresta dove le costruzioni dei missionari che arrivarono qui 40 anni fa, sembrano un grand hotel. In realtà sono case di legno, ma ci sono stanze, bagno, doccia, una cucina, un po’ di pulizia, erba tagliata. Dopo questi giorni dove ogni metro di cammino nella foresta era da «conquistare», cucinare su dei pezzi di legno, lavarsi in una pozza di acqua.
Mi sono fatto molte domande osservando questo popolo: vita semplice, legata a quello che la natura gli offre. Ma una profondità nel loro vivere, dove il loro essere religioso è il loro stesso stile di vita. Percepisco questo enorme distacco culturale e di valori che ci separa e mi chiedo dove è il punto di unione, chi ha la verità…

DI Tommaso Lombardi*
*L’autore è  partito per Roraima per impegnare
 un periodo della sua vita al servizio degli indios.

Un progetto culturale

Come missionari della Consolata la nostra presenza a Roraima si caratterizza per l’attività tra gli indios. Quello che è stato fatto da decine di noi in passato,ha portato a questa situazione, diversa da quando sono arrivato, quando nessun indio si riconosceva tale. Adesso sono fieri di esserlo. Ancora oggi, però, quando i giovani vanno in città fanno tutto per occultare la loro origine indigena e non essere discriminati.
Nel passato abbiamo fatto molte attività tra i non indios, le nostre forze sono state messe al servizio delle città e degli invasori stessi, e questo ha permesso che si arrivasse a una situazione ancora di grande discriminazione e preconcetto che vorremmo debellare.
Il modo migliore che abbiamo trovato è mettere a disposizione di tutte le persone di buona volontà un ambiente a Boa Vista che dia accesso ai dati e documenti. Questo per sapere cosa vuol dire per uno stato come Roraima avere la fortuna di essere ancora abitato da molti popoli indigeni. Non solo in termini di folklore o turismo, ma anche in economici. Sono popolazioni che contribuiscono all’economia e all’immagine dello stato e potrebbero fare molto di più se le loro peculiarità fossero riconosciute, rispettate, messe in evidenza. Di questo Brasile di cui si sentono profondamente figli.

Si tratterà di un Centro culturale indigeno che permetterebbe di fare attività per far conoscere meglio le popolazioni e la loro cultura. Valorizzare la storia, le lingue, le tradizioni, la ricchezza di questi popoli.
Vogliamo contribuire a cambiare il modo di pensare dei bianchi, contrari ai diritti degli indios. Allo stesso tempo dare agli indios un centro di riflessione e studio per guardare al futuro con sguardo sul passato, con orgoglio, senza vergognarsi dei loro avi.
Non sarà un museo, gli indigeni non sono storia passata, ma di oggi e domani con le loro particolarità a beneficio di tutto lo stato. Ogni volta che muore uno di questi anziani stiamo perdendo un capitale enorme non solo culturale ma anche economico e sociale.
La nostra società mostra i limiti della cultura acquisita nell’ultimo secolo. Credo che faremmo bene a fare un’analisi, guardando a queste altre società, che sono ancora di oggi e hanno cose che possono farci riflettere e farci cambiare per proseguire verso un futuro più umano.

Di Carlo Zacquini


Marco Bello




Un viaggio… rubacuori

Tanzania: diario di un’esperienza di interculturalità

INTRODUZIONE
P er due settimane, sotto la guida di padre Alex Moreschi, un gruppo di 14 studenti e altrettanti docenti, provenienti dagli istituti superiori di 5 città italiane (Milano, Torino, Catania, Brindisi, Napoli), sono stati in Tanzania per realizzare un viaggio-scuola di scambio culturale. Turisti «non per caso», quindi, ma preparati a cogliere con intelligenza e sensibilità tanti aspetti che sfuggono ai turisti superficiali.
Al loro ritorno hanno fissato in un diario alcuni ricordi di ciò che hanno visto e alcune delle esperienze ed emozioni vissute, a contatto con una natura ancora incontaminata, con una popolazione ospitale, ma alle prese con tanti problemi di povertà e sottosviluppo.
Hanno scoperto un’altra Africa, lontana dagli stereotipi con cui essa viene presentata dai nostri mass media. Un’Africa ricca di valori umani e culturali, orgogliosa della propria storia e cultura, impegnata a emergere in tutti i campi della vita intellettuale, economica e sociale per camminare con le proprie gambe, con lo sguardo rivolto a un futuro di speranza.

I giovani hanno familiarizzato con i loro coetanei; i docenti hanno scambiato le proprie esperienze con i colleghi delle scuole tanzaniane. Tutti hanno ammirato, con sensibilità e solidarietà, il lavoro dei missionari e missionarie a favore dei più bisognosi. 
È vero: il viaggio è stato troppo breve per comprendere molti altri aspetti positivi della gente del Tanzania, ma sufficiente per imparare tante cose. Il contatto interculturale ha insegnato a guardare alla realtà con più oggettività e umiltà, a sforzarsi di capire la diversità prima di giudicarla; a vedere le situazioni con gli occhi di chi le vive.
A contatto con la gente hanno capito che basta così poco per essere felice e nell’incontro con i missionari hanno constatato che anche con mezzi limitati si possono fare miracoli. Qualcuno in Tanzania ha lasciato il cuore; tutti sono tornati con la voglia di fare, incontrare, aiutare.                                     

Di Benedetto Bellesi

 
Roma 31.3.08
Ultimi Ripassi

S ul treno per Roma siamo in fermento: ci scambiamo conoscenze, idee, aspettative.
Abbiamo già imparato qualche parola in kiswahili: karibuni (benvenuto), jambo (ciao), habari (come stai), mzuri (sto bene), asante sana (grazie), tafadhali (per favore).
Confrontiamo le nostre informazioni sul Tanzania: sappiamo…
– che ha una superficie che è più del triplo di quella dell’Italia,
– che ha circa 35 milioni di abitanti contro i circa 58 milioni dell’Italia,
– che la metà della popolazione ha meno di 16 anni e che sono pochissime le persone che superano i 60 anni,
– che ha un altissimo indice di fertilità e che la popolazione sarà più che raddoppiata fra 20-30 anni,
– che c’è un’altissima mortalità infantile e che l’Aids colpisce circa il 7% della popolazione,
– che la vita media oscilla intorno ai 45 anni, mentre in Italia è di circa 75/80 anni.

S appiamo che saremo a sud dell’Equatore e che nel cielo vedremo le stelle dell’emisfero australe e la Croce del Sud. Ci raccontiamo della Rift Valley, dove è nata la vita, dei laghi incassati nella fascia occidentale della Rift Valley e dei 1.400 metri di profondità del Tanganika.  
Cerchiamo sulla cartina il Lago Vittoria, le sorgenti del Nilo, il Kilimangiaro, ai confini con il Kenya. Ci raccontiamo degli esploratori alla ricerca delle sorgenti del Nilo, le storie di Livingstone, di Stanley…

A rriviamo a Fiumicino presto. In attesa di incontrare i nostri compagni di viaggio facciamo uno spuntino e un brindisi a base di succo di frutta e Malarone (facciamo una tabella per ricordarci la profilassi contro la malaria). Sono le 20 quando ci troviamo con gli altri, al check-in, «raccolti» dalla preside Giuliana di Ischia.
Verso le 23 partiamo con il volo della Qatar Airways, che fa scalo a Doha nel Qatar.

Dar es Salaam 1.4.08
Prime impressioni

A lle cinque del mattino siamo a Doha e verso le sette partiamo per Dar Es Salaam. Sorvoliamo l’Arabia: attraverso le nuvole vediamo il deserto attraversato da solchi di corsi d’acqua completamente asciutti.
Superato il Coo d’Africa, cerchiamo di intravvedere a ovest le cime del Kenya e del Kilimangiaro, che si perdono fra le nuvole.  Quando atterriamo a Dar Es Salaam vediamo per prima cosa una lunga fila di palme, una accanto all’altra contro il cielo azzurro e terso; l’aria è calda e secca: siamo in  Africa.
Sono le 14; siamo piuttosto provati dal viaggio. Ci siamo già conosciuti e mi sembra che possiamo fare un bel gruppo. Poco dopo arriva ad accoglierci padre Alex Moreschi, il missionario che ci farà da guida. Prendiamo posto su un pullmino e una jeep tipo anni ‘70, con sedili di plastica rovinata e «strapuntini»; con fatica i due autisti caricano i nostri infiniti bagagli sul tetto. Hakuna matata (non ci sono problemi).
Aggiungiamo altri termini al nostro vocabolario: pole pole (piano piano) quando il nostro autista va troppo veloce; kwenda (vai) e simama (fermati).

A ttraversiamo la città. Mi colpisce l’estrema povertà: lungo le strade, addossati a muri sbrecciati o seduti su vecchi copertoni, nel caldo afoso del pomeriggio, apparentemente senza aver nulla da fare, siedono uomini ed anche donne e bambini.
Si susseguono le catapecchie, i casermoni fatiscenti. Qua e là la miseria è interrotta da situazioni di un lusso incredibile: l’Hotel Kilimangiaro, con le sue torri di vetro, le macchine nuove, l’affaccendarsi di gente… la residenza del presidente, in un mega-parco… E poi ancora miseria.
Mi colpiscono i ragazzi che escono dalle scuole, in divisa, figure decorose.
Ci dirigiamo alla residenza del Tec (Tanzanian Episcopal Conference), che ci ospiterà nei giorni in cui stiamo a Dar Es Salaam. Chiusi da un cancello, alcuni edifici sobri ma decorosi si affacciano su un grande e rigoglioso cortile: ci sono  l’ostello che ci ospita, la chiesa, la mensa, un piccolo bar con una piacevole terrazza: tutto è semplice, ma pulito e piacevole.
Rifletto sul fatto che la semplicità e il decoro di questi edifici si collocano fra il lusso sfrenato degli hotel occidentali e la povertà delle capanne.

Kigamboni 2.4.08
Tra i banchi dell’asilo

D estinazione Kigamboni, una penisola di fronte a Dar Es Salaam, che raggiungiamo con un traghetto che avrà, se va bene, 50 anni. Non si sa bene se più azzurro o più ruggine; ospita, in una variopinta diversità, macchine vecchissime, pullmini e jeep, e, stipate in mezzo a questi, persone di ogni tipo ed età, tutte rigorosamente di colore, anche se di etnie evidentemente diverse. Siamo gli unici bianchi, guardati un po’ in tralice con aria di disprezzo…
Fotografiamo cautamente, fra carretti di verdura e gelato conservato in bidoni simili ai nostri della spazzatura.

L a penisola di Kigamboni ospita circa 120 mila persone, al 90% musulmani.
Incontriamo padre Dario Rampin, al Centro della Consolata. Padre Dario è stato in Tanzania la prima volta dal 1983 al 1986. Ci spiega che quelli erano gli anni dell’utopia socialista di Nyerere.
Nyerere, presidente della Tanzania dalla sua costituzione in Repubblica (1964) è stato una figura importante per il paese; ha governato per molto tempo, con integrità, cercando di favorire lo sviluppo attraverso la politica dell’ujamaa: valorizzazione della comunità-villaggio e messa in comune dei beni. I giudizi sulla sua politica sono discordi: c’è chi appoggia la linea della condivisione dei beni, chi invece osserva che questa politica più che alla condivisione della ricchezza ha portato alla condivisione della povertà e non ha favorito alcuno sviluppo.
Attualmente la politica dell’ujamaa si ritiene superata; la nazione, grazie anche al condono del debito estero nel 2000, ha avuto un discreto sviluppo.
L a scuola elementare è obbligatoria per tutti. La scuola superiore è riservata ai meritevoli, anche se negli ultimi anni c’è stato uno sforzo per moltiplicare le scuole, a scapito talvolta della qualità di queste, poiché non sono stati formati i docenti. Il dubbio di molti è: è ottimo avere molte scuole o è preferibile avere una ottima scuola?
I missionari sono ben inseriti sul territorio ed hanno un ottimo rapporto con il clero locale; le loro scuole sono frequentate anche da bambini e ragazzi di diversa religione.
Nella religiosità popolare, spesso la pratica della religione cattolica si mescola a elementi dell’antico paganesimo ed è molto presente la superstizione. Il missionario è benvoluto e rispettato, ma è comunque in parte considerato «estraneo».
La convivenza fra cattolici e musulmani è pacifica; sorgono talvolta dei problemi nei casi di matrimoni misti. La famiglia è in genere monogamica ed è molto unita.
Nel lavoro i tanzaniani sono più attenti all’aspetto della socialità che a quello dell’efficienza.

V isitiamo l’asilo costruito da padre Dario, che si chiama Asilo Serenella, ed è portato avanti da due maestre e una cuoca locali.
I bambini sono molto seri, ci stupiscono nelle loro divise con le camicie a quadretti viola e bianchi.  Nelle loro espressioni si coglie anche la fierezza… e la dolcezza.  Cantano per noi e noi, per fortuna, cantiamo per loro. I nostri ragazzi con un po’ di imbarazzo ma molto seriamente, improvvisano «Se sei felice…», «Ci son due coccodrilli…». 
Invasione con le macchine fotografiche e distribuzione di lecca lecca: qualche bambino non sa come togliere la carta al proprio…  Le maestre sono sbrigative, piuttosto brusche coi bambini.
Toiamo all’edificio della missione, dove padre Dario ci offre riso pilau e altre specialità locali.

A l pomeriggio bagno nelle acque dell’Oceano Indiano; poco sole, ma la linea di palme contro il cielo e la sabbia bianca sono bellissime. Il fondale vicino alla riva è sabbioso, sulla spiaggia si trovano grosse conchiglie e pezzi di corallo. Nuotiamo e passeggiamo.

P rima di tornare a casa ci fermiamo a visitare il mercato del pesce. Odori di pesce, di olio fritto, di spezie e di fogna si mescolano rendendo satura l’aria. Decine di rudimentali piastre arroventate dal carbone che brucia sfoano pesce dall’aspetto neanche male, ma che ci guardiamo bene dal comprare.
La fogna si getta in mare non molto lontano, e lì accanto un enorme polipo viene sbattuto sulla pietra per ammorbidie la carne. Dobbiamo guardare a vista le nostre ragazze, che suscitano l’attenzione dei maschi locali. Ci lasciamo prendere dalle bancarelle di conchiglie e giornielli locali.
Bancarelle anguste, sporco, buio, colore e odore e folla e vita brulicante… Poco più in là, si intravvedono le torri dell’Hotel Kilimangiaro.

Bagamoyo 3.4.08

Il porto degli schiavi

M i alzo alle sei del mattino per la messa in kiswahili. Concelebrazione di una dozzina di prelati, partecipazione di una quarantina di sacerdoti. Molte suore, che partecipano con il canto: bellissimo. C’è una linea melodica, decisa e dolce, accompagnata da una polifonia di voci che fanno bordone sui toni bassi.

D opo la colazione con i nostri automezzi ci rechiamo verso nord, diretti alla scuola superiore privata «Colleta Memorial School», dove ci accoglie il direttore della secondaria, Severino Kayanda, un giovane docente tanzaniano. 
Portiamo il nostro materiale da cancelleria e incontriamo i ragazzi delle superiori, con i quali, in inglese, ci scambiamo domande e informazioni sulle caratteristiche delle reciproche scuole. Dopo un po’ «rompiamo le file»: ci uniamo ai ragazzi e parliamo a piccoli gruppi, facendo amicizia, ragazzi con ragazzi e docenti con docenti.
Rafiki (amico): accanto all’inglese che usiamo per parlare è bello usare qualche espressione in kiswahili.
Nell’edificio di fianco ci accolgono i ragazzi delle medie, in divisa verde, che ci cantano il benvenuto in inglese. Con una capacità di cornordinamento eccezionale, cantano e danzano facendo cerchi, sfilando in linee che si intrecciano e si scompongono. L’atmosfera si scalda sempre di più, anche i nostri ragazzi cantano e infine tutti si uniscono in un’unica grande danza, animata dal rullare dei tamburi.

U n po’ a malincuore li salutiamo e ci dirigiamo a nord, verso Bagamoyo, il porto reso tristemente famoso dalla tratta degli schiavi. «Bagamoyo» significa: qui lascio il mio cuore. Nel secolo xvii e xix la tratta degli schiavi, ad opera soprattutto dei mercanti arabi, ma anche dei portoghesi, olandesi, francesi e inglesi, si sviluppa in tutta l’Africa, affiancandosi al commercio tradizionale. Gli schiavi, razziati nelle regioni intee, spesso intorno alla zona dei grandi laghi, venivano trascinati in catene per un cammino di giorni e giorni, spesso di mesi, in mezzo a savane desertiche dove molti morivano per gli stenti e per la fame.
Rinchiusi nelle prigioni sotterranee di Bagamoyo, fatti «ingrassare», venivano ammassati in fragili imbarcazioni per raggiungere le piantagioni di chiodi di garofano, di canna da zucchero… Pare che dei 17 milioni di schiavi catturati, 15 milioni siano morti di stenti prima di arrivare alla destinazione finale.
A Bagamoyo visitiamo il piccolo ma interessante museo, dove sono ancora conservate le catene, alcune riproduzioni dell’epoca, dove sono ricostruiti i luoghi di origine e di destinazione degli schiavi.
Accanto al museo sorge la chiesa costruita dagli irlandesi, prima missione europea in Tanzania. In questa chiesa è stato conservato il corpo del missionario ed esploratore Livingstone, che tanto contribuì alla scoperta della geografia dell’Africa centrale, prima di essere trasportata nella cattedrale di Westminster.

V orremmo fare il bis nella spiaggia, visto che ieri ne siamo stati affascinati, ma la pioggia torrenziale ce lo impedisce. Solo Patrizia, professoressa di Torino, incurante del diluvio, si avventura in una nuotata solitaria.
Ci consoliamo mangiando in un ristorantino tipico sulla spiaggia, riparati da un solido e ampio tetto di foglie di banano. Aragosta, fritto misto, ugali (polenta di mais bianco) con lo spezzatino… tutto buono ed economico; è simpatica la compagnia dei proprietari – europei – che ci magnificano il Parco Ruaha.
La pioggia ostacola anche la visita al porto di Bagamoyo, da cui gli schiavi partivano lasciando definitivamente la loro terra.

R itoo in città nel momento del traffico. Siamo immobili in una situazione che è un eufemismo definire caotica.
Intasati dagli scarichi di mezzi vecchissimi, che emettono fumo nero, assistiamo ai sorpassi e inversioni di marcia più spericolati che io abbia mai visto. Sembra che ad ogni momento qualcuno stia per essere investito o che si verifichi un incidente… Folle di persone sotto la pioggia si accalcano a inseguire fantomatici mezzi pubblici, così sovraffollati che le porte non si chiudono. Rumore, folla, puzza da gas di scarico, manovre spericolate… Ci mettiamo un’infinità di tempo per arrivare a casa. Mi sembra che il traffico di Dar Es Salaam sia molto più pericoloso della fauna dei parchi.

Ubungo 4.4.08

Scuole a confronto

V isitiamo il quartiere di Ubungo, popoloso rione in zona quasi collinare, dove, ai lati di una strada a scorrimento veloce, si dipanano strade sterrate e sconquassate, ai lati delle quali si affollano una sopra l’altra casupole e botteghe di pochi metri quadri, dove si espongono mercanzie di ogni genere, in prevalenza vecchi oggetti provenienti probabilmente dall’Europa.
Alla missione della Consolata, che si sviluppa attorno a una povera ed enorme chiesa dalle vetrate colorate, padre Pietro Cravero ci racconta la storia di questo quartiere. Ubungo è un quartiere che è cresciuto con l’inurbamento che ha caratterizzato questi ultimi decenni in Tanzania. Nel 1973, quando sono arrivati i missionari, nel quartiere c’erano poche case sparse; ora il sobborgo, formato da sette villaggi, è sovraffollato e i missionari faticano a stare dietro alle persone.
Il quartiere ha la fama di essere una zona di «benestanti», un termine che ci sembra poco appropriato a queste casette e baracche appiccicate l’una all’altra… Il quartiere rispecchia la realtà della città, che è passata dai 500 mila abitanti  di 15 anni fa ai 4 milioni attuali. Il quartiere e la città sono cresciuti vertiginosamente e selvaggiamente, senza infrastrutture adeguate. Basti pensare che la città non è dotata di una rete fognaria…  Il quartiere è tagliato a metà dalla trafficatissima strada a scorrimento veloce, dove si verificano investimenti con una regolarità impressionante.
V isitiamo l’asilo della missione, dove vediamo bambini in ordine e locali puliti e decorosi.   Padre Cravero ci accompagna a vedere la scuola elementare pubblica di Ubungo, dove egli è ben accolto, essendo stati all’asilo della missione molti dei ragazzini che studiano qui.
Su una collinetta di terra rossa, fradicia e scivolosa, sorgono alcune casupole lunghe e strette, buie e diroccate; all’interno di ciascuna di esse sono ospitate due/tre classi. Alle finestre, con le sbarre, si accalcano gli alunni che ci vedono passare. Le classi sono composte da sessanta/settanta bambini, alcuni dei quali sono seduti per terra perché i banchi non bastano. Gli scolari sono circa 2 mila. Le pareti sono sbrecciate, il pavimento di cemento ha diverse buche. Alcuni maestri correggono su un banco fuori dalle classi. Gli alunni vanno e vengono, alcuni sono nelle classi, molti altri fuori.
È molto difficile interagire. I nostri ragazzi sono bravi. Improvvisano con un gruppo di una cinquantina di bambini e fanno un grande girotondo, così, con chi c’è, senza troppi problemi. Ci vuole fantasia a creare una bella situazione in questo posto che stringe il cuore.
Dopo la scuola pubblica visitiamo la chiesa in costruzione. Padre Pietro ci presenta i muratori, due tanzaniani, che lavorano a piedi scalzi su una pavimentazione sconnessa, e ci spiega le difficoltà nell’acquisto del terreno, che è diventato molto caro in seguito all’inurbamento.

A  pranzo ci rechiamo alla casa procura della Consolata di Dar Es Salaam. Ci accoglie padre Angelo Parola, responsabile della Procura, in Tanzania da circa 30 anni.
La Procura è un bell’edificio, arioso e confortevole, non lontano dall’Ambasciata americana di Dar Es Salaam, luogo dell’attentato talebano nel 1998. Alla Procura fanno riferimento i missionari che arrivano dall’Europa e partono per l’interno e quelli che dall’interno tornano per lasciare la Tanzania.
Qui possono trovare riposo ed ospitalità prima di affrontare il viaggio. I due volontari torinesi che lavorano qui (una coppia di pensionati) ci hanno preparato un buon pranzo che consumiamo all’aperto in un gazebo dal tetto di foglie di banano.

Al pomeriggio visitiamo il mercato Kariakoo, il più grande dell’Africa Orientale. Chi sperava di trovare qui le stoffe da regalare e i giornielli di ebano si è sbagliato: è un mercato enorme e affollatissimo, frequentato solo dai locali; non vediamo un turista. Le decine di piccolissime e stipate bancarelle espongono spezie sfuse, oggetti europei, verdura e frutta, in una situazione buia e soffocante.  Venditori e acquirenti ci snobbano;  sorge una violenta protesta per una foto a una donna velata… la situazione non ci pare molto raccomandabile.
Alcuni di noi preferiscono visitare le bancarelle estee al mercato, che espongono per lo più brutti oggetti occidentali. Un po’ più lontano però troviamo una donna masai che espone i suoi giornielli e soprattutto il negozio Urafiki che vende alle donne locali a basso prezzo le splendide stoffe tanzaniane. Toiamo al mercato dove ci aspettano i nostri automezzi, saltando sui sassi in mezzo alla piazza per superare l’enorme pozza che si è creata in seguito alla pioggia.

Breve sosta per visitare i templi indù di Kisutu Street, dove un indiano affabile ci fa togliere le scarpe e ci spiega tutte le caratteristiche degli dei indù, le cui raffigurazioni sono collocate nei tempietti  a lato della grande spianata del tempio, dove giocano i bambini.

Morogoro 5.4.08

Ci si alza presto. Con un terzo pullmino si parte per Iringa, direzione ovest, circa 500 chilometri.
Facciamo sosta a Morogoro, ospiti per il pranzo al Seminario della Consolata. Frettolosi ed affamati, la prendiamo un po’ come «sosta pranzo», senza dedicarci troppo a conoscere i nostri ospiti… servirà più attenzione.

Proseguendo per Iringa attraversiamo il Mikumi Park. Non speriamo certo di vedere gli animali passando per la trafficata strada asfaltata; e invece, con nostra grande sorpresa, incontriamo le scimmie, poi una giraffa di fianco alla strada, poi gli elefanti, poi gli impala, e ancora giraffe ed elefanti… Continue soste concitate e fotografie ogni due chilometri.
Usciti dal parco, la strada continua a correre in un paesaggio di grande bellezza. Tramonto sobrio, ma incantevole per il gioco di luce tra le nuvole. Si attraversa la valle dei giganteschi baobab e infine ci si inerpica, attraverso la foresta, verso un passo dove la strada in salita fa fare parecchia fatica ai nostri  poveri automezzi, e a noi che siamo intasati dall’odore del gas.
Arriviamo ad Iringa che è già buio. Ai lati della strada decine di persone, donne, bambini anche soli, camminano e camminano; probabilmente lasciano la campagna dove hanno lavorato in giornata per dirigersi alla cittadina.

Iringa 6.4.08
Momento di riflessione

Siamo a Iringa, ospiti del Ruaha University College, l’ostello per studentidell’università cattolica voluta dalla conferenza episcopale del Tanzania. 
Alle sette siamo in chiesa per la messa. Chiesa grande e affollatissima; come dappertutto non c’è un bianco, se non padre Alex, che concelebra, e noi. Il canto è molto gradevole, nel coro una donna si esibisce con uno strano verso che assomiglia al richiamo di un uccello. L’organista non ha nulla da invidiare a quelli delle nostre chiese, anzi… Il coro si produce anche nel canto dell’Alleluja dal Messia di Haendel. Alla fine della messa veniamo chiamati sull’altare da padre Alex e presentati alla comunità, che applaude e canta di nuovo l’Alleluja. Siamo imbarazzati, ma anche contenti.
Prima di lasciare la chiesa ci salutano, tutti ci vogliono dare la mano… come al presidente o al papa. Di nuovo imbarazzo, ma anche piacere.  Ci raggiungono le donne nei loro sgargianti vestiti della festa, per tentare una conversazione con noi; una mamma vuole che tocchi il suo bambino…! 
Per la lunga strada centrale torniamo al nostro ostello. La condizione è decisamente migliore che a Dar Es Salaam; le case sono povere, ma non fatiscenti, le botteghe sono anguste, ma quasi dignitose, il traffico non è esasperante. 

Dopo la colazione ci dedichiamo a uno dei nostri importanti, anche se non frequenti, momenti di riflessione.
Sono molti i temi che affrontiamo, continuando le conversazioni dei giorni precedenti. Li accenno.
La scuola: la nostra scuola, la loro scuola. La voglia di imparare, la motivazione. La selezione e il merito. Scuola statale e scuola privata (censo e merito). Scuola di massa, formazione della classe dirigente. Il problema dell’autorità e la disciplina.
I missionari: la gioia che viene dalla risurrezione e l’incontro con la gente. L’aiuto: perché l’aiuto non a tutti?
La visione utopica di alcuni ragazzi, la necessità di fare i conti con la realtà.
Il nostro coinvolgimento: l’empatia e l’emozione, la necessità di riflettere e di capire una realtà complessa.

Pausa libera. Una stanza delle ragazze è allagata, tutti al lavoro a salvare le valigie e ad asciugare il pavimento. 
Dopo quasi un’ora siamo liberi di andare al mercato, dove troviamo tutto quello che cerchiamo e anche di più. Piccole ma gradevoli bancarelle ci offrono batik, oggetti di ebano, giornielli masai di ogni fattura, stoffe… Contrattiamo, vantandoci della nostra abilità nello spuntare il prezzo più basso.
Ngapi pesa? e how much? (quanto costa) sono i termini che usiamo di più.

Nel pomeriggio visitiamo il Centro giovanile della diocesi di Iringa, dove in una luminosa chiesa dalle vetrate gialle  la messa è seguita da un gran numero di bambini. Poco distante, saliamo al Gangilonga Rock, la collina formata da un grande masso roccioso su cui Mkwawa, il capo dell’etnia wahehe, si recava a prendere consiglio dagli dei.
Padre Alex ci spiega che l’etnia dei wahehe ha resistito strenuamente all’occupazione tedesca, mostrando grande dignità e coraggio. I tedeschi hanno occupato il Tanganika nella seconda metà dell’Ottocento, patteggiando con i sultani di Zanzibar. L’occupazione tedesca è durata poco ed è passata senza lasciare grande traccia: al termine della prima guerra mondiale il Tanganika è passata sotto l’amministrazione inglese.

Nello stesso pomeriggio visitiamo una casa famiglia dell’Opera Giovanni xxiii, fondata da don Oreste Benzi. Marina è una ragazza giovane, pare che non sia ancora trentenne; insieme al marito, è responsabile della casa famiglia; è in Tanzania da tre anni. È arrivata qui per il servizio civile come «casco bianco», qui ha incontrato l’uomo che è ora suo marito e insieme hanno deciso di restare, non sanno per quanto tempo. Collaborano con loro altri «caschi bianchi», qui per il servizio civile.
La casa famiglia accoglie bambini e ragazzi che per diversi motivi non possono stare in famiglia. Ci sono bambini, anche piccolissimi,  con disabilità, ma soprattutto bambini che sono rimasti senza genitori a causa dell’Aids. Marina ci spiega che in Tanzania la famiglia è allargata e molto cornoperativa; in questo momento storico, però, il flagello dell’Aids mette diverse famiglie nella condizione di non potersi occupare dei bambini propri e di quelli dei fratelli, dei parenti. Molta gente è malata e le famiglie sono decimate.
L’edificio che ospita la casa famiglia è molto modesto, situato in mezzo ad altri edifici; la casa però è ben curata, un piacevole cortile interno è abbellito da vasi di fiori, i lettini hanno le zanzariere…
L’attività della casa famiglia consiste principalmente nel dare una casa ai bambini e ai ragazzi in difficoltà, ma è anche il centro da cui partono altre iniziative: mense scolastiche, assistenza a bambini malnutriti, microcredito…
Spesso bisogna intervenire anche sul piano sanitario; è infatti difficile accedere ad adeguate cure per i bambini malati. L’attività si regge principalmente sull’aiuto di persone di buona volontà, che contribuiscono con le loro offerte a dar vita all’iniziativa.
I nostri ragazzi sono molto interessati all’attività dei «caschi bianchi» e si confrontano con questi, nella prospettiva e nel desiderio di diventarlo a loro volta.

Iringa 7.4.08
Lotta alla pandemia

O ggi in Tanzania è festa nazionale: «K arume day». Padre Angelo Dutto, che ci ospita al Ruaha University College, ci spiega che il paese celebra l’indipendenza dal sultanato di Oman. Karume è colui che ha conquistato l’indipendenza a Zanzibar.
In cerca dell’Allamano Centre di Iringa, facciamo una lunga passeggiata su una strada sterrata fra grandi eucalipti, campi coltivati a mais e girasole, casette piacevoli.  C’è il sole, si sta bene; siamo lontani dal traffico e dall’affollamento di Dar Es Salaam. Parliamo fra di noi, si discute di modelli di sviluppo, di capitalismo e di socialismo…
All’Allamano Centre ci accolgono suor Michela, missionaria della Consolata in Tanzania da 32 anni, e Nicola, il medico che lavora al Centro.
Suor Michela ci racconta che il Centro è sorto nel 2001. Da un vecchio garage abbandonato i missionari hanno ricavato il primo nucleo dell’attuale edificio, sorto per fronteggiare l’emergenza Aids. È stato necessario in questi anni «inventarsi» tutto, poiché ci si è trovati impreparati di fronte all’avanzare del male; inadeguati o inesistenti gli interventi governativi, le organizzazioni di volontariato ed i missionari hanno dovuto costruire a partire da zero.
Si è capito subito che era necessario dare una risposta al singolo malato, ma anche alla sua famiglia.  La risposta alla malattia non poteva che consistere in una serie concatenata di azioni di sensibilizzazione, prevenzione, sostegno al malato e alla sua famiglia. Con mezzi scarsi all’inizio, si è cominciata un’opera di assistenza sociale, che prevedeva la cura a domicilio ai malati terminali, l’informazione sulla trasmissione della malattia, il sostegno economico, perché il malato e la famiglia avessero di che nutrirsi, la rimotivazione del malato nei confronti della possibilità di una vita buona anche in presenza dell’Hiv.
Con il tempo l’intervento è diventato via via più mirato, con un’assistenza di tipo medico e infermieristico, che attualmente permette la diagnosi (nel Centro vi è un buon laboratorio e personale preparato), la terapia e la ricostruzione delle difese immunitarie.
I farmaci che qui vengono distribuiti sono offerti da case farmaceutiche americane. Accanto all’intervento di tipo medico continua l’intervento sociale sul malato e sulla sua famiglia.
Vediamo al lavoro Paola, una economista nipote di suor Michela che distribuisce alle persone sacchi di alimenti e tiene i contatti con gli organismi estei che foiscono aiuti.
Visitiamo la sala per la terapia di gruppo, nella quale i malati si confrontato sulle loro paure e sulle loro speranze, tentando di darsi una mano per ricominciare a sperare.
Parliamo dei modi in cui si contrae la malattia e si parla di prevenzione. Suor Michela ci spiega che il governo e l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) conducono una azione capillare finalizzata al family planning (fin dalla scuola primaria) e all’uso dei sistemi anticoncezionali.
Suor Michela ritiene che un’opera efficace possa aver luogo solo se si affronta il problema in modo non riduttivo e si educano le persone a vivere la sessualità in modo responsabile. Se si riesce a intervenire positivamente, il malato ha una discreta speranza di vita e si reinserisce nel suo tessuto sociale. Si assiste a una graduale presa di coscienza della natura della malattia e si supera pian piano l’atteggiamento fatalista, che fa pensare che l’Aids sia conseguenza di malefici e sortilegi.
Anche gli uomini, tradizionalmente più restii, iniziano a farsi curare e seguire i programmi di recupero. Molto utili risultano i gruppi di auto aiuto e la responsabilizzazione delle persone che cominciano a rendersi autonome e a collaborare alle attività del centro. Suor Michela, come gli altri missionari, ritiene che sia fondamentale supportare e indirizzare l’autonomia e la responsabilità locale.
Sono iscritte al centro 1.600 persone, di cui sono in terapia 730, selezionate in base ai parametri per la definizione della malattia. Seguire tutti è impossibile… I bambini seguiti dal Centro, supportati nelle famiglie, sono circa 3 mila, figli di malati, di cui 450 sono sieropositivi.
Gli aiuti che arrivano dall’Unicef e da altri enti sono utili, ma non sempre le cose che vengono mandate rispondono alle necessità… È inutile che arrivino migliaia di siringhe nel momento in cui non servono.
Il dottor Nicola ci spiega che le organizzazioni inteazionali di aiuto ai paesi del terzo mondo hanno una struttura complessa, che assorbe, per il funzionamento interno, circa l’80% dei fondi reperiti; meno del 20% sono i fondi che realmente arrivano alla gente a cui sono destinati.

A circa 20 km da Iringa, sulla strada per Mbeya, si trova il sito archeologico di Isimila. In una piccola conca di sabbia bianca si trovano due capanne a proteggere i reperti risalenti a circa 60 mila anni addietro. I resti fossili di alcuni animali, qui ritrovati, sono ora al museo di Dar Es Salaam, ma qui si vedono ancora utensili e armi di pietra usati da homo habilis: raschiatorni, asce, rudimentali martelli…
Con la guida proseguiamo a piedi per il sentirnerino nella savana e dopo circa un quarto d’ora arriviamo a una valle, dove bizzarre colonne di pietra rossa, alte fino a dieci metri, si susseguono a muraglie rosse frastagliate e a camini svettanti contro il cielo azzurro terso. Ci spostiamo in questo paesaggio fantasmagorico, camminando dentro un fiumicciatolo dalle acque bianche che solcano le costruzioni rocciose.

L asciata Isimila ci rechiamo a Tosamaganga, la prima missione della Consolata in Tanzania. Tosamaganga non è molto distante da Iringa, ma raggiungerla è un’impresa; il pullmino varca voragini aperte nella sterrata e attraversa corsi d’acqua che hanno invaso la strada… il tutto fra una vegetazione lussureggiante e dolcissime colline verdi, che si stendono a perdita d’occhio.
A Tosamaganga siamo colpiti dagli edifici della missione: fra grandi alberi di stelle di natale fioriti e alberi dai bellissimi fiori arancione, su una grande spianata si stendono gli edifici della missione e la grande chiesa, costruita nel 1935 sulle forme della cattedrale di Mogadiscio. Tutti gli edifici sono di mattoni rossi, molto grandi e ben tenuti. 
I missionari sono quattro, e sono molto anziani. Padre Giovanni Giorda ha 81 anni e la pelle cotta dal sole. È qui dal 1952; è arrivato per nave da Venezia, passando per il canale di Suez. È rimasto 10 anni senza tornare in Italia. Ci parla della missione, del fatto che i missionari sono arrivati in Tanzania nella seconda metà del xix secolo; Tosamaganga è stata raggiunta dai benedettini della Baviera, ai tempi della dominazione tedesca, verso la fine del xix secolo. Nel 1919 gli inglesi favoriscono l’ingresso di missionari italiani che si stabiliscono a Tosamaganga. 
Padre Giorda ci porta al cimitero, dove, accanto ai benedettini, sono sepolti decine di giovani missionari italiani, morti prima dei 30 anni soprattutto a causa della malaria.  Con grande commozione troviamo la tomba di suor Adolfa Navoni, zia della prof. Gobbi dell’Agnesi di Milano. Anche questa missionaria è stata qui lunghissimi anni, e qui è morta. Flavia, allieva della prof. Gobbi, posa commossa sulla tomba alcuni fiori di campo, e tutti insieme recitiamo una preghiera.
Padre Giorda ci accompagna poi all’orfanotrofio di Tosamaganga, gestito da suore locali e da una volontaria italiana, Loredana, arrivata da una settimana e intenzionata a stare qui per un anno.
Ci sono bambini di diverse età.  Ci colpisce il nido, dove bambini anche piccolissimi recano sul viso la paura e la sofferenza di una vita pesantemente segnata fin dal suo nascere. Nello stanzone dove si trovano i lettini dei bimbi più grandicelli, fra i due e i tre anni, c’è buio e puzzo… I lettini con le sbarre di ferro sono tantissimi, attaccati l’uno all’altro. Ci si stringe il cuore. I bambini ci tendono le mani: noi pensiamo che vogliano essere presi in braccio e li coccoliamo un po’.  Fabia e Francesco non vorrebbero andarsene mai.
Padre Alex ci spiegherà poi che il tendere le mani è un saluto che indica rispetto, e non l’invito a prendere i bambini in braccio… Ma questo contatto è stato importante per noi e credo anche per questi piccolini, dai grandi occhi scuri imploranti e dal visino triste.
Giochiamo e cantiamo con i bimbi della matea. Ci dispiace non avere più a disposizione le caramelle o la cancelleria, che abbiamo lasciato a Dar, alla Procura, per non appesantire i bagagli.
Padre Alex ci spiega che questi orfani sono a tutti gli effetti figli adottivi delle suore e che ad esse lo stato chiede conto. Si possono aiutare con le adozioni a distanza.  Per una adozione, padre Alex chiede 120 euro all’anno. Mi piacerebbe che la nostra scuola fosse capace di adottare alcuni bambini… magari uno per classe, perché no?

Alla sera, a Iringa, dopo la nostra solita cena a base di riso, pollo, verdura e spezzatino (tutto pulito e sano, la varietà talvolta lascia un po’ a desiderare, ma non ci lamentiamo certo, anzi tutti ci riteniamo dei privilegiati), facciamo un momento di riflessione, mettendo a tema la nostra capacità di incontrare chi è diverso da noi e di prenderci cura di chi è in difficoltà.
Incontriamo padre Gabriel, del Kenya, conoscente di padre Alex;  padre Gabriel ha studiato in Inghilterra, è stato in Italia e parla bene la nostra lingua. Ha lavorato in Uganda e in Tanzania, a Sadani. A Iringa ha aperto una scuola secondaria. Ci spiega che la scuola secondaria dura quattro anni, dopo la quarta i ragazzi possono scegliere una specializzazione e perfezionarsi due anni prima di iscriversi all’Università.
Ci spiega che si studia anche filosofia, che è la filosofia occidentale. In Tanzania non c’è una tradizione filosofica, anche se c’è una saggezza popolare da recuperare. Il saggio, ci dice, «è colui che ha esperienza ed è capace di usare tale esperienza per cambiare la vita».
Parliamo anche dei modelli di sviluppo, di comunismo e capitalismo, della politica di Nyerere.
Padre Gabriel ci invita a visitare la sua scuola.

Parco Ruaha 8.4.08
Caccia grossa

Giornata safari (viaggio). Cielo terso e luminoso. Sistemati in 5 jeep percorriamo due ore di strada sterrata, da Iringa al Ruaha Park. Ci fermiamo all’ingresso del parco, sulle sponde del Grande Ruaha dalle acque limacciose; sulla sponda opposta vediamo spuntare dall’acqua un ippopotamo.
Ci addentriamo nel parco. Vediamo gli impala: colore e struttura simili a quelli di un nostro cerbiatto, si trovano isolati o riuniti in folti gruppi, di fianco alla sterrata, in mezzo alla strada. Fuggono veloci con una corsa elegante. Si mescolano alle zebre, di cui vediamo decine di esemplari, e alle grandi giraffe (twiga, in swahili), tranquille ai lati della strada, incuranti del nostro passaggio.
Il Ruaha attraversa il parco, formando grandi insenature e isolotti sabbiosi, dove si riposano ippopotami e giraffe. In alto volteggia un’aquila.
Lasciamo la pista che corre parallela al fiume, dal terreno paludoso e instabile, per spingerci all’interno del parco alla ricerca di elefanti (tembo), che nella stagione delle piogge si tengono lontani dal fiume. Ne vediamo qualcuno, meno di quelli che abbiamo incontrato al Mikumi.
Con una certa emozione ci troviamo sulle tracce del leone (simba); una carcassa di zebra giace abbandonata in una radura, dove l’erba calpestata racconta di uno scontro; nel folto dei cespugli, nascosti alla vista si scorgono appena i leoni; sono lì, a tre metri da noi.
Il parco è di una bellezza da paradiso terrestre; la pista corre fra distese di campanule bianche che si perdono nell’orizzonte del cielo blu solcato da ciuffi di nuvole bianche. Giganteschi baobab, con la corteccia rovinata dagli elefanti in cerca di acqua, offrono riparo agli animali nell’ora più calda. Acacie di ogni tipo, alberi del pane, e poi ancora fiori rossi, fiori viola, erba alta che si muove leggera al nostro passaggio… E sempre il grande fiume, ora vicino, ora lontano e palme e vegetazione lussureggiante.

V erso le tre del pomeriggio lasciamo il parco e raggiungiamo il lodge, il quale offre una terrazza che si affaccia sul parco, dalla quale vediamo un bellissimo arcobaleno. Il lodge è fresco e ospitale; ci viene servito un pranzo gradevole. 
Cominciamo, però, ad essere preoccupati per una delle nostre jeep, quella del prof. Vincenzo di Catania e dei suoi ragazzi. Sulla jeep c’è anche Giuseppe di Torino. Telefoniamo all’ingresso del parco: l’automezzo è uscito dal parco.  Tranquillizzati e un po’ dispiaciuti pensiamo che si siano diretti a Iringa senza fare sosta al lodge.
Verremo più tardi a sapere che il guidatore della jeep ha perso la strada del lodge e si è inoltrato nella foresta, dove la jeep ha sbandato e non ha tenuto la strada. Siamo assolutamente orgogliosi dei nostri eroi di Catania – e di Torino –  che hanno saputo prendere in mano la situazione; il professore – di filosofia! – si è messo alla guida della jeep acciaccata e ha riportato tutti sani e salvi al lodge.
Grande apprensione, visita di controllo per escludere qualsiasi problema. Tutto è a posto, niente paura. Hakuna matata, non ci sono problemi.

Iringa 9.4.08
Consolazione e speranza

V isitiamo la Faraja House (casa della consolazione) di padre Franco Sordella, che accoglie bimbi di strada. Il complesso sorge su una vasta area, un quadrato di circa 2 km di lato, che i missionari della Consolata hanno acquistato nel 1997 con l’intento di costruire una fattoria. Di fatto, la scarsità di acqua e la difficoltà nello scavo dei pozzi ha indotto i missionari a ripiegare su un progetto diverso… Ma che progetto!
Il centro è costituito da un’abitazione che accoglie al momento 68 bambini senza famiglia; altri 21, affidati al centro, frequentano le scuole superiori e dimorano presso le scuole nel corso della settimana. Le richieste di accoglienza sono moltissime, ma la capienza non permette di accontentare tutti. Qui sono accolti solo i casi più disperati.
Inizialmente la situazione era molto difficile: i ragazzi abbandonati erano aggressivi, talvolta dediti alla droga o all’autolesionismo;  ora le cose vanno molto meglio. I ragazzi, formati, sono capaci a loro volta di prestare aiuto ai nuovi arrivati. I ragazzi sono organizzati in squadre tendenzialmente autonome, dove i grandi accudiscono i piccoli.
Il centro è organizzato con grande efficienza e buoni mezzi, supportato da alcune comunità di volontari a Torino e a Savigliano. Oltre all’abitazione, modesta ma pulita, il centro ospita un asilo, una scuola elementare frequentata anche da bambini estei e soprattutto una scuola professionale; vi sono tre laboratori (uno di meccanica, uno di falegnameria e uno di calzoleria) dove i ragazzi che hanno terminato la scuola elementare e non si iscrivono alla secondaria possono, nel corso di tre anni, imparare un mestiere che li renderà autosufficienti.
Accanto ai laboratori, una cornoperativa organizza il lavoro dei ragazzi che hanno finito la scuola professionale e non sono ancora pronti per spendersi autonomamente sul mercato.
Laboratori e officine sono dotate di macchinari che i nostri colleghi esperti giudicano assolutamente idonei. I macchinari provengono dall’Italia e dall’Europa, donazione di associazioni di volontariato. Vi sono anche automezzi e macchine agricole.
Intoo alle abitazioni e alle officine, una vasta area coltivata e utilizzata per il pascolo (ci sono mucche, capre, pecore, maiali) permette alla comunità una quasi completa autosufficienza alimentare.
Esprimiamo a padre Sordella tutto il nostro apprezzamento per questa opera, che rivela grande capacità e spirito di organizzazione. Il padre ci esprime la sua preoccupazione: la sua salute e l’età non gli permetteranno di continuare per molti anni; anche con l’attenzione al passaggio delle consegne, c’è il rischio che si perda un po’ ciò che si è costruito…

A l pomeriggio abbiamo in programma la visita al Ruaha University College, guidati da padre Dutto. Mentre aspettiamo, come in ogni momento di pausa, ci precipitiamo al coloratissimo mercatino che sta a due passi dalla nostra abitazione, a far razzia di oggetti di ogni specie, di ebano, di stoffe, di giornielli… Ormai siamo conosciuti; i venditori, che sono soliti contrattare, hanno alzato i prezzi convinti che compreremo comunque.
All’università ci confrontiamo con una seconda classe della scuola di specializzazione per tecnici di laboratorio.
Le aule sono confortevoli, anche se non spaziose; i banchi di legno piccoli ma molto belli; gli studenti vestiti in modo sobrio ma elegante. Alcuni sono studenti giunti dalla scuola superiore, altri sono tecnici già in servizio, venuti qui per il perfezionamento: quando toeranno nei loro laboratori potranno chiedere uno stipendio molto più interessante.
Facciamo delle domande, e loro fanno domande a noi. Ci spiegano che nell’università (sussidiaria dell’università cattolica) ci sono corsi per tecnici di laboratorio, per legge, per comunicazioni e informatica. Questa è una università giovane, sorta da quattro anni. È una università privata, si pagano tasse molto alte, ma la qualità dell’insegnamento è molto buona. Alcuni studenti vengono sponsorizzati da enti, da laboratori presso cui già lavorano…
Gli insegnanti sono stimati e ben pagati. I migliori, al termine dei corsi universitari possono diventare a loro volta insegnanti. La paga media di un insegnante universitario è di circa 600 mila scellini tanzaniani, mentre la paga di un operaio è di circa 80 mila scellini tanzaniani.
Nel corso per tecnici di laboratorio si studiano chimica, fisiologia, ematologia, biologia molecolare, immunologia… Le lezioni si dovrebbero tenere in inglese, ma spesso si scivola verso il kiswahili.
C’è una certa selezione, arrivano al compimento degli studi circa i tre quarti degli studenti. Tutti gli esami sono statali.
Una volta finita l’università, la maggioranza degli studenti resta in Tanzania, dove è facile trovare in poco tempo un buon impiego. Solo una piccola minoranza ha intenzione di andare all’estero. Si stupiscono che per noi sia difficile trovare lavoro.

Terminata la visita alla classe, gli studenti nostri si recano in cortile con gli studenti dell’università, mentre i docenti sono ospitati da padre Dutto, che insegna biologia molecolare all’Università di Iringa, dopo essersi specializzato in tale materia negli Stati Uniti.
Ci confrontiamo sui programmi, parliamo dell’Hiv e dell’Aids. Padre Dutto ci fornisce una quantità di informazioni interessanti sui retrovirus, sul fatto che nel nostro organismo questi erano presenti già da prima che si differenziassero le razze. Dopo tutto, l’8% del nostro patrimonio genetico lo abbiamo acquistato inglobando retrovirus.
Parliamo anche di scuola laica e di scuola privata. Ci dice che nell’Università cattolica di Iringa non si chiede la religione per l’iscrizione: qui ci sono indifferentemente cristiani e musulmani… Non ci sono problemi di convivenza. 
Padre Dutto, uomo di grande cultura, ci ricorda che la cultura è capace di far convivere e collaborare le diversità: è una bella lezione.

Concludiamo la nostra giornata, affollatissima, come del resto tutte le altre, con la visita al centro della Consolata di Iringa, sede centrale della Consolata in Tanzania. Gradevole incontro e gradevole rinfresco. 
Rimaniamo affascinati dal bellissimo altare e dall’ambone nella cappella. L’altare, costituito da un enorme tronco di ebano, scolpito a bassorilievo con una rappresentazione, di eccezionale plasticità,  della natività fra le generazioni passate e future.
Sull’ambone sono scolpiti episodi dell’Antico Testamento: Giona nel ventre della balena, il sacrificio di Isacco…

Alla sera, riflessione. Siamo stati colpiti dall’efficienza del centro di padre Sordella. 
Ci interroghiamo sull’accoglienza da parte delle popolazioni locali verso i missionari. Padre Alex ci racconta i suoi sei anni tra i samburu nel nord del Kenya, i loro riti di matrimonio, il pascolo nomade, il consiglio dei saggi intorno al fuoco, le cerimonie per la promozione dei guerrieri e degli anziani.
Ci interroghiamo sul fatto che i missionari diventano anziani e cercano di «passare le consegne» ai locali, sul fatto che talvolta ci sono difficoltà dovute a culture e modi di essere differenti. Concordiamo sulla necessità di far crescere un popolo, aiutandolo, ma soprattutto dandogli gli strumenti per diventare autosufficiente.
Confrontiamo le realtà che abbiamo visto, così differenti: i bambini di strada che dormono nei tubi e quelli accolti nelle case famiglia e negli orfanotrofi… i malati di Aids e quelli che imparano a convivere con il virus Hiv e a sperare nella vita… gli sfaccendati seduti sui marciapiedi di Dar Es Salaam e i falegnami, meccanici, calzolai da padre Sordella…
Non si può dire: Africa e semplificare. Bisogna saper cogliere e raccontare le mille sfaccettature di una realtà complessa; bisogna avere spirito critico e capacità di cogliere i lati positivi. Ciò che abbiamo visto è povertà, ma anche desiderio di riscatto, stenti ma non bellicosità, malattia e speranza di guarigione, fatica e capacità di aiutare e condividere.

Mtuango 10.4.08
Una nuova famiglia

Oggi, ultimo giorno a Iringa, è in programma un viaggio di 2-3 ore (di andata e altrettante al ritorno) per raggiungere Makambako e Mtuango. Ci dirigiamo a sud-ovest, verso Mbeya;  siamo a poche centinaia di chilometri dai grandi laghi.
La zona di Makambako è poverissima. Su una lurida strada si affacciano stente bancarelle e, in mezzo alle mosche, ci inseguono bambini scalzi che ci guardano come fossimo marziani, con un’espressione di presa in giro e di stupore… Probabilmente non hanno mai visto tanti bianchi insieme, dobbiamo sembrare loro parecchio strani.
I nostri ragazzi non si scoraggiano e riescono a conquistarsi la simpatia di questi piccoli sporchi e malvestiti, che prendono in braccio e fanno giocare. A Makambako salutiamo i padri della Consolata, che nel 2004 hanno festeggiato il cinquantesimo del loro insediamento in questa zona.

Dopo pochi chilometri siamo a Mtuango. Incontriamo padre Tarcisio Moreschi e Fausta, una insegnante pensionata che si trova qui da 14 anni; entrambi provengono, come padre Alex, dalla Valcamonica.
Fausta è contenta della nostra visita e ci ha preparato un pranzo di lusso. Su alcuni tavoli, abbelliti con fiori gialli e bianchi, sono serviti piatti buonissimi e bellissimi: antipasti con verdure grigliate, insalate di riso con condimenti locali, fiori di zucchine fritti, carne arrostita, pane scuro, caffè… Ci abbuffiamo.
Fausta regala a ciascuno di noi un cestino locale con un sacchetto di tè e fa amicizia con tutti ma in particolare con la prof. Anna Maria di Brindisi.
Dopo il pranzo e la visita alla chiesa, ci rechiamo a visitare il centro di accoglienza per bambini di strada. È un altro esempio di efficienza e organizzazione. Su un piazzale accogliente, sorgono alcune casette basse, ciascuna con il proprio orto, molto ben curato e pulito. Le casette sono state costruite dai volontari venuti dalla Valcamonica. Ciascuna ospita una piccola comunità autonoma, una «famiglia» formata da due «mamme» locali e da una decina di bambini. In ogni casa c’è il posto per dormire, un cortiletto, la cucina… 
Lavorano qui due volontarie italiane, che supportano il lavoro delle «mamme». Fausta viene due o tre volte la settimana per controllare che tutto funzioni a dovere.
Vedo un bimbo che non avrà più di due mesi; piange in braccio a una bimba di dieci anni; si calma quando lo prendo in braccio: ha la pelle rovinata, un cappellino di lana e due occhi neri brillanti come stelle, enormi, che fanno quasi scomparire il resto del viso. Fausta ci spiega che la sua mamma è morta; lo si nutre con latte in polvere, ma presto passerà all’ugali… non c’è possibilità di fare altro. Lascio qui un pezzo del mio cuore. 
Francesco riesce a comunicare con il maggior numero possibile di bambini. Come sempre, lascia una parte dei suoi soldi. Toerà a Catania senza nulla… tanto, i soldi si rifanno, dice. Ce ne fossero tanti, così.

Morogoro 11.4.08
Sulla via del ritorno

O re 6.30: abbiamo preso un altro pullmino; abbiamo caricato le valigie; siamo in partenza. Salutiamo padre Dutto, il docente di microbiologia molecolare, che ci ha ospitati con grande disponibilità e attenzione e ci ha offerto interessanti riflessioni sulla Tanzania.
È già chiaro; nonostante la stanchezza e il sonno siamo presi dalla bellezza dell’altipiano, dalle coltivazioni, dalle persone che vanno – e camminano, e camminano – dice il preside Vitale, di Brindisi. Risaliamo il passo, ripercorriamo la valle dei baobab e il parco Mikumi:  ci fermiamo perché una famiglia di elefanti ci attraversa la strada.

V erso mezzogiorno siamo a Morogoro; finito il sole di Iringa, siamo di nuovo in mezzo alla grande pioggia. Con quattro jeep, messe a disposizione dal seminario, cerchiamo di raggiungere il villaggio masai; la sterrata che porta al villaggio si è trasformata nel letto di un fiume, scavato da profondi solchi, lunghi alcuni metri, che percorrono la strada e la rendono impraticabile. 
Con mille precauzioni cerchiamo un passaggio; un autista locale, con l’aria di chi la sa lunga, pigia sull’acceleratore e incassa due ruote della nostra jeep in un fosso profondo. Scendiamo, colmiamo il fosso con rami tagliati al momento. Tutti più o meno collaboriamo sotto la pioggia (è una pioggia calda, che non ci invoglia nemmeno a prendere l’ombrello) e padre Alex riesce a tirar fuori la jeep.
Proseguiamo a piedi e nel giro di mezz’ora arriviamo al villaggio masai. Intoo a uno spazio circolare sono costruite con rami e fango cinque o sei capanne, alcune per le persone, altre per le galline e le capre. Bagnato dalla pioggia, scorre ovunque il letame e si aggirano le mosche.
Al villaggio ci sono solo le donne e le bambine. Gli uomini sono al pascolo con le mucche. Le donne sono estroverse e socievoli; una giovane è particolarmente loquace ed espansiva. Sono alte e slanciate; cantano e danzano per noi una nenia e ci chiedono soldi per costruire una tenda. Una anziana non vuole essere fotografata. Le bimbe sono coperte dal telo viola, uno solo, perché non sono sposate. Appesi sotto la pioggia ci sono altri teli. Le donne sposate sono addobbate con collane e bracciali. Nel lobo delle orecchie hanno un grande foro.

Sotto la pioggia, guidati da Obi, un bellissimo masai di 24 anni, slanciato e alto circa un metro e novanta, che studia al seminario, ritorniamo alle jeep.  Camminiamo nell’erba fradicia, alta; mi sembra di non arrivare mai.
Al seminario parliamo con Obi e scopriamo che studia filosofia e che desidera specializzarsi in psicologia. Non avremmo mai pensato che un masai in Tanzania, oggi, potesse interessarsi alla filosofia e alla psicologia.
È una piacevole scoperta, discorriamo a lungo. Il prof. Sergio, di Torino, lo saluta come primo filosofo masai e lo esorta a valorizzare la cultura della sua gente.

Da Morogoro, dopo un interminabile viaggio, arriviamo a Dar Es Salaam e al traffico da incubo; siamo contenti di raggiungere il Tec, le nostre stanze decorose, la nostra mensa pulita. 
Alla sera le ragazze (e qualche ragazzo) hanno ancora l’energia per sfoggiare i loro vestiti tanzaniani. Festeggeranno, sorvegliati da padre Alex e da qualche insegnante di buona volontà, mentre gli altri docenti si ritirano, sfiniti, nelle proprie stanze.

Dar es Salaam 12.4.08

E non finisce qui…

R iflessione e momento di silenzio alla chiesa del Tec. Poi facciamo le valigie. Ci dirigiamo verso l’aeroporto.
Salutiamo Baraha, il nostro grande Baraha, l’autista del pullmino che ci ha guidato indenni per queste tremende strade di Tanzania e per il traffico assurdo di Dar. Salutiamo l’aiutante, autista della jeep, il figlio quattordicenne di Baraha.
Ci imbarchiamo e partiamo alle 15.10, ora tanzaniana (in Italia sono le 14.10). Ci separano da Doha 3.816 km. Dall’alto fotografiamo la terraferma e Zanzibar, la lunga striscia bianca della costa e il verde dei fondali accanto a riva.
Riconosciamo la geografia di Zanzibar e di Pemba, individuiamo sulla terraferma, forse in Kenya, un grande fiume e un lago, non capiamo quali. 
A sera, fotografiamo fra le nuvole un tramonto spettacolare.

Lunga sosta al modeissimo e impersonale aeroporto di Doha, fra negozi che assomigliano alla Rinascente, gente di ogni nazionalità e giovani arabi con il caffetano bianchissimo e la kefiah rossa e bianca in testa.
All’1.45 (ora locale) partiamo da Doha; arriviamo a Roma verso le 8.
Abbracci, saluti, qualche pianto, al ritiro bagagli.
Senza retorica, è stato faticoso ma bellissimo. Grazie a padre Alex e a tutti.
Che questo viaggio sia fecondo nel nostro futuro: che la conoscenza porti volontà di conoscere, di fare, di incontrare, di aiutare.

A cura di Aldina Beltrami

Aldina Beltrami




GUAI A VOI, CHE APPARITE  GIUSTI ALL’ESTERNO, MA DENTRO SIETE PIENI D’INIQUITÀ

La parabola del «figliol prodigo» (22)

«Ma lui rispose a suo padre: «Guarda/Ecco, da tanti anni (io) ti sono schiavo/servo e mai un tuo comando ho trasgredito, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. 30 Ma quando questo tuo figlio che ha mangiato con le prostitute la tua vita è venuto, (tu) hai ucciso per lui il vitello grasso».

Il padre umiliato due volte

Il padre era andato incontro al figlio minore per accoglierlo nella sconfinata sua pateità; ora di nuovo, «dopo essere uscito, chiamava/invitava» il figlio anziano (v. 28), dimostrando così che egli non ama un figlio più dell’altro, ma ama ogni figlio con tutto se stesso, partendo non dalla sua realizzazione di padre, ma dal bisogno personale dei figli.
Secondo il costume e la mentalità orientale, il padre che corre scomposto incontro al figlio perde la sua dignità di persona autorevole, perché sono i figli che devono correre verso l’autorità (cf puntata 15a in MC 2,2008, 22-24).
 Ora la scena si ripete: mentre il figlio maggiore è ancora fuori, è il padre che esce, umiliandosi a supplicarlo per essere parte della gioia e della festa. Per la mentalità orientale, sarebbe stato sufficiente che il padre gli avesse dato un ordine e lui doveva ubbidire; il figlio stesso dice con convinzione: «Mai un tuo comando ho trasgredito» (v. 29).
L’atteggiamento del maggiore è chiaramente falso, perché la sua adesione al padre è solo formale: se fosse stato un «vero figlio obbediente» come si gloria di essere, non avrebbe mai permesso che suo padre «perdesse la faccia» lasciando la festa e uscendo fuori a supplicarlo.
Il testo greco dice di più, aggravando ancora, se mai è possibile, la sua posizione: «Guarda/Ecco, da tanti anni [io] ti sono schiavo/servo». Quello che noi traduciamo con l’avverbio «ecco» in principio di frase, in greco è un imperativo (aoristo medio) del verbo «horàō – guardo/vedo», quasi che volesse dire: «Guarda da te stesso/renditi conto/possibile che tu non veda come…».
Da un punto di vista narrativo, questo imperativo con valore avverbiale posto ad inizio di frase ha lo scopo di rendere immediato, contemporaneo quello che segue. In altri termini, il redattore ci avverte che sta accadendo qualcosa di importante e le parole che seguono non sono parole qualsiasi, ma decisive.

Vivere da schiavo, fingendo di essere figlio

Il testo ci fa ascoltare le parole tragiche e tremende del figlio anziano che si pone di fronte al padre come se fosse in competizione. L’atteggiamento psicologico del figlio è di sfida e di conflitto: egli non ha alcuna considerazione del padre. Il verbo infatti che usa è «douléuō – io sono schiavo/servo», che esprime lo stato permanente di schiavitù alle dipendenze di un altro: lo schiavo è proprietà del padrone. Anche i servi spesso hanno dignità, ma quando si diventa servili, per apparire «modelli» agli occhi del padrone di tuo, non si appare soltanto «schiavi», lo si è veramente.
Il verbo «douléuō – io sono schiavo/servo» è opposto all’altro verbo greco «diakonéō – presto servizio/io servo», da cui deriva il sostantivo «diàkonos – diàcono/servitore»: esso esprime un «servizio libero» e in questo senso è usato per il servizio liturgico.
Due sono i riferimenti biblici a cui possiamo collegare l’atteggiamento del figlio maggiore: nel confronto con tutti e due egli rimane in perdita. Il primo esempio lo ricaviamo dal racconto dell’Esodo, dove Dio libera Israele «dalla schiavitù-doulèia» del faraone (Es 6,6) per condurlo al monte Sinai, dove arriva una massa di schiavi, ma da cui riparte un «popolo libero» con il tesoro delle «dieci parole» di libertà (Es 19-20). Il secondo esempio è più diretto perché mette a confronto la fatica della «schiavitù» che i protagonisti devono subire per realizzare il loro sogno.

L’esempio di Giacobbe

Nel libro della Genesi (Gen 29,15-30) si narra che Giacobbe «servì-douléuō» sette anni Làbano per avere in moglie la figlia secondogenita Rachele. Passati i sette anni di servizio, la notte di nozze, il padre scambia le figlie e Giacobbe al mattino si trova in moglie la primogenita Lia, che «aveva gli occhi smorti» (v. 17), invece di Rachele, «bella di forme e avvenente di aspetto» (vv. 15-20, qui 17). Se vuole avere Rachele, Giacobbe deve «servire altri sette anni» (v. 27): per amore Giacobbe ridiventa schiavo del suocero: «Fu ancora al servizio (douléuō) di lui per altri sette anni» (v. 30).
Quando Giacobbe, assolti i suoi obblighi, va via con mogli e proprietà, Làbano lo insegue, perché gli fa comodo avere uno schiavo di quel valore a basso costo; ma Giacobbe «si adirò e apostrofò Làbano: …Vent’anni ho passato con te… ho servito quattordici anni per le tue due figlie e quattro per il tuo gregge e tu hai cambiato il mio salario dieci volte» (Gen 31,36-42, qui vv. 36.38.41). Giacobbe rivendica «tutto il tempo del suo servizio/schiavitù» (doulèuō) che egli accettò per amore e non si rassegnò al raggiro, alla truffa e alle avversità. Egli agì per amore e alla presenza di Dio che egli venera e ama: «Se non fosse stato con me il Dio di mio padre, il Dio di Abramo, il Terrore di Isacco, tu ora mi avresti licenziato a mani vuote» (Gen 31,42).
Il patriarca Giacobbe rivendica non la quantità del tempo, ma la giustizia infranta dal suocero. Egli non ha agito con secondi fini e con reconditi pensieri, ma alla luce del sole, rispettando contratti capestro che egli accettò come piccolo prezzo di un grande amore.
Non si può dire lo stesso del figlio maggiore della parabola, che rivendica solo la «quantità» della sua schiavitù che nessuno per altro gli aveva chiesto né contrattato. Se il patriarca ha agito per amore, il suo discendente agisce solo per egoismo e interesse. Giacobbe crede in Dio, il figlio maggiore crede nelle sue sostanze; il patriarca affronta dei rischi e subisce per un bene superiore, il figlio anziano è prigioniero della sua grettezza che ostenta davanti al padre: «Da tanti anni ti sono schiavo».

La religiosità della parvenza

Se il figlio avesse avuto coscienza del suo rapporto affettivo col padre, avrebbe certamente usato il termine «diàkonos»; invece l’evangelista, usando il verbo della schiavitù, ci mette in guardia, dicendo che egli si sente e si comporta da «schiavo» perché, pur essendo figlio anagraficamente, ha sempre vissuto da sottoposto gretto e vuoto di passioni.
Una persona senza passioni, anche se a volte possono essere sbagliate, è sempre una rovina per se stessa e per l’umanità intera, perché riduce tutto al proprio interesse personale con cui fa coincidere l’esistenza e il valore di tutto l’universo. Ed è anche un monito perenne per noi: si può passare la vita a fare sacrifici, a macerarsi nelle rinunce e nelle privazioni, si può rinunciare a tutti i capretti del mondo, ma se non c’è la libertà dei figli di Dio, la gioia di regalare la propria libertà, l’autonomia dai propri interessi immediati e quasi sempre meschini, la condivisione con i fratelli «più giovani» che tornano dopo avere sperimentato i loro errori, noi saremo sempre i farisei della situazione: osserviamo materialmente tutti i precetti, ma il nostro cuore è lontano dalla salvezza, perché pur stando in casa col padre, di fatto siamo in «un paese lontano, vivendo da dissoluti, da persone senza salvezza» (Lc 15,13).
Il figlio «anziano» si rivela qui il più infantile e il più immaturo: non è mai cresciuto a livello di umanità, né come uomo né come figlio, perché come uomo si comporta e vive da «schiavo» e come figlio considera suo padre come padrone/proprietario. A questo punto non possiamo nemmeno meravigliarci della sua reazione nei confronti del «fratello», che egli non ha mai conosciuto, perché lo considera solo figlio di suo padre: «Questo tuo figlio» (v. 30).
Il suo isolamento è totale: nessuna relazione vitale lo anima, né quella affettiva parentale (padre, fratello, casa) perché egli è sempre «fuori» dagli altri, né (ed è facile supporlo) quella relazione con gli amici perché con questi «è felice» solo nelle feste occasionali. Il testo parla di «phìloi – amici», ma forse si dovrebbe parlare di «compagni» di baldorie.

Vita d’amore e prostituzione

Quanta differenza tra i due «fratelli»! Al v. 15, il minore che era in «un paese lontano», per sopravvivere «si incollò/attaccò» a un pagano perché spinto dalla disperazione, che lo induce a sognare di tornare al padre suo, anche nella condizione di «mìsthios – salariato/operaio». Egli prende lentamente coscienza del suo peccato morale e lascia che la vita del padre, che egli ha sperperato colpevolmente e resa immonda, lo travagli, lo recuperi, lo rimodelli per tornare alla sua affettività di relazione. Con le prostitute ha sperimentato l’ebbrezza della illusione momentanea, a pagamento, non ha avuto una relazione di vita, perché gli è venuto meno il contesto d’amore che la prostituta non può dare. I gesti d’amore, infatti, della vita d’amore e della prostituzione sono gli stessi, l’atto sessuale è lo stesso, ma la differenza sostanziale è tutta qui: nella vita d’amore il contesto è d’amore, libero e gratuito, nell’altro il contesto è mercenario perché si compra la finzione.
Dove c’è un corrispettivo, di qualsiasi natura e specie, c’è sempre prostituzione perché l’amore/agàpē è per sua natura gratuito e senza pretese, ma principalmente senza reciprocità.
Il figlio minore che è «materialmente» schiavo fino all’abiezione di «servire» i porci, anela a diventare «salariato», non schiavo, perché forse nel suo inconscio sa che suo padre non lo permetterebbe mai.
Al contrario, il fratello «anziano» che non si è mai allontanato dalla casa patea, che non ha mai trasgredito un «comandamento» del padre e che nella sua tirchieria ha risparmiato anche i capretti per le feste con gli amici, accusa il padre della sua inesistenza. Egli, infatti, dichiara apertamente la sua schiavitù come condizione interiore propria: è sempre stato uno schiavo e sempre lo sarà. Non ha sperperato con le prostitute, ma di prostituzione è piena la sua vita apparente e impura.
La parabola non dice che egli «entra» nella festa degli affetti, ma resta in sospeso, come un monito per noi che leggiamo a distanza di ventuno secoli. Egli somiglia al fariseo che si ritiene a posto per avere adempiuto i comandamenti prescritti e di non mescolarsi con gli impuri e gli ingiusti (Lc 18,11-12) o a quei cristiani che ritengono Dio in debito con loro perché vanno a messa, non si perdono una processione, fanno la carità e non ammazzano.
Essi hanno una concezione «quantitativa» della religione, che è solo quella del «dovere». Essi girano sempre con la bilancia per misurare il pro e il contro, per valutare di non esagerare nel rapporto con Dio, che comunque deve stare dalla loro parte, altrimenti è un «dio» ripudiato.

Il libello del ripudio

I due versetti (vv. 29-30) che stiamo commentando svelano l’abisso del figlio «anziano»: di fatto egli presenta il «libello del ripudio» al padre e, tramite il padre, al fratello.
Accusando il padre di non avergli mai concesso un capretto per fare festa con gli amici, egli mente (come vedremo nella prossima puntata), perché da figlio libero, poteva prendere tutto quello che voleva senza nemmeno chiedere il permesso. Da avaro e schiavo, ha sempre pensato ad accumulare, aspettando famelico la morte del padre per potere disporre della «roba» sua che egli ritiene propria.
Il minore di fronte al padre che gli corre incontro, si getta ai suoi piedi; il maggiore di fronte al padre che esce per supplicarlo, gli sbatte in faccia il suo perbenismo di facciata e il suo odio, facendogli la lista dei suoi diritti e l’elenco delle colpe del padre.
«Mai un tuo comando ho trasgredito». È la foto della presunzione narcisistica di chi pensa che il mondo comincia e finisce con lui. Il testo greco parla di «entolê – comandamento». La bibbia riserva questo termine all’osservanza dei «comandamenti» della Toràh (Dt 26,13; Gb 23,12), ma anche agli impegni umani (2Cr 8,15). Il  termine così acquista una connotazione «religiosa», ma anche «etica», perché esprime la natura della relazione umana: verticale verso Dio e orizzontale verso il prossimo. Dicendo di non avere «mai» trasgredito un comandamento, egli asserisce di non avere mai peccato né contro Dio né contro i propri simili, qui suo padre e suo fratello. In questo stesso istante, egli pecca con un peccato in più (cf Lc 18,14).
«Mai ho trasgredito un tuo comando» è lo stesso che affermare: io sono giusto perché osservo la lettera della Toràh, sono un modello di religiosità e pretendo di avere la mia parte, quella che mi spetta di diritto (cf Lc 18,14). Nel giardino di Eden, Adam vuole essere «come Dio» per usurpae il potere (cf Gen 3,5); qui il figlio anziano contesta il potere del padre che accusa di non essersi accorto della sua schiavitù accumulata per tutta la vita, credendo di potere comprare la sua dignità di uomo e di figlio che non ha mai avuto. 
Già prima di Gesù, la tradizione giudaica aveva codificato tutta l’osservanza della Toràh in 613 precetti, di cui 365 negativi, simbolicamente corrispondenti a ogni giorno dell’anno solare, e 248 positivi, corrispondenti simbolicamente alla totalità dei «pezzi» che compongono il corpo umano. Il simbolismo è chiaro: tutto il tempo (anno) e tutto l’uomo (parti del corpo) sono sotto il segno della volontà di Dio che si esprime nell’Alleanza come dimensione d’amore e di affetto.
Al tempo di Gesù i farisei pensavano che il popolo non potesse salvarsi perché era molto arduo osservare tutti i comandamenti, giorno dopo giorno. Per questo Gesù, nel vangelo di Matteo, scritto per i cristiani provenienti dal giudaismo, espone la sua interpretazione della Toràh, oltre la tradizione, con le famose opposizioni del discorso della montagna: «Vi è stato detto… ma io vi dico» (Mt 5,21-22.27-28.31-32.33-34.38-39.43-44), con cui si schiera dalla parte del popolo degli esclusi dalla salvezza e dalla parte del Dio che la salvezza annuncia proprio agli esclusi. Egli toglie i pesi dalle spalle delle persone (cf Lc 11,46) e le impegna in un dinamismo di amore, sintetizzando la Toràh, in un solo «comandamento»: amare Dio e amare gli altri (Mt 22,36-40).

Ciò che non vogliamo fare, ciò che non dobbiamo essere

Al v. 30 c’è un cambiamento stilistico, con una frase temporale che imprime un’accelerazione al contenuto, come se non vi fosse tempo sufficiente: «Ma quando questo tuo figlio che ha mangiato con le prostitute la tua vita è venuto, (tu) hai ucciso per lui il vitello grasso».
In queste parole, le uniche che il maggiore pronuncia sul fratello minore, sono parole di disprezzo e di morte: «Questo tuo figlio». Se nel versetto precedente aveva ripudiato il padre, ora presenta il libello del ripudio anche al fratello che non ha mai amato. Egli è inchiodato nella «solitarietà» di se stesso: non ha altro dio che se stesso, cioè il suo abisso di nullità, che coincide con la cima del suo egoismo.
Egli accusa il fratello di impurità legale, perché «ha mangiato con le prostitute», senza rendersi conto che egli è impuro nel cuore, perché si è sempre limitato a osservare la lettera della Legge, senza mai lasciarsi penetrare e interpellare nella coscienza (cf Is 29,13; Mt 15,8).
L’espressione «questo tuo figlio» trasuda disprezzo illimitato: il ritorno del fratello ha sconvolto il suo piano di restare unico padrone dell’eredità patea. Egli è consapevole che il minore ha sperperato la «vita del padre», ma non si rende conto che il padre ha preferito essere sperperato pur di salvarlo da se stesso, riuscendoci e riportandolo a casa.
Il maggiore al contrario non tiene conto del valore della vita del padre (in greco: tòn bìon), perché la colloca in un contesto di un disprezzo assoluto senza appello: la perla della tenerezza del padre è buttata ai porci nel fango della grettezza (cf Mt 7,6).
Dal figlio «anziano» noi, uomini e donne della modeità, possiamo, dobbiamo imparare quello che non dobbiamo fare, che non vogliamo essere (continua – 22).

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Nuova Russia, vecchie abitudini

La Russia negli anni di zar Putin

Cos’è diventata la Russia negli anni di Vladimir Putin? Un’analisi accurata che spazia dalla politica all’economia fino alle libertà fondamentali, che…

Da anni durante i miei soggiorni moscoviti sono ospite di una coppia di amici che hanno la fortuna di abitare in una posizione invidiabile. Abitano in pieno centro, su uno dei lungofiumi, al penultimo piano di uno degli edifici più alti del quartiere: davanti alle finestre del salotto si stende mezza città.
Per anni il panorama che si presentava ai miei occhi è rimasto, visita dopo visita, pressoché invariato. Ogni tanto compariva qualche piccolo cambiamento, che però non modificava di molto il quadro d’insieme. Verso la fine degli anni ‘90, invece, questo quadro s’è messo in movimento, prima lentamente, poi con sempre maggior dinamismo. Adesso, ogni volta che too, corro a vedere che cosa è cambiato.
Si è cominciato con la palazzina costruita su parte del bel prato antistante alla casa, un pezzo di terreno lasciato libero, anche perché declina verso il fiume ed è a rischio smottamento. Poi, sulla riva opposta, nella piazza davanti alla facciata neoclassica della stazione ferroviaria, sono comparsi una brutta fontana e una costruzione cilindrica: un bar-ristorante, dicono. In seguito, uno sgraziato centro commerciale ha occupato tutta l’area sul fianco della stazione, dove un tempo c’era un ampio spiazzo con aiuole e panchine.
Se si alza lo sguardo oltre la linea dei primi edifici, là, dove un tempo c’era il cielo, si stanno affastellando torri gigantesche, da cui partono potenti fasci di luce, che, come fari, illuminano la notte di Mosca.
Recentemente, sulla sommità del centro commerciale è stato eretto un maxi schermo, che giorno e notte proietta immagini di auto in corsa e coppe di champagne. Ti tiene buona compagnia, come se in camera avessi un televisore sempre acceso.
Dal 2000 la Russia ha vissuto un periodo di costante crescita economica e Mosca è, naturalmente, la città dove più evidenti sono i segni di questi anni fortunati: è in cima alle classifiche mondiali per concentrazione di Mercedes e di milionari.
Il 2000 è anche il primo anno della presidenza di Vladimir Putin, cui si attribuisce il merito di aver tirato fuori il paese dalle secche dell’era El’cyn, di avee favorito la ripresa economica, di avergli ridato stabilità e fiducia nel futuro.
Il turista in visita a Mosca non potrà non trovarsi d’accordo con un tale giudizio e, forse, non gli parrà così strano che i russi abbiano per la terza volta riconfermato la fiducia verso quest’uomo, votando in massa alle presidenziali di marzo il candidato da lui voluto. Lo avrebbero sicuramente rieletto per altri quattro anni, se solo si fosse presentato di nuovo. Si è, addirittura, formato il movimento «Per Putin», a sostegno di una sua candidatura; ma la costituzione russa non consente un terzo mandato consecutivo, e in questo è stata rispettata.
Come stupirsi di un tale consenso, se il PIL cresce di un 7% annuo, i salari reali dal 2000 sono aumentati di quattro volte e mezzo, c’è stato un aumento della produttività e dei consumi, il rublo si è rinforzato e l’inflazione è diminuita.
Senz’altro ci sono molte più persone che stanno meglio adesso che otto anni fa. Il ceto medio è cresciuto e ha preso d’assalto le località turistiche in tutta Europa. La Russia è tornata a far sentire il proprio peso tra le nazioni. Eppure…

I conti non tornano

I dati macroeconomici, si sa, non bastano a descrivere la realtà di un paese. Se si prendono in considerazione altri aspetti della vita in Russia, il quadro appena descritto apparirà diverso e mostrerà evidenti segni di un profondo malessere. Uno dei più preoccupanti è il calo demografico. Questo fenomeno si è manifestato all’inizio degli anni ‘90, quindi molto prima dell’arrivo di Putin, ma i suoi otto anni non hanno portato variazioni di tendenza.
Con una densità di 8 abitanti per kmq, la Russia è uno dei paesi più vuoti al mondo; un’ulteriore perdita di popolazione potrebbe mettere a repentaglio intere regioni, in particolare la Siberia orientale, dove è più accentuata la tendenza allo spopolamento. Oltre agli evidenti problemi di sicurezza che ne conseguirebbero, il fenomeno in sé non è certo indice di buona salute.
La natalità in Russia era calata già ai tempi dell’Urss come conseguenza di diversi fattori: l’attacco ideologico alla istituzione della famiglia, la liberalizzazione di aborto e divorzio, scarsezza di alloggi, lavoro femminile, equiparato a quello maschile. Con la fine del sistema sovietico a ciò si sono aggiunte le aumentate difficoltà economiche e il peggioramento del sistema scolastico.
Tuttavia, quello che più impressiona oggi non è tanto la bassa natalità, quanto l’alta mortalità. In questi ultimi anni si è addirittura avuto un leggero incremento delle nascite, ma, ai fini demografici, questo dato è reso nullo da un maggiore incremento delle morti. L’aspettativa di vita per gli uomini è scesa in Russia a 58 anni: 20 anni sotto la media europea.
Alta mortalità è indice di bassa qualità della vita. È vero che in questi anni, grazie al buon andamento economico è circolata più ricchezza ed è diminuita la percentuale di persone che vivono sotto la soglia della povertà, ma è anche vero che la differenza tra ricchi e poveri si è accentuata e che lo stato non ha investito in servizi per i cittadini il denaro arrivato nelle sue casse.
Se si eccettuano i grandi centri urbani, le infrastrutture in Russia sono rimaste quelle dei tempi sovietici. Così, si muore sulle strade, insufficienti e maltenute; si muore perché il sistema sanitario è antiquato e non garantisce un’adeguata assistenza; si muore perché nei posti di lavoro, nelle abitazioni, nelle strutture pubbliche mancano i più elementari sistemi di sicurezza; si muore per le malattie contratte nei luoghi di detenzione, malsani e sovraffollati; si continua a morire per mano di criminali, che rimangono impuniti nella stragrande maggioranza dei casi.
Povertà, precarietà del vivere, mancanza di prospettive sono tra i motivi che spiegano l’accresciuto consumo di alcolici, una delle principali cause di morte, e un numero di suicidi tra i più alti nel mondo.
È difficile capire come mai un paese dove 140 milioni di persone si dividono un territorio di 17 milioni di kmq, tra i più ricchi al mondo di risorse naturali, non riesca a garantire a tutti i suoi abitanti un’esistenza almeno dignitosa. Forse, la ragione è in parte da ricercare proprio in questa abbondanza, che ha formato il carattere dei russi, abituati a non calcolare, a non risparmiare nell’uso di risorse apparentemente illimitate.
Ciò si è tradotto, nei secoli, in trascuratezza, poca razionalità nel gestire il bene comune, tendenza allo spreco. Proprio per questo sugli amministratori ricade una grossa responsabilità, e il primo e più responsabile di loro è il presidente, che ha creato di sé un’immagine di politico razionale ed efficiente e che ha concentrato nelle proprie mani un enorme potere. Basterebbe un esempio a mettere in dubbio l’oculatezza della sua gestione del paese: dopo la de facto rinazionalizzazione del settore energetico da lui perseguita, con le riserve che ha, la Russia non riesce a soddisfare il fabbisogno interno di gas.

Economia: il ritorno dello Stato padrone

È noto che l’attuale prosperità della Russia si fonda innanzitutto sulle materie prime. Le risorse del sottosuolo, metalli e idrocarburi, costituiscono circa l’80% delle esportazioni russe ed è la crescita dei loro prezzi che ha dato il maggior contributo al boom economico di questi anni.
Nonostante le eccezionali condizioni del mercato internazionale, il settore petrolifero russo è in piena crisi. Fino al 2003 la produzione di greggio cresceva di un 8-9% annuo; ma dal 2004 questo indice si è andato riducendo. Nel 2007 è stato solo del 2,5% e nel primo trimestre di quest’anno si è addirittura registrato un declino.
In campo economico il primo mandato di Putin è giudicato in modo positivo: furono approvate la riforma fiscale, che semplifica e riduce il sistema di tassazione, la riforma del bilancio, che introduce maggiore chiarezza e realismo nelle spese dello stato, fu finalmente consentito il libero mercato della terra.
A metà del 2003, però, ci fu il primo segnale di un cambiamento nella politica economica del presidente: la compagnia petrolifera privata Yukos fu messa sotto indagine dalla magistratura e qualche mese dopo fu arrestato il suo proprietario, Mikhail Khodorkovskij. Il caso Yukos ha dato il via a un’azione concordata di magistratura, guardia di finanza e governo, volta a riportare in mani statali il comparto energetico, in buona parte privatizzato ai tempi di El’cyn.
Il secondo mandato di Putin ha visto lo stato riprendersi un ruolo primario nell’economia del paese. Non solo nel caso di gas e petrolio, ma anche in altri importanti settori economici lo stato è intervenuto in maniera crescente, con acquisizioni che hanno ricondotto molte grandi imprese sotto il suo controllo; imprese, al cui vertice Putin ha posto le stesse persone che aveva chiamato a svolgere ruoli importanti nella propria amministrazione, o nel governo: ex compagni di università, ex colleghi di lavoro, collaboratori di vecchia data, tra cui Dmitrij Medvedev, che, prima di essere eletto presidente della Russia, era contemporaneamente vice primo ministro e direttore di Gasprom.
In poco tempo il rapporto tra capitale dello stato e capitale privato nella borsa russa si è invertito: se qualche anno fa il primo ne deteneva il 24% e il secondo il 50%, adesso le percentuali sono, rispettivamente, del 40% e del 33%. È ovvio che un simile capovolgimento non è stato in alcun modo volontario e non è potuto avvenire senza gravi violazioni del diritto di proprietà. Inoltre, ha avuto come conseguenza una diminuzione di efficienza del sistema economico. Vari analisti fanno presente che l’attuale crescita economica in Russia è inferiore alle potenzialità del paese. Altre repubbliche ex sovietiche stanno crescendo altrettanto, se non di più, senza avere le risorse di cui dispone la Russia. L’Ucraina è una di queste.
Sono anni che, nelle nostre conversazioni, Andrej, un mio conoscente di Mosca indica nell’abbondanza di gas e petrolio il guaio della Russia; non vede l’ora che siano sostituiti da altre fonti di energia e profetizza che ciò avverrà molto prima di quanto si creda. Sulle prime, simile posizione potrebbe suonare antipatriottica, ma non lo è. Per capirlo, basterebbe il suo racconto, di ritorno da un viaggio a Kiev: «La città in questi anni ha cambiato faccia, non meno di Mosca. Eppure gli ucraini non hanno una goccia di petrolio. La prosperità se la guadagnano col lavoro e non vendendo idrocarburi».
Il fatto di non avere a disposizione una ricchezza già pronta, le materie prime, costringe un popolo a mettere in campo iniziativa e ingegno per costruire il proprio benessere. Dall’altra parte, un governo che non possa far conto sui facili proventi ricavati dalla loro vendita è costretto a cercare l’attiva collaborazione dei cittadini. Questi due fattori combinati insieme favoriscono l’instaurarsi di un regime di libertà. «Quando sono uscito dalla stazione di Kiev, la prima cosa che ho visto è la parola “Libertà”, scritta in caratteri cubitali su un cartellone» ricordava Andrej, senza nascondere la sua ammirazione.

I media sotto controllo

«Libertà» non è una parola di moda in Russia: non la usano i governanti, non aleggia nelle aule del parlamento e, ciò che più conta, non è neppure sulla bocca dei comuni cittadini; altrimenti negli ultimi otto anni tante cose non sarebbero potute avvenire. Com’è successo con quello economico, questi otto anni hanno visto il progressivo accentramento del potere politico nelle mani del presidente e di un’élite a lui personalmente legata. Si è cominciato col ridurre l’autonomia delle regioni, sia istituendo ispettori presidenziali, col compito di controllare l’operato delle amministrazioni locali, sia tagliando loro le risorse economiche. Si è, poi, passati a modificare i criteri di scelta dei governatori regionali, non più eletti dai cittadini, ma nominati dal presidente. In tal modo Putin si è, di fatto, assicurato il controllo del Consiglio federale, la camera alta del parlamento, dove siedono i rappresentanti regionali, designati dai governatori.
L’altra camera, la Duma, è stata progressivamente occupata da deputati di partiti, apparentemente diversi e in competizione, ma, di fatto, tutti governativi e tutti creati dal Cremlino per attirare diverse tipologie di elettori. La vera opposizione è stata emarginata per mezzo di ostacoli burocratici, cavilli legali, campagne di diffamazione, una magistratura compiacente e limitazioni nell’accesso ai mass media.
Ai tempi di El’cyn era diventato interessante guardare la televisione. Dopo il lungo periodo sovietico, quando il partito comunista controllava i mass media con pugno di ferro, i russi avevano finalmente cominciato a sentire il gusto della libera informazione. Caduto il monopolio statale, comparvero numerosi quotidiani e riviste indipendenti, ma la vera rivoluzione avvenne grazie alla TV, che arrivava in tutte le case. Sui canali privati, finalmente consentiti, trovavano spazio le più diverse posizioni: si parlava di tutto, si criticava, si discuteva, si denunciava. Molto seguiti erano alcuni programmi di satira politica, un genere del tutto nuovo per il pubblico russo.
Le cose cominciarono a cambiare subito dopo l’arrivo di Putin, ma fu la tragedia del Kursk a dare una brusca accelerata al processo di restaurazione. Nell’agosto del 2000, 118 marinai rimasero intrappolati nel sottomarino atomico Kursk, in avaria sul fondo del Mare di Barents. Forse si sarebbe potuto salvarli, se l’emergenza fosse stata affrontata in modo tempestivo dalle autorità. Non fu così e Putin vide la propria popolarità cadere nei sondaggi.
Da quel momento si fece sistematico l’attacco alle emittenti private e, già da settembre, furono posti i fondamenti legislativi di una «dottrina nazionale dell’informazione», che doveva da allora in avanti rispondere anche a criteri di patriottismo.
Nei mesi e anni successivi, mentre il panorama fuori dalla finestra si andava trasformando, quello sulla TV in salotto diventava sempre più monotono. I canali televisivi erano nuovamente controllati. Dovunque ti spostavi trovavi immancabilmente la faccia del presidente: Putin che visita una fabbrica, che incontra un gruppo di cittadini, che ammaestra i suoi ministri o li chiama a rapporto, che riceve un capo di stato straniero, e via dicendo.
Da quando, poi, la definizione di attività estremistica è stata estesa a comprendere la diffamazione di pubblico ufficiale e l’umiliazione dell’orgoglio nazionale, criticare l’operato delle autorità è diventato ancora più rischioso. La nuova legge è stata usata per tacitare giornalisti, ong, gruppi di cittadini troppo intraprendenti. Ad esempio, di estremismo sono stati di recente accusati i parenti delle vittime di Beslan.
Si ricorderà il tragico episodio della scuola di Beslan, dove nel settembre 2004 una quarantina di terroristi tenne in ostaggio per alcuni giorni un migliaio tra bambini, insegnanti e genitori. Più di 300 di loro furono uccisi nel corso di un raid lanciato dalle truppe d’assalto russe per liberarli. Da subito furono sollevati dubbi su come tutta l’operazione era stata condotta. Si costituì un comitato di cittadini che in questi anni ha condotto un’inchiesta indipendente sul massacro, da cui sono emersi elementi che proverebbero il comportamento irresponsabile delle autorità. Il tentativo di renderli pubblici e di ottenere giustizia ha, però, portato all’incriminazione per attività estremistica.
Con un’informazione controllata e filtrata i russi hanno smesso di sapere cosa avviene realmente nel paese. Sarà anche per questo che hanno cominciato a sentirsi più sicuri. All’inizio della sua presidenza Putin si era prefisso di dare maggiore sicurezza e stabilità al paese, due beni preziosi, per i quali i russi sono disposti a rinunciare a una fetta delle proprie libertà. Quell’obiettivo è stato effettivamente raggiunto?

Più corruzione meno sicurezza

Alla fine dello scorso anno, mentre mi trovavo nella sala periodici della centralissima Biblioteca statale di Mosca, si avvertì una detonazione che ne fece tremare la grande vetrata. Si seppe poi che si era trattato di un piccolo ordigno, lasciato in un centro commerciale adiacente al Cremlino, che, fortunatamente, non aveva fatto vittime. Al momento mi stupii per la naturalezza con cui avevo accettato l’idea che fosse scoppiata una bomba. Da qualche anno penso spesso a quest’eventualità durante i miei soggiorni a Mosca, soprattutto quando scendo nel metrò, o mi trovo in un luogo affollato.
Non è solo la capitale russa ad avere problemi di sicurezza. Nel 2004 quando comunicai che ero in partenza per il Dagestan, vidi il mio interlocutore impallidire, perché, mi disse, quella repubblica caucasica è diventata più pericolosa anche della Cecenia: attentati e rapimenti erano quasi quotidiani. E lo sono tuttora.
Gli otto anni di Putin sono costellati di assassini su commissione, attentati e attacchi terroristici, che hanno prodotto un alto numero di vittime e le cui responsabilità e connivenze rimangono ancora in buona parte da chiarire: omicidi di politici e giornalisti, bombe in metrò, su autobus, treni, aerei, centri commerciali. I due episodi più noti sono quelli del teatro Nord-Ost di Mosca e della scuola di Beslan. Ne hanno parlato giornali e TV di tutto il mondo, ma notizie di molti altri fatti meno sensazionali faticano ad arrivare. Il Caucaso continua a essere potenzialmente esplosivo e vi si muore quotidianamente.
Sicurezza e corruzione sono due cose inversamente proporzionali. Per indice di corruzione la Russia in questi ultimi anni è passata dal 126° al 143° posto su 180 paesi. Molti fatti che avvengono nel paese si giustificano solo con la corruttibilità dei pubblici ufficiali. Non è mai stato chiarito, ad esempio, come sia stato possibile per terroristi ben noti alle autorità russe attraversare indisturbati tutto il paese, dal Caucaso a Mosca, e infilarsi nel teatro Nord-Ost con un arsenale d’armi e munizioni.
Pochi giorni dopo la tragedia di Beslan, quando tutta la Russia era sotto shock e le misure di sicurezza rafforzate, un conoscente mi raccontò un fatto appena capitatogli. Quel pomeriggio lui e i suoi colleghi dovevano fare delle riprese alla fiera dell’editoria a Mosca. Siccome erano parecchio in ritardo, per evitare di perder tempo al posto di controllo avevano allungato qualche rublo al poliziotto, che li aveva lasciati passare senza ispezionare il loro furgone. Ripensandoci a freddo, però, il mio conoscente non era più tanto contento di una così buona riuscita. «Il furgone avrebbe potuto essere pieno di armi!» mi diceva costeato.

«La Russia ai russi»

In un primo tempo era corsa la voce, poi smentita, che tra i terroristi di Beslan ci fossero, oltre ai ceceni, molti stranieri provenienti da diversi paesi islamici. I russi hanno la tendenza a cercare fuori di sé la causa dei propri mali: un tempo erano i nemici del popolo, i capitalisti, l’Occidente, a congiurare contro il regime sovietico; adesso sono i rappresentanti di etnie diverse a rendere difficile la vita nel paese. Così, i terroristi sono tutti ceceni o arabi, i mafiosi sono tutti caucasici o centroasiatici, i criminali pure.
Novaja Gazeta, il giornale per cui lavorava Anna Politkovskaja, una delle poche testate indipendenti rimaste, ha recentemente pubblicato un’inchiesta curiosamente intitolata «55%» (N° 15, 3-5 marzo 2008). È la percentuale di chi dichiara di approvare lo slogan: «La Russia ai russi». Purtroppo non si tratta solo di parole, come risulta dalle statistiche pubblicate dal giornale. Sempre più frequenti si sono fatte le uccisioni di cittadini stranieri da parte di gruppi neonazisti o di bande organizzate. Nel 2007 si è a conoscenza di 543 aggressioni per motivi xenofobi, di cui 57 mortali. Questi numeri sono in rapida crescita. Nel 2006 i casi registrati furono rispettivamente 376 e 44, nel 2004 furono 147 e 34. Mosca e San Pietroburgo stanno di gran lunga in cima alle classifiche.
Oggetto della violenza di questi gruppi non sono i «bianchi», vale a dire europei, bensì i «neri», chjoye, i rappresentanti delle etnie caucasiche e centroasiatiche. Dal Caucaso e dall’Asia Centrale provengono i lavoratori stagionali, che arrivano in Russia a svolgere i lavori più umili e duri, quelli per cui la domanda è molto superiore all’offerta. È una soluzione che accontenta tutti, perché la Russia, con i suoi problemi demografici, ha urgente bisogno di forza lavoro, mentre nel sud dell’ex Urss la disoccupazione è cronica. Si tratta di una forza lavoro spesso sottopagata e bistrattata, soprattutto, ma non solo, nel caso dei lavoratori senza un permesso di soggiorno. Nei confronti di questi gruppi etnici gli attacchi xenofobi sono diventati così frequenti da spingere i rappresentanti delle loro comunità in Russia e, in taluni casi, le autorità in patria, a intervenire presso il governo di Mosca.
L’odio razziale non si esprime solamente verso una certa categoria di cittadini stranieri, ma anche verso gli stessi cittadini della federazione, etnicamente non russi. Per gli aggressori fa poca differenza che uno abbia in tasca un regolare passaporto russo. Il crescere di sentimenti nazionalisti e apertamente xenofobi è segno di una società non in pace con se stessa, che ha bisogno di trovare un capro espiatorio per giustificare il proprio malessere.
A noi italiani può capitare di essere scambiati per caucasici e, quindi, di subire le aggressioni verbali solitamente destinate a loro. Un giorno, a una fermata d’autobus, mi si avvicinò un signore che stava mangiando dei lupini. La mia faccia non deve essergli piaciuta, perché cominciò subito una filippica contro chi, come me, invece di starsene a casa propria, veniva a occupare lo spazio degli altri. Io non gli svelai l’equivoco in cui era incorso, ma, poiché gli risposi pacatamente, anche l’uomo moderò il proprio tono e, di lì a qualche minuto, mi offrì addirittura una parte dei suoi lupini.
In una persona possono convivere i sentimenti più diversi; l’importante è fare sì che prevalga la sua parte migliore. Anche in questo caso la responsabilità dei governanti è grande: con le loro parole e azioni essi possono eccitare, o, al contrario, sopire il nazionalismo latente nelle persone. L’accento posto dalla presidenza Putin sull’orgoglio nazionale non sembra andare in quest’ultima direzione.
Zar buono,
ministri cattivi
Per tracciare un bilancio più equilibrato dell’era Putin, oltre ad argomenti economici, come la crescita del PIL, boom delle costruzioni, aumento dei consumi, non sarebbe male tener presente anche gli aspetti di cui si è sopra parlato: l’accresciuto controllo dello stato sull’economia e mezzi d’informazione, la perdita di autonomia delle amministrazioni locali, la concentrazione di potere nelle mani del presidente e degli uomini della sua amministrazione, la polarizzazione della società in buoni e cattivi, nostri e vostri.  «I nostri», così, appunto, si chiama il movimento dei giovani putiniani. Per chi ha conosciuto la Russia sovietica tutto ciò ha un suono stranamente familiare.
Sono sicura che quando toerò la prossima volta dai miei amici di Mosca troverò qualcosa di nuovo all’orizzonte della loro finestra. La Russia va avanti e sceglie il proprio futuro. Per quante previsioni, analisi, o critiche noi possiamo esprimere, esso è in mano ai russi ed è giusto che sia così. Putin non avrebbe potuto cambiare così radicalmente l’assetto economico e politico del paese senza il consenso, tacito o manifesto, dei russi: essi sono contenti per il ritrovato orgoglio nazionale, perché si parla nuovamente di grandezza del loro paese; sono contenti di avere un presidente forte e un governo stabile, anche a prezzo di non avere un’opposizione in parlamento; sono contenti che lo stato si sia ripreso il controllo delle risorse naturali. Azioni come quella contro Khodorkovskij trovano il sostegno della gente, che non ama gli oligarchi arricchitisi con le privatizzazioni.
Il ceto medio è quello che ha più beneficiato degli anni di Putin; grazie al considerevole aumento degli stipendi è aumentato il suo potere d’acquisto e, di conseguenza, il suo senso di sicurezza rispetto al futuro. La sua maggiore autonomia economica non si è, però, tradotta in maggiore autonomia nelle scelte politiche. Alle scorse elezioni parlamentari il ceto medio ha votato per il 60% in favore di Russia unita, il partito del presidente.
Non che i russi abbiano smesso di lamentarsi dei disservizi, burocrazia, carovita e tante altre difficoltà che affliggono la loro esistenza quotidiana. Ma le lamentele, chissà perché, non vengono indirizzate al presidente, bensì ai ministri inetti o ai funzionari rapaci e corrotti. È sorprendente il risultato di un sondaggio che attribuiva a Putin un indice di gradimento del 70%, mentre quello del suo governo si fermava al 30%.
A questo punto, torna alla mente uno dei miti più persistenti di tutta la storia russa, in cui il contadino, oppresso da tributi e obblighi di ogni genere, trovava una sorta di conforto: il mito dello zar buono e dei cattivi ministri. 

Di Bianca Maria Balestra

Bianca Maria Balestra