Il mestiere di Dio
Perdono e misericordia: il volto nuovo della «civiltà cristiana»
Un perdono che non si coniughi con la misericordia e la giustizia non appartiene alle scelte del Dio di Gesù Cristo, che dall’amore «illogico» e viscerale per la sua creatura è capace di generare costantemente vita nuova.
Nella colletta della domenica 26a del tempo ordinario, del ciclo liturgico dell’anno A, la chiesa espone l’intenzione universale della celebrazione eucaristica con queste parole: «O Dio che riveli la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono, continua ad effondere su di noi la tua grazia…».
Il testo italiano non traduce esattamente quello latino che è più espressivo e dirompente: «Deus qui omnipotentiam tuam parcendo maxime et miserando manifestas, multiplica super nos misericordiam tuam». La traduzione letterale è: «O Dio, che manifesti la tua onnipotenza in sommo grado perdonando e avendo compassione, moltiplica su di noi la tua misericordia».
In questa preghiera, che esprime la dimensione della celebrazione eucaristica, l’assemblea dei fedeli non solo riconosce che il perdono e la compassione sono il segno dell’onnipotenza divina al sommo grado, ma chiede anche di moltiplicare la misericordia come se il sommo grado avesse bisogno di un supplemento di pietà. Questa straordinaria preghiera ci induce a modificare il nostro concetto di Dio e, di conseguenza, anche quello dell’uomo. In un tempo dove la violenza e la vendetta sono pane quotidiano, alimentate da un perverso sistema mediatico che aumenta esponenzialmente il degrado che descrive e di cui molto spesso si compiace, parlare di «misericordia e di perdono» può sembrare anacronistico. Noi lo ammettiamo: è anacronistico, perché la logica della fede non è sottomessa alla logica delle apparenze. Al contrario, essa va alla radice dell’essere e della persona perché solo le ragioni del cuore possono modificare anche i comportamenti estei.
Il mondo, avviluppato in una economia dove vige la legge del più forte che alimenta e fomenta ogni forma di perversione politica, sociale, militare, ha perso l’orientamento del proprio destino e si sta uccidendo con le sue stesse mani. Un mondo che non ha pietà nemmeno di se stesso perché è impegnato, in nome del guadagno immediato e senza fatica, a distruggere il futuro dei suoi stessi figli, è un mondo vittima della propria implacabile vendetta. È in questo mondo che dobbiamo annunciare la svolta della civiltà che deve sorgere alla base delle relazioni tra gli individui, i popoli, le nazioni, i governi e, ancora, tra l’umanità e l’ambiente, tra Nord e Sud, tra Est e Ovest: la civiltà del perdono, il millennio della misericordia. I credenti dovrebbero sapere che il loro Dio esercita un solo mestiere, monotono, sistematico, senza variazione alcuna: perdonare, perdonare sempre perché nessuno vada perduto (Gv 6, 39).
Il Dio che si rivela nel volto di Gesù si era già manifestato nell’Antico Testamento. Il libro di Neemia, ce lo descrive come «un Dio pronto a perdonare, pietoso e misericordioso, lento all’ira e di grande benevolenza», incapace di abbandonare il suo popolo (Ne 9, 17). Nell’Antico Testamento, infatti, c’è una costante richiesta a Dio di perdonare i peccati e i torti ricevuti. Il perdono di Dio è la fonte della libertà e anche il fondamento dell’agire umano. Siracide, infatti, memore dell’identità di Dio che si manifesta nel perdono e nella misericordia, indica in Dio stesso il modello del comportamento umano: «Perdona l’offesa al tuo prossimo e allora per la tua preghiera ti saranno rimessi i tuoi peccati. Se qualcuno conserva la collera verso un altro uomo, come oserà chiedere la guarigione al Signore? Egli non ha misericordia per il suo simile e osa pregare per i suoi peccati?» (Sir 28, 2-9, qui 2-4). Nel Midrash (interpretazione rabbinica) «Sifré» a Deuteronomio 13,18, si legge: «Ogni volta che avrai misericordia delle altre creature, dal cielo avranno misericordia di te». In questi testi si stabilisce un nesso diretto tra il perdono concesso da Dio e il perdono condiviso dagli uomini: lo stesso nesso che si trova nella preghiera cristiana per eccellenza, il «Padre nostro» nella duplice versione di Matteo e Luca che descrive anche la differente visione teologica del perdono dei due evangelisti: due prospettive, un solo esito.
Nella versione di Matteo (che abbiamo appreso fin da piccoli e che ancora oggi preghiamo in ogni celebrazione Eucaristica) la sesta richiesta così si esprime: «Rimetti a noi i nostri debiti come (greco: hôs kài = come anche) noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6, 12). Il perdono di Dio è commisurato al perdono degli uomini, in forza anche del dettato «col giudizio con cui giudicate sarete giudicati e con la misura con la quale misurate sarete misurati» (Mt 7, 2). In sostanza, si autorizza Dio a non esercitare il perdono se prima non è esercitato dagli uomini come misura del perdono di Dio. Nel contesto di Matteo, il perdono è un atto profetico che annuncia la misericordia di Dio, quindi non è solo mettere in pace la coscienza e ristabilire un ordine morale, ma è principalmente il «ministero» che proclama e svela il vero nome di Dio: «Dio di perdono».
Nella versione di Luca, invece, si usa la doppia congiunzione «kài gàr» (che alla lettera significa «e infatti»), ma qui ha valore causale e quindi può tradursi con «affinché»: «Perdonaci affinché [anche noi] possiamo perdonare». In Luca, il perdono di Dio diventa causa e forza per il perdono vicendevole tra gli uomini che non è possibile o quanto meno è difficile realizzare senza il perdono di Dio. Si chiede perdono a Dio «perché» si abbia la forza di perdonare i propri simili. In questo modo il perdono degli uomini diventa il «sacramento», il segno del perdono di Dio. Un atto di amore ricevuto non può che essere condiviso.
Il perdono non è una pia pratica di pietà né un atteggiamento ascetico di purificazione in vista di una ricompensa futura, ma assume la veste solenne di un comandamento. Il perdono, infatti, non è facoltativo, ma è un imperativo che adempie l’Alleanza nuova perché è la rivelazione della vera natura di Dio, che chi crede deve rendere visibile e sperimentabile. Perdonare significa aiutare gli altri a «toccare il Verbo della vita» (cf 1Gv 1, 1) perché è la vera novità dell’evento Gesù Cristo che l’ha stabilita e codificata nella quinta beatitudine: «Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia» (Mt (5, 7).
Per capire la portata di questo discorso che è decisivo per la fede, è necessario lasciarsi conquistare dal significato delle parole della Scrittura, in modo particolare da due di esse: «misericordia» e «perdono». Ogni parola della Scrittura è come una persona: ha un’anima e un corpo. Il corpo sono le lettere e l’anima è il senso, il significato. Ogni parola è viva, danzante, piena di vita, per cui leggere una parola o una serie di parole non significa scorrere un insieme di lettere morte, ma incontrare una persona viva che interagisce con chi legge, trasmette emozioni, sentimenti, immaginazioni: ogni rapporto con le parole è un turbinio di sensi che non lascia mai indifferenti i protagonisti. Non è un caso che la tradizione giudaica insegna che Dio prima ancora di creare il mondo, creò dieci cose, tra cui le lettere dell’alfabeto che sarebbero servite per scrivere la Toràh, cioè per mettere in comunicazione Dio e l’uomo.
Un Dio «scandaloso»
Tutti ricordiamo le due parabole «scandalose» di Luca: il buon Samaritano che si fa carico del nemico Giudeo (Lc 10, 25-37) e la famosa parabola conosciuta comunemente come parabola del figliol prodigo (Lc 15,11-32). Tutte e due le parabole potrebbero essere catalogate come «vangelo del grembo», perché in esse e solo in esse Luca usa un termine specifico che in italiano è tradotto con «compassione» nella prima e con «commosso» nella seconda, non rendendo però giustizia al significato profondo del testo originario. Luca infatti usa il verbo passivo greco «esplanchnìsthê» che traduce l’ebraico rachàm (da cui rèchem e rachamìm), termine da cui deriva la parola italiana misericordia. In ebraico richiama l’utero materno (= rèchem) nell’atto di generare alla vita: «Un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione» (Lc 10, 33).
Lo stesso verbo «esplanchnìsthê» è usato da Luca nella parabola del figliol prodigo che la traduzione italiana rende con «commosso»: «Quando era ancora lontano, il padre lo vide e, commosso, gli corse incontro» (Lc 15,20). Questa traduzione non fa giustizia al testo che, come abbiamo visto, si riferisce all’ebraico rachàm per significare che è un amore viscerale, cioè senza ragione logica, un amore «a perdere» che solo una madre e un padre sanno sperimentare. Il riferimento al «grembo/utero» materno mette in evidenza che la misericordia di Dio non è una concessione benevola, ma un atto che genera e riporta alla vita. Quando si è afferrati dal perdono di Dio si scoppia di vita e questa zampilla di gioia. Questo è lo scandalo del Dio di Gesù Cristo: egli perdona «con grembo» perché vuole fare rinascere a vita nuova.
C’è un altro termine in italiano che riporta alla stessa radice ebraica ed è la parola «elemosina» che nel nostro linguaggio comune ormai è diventata espressione di un gesto benevolo verso qualche povero di strada: dare qualche centesimo. Fare elemosina ha anche il significato di dare e ricevere sporadicamente una miseria, come bene esprime l’espressione: «Non ho bisogno di elemosina!». Il termine invece è carico di senso, proveniente direttamente dal verbo greco «eleèō» che significa «ho misericordia». Anch’esso nella Bibbia si rapporta con l’ebraico rachàm, per cui, ancora una volta, ha attinenza con il «grembo/utero» materno che partorisce. «Fare elemosina», quindi, nel suo significato originario, etimologico significa «avere pietà/misericordia» nel senso proprio di accettare di essere generanti/partorienti: «fare elemosina» in conclusione significa «generare alla vita».
Nella liturgia eucaristica è rimasta una reminiscenza della celebrazione greca dei primi secoli ed è l’invocazione dell’inizio: Kýrie, elèison! Christe, elèison!», dove il verbo imperativo «elèison» è appunto una invocazione di perdono come misericordia che rigenera alla vita. L’esercizio della misericordia diventa quindi un atto di culto che ha valore sacrificale e rigenerativo perché condivide chi si è e ciò che si ha. Questo è il cristianesimo nel suo ideale supremo. Questo dovrebbe essere il cattolicesimo. Questa dovrebbe essere la vita e la testimonianza dei credenti. Da quando Gesù è morto sulla croce, giudizio, condanna, moralismo, perbenismo, tutto è morto con lui, perché da quella croce, nuovo monte Sinai della Nuova Alleanza, scendono non più due tavole di pietra, fredde e giudicanti, ma il grembo e la tenerezza di Dio, Madre/Padre che hanno il volto umano e divino dell’Uomo Gesù.
Luca fa iniziare il ministero di Gesù nella sinagoga di Cafaao con una citazione di Isaia, da cui però omette volutamente la parte finale di un versetto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore… Allora cominciò a dire: “Oggi si è adempiuta questa scrittura che avete udita con i vostri orecchi”» (Lc 4, 18-21; cf Is 61, 1-2).
La citazione di Luca è molto importante specialmente per quello che non dice. Il v. 2 di Isaia (a cui fa riferimento il v. 19 del passo lucano) dice testualmente «a promulgare l’anno di misericordia del Signore, un giorno di vendetta per il nostro Dio». Luca omette la seconda parte del versetto («un giorno di vendetta per il nostro Dio»), per evidenziare l’atteggiamento favorevole con cui Dio, in Gesù Cristo, viene incontro agli esclusi dalla mensa della pienezza della vita.
Il primo atto pubblico di Gesù è un discorso programmatico di misericordia che è il nome nuovo della giustizia di Dio (Sal 33/32,5; 36/35,11). Questa giustizia segna tutta la vita e il vangelo di Gesù: dall’accoglienza dei peccatori (Lc 7, 36-50) fino ai suoi crocifissori che egli perdona in punto di morte (23, 34). Non c’è nulla della logica umana nel comportamento del Figlio dell’uomo, che viene a rivelare una giustizia estranea all’orizzonte umano: Dio è giusto perché perdona senza tenere conto di meriti e demeriti perché la sua misericordia è radicata nel cuore stesso di Dio.
Senza condizioni
Con una frase a effetto si potrebbe dire che il mestiere di Dio è il perdono. È la teologia della croce la sorgente di questa «novità». Su quel legno di morte Cristo insieme a sé ha «crocifisso» anche il peccato dell’umanità (Rm 5, 19), inaugurando «l’anno di grazia del Signore» (Lc 4, 19). Questo consiste proprio nel dare la giustificazione a coloro che non possono accedervi perché non hanno nemmeno la forza di alzarsi dalla loro debolezza. Il perdono è per Dio l’unico modo di essere giusto: il suo modo; egli non si limita a cancellare il male, ma rigenera la persona a nuova vita come se rinascesse nuovamente. Risulta chiara nell’episodio dell’adultera narrato nel vangelo di Giovanni: «Donna… nessuno ti ha condannata? Nessuno, Signore… Neanch’io ti condanno; và e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8, 10-11). Nel «perdono» di Gesù alla donna si evidenzia un atto di liberazione che è il punto di partenza per la vita nuova di una persona destinata alla morte per lapidazione da parte di coloro che l’avevano abusata. Etimologicamente «perdonare», in italiano e nelle lingue europee, è formato da un prefisso «per-» che esprime pienezza e abbondanza e dal verbo «donare»: il verbo composto significa pertanto «donare completamente/del tutto, donare in sommo grado/in abbondanza». In altre parole «perdonare» è il verbo «donare» al superlativo. San Tommaso, rifacendosi ad alcuni testi del Nuovo Testamento (Ef 4, 32; 2Cor 2, 10) afferma che nel perdono Dio esercita un potere superiore a quello della creazione perché il dono per eccellenza è il perdono (S.Th., II-II,113,9, sc.).
Nella storia biblica vi sono due pietre miliari che riguardano il perdono e la misericordia. La prima è costituita dalla legge del taglione «occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede» (Es 21, 24) che costituisce un passaggio di civiltà enorme. Prima di Mosè, infatti, la vendetta aveva un rapporto di uno a sette, degenerando fino a raggiungere l’impressionante cifra di uno a settanta volte sette, cioè un numero senza fine: «Sette volte sarà vendicato Caino, ma Làmech sarà vendicato settanta volte sette» (Gen 4, 24). Ciò significava che per un torto, una violenza, una morte, si riparava con sette torti, sette violenze, sette morti fino a Caino, ma fino a settanta volte sette da Làmech in poi. In questo contesto sociale, la legge del taglione introdotta da Mosè che, a noi sembra una barbarie, costituì un trapasso di civiltà portando la vendetta ad un rapporto paritario di uno a uno.
Bisognerà aspettare Gesù di Nazareth per piantare l’altra pietra miliare che cambia il volto e il cuore dell’uomo: la vendetta si ripara col perdono. All’ingiustizia e al male si risponde con l’amore e con la misericordia, fino a diventare il simbolo del vangelo del Dio incarnato: «Amate i vostri nemici e fate del bene a coloro che vi odiano» (Lc 6, 26). In un tempo in cui la vendetta è il pane quotidiano di molta parte dell’umanità e le folle sono assetate di sangue, in un tempo in cui popoli interi alimentano di vendetta il proprio futuro, uccidendo così solo la speranza dei propri figli, annunciare e testimoniare il perdono e la misericordia è la più grande rivoluzione che oggi si possa compiere perché essa non si occupa di modificare le strutture, ma si preoccupa di toccare il cuore e la parte profonda dell’animo umano: là dove avviene l’incontro tra Dio e la persona e dove ciascuno di noi può fare propria la preghiera di Davide: «Abbi pietà di me, o Dio, nella tua chesed (amore di tenerezza), secondo l’abbondanza delle tue rachamìm (grembo materno) cancella il mio peccato» (Sal 51,3) e sentire come una eco in sottofondo la voce degli angeli che cantano: «Il Signore, il Signore Dio di pietà e di misericordia, lento all’ira e ricco di tenerezza e verità» (Es 34, 6). Di fronte a questo progetto di civiltà non ci resta che accogliere l’invito di Gesù al dottore della Legge nella parabola del buon Samaritano: «Va’ e anche tu fai così» (Lc 10, 37).
Paolo Farinella