Orizzonti accorciati

Un paese in bilico tra passato e futuro

Conciliare la modeità con la fedeltà alle radici islamiche: è questa la sfida dell’Algeria, disattesa dalla classe dirigente e funestata da rigurgiti di violenza di frange estremiste. In bilico tra le spinte al cambiamento e i segni di ritorno al passato, gli algerini si preparano alle elezioni del 2009 e si capirà quale direzione imboccherà il paese.

«L’Algeria deve dare l’esempio di un progetto di società, dove autenticità e modeità possano coniugarsi. Deve imparare a vivere in modo moderno, a iscriversi nel xx secolo, pur restando fedele ai suoi riferimenti e valori. Perché non è questione di dimenticare: non c’è futuro senza memoria. È questione di costruire un progetto di società e mi dispiace che questo sia insufficiente o addirittura assente nel mio paese».
Mustapha Cherif, intellettuale algerino, esperto di relazioni inteazionali e dialogo fra le culture e le religioni non è tenero con il suo paese. Anche se l’esperienza di ex ministro dell’Istruzione superiore e della Ricerca scientifica e di ambasciatore l’ha reso avvezzo a misurare scrupolosamente le parole. Soprattutto quando si tratta di questioni politiche. E, tuttavia, non si sottrae dallo stigmatizzare alcuni nodi cruciali della complessa e talvolta drammatica attualità algerina. Un paese in bilico tra passato e futuro, tra desiderio di apertura e «modeità» e spinte retrograde e oscurantiste. Un paese che deve ancora fare i conti con una storia di lotte e violenze e che continua a essere ferito da sanguinosi attentati, che colpiscono indiscriminatamente i simboli delle istituzioni e la gente comune. L’ultimo, quello dello scorso 11 dicembre, ha ferito al cuore la capitale, uccidendo 62 persone (tra cui tre stranieri). Due gli obiettivi: un simbolo del potere algerino, la sede del Consiglio costituzionale sulle alture di Ben Aknoun, e uno degli emblemi della presenza occidentale, la palazzina dell’Onu, a Hydra, nel quartiere dei ministeri e ambasciate, dove è presente l’Alto commissariato per i rifugiati (Acnur) e il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp).
Non è che l’ultimo di una serie di attentati rivendicati dal Gruppo salafista per la predicazione e il combattimento (Gspc), che dalla fine del 2006 si proclama braccio di Al-Qaida nel Maghreb islamico (Aqmi) e che si pretende impegnato a liberare la regione da tutti gli infedeli, mirando sempre più in alto.
Solo nel 2007 si è reso protagonista di una serie impressionante di operazioni terroristiche. Tra le più clamorose, il duplice attentato ad Algeri, l’11 aprile, che ha provocato almeno 30 morti e più di 200 feriti e che ha preso di mira il Palazzo del governo in pieno centro città e un commissariato alla periferia est della capitale. E poi, il 6 settembre a Batna, nell’est del paese, dove sono morte 22 persone e più di 100 sono rimaste ferite in un attentato-suicida contro il corteo del presidente Abdelaziz Bouteflika, vero obiettivo di un attacco, rivolto direttamente contro la più alta carica dello stato.
Uno stato che fa sempre più fatica a gestire non solo questo rigurgito di terrorismo islamico, ma che non ha ancora fatto pienamente i conti con il suo passato: prima la guerra di liberazione contro i colonizzatori francesi, una delle più lunghe e cruente, con una stima di oltre un milione e mezzo di morti algerini, quei mujahiddin (combattenti), che ancora oggi sono celebrati come eroi nazionali; e poi il decennio funesto del terrorismo, quegli anni Novanta, segnati da una follia sanguinaria impregnata di estremismo islamico, che ha spazzato via più di 200 mila vite umane.
E oggi, un presente in bilico tra pressioni e spinte spesso opposte e contraddittorie. «L’avvenire dei paesi arabi e musulmani – continua il professor Cherif – si gioca sulla definizione di un progetto di società adatto ai nostri tempi. Anche in Algeria. Noi siamo vicini all’Europa e all’Occidente, e allo stesso tempo gelosi delle nostre radici. È qui che questa congiunzione e questo rapporto devono realizzarsi. La maggioranza del popolo algerino desidera il progresso, ha sete di giustizia sociale e di sviluppo e, contemporaneamente, è fiera di essere musulmana. È questa combinazione che dobbiamo costruire e non possiamo permettere agli estremisti, di qualsiasi tipo, di impedirci di realizzarla, perché separarci dalle nostre radici da un lato, o dal resto del mondo dall’altro, sarebbe come finire in un’impasse senza vie d’uscita».

E ppure, quella che si presenta come una sfida ineludibile per l’Algeria, sembra oggi disattesa da più parti. A cominciare dai vertici dello stato, dove è in corso una lotta acerrima per il potere. All’orizzonte, le elezioni presidenziali del 2009, cruciali per il futuro del paese. Lo sa bene il presidente Abdelaziz Bouteflika, al termine del suo secondo e, teoricamente, ultimo mandato, ma che, nonostante la grave malattia che lo minaccia da tempo, non intende rinunciare a brigare per un terzo incarico. Anche se questo significa necessariamente un cambiamento della Costituzione.
Del resto, la posta in gioco è enorme e riguarda innanzitutto la gestione di milioni di barili di petrolio, il cui prezzo è impennato sino a sfiorare i 100 dollari l’uno. Una manna a cui nessuno vuole rinunciare e che rappresenta un altro dei paradossi dell’Algeria, paese potenzialmente ricchissimo, con una popolazione che vive in miseria o quasi.
Ma la classe dirigente – generali dell’esercito compresi – impegnata a garantire la propria sopravvivenza, non sembra in alcun modo intenzionata a promuovere cambiamenti e riforme. È vero che, negli ultimi anni, nel paese si sono moltiplicati i cantieri: strade, autostrade, ferrovie, dighe, la metropolitana di Algeri… Ma i lavori proseguono a rilento e, come per tutto, un sistema di corruzione e cattiva gestione ne ipoteca sin dall’origine i risultati. Recentemente ha fatto molto discutere e ha suscitato un mare di polemiche il progetto di una nuova immensa moschea ad Algeri – la terza per grandezza dopo quella della Mecca e di Medina – che costerà la bellezza di 3 miliardi di dollari. Uno spreco inconcepibile agli occhi di molti che faticano letteralmente a sopravvivere.

L a situazione economica e sociale, del resto, è alquanto precaria. Con un tasso di disoccupazione che tra i giovani supera il 50%, la mancanza cronica di alloggi, una burocrazia ammorbante e un costo della vita proibitivo, le prospettive di futuro, soprattutto per i giovani, sono praticamente bloccate. Non per nulla molti tentano in tutti i modi di andarsene. Li chiamano harraga, questi disperati che su barche di fortuna, cercano di attraversare il Mediterraneo, spesso senza riuscirci. Nel 2006, la guardia costiera ha intercettato e rispedito indietro 4.500 giovani algerini. Ma quanti altri siano morti in mare nessuno è in grado di dirlo.
«Non c’è lavoro, non ci sono alloggi, non c’è speranza che le cose cambino. Per questo i giovani se ne vanno!», denuncia con forza Baya Gacemi, giornalista e scrittrice. Uno dei suoi libri, Nadia, tragica storia della moglie di un emiro del Gruppo islamico armato (Gia), è stato tradotto e distribuito in Italia da Sperling & Kupfer. Il suo giudizio sulla situazione politica algerina è decisamente tranchant. «Abbiamo un potere politico falso e non democratico, persone senza competenza e credibilità, che impongono alla gente di tacere, che cercano di escludere la società civile da tutte le dimensioni della vita politica, economica e sociale. Per questo molti si scoraggiano e lasciano perdere e molti altri se ne vanno. Anche gente istruita e professionalmente preparata: circa 450 mila quadri hanno lasciato l’Algeria. E molti altri sono pronti a partire, perché vedono il loro orizzonte qui completamente chiuso. In questo modo, però, perdiamo tutta la parte più dinamica della società».
Secondo la Gacemi, la politica è un affare di «parassiti e corrotti. Per questo la gente se ne sta sempre più alla larga». Lo dimostrano anche le ultime elezioni amministrative dello scorso 29 novembre: ufficialmente si è recato alle ue il 44,09% degli aventi diritto; ma molti sostengono che la percentuale fosse ancora più bassa. Come del resto era successo per le legislative del maggio 2007 e per il referendum del novembre 2006.
«Questo potere ha scavato un fossato tra politica e società – sostiene la giornalista -. La gente si sente esclusa dalle decisioni di un governo che si impone con la forza. Il solo modo per far fronte alle difficoltà che vive questo paese e per evitare un ritorno alla violenza è scegliere la democrazia. E coinvolgere la società civile nelle decisioni politiche».

N on sono molte, tuttavia, le associazioni che riescono effettivamente a far sentire la propria voce o che sono realmente ascoltate. Molte sono quelle che si occupano dei diritti e promozione della donna, in un contesto islamico che, dopo una parziale apertura alla fine degli anni del terrorismo, sta richiudendosi di nuovo su se stesso. E anche in una città mediterranea e vivace come Algeri, il numero dei veli che sono ricomparsi sulle teste delle donne continua ad aumentare in maniera percettibile.
È solo un segno, tra i molti, che dicono della paura o incapacità di accettare un reale pluralismo e una differenza all’interno di una società che, specialmente nelle grandi città, sta progressivamente perdendo i riferimenti tradizionali, affascinata, ma anche spaventata, da modelli occidentali carichi di miraggi e contraddizioni.
E così anche la presenza, numericamente insignificante, di pochi cristiani, quasi tutti stranieri, provoca le reazioni spesso spropositate del potere che, in più occasioni, durante il 2007, ha tentato di espellere religiosi e laici presenti nelle quattro diocesi del paese. O che rende quanto mai problematico l’ottenimento di visti per i nuovi arrivi.
«La nostra presenza qui – commenta mons. Henri Teissier, arcivescovo di Algeri – si situa all’interno di una società, che è attraversata da difficoltà evidenti, ma dove continuano a esistere possibilità di incontro e collaborazione. Grazie soprattutto alle molte persone che cercano di superare certe chiusure per favorire una possibilità di conoscenza e arricchimento reciproco».
«La nostra chiesa – gli fa eco mons. Claude Rault, vescovo di Laghouat-Ghardaïa, l’immensa diocesi del Sahara – condivide con il popolo algerino un’esperienza di vicinanza, solidarietà e fedeltà e, nello stesso tempo, introduce all’interno di questa società un elemento di “differenza”, che aiuta i nostri amici algerini a sentirsi, loro stessi, più aperti. Più capaci, vorremmo sperare, di vivere la loro stessa appartenenza all’islam in maniera più libera e “plurale”. Un islam che non può essere solo quello intollerante predicato da frange di estremisti o quello “socialista” imposto dal potere».
I prossimi mesi di avvicinamento alle elezioni presidenziali del 2009 saranno decisivi per comprendere in quale direzione vorrà incamminarsi questo turbolento paese che è l’Algeria. 

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi




L’opposizione e il ministro

Incontri

Incontro con l’opposizione

«Il governo Ortega? Pura propaganda»

Nell’assemblea nazionale (unicamerale) a Managua abbiamo incontrato i capogruppo dei partiti dell’opposizione (52 deputati su un totale di 90).  Abbiamo chiesto loro di spiegarci come vedono questo primo anno di governo sandinista. Il deputato Victor Hugo Tinoco dell’Mrs ci spiega che a suo parere ci sono due tendenze che caratterizzano il nuovo governo sandinista: «Da una parte, un’enfasi su alcuni aspetti sociali, che sono soltanto palliativi per la miseria, come ad esempio l’accesso all’educazione e alla salute. Dall’altra, vedo un processo di centralizzazione del potere attorno al presidente Ortega a discapito del potere dei cittadini in generale e delle istituzioni dello stato e dello stesso parlamento. Le contraddizioni di questo governo sono sul piano politico, tra autoritarismo e democrazia. Il governo sta seguendo la stessa logica del governo anteriore. Io credo che avrebbe perfettamente la possibilità di fare una riforma importante al bilancio nazionale 2008-2009, ma non lo fanno perché significherebbe rompere con la logica di intesa con il Fondo monetario internazionale».
Il bilancio nazionale 2008-2009 è un altro dei punti «criticabili», secondo l’opposizione. In questo – dicono – si percepisce la stessa logica dei 5 anni di governo Bolanõs: per il servizio del debito sono stati assegnati 298 milioni di dollari e per il programma «hambre cero» soltanto 15 milioni. D’altra parte, per affrontare l’emergenza nella zona atlantica ereditata dall’uragano Felix (settembre 2007), sono stati stanziati soltanto 6 milioni di dollari. Secondo stime delle Nazioni Unite, per far fronte alla sequenza di disastri dell’uragano e delle piogge delle settimane seguenti, ci vorrebbero intorno ai 400 milioni di dollari.
Incontriamo poi il capogruppo del Plc, Maximino Rodriguez. Parlandoci del primo anno di governo, Rodriguez spiega: «Il governo sandinista non ingrana e ha soltanto riempito di manifesti il territorio nazionale, come fa un qualsiasi tiranno con la sua fotografia e con un messaggio che dice: “Arriba los pobres del mundo” (in alto i poveri del mondo), ma i poveri non vivono di questi manifesti. Bisogna fare opere concrete per combattere la povertà».
Proseguendo la visita all’assemblea nazionale, incontriamo la deputata Maria Eugenia Sequeira, capogruppo della Aln. Lei assicura che con l’attuale governo ci sono stati soltanto cambi negativi. «In questo primo anno – dice -, si è sentito l’indebolimento del processo democratico, che abbiamo portato avanti negli ultimi 16 anni. Pur riconoscendo che il governo dell’Fsln ha una tendenza sociale, d’altra parte questo governo sta isolando il paese, favorendo soltanto le relazioni con il Venezuela. L’intenzione è quella di applicare un sistema politico di tipo chavista e mantenere il Nicaragua con un’alta dipendenza economica, sociale e politica da Caracas».

Incontro con il ministro dell’Agricoltura, Ariel Bucardo

«La sicurezza alimentare è la nostra priorità»

Signor ministro, qual è la struttura agraria del Nicaragua?
«Il Nicaragua è un paese di piccoli produttori. Noi contiamo quasi 200.000 produttori, ma appena 1.300 di loro sono grandi, cioè hanno più di 500 manzanas (una manzana equivale a 0,70 ettari, ndr). L’immensa maggioranza sono produttori con proprietà terriere che hanno tra 20 e 50 manzanas. Questo ci garantisce che, a dispetto di una tendenza verso la concentrazione delle terre, per il momento la distribuzione di questa è equilibrata in Nicaragua. D’altra parte, però, abbiamo un problema strutturale: un produttore di 500 manzanas in Nicaragua è meno ricco di un produttore delle stesse dimensioni del Salvador o del Costa Rica, questo succede per un problema di sviluppo tecnologico. In Nicaragua, con le tecnologie disponibili, un produttore di 500 manzanas produce le stesse quantità di un produttore di 100 manzanas in Salvador».

Quali sono stati i cambiamenti con il nuovo governo di Daniel Ortega in materia di sicurezza alimentare?
«È ancora troppo presto per parlare di cambi nella sicurezza alimentare. Abbiamo ricevuto l’eredità di un decennio e mezzo di neoliberismo: per fare dei cambi nella struttura del sistema alimentare nazionale c’è bisogno di più tempo. Quel che possiamo assicurare è che esistono politiche del nuovo governo che ci portano ad aspettare per il futuro una migliore possibilità di alimentazione della gente, soprattutto della famiglia contadina nicaraguense che è quella più povera. Negli ultimi 16 anni, si sono spesi in materia di lotta alla povertà quantità di risorse economiche, da una parte dal bilancio statale, dall’altra dalla cooperazione internazionale. L’impatto di queste misure è stato però negativo: ogni giorno i poveri sono diventati più poveri e i ricchi più ricchi. Questo vuol dire che tutte le risorse spese per questo obiettivo in qualche maniera sono tornate alle élites che avevano gestito la loro distribuzione. Oggi invece stiamo lavorando nella produzione di alimenti da parte delle stesse persone che poi li consumeranno, soprattutto nel settore rurale. Stiamo lavorando sul progetto “hambre cero” (fame zero), con l’obiettivo che la gente smetta di chiedere cibo, perché ci sono stati molti programmi contro la povertà che regalavano cibo. Questo ha fatto diventare gran parte delle famiglie contadine dipendenti e di conseguenza sempre più povere. In quest’ambito, stiamo consegnando beni d’investimento perché producano. La priorità del governo è la produzione alimentare, in primo luogo per i nicaraguensi, e soltanto successivamente per le esportazioni. Abbiamo cambiato radicalmente la concezione che avevano i governi anteriori, concezione che consisteva nel concentrare tutti gli sforzi produttivi per l’esportazione. Noi abbiamo scelto la via che ci porta a garantire la sicurezza alimentare nazionale».

Parlando di politica estera, in che fase dell’applicazione si trova il Trattato di libero commercio Usa-Centro America (Dr-Cafta)?
«Questo trattato commerciale ha ormai un anno di vigenza. Noi crediamo che avrà un impatto negativo nel futuro del paese e in particolare nel suo settore agricolo. Perché è un trattato che nasce in totale svantaggio con gli Stati Uniti. Il Nicaragua è un paese con tecnologie molto arretrate in confronto al paese nordamericano. Noi non abbiamo irrigazione né macchinari né strade; in compenso, abbiamo cronici black-out di energia elettrica.   Inoltre, abbiamo una classe contadina quasi analfabeta. Dall’altro versante, gli Usa non solo posseggono tecnologie avanzate ma sussidiano i propri produttori. Ci piacerebbe un trattato commerciale in cui potessimo competere almeno in eguaglianza di condizioni. Ma non è questo il caso».

In questa situazione, che ruolo hanno gli accordi di associazione con l’Unione europea (Epas)?
«Questo tema è circondato da molte incognite. Noi aspiriamo ad avere buoni rapporti commerciali con l’Europa, ma non sono convinto che il mio paese sia in grado di avere i requisiti per entrare sul mercato europeo, perché l’Europa è uno dei maggiori protezionisti mondiali delle proprie produzioni agricole. Ci piacerebbe che questi trattati, se non ci accordano delle preferenze a livello commerciale, almeno ci consentano di partecipare in condizioni di eguaglianza, ovvero che si eliminino i sussidi ai prodotti europei, la protezione alle proprie produzioni e gli ostacoli non tariffari (ad esempio, il tipo di confezionamento, di imballaggio e altre esigenze a cui i piccoli produttori del Sud non sono in grado di adeguarsi, ndr). È un tema complesso. Ho avuto l’opportunità di incontrare funzionari dei governi europei e sembrerebbe che loro vogliano un’associazione tra Europa e Centroamerica che in futuro metta in condizione i paesi poveri di entrare nei mercati europei. E da qui deve partire la nostra grande sfida: i nostri produttori, cornoperative ed associazioni, smettano di essere soltanto fornitori di materie prime ai grandi consorzi inteazionali; essi debbono crescere ed attrezzarsi per trasformare la loro produzione in prodotti finiti, da poter commercializzare direttamente all’estero».

Abbiamo visto i rapporti con gli Stati Uniti e quelli con l’Unione europea. Ci rimane l’«Alteativa bolivariana per le Americhe» (Alba). Che ne pensa lei?
«È un’iniziativa nuova per noi. Speriamo che sia più di un accordo commerciale, che sia una politica orientata verso il commercio giusto, ma anche verso l’investimento giusto. Vogliamo sviluppare un’alleanza strategica in cui è la solidarietà a muovere gli interessi di queste nazioni povere e non la competizione, l’opportunismo economico, come succede con i trattati commerciali classici. L’intenzione è di creare alleanze in cui possiamo vederci come una sola nazione con un trattamento egualitario, è una dinamica che stiamo già vedendo concretizzarsi sulla tematica del petrolio venezuelano, che sta arrivando al Nicaragua e la metà del pagamento di questo rimane nel paese per 25 anni, perché si investa nell’agricoltura, nell’allevamento e nell’industria, che sono i nostri punti deboli. Io vedo l’Alba non unicamente dal punto di vista politico-ideologico, ma come un’opportunità di relazioni più eque dal punto di vista commerciale, finanziario e della produzione, che aiutino i nostri popoli a progredire con un po’ più di eguaglianza».

Di José Carlos Bonino

José Carlos Bonino




Un paese per 12 (agli altri neppure tortillas)

La situazione odiea   

Ha subito la privatizzazione dell’economia, la concentrazione della ricchezza, la generalizzazione della povertà: oggi il Nicaragua è un paese allo stremo. Per il nuovo governo la sfida è ad altissimo rischio. Stretto tra promesse, nuovi compromessi e vecchi nemici, Daniel Ortega riuscirà a trovare la strada giusta?

Dopo cinque decenni di dittatura, un decennio di rivoluzione socialista ed uno e mezzo di globalizzazione neoliberista, il Nicaragua si sente logorato. Ha transitato per la sua storia contemporanea con brusche metamorfosi, che hanno messo allo scoperto il meglio ed il peggio di questo paese centroamericano.

La complessa geografia del potere politico

Daniel Ortega, dopo 16 anni di opposizione, ritorna al potere in un Nicaragua trasformato, con un panorama politico costituito da quattro partiti politici: due neoliberisti di destra e due che fanno riferimento al sandinismo. Da una parte, il partito Alleanza liberale nicaraguense (Aln), legato all’ultimo presidente Enrique Bolaños, dall’altra il Partito liberale costituzionalista (Plc), eredità di Aoldo Alemán. La divisione tra questi due partiti ha dato la vittoria all’Fsln di Ortega. Come dice Dionicio Marenco, attuale sindaco di Managua per il Fronte sandinista, in recenti dichiarazioni al Nuevo Diario, quotidiano nazionale: «Nelle passate elezioni, il Fronte sandinista ha avuto meno voti che nelle elezioni precedenti, la vittoria dell’Fsln è dovuta alle divisioni della destra, anche se l’ambasciata statunitense ha fatto l’impossibile per unificarla».
Dall’altro versante, si trova il Movimento di rinnovamento sandinista (Mrs) che si presenta come una forza di sinistra alternativa al Fronte sandinista, anche se due mesi prima delle elezioni del 2006, il senatore Usa Burton (quello della legge Helms-Burton, che inaspriva l’embargo contro Cuba) nel suo viaggio in Nicaragua aveva accettato di incontrare soltanto il Pln e l’Mrs.

Fuga dalle campagne e fuga dal paese

La geografia del potere economico e politico a Managua, e in Nicaragua, è cambiata radicalmente negli ultimi tre lustri. Oggi l’élite nicaraguense è formata da 12 famiglie, ciascuna delle quali controlla megacapitali di 100 milioni di dollari con posizione egemonica sul mercato nazionale. Negli ultimi 16 anni si è consolidato nel paese un modello di concentrazione del capitale nel commercio e nei servizi privati, senza investimenti nell’industria  (maquillas escluse) e nel settore agricolo e dell’allevamento.
Una nota a parte merita il sistema bancario e creditizio. Basta considerare che nel 1993 il credito si distribuiva in forma più equilibrata che oggi: il 34% andava al settore agricolo, il 39% al settore commerciale; con la privatizzazione della banca nazionale, dieci anni dopo, nel 2002, il settore agricolo riceveva soltanto il 4% del credito, mentre il settore commerciale arrivava all’87%.
La controriforma agraria conseguente, insieme alla privatizzazione delle imprese statali, hanno prodotto una metamorfosi dell’economia di questo paese, che ha alimentato sia l’esodo dalle campagne alle città che l’emigrazione verso l’estero. Le rimesse degli espatriati sono diventate la colonna portante dell’economia popolare e insieme alla cooperazione internazionale (1.000 milioni di dollari all’anno) costituiscono oggi il motore dell’economia del Nicaragua. L’abbandono statale della campagna moltiplica la povertà. Questa poi alimenta da un lato l’emigrazione, dall’altro l’arrivo della cooperazione internazionale: questi due fenomeni, con i flussi di valuta pregiata che comportano, finiscono con il diventare il salvagente degli attuali governi neoliberisti e in definitiva il grande affare della globalizzazione centroamericana.
Secondo un recente studio di Francisco Mayorga, ex presidente del Banco centrale del Nicaragua nel governo di Violeta Barrios de Chamorro: «Il Nicaragua è passato dall’avere una oligarchia, una classe media e un proletariato ad essere un paese con 5 classi sociali, 4 intee ed una all’estero. In primo luogo, una cupola di 12 famiglie con megacapitali, poi 1.500 milionari, sotto questi una classe media molto rachitica, dove si collocano i più ricchi tra i sandinisti, insieme ai commercianti, ai professionisti e ai dipendenti di rimesse. Uno scalino più in basso c’è poi l’80% dei nicaraguensi, che vive con meno di 2 dollari al giorno. Infine, la classe degli espatriati, più di mezzo milione di nicaraguensi che, facendo lavori di bassa manovalanza, sostengono con le loro rimesse l’economia nazionale».
Questo è il modello popolarmente chiamato in Nicaragua «Hood-Robin» (dai poveri ai ricchi): le rimesse entrano nel paese e vengono quasi interamente spese dai poveri in beni e servizi, venduti al dettaglio dai commercianti, questi commercianti a loro volta comprano la merce dai grandi distributori che si foiscono di capitali dalle 12 famiglie, passando attraverso i 1.500 milionari che fanno da intermediari finanziari. Tirando le somme, questa cupola di 12 famiglie concentra questo flusso ascendente di ricchezza per poi utilizzarle investendole all’estero, dato che il Nicaragua non dà garanzie.

Gli equilibrismi di Daniel (e signora)

Nel Nicaragua lasciato dal governo Bolaños, il Fronte sandinista vince le elezioni. Molti fattori influiscono sul ritorno al potere di Daniel Ortega. Il fattore principale è una destra divisa. Divisa perché le ricette neoliberiste non hanno funzionato in questo paese povero. L’illusione di progresso, venduto nel «kit della globalizzazione», è entrata in crisi per incompatibilità con la generalizzazione della povertà, la privatizzazione dell’economia e la concentrazione della ricchezza.
I nicaraguensi hanno dato il loro voto all’Fsln sperando in un cambio, dopo aver dato per tre volte consecutive la fiducia a tre governi neoliberisti.
Questo primo anno di governo Ortega era iniziato sotto buoni auspici.Una disposizione presidenziale ha ridotto i salari dei ministri e dei direttori generali degli enti autonomi. Ortega ha cominciato tagliando il suo stipendio del 69%, passando con ciò da circa 10.000 dollari mensili a 3.200. Le somme risparmiate sono state destinate a progetti per i giovani per un totale di 600 mila dollari.
D’altra parte, il presidente è stato criticato per aver instaurato con l’impresa privata nicaraguense (Cosep, Consejo nacional de la empresa privada, la Confindustria locale) e l’Fmi «buoni rapporti». Inoltre, ha firmato con quest’ultimo un accordo con cui dà garanzie di stabilità ai ricchi del Nicaragua e agli investitori stranieri per i prossimi 3 anni. Il governo è inoltre stato accusato di nepotismo, tanto da essere soprannominato «governo Ortega-Murillo», dal cognome della moglie di Ortega, Rosario Murillo. Critiche che si sono inasprite alla fine di novembre 2007 con la creazione forzata (per decreto) dei Cpc, «Consejos de poder ciudadano», formati da circa un milione di nicaraguensi, riuniti in una sorta di «Consigli di democrazia diretta», forse un po’ troppo vicini alla massima istanza di consulta della società civile con il governo, los Compes, entrambi capeggiati da Rosario Murillo.

I nemici del governo: quelli dentro, quelli fuori

In questo momento, la strategia dell’Fsln consiste nell’usare meccanismi democratici per fare cambi rivoluzionari dentro il solco costituzio­nale. Ecco qui, dunque, l’importanza strategica per il Fronte dei Cpc. Questi consigli istituzionalizzeranno l’appoggio popolare principalmente nella capitale e faranno da contrappeso al potere che il Cosep ha nell’assemblea nazionale. In caso di bisogno, i Cpc appoggerebbero il progetto sandinista facendo pressione sociale, una carta da utilizzare in momenti in cui gli equilibri nell’assemblea non sono sufficienti per realizzare i programmi governativi o una riforma costituzionale. L’attuale costituzione di nascita rivoluzionaria è stata continuamente rattoppata dai tre ultimi governi con l’unico obiettivo di privatizzare il Nicaragua.
Nel Nicaragua rurale è il programma «hambre cero» a creare il consenso e allo stesso tempo a cercare di risolvere il problema dell’estrema povertà.
Dicevamo che Daniel Ortega è stato fortemente criticato per il clima di distensione tra il suo governo, l’Fmi e il Cosep. Questa distensione, però, è quella che mantiene divisa la destra in Nicaragua, anche dopo le elezioni. Se Daniel intaccasse i privilegi dell’impresa privata, i deputati di destra nell’assemblea, da neoliberisti, rappresentando l’impresa privata nazionale e straniera, si unirebbero al loro alleato statunitense che rimane in attesa nell’ombra dell’ambasciata. Washington sta aspettando il momento propizio per destabilizzare il Nicaragua e far traballare il governo sandinista, legittimamente scelto dalla maggioranza dei nicaraguensi. Con gli impoveriti (che – è meglio precisarlo – sono diversi dai poveri) che nuovamente pagherebbero il costo sociale della giocata. Quella del governo Ortega è, quindi, una convivenza forzata.

Le tortillas e le sfide di «fame zero»

L’altro prezzo delle tortillas è un altro dei capricci dell’ordine internazionale che mette a nudo l’interconnessione degli eccessi della globalizzazione.
L’insicurezza alimentare (la fame), una delle conseguenze più drammatiche del neoliberismo, continua ad essere il collettore degli effetti negativi della globalizzazione. Il Centro America oggi si trova tra l’incudine ed il martello. Da una parte, la povertà si moltiplica allo stesso ritmo degli sbalzi del prezzo internazionale del petrolio, dove – giorno dopo giorno – il contadino mangia di meno e lavora di più («el campesino come menos y tiene que trabajar mas»). Dall’altra, l’«effetto etanolo» fa esplodere i prezzi (soprattutto con il futuro incerto della produzione petrolifera) della produzione di cereali, che costituiscono la base della sicurezza alimentare.
Gli sbalzi del costo del petrolio si irradiano nel sistema dei costi dell’alimentazione (principalmente nei prodotti cerealicoli, più debolmente nel costo della carne e del pollame) e si depositano schiacciando l’insicurezza alimentare. Lo stesso che l’effetto etanolo, tenendo così in scacco il  paese e il suo futuro.
La gamma di risorse naturali di cui dispone il paese per lo sviluppo agricolo è la più abbondante tra i paesi centro americani, dove però la produzione si ottiene mediante tecnologie molto rudimentali e dove predominano i piccoli produttori rurali.
Il deputato Edwin Castro, capogruppo al parlamento per l’Fsln, assicura che il governo di unità e riconciliazione nazionale ha programmato come priorità la ricomposizione del settore agricolo: «Il nostro sviluppo deve essere vincolato all’agricoltura e all’allevamento, eliminando il flagello della povertà estrema. Per questo abbiamo creato un programma trasversale di politica di stato che è il programma fame zero. Con questo puntiamo alla sicurezza alimentare delle famiglie nelle campagne, che sono quelle che hanno il maggior grado di denutrizione e non possiamo avere uno sviluppo economico, sociale e culturale con il livello di povertà che sorpassa il 60 per cento. E un livello di disoccupazione reale oltre il 30 per cento. Il Nicaragua sta arrivando a livelli di fame nera. Questo programma era stato sperimentato a livello micro e adesso è stato applicato a livello nazionale. Non vogliamo che sia però un programma assistenzialista, ma un programma di reinserimento produttivo di queste famiglie. Dopo questi 16 anni di abbandono statale delle campagne, stiamo progettando di assistere in 5 anni quasi 50.000 famiglie, dando a ciascuna una mucca, una scrofa con i porcellini e 3 galline. nonché semi per la semina. Questo progetto, inoltre, sfrutterebbe il biogas prodotto con i rifiuti organici e con i resti si otterrebbe dell’ottimo concime. Questo progetto in generale obbliga a dinamizzare il settore produttivo, portando ad una crescita del settore agricolo e dell’allevamento, insieme all’autosufficienza alimentare».
Il programma fame zero costituisce il punto centrale del programma sandinista, ma allo stesso tempo è punta di lancia che si inserisce nel tallone di Achille del Nicaragua odierno, cioè l’estrema povertà e l’insicurezza alimentare. Negli ultimi 16 anni, i governi hanno privatizzato tutto il privatizzabile, fino ad inventare nomi per poterlo fare. Un decennio e mezzo di abbandono statale delle campagne con un esodo rurale di emigrazione per gli uomini e maquillas per le donne; di disoccupazione per i giovani e violenza nelle città.

La proprietà delle terre: l’eterna questione

Incontriamo Sinforiano Caceres della Fenacornop (la Federazione nazionale delle cornoperative) nel suo ufficio, a Managua. Ci dice: «Il governo ha dato segni di confusione, che lasciano nell’incertezza il settore agricolo. Il principale problema è che non ha spiegato ufficialmente la sua politica agraria, limitandosi ad una relazione di 6 pagine. Questa proposta non ha le risorse per essere attuata».
«Sappiamo del programma “hambre cero” e del rifoimento di concime che viene da un credito venezuelano, ma non abbiamo più informazioni dettagliate sul tema agricolo da parte del governo».
Il tema della proprietà delle terre è un punto debole nella programmazione in ambito agricolo e alimenta il «cortoplazismo» (cioè l’affrontare i problemi giorno dopo giorno, senza un progetto di lungo termine), in cui si vedono sommersi i programmi di sviluppo del settore agricolo in Nicaragua.
Questo paese si è impoverito per le forme di conduzione e la variabilità delle politiche strategiche attuate negli ultimi 30 anni, Sinforiano Caceres assicura che la proprietà della terra è uno dei temi centrali: «Nel decennio sandinista, si fece un processo di riforma agraria profondo, ma senza arrivare alla legalizzazione formale per assicurare il passaggio di proprietà dai latifondisti somozisti ai piccoli proprietari. Questa riforma incompiuta ha alimentato la corruzione e il traffico di favori. Il tema della proprietà è dunque un tema essenziale da risolvere, indispensabile per poter generare la stabilità non solo per i grandi investitori, ma anche per i piccoli e medi produttori».

L’incerto futuro dei contadini

Una visione differente del panorama agricolo ce la dà Edgardo García, presidente della Atc (Associazione dei lavoratori agricoli): «Con l’arrivo del governo di riconciliazione nazionale del presidente Ortega è arrivata la promessa di una riattivazione della produzione nicaraguense, senza recessione né aggiustamenti strutturali. Il programma del governo va a formalizzare i nostri progetti, come la promozione di casse di credito eque o come la produzione per il sistema del commercio equo e solidale in espansione nel Nord del mondo. In questo momento, noi siamo aiutati da diversi programmi del governo, come “hambre cero” o “usura cero”».
Questo programma rappresenta il futuro autosostenibile del Nicaragua parallelamente alla produzione per l’esportazione. Sinforiano Caceres ci spiega: «Attualmente i contadini poveri per produrre finiscono per impoverirsi ulteriormente. E spesso producono sfruttando ancora di più i membri della loro famiglia, bambini compresi. Questa situazione crea un circolo vizioso che produce come conseguenza un processo moltiplicativo della povertà perché le politiche che esistono attualmente non compensano gli sforzi dei piccoli agricoltori. Il programma “hambre cero” vuole cambiare questa situazione».
Pur favorevole al programma, Sinforiano sottolinea la centralità della definizione di una politica agricola trasparente: «Il governo deve risolvere con urgenze le incertezze che ha rispetto alla politica agricola, deve definire quale sarà l’approccio centrale per risolvere il problema della sicurezza alimentare: un approccio basato sulla produzione per l’autoconsumo, un approccio assistenzialista o con un insieme dei due. O ancora incrementando i programmi di cooperazione dall’Unione europea, dagli Stati Uniti o dall’Alba. Il punto principale è quale scommessa il governo farà sul tavolo della politica agraria del Nicaragua».

Di José Carlos Bonino

José Carlos Bonino




Il sandinismo rivive (nonostante tutto)

Da Somoza al ritorno di Ortega

Un piccolo paese «strangolato» più volte nel corso della sua storia: prima dalla dittatura della famiglia Somoza, poi dalle decisioni del presidente Usa Ronal Reagan ed infine dalle devastanti politiche neoliberiste. Oggi il Nicaragua torna a guardare al proprio passato rivoluzionario. Anche se i tempi sono cambiati.

Il Nicaragua si fa conoscere nel mondo tra gli anni Settanta ed Ottanta per la rivoluzione sandinista, che trionfa sulla tirannia della dinastia dei Somoza, famiglia imposta e sostenuta dagli Stati Uniti, poco prima dell’assassinio di Sandino nel lontano 1934. Dopo quasi 45 anni di governo dittatoriale, la famiglia Somoza aveva spinto contadini, studenti e sindacati alla clandestinità e all’opposizione in forma di guerriglia.
Nel 1978 la guerriglia si amplia e diventa insurrezione popolare, in cui si coalizzano 3 tendenze: la tendenza proletaria, quella della guerra popolare prolungata e quella insurrezionale. Quest’ultima, che fa capo a Daniel Ortega, nel 1979 trionfa. Negli anni Ottanta, dopo 4 anni di rivoluzione, si propongono elezioni che vedono la schiacciante vittoria del «Frente sandinista de liberacion  nacional» (Fsln) di Ortega, a capo di una direzione nazionale formata da 9 comandanti.
Il Nicaragua sviluppa un processo rivoluzionario molto simile a quello cubano, ma con alcune fondamentali differenze: il pluralismo politico, il suffragio universale, un sistema economico misto (stato e privati) e la scelta del non-allineamento sul piano internazionale.
Si comincia ad installare giganteschi complessi agroindustriali statali (con l’aiuto di Cuba e dell’Unione Sovietica) per l’agroesportazione. Il governo statunitense, per frustrare l’industrializzazione e destabilizzare il paese, comincia allora una guerra di aggressione, obbligando il Nicaragua a destinare la maggior parte delle sue risorse alla difesa nazionale. In questo stesso decennio, Washington decreta l’embargo alle esportazioni e mina i porti nicaraguensi.
Nel contempo, i reduci della Guardia nazionale somozista, guidati dal colonnello Enrique Bermudez, vengono riuniti, assessorati e finanziati dalla Cia e dai militari argentini della dittatura militare. La Guardia, ribattezzata «la Contra», partendo dall’Honduras e dal Costa Rica, intraprende una guerra (non dichiarata) di guerriglia, che il presidente Usa Ronald Reagan chiama «guerra a bassa intensità» (sull’esperienza dei vietcong in Vietnam). Una guerra, fatta con l’obiettivo di impedire il successo della rivoluzione e bloccare la diffusione dell’entusiasmo rivoluzionario al Salvador e al Guatemala, che alla fine lascerà sul terreno ben 50.000 vittime.
Dopo un decennio di guerra, di scandali inteazionali (come quello dell’Iran-Contras: vendita illegale di armi al paese mediorientale per finanziare i mercenari antisandinisti all’insaputa del Congresso statunitense) e di insuccessi bellici dei Contras, il governo nordamericano democratico di Jimmy Carter decide di intavolare conversazioni di pace con il governo di Daniel Ortega. Al tempo stesso, anche i sandinisti, senza l’appoggio del blocco sovietico (ormai traballante) e per evitare una sconfitta militare, propongono la fine della guerra e le trattative di pace con presenza internazionale (Esquipulas II).
Nel 1990 Ortega indice elezioni generali per la seconda volta. L’opposizione (formata da liberisti-somozisti, liberisti indipendenti, conservatori, socialcristiani e sandinisti pentiti, in tutto 14 partiti) si unisce contro i sandinisti nella Uno («Union nacional opositora») e con Violeta Barrios de Chamorro vince le libere elezioni.

Il nuovo governo di Violeta Chamorro trova un paese prostrato da anni di guerra, l’economia altamente indebitata con gli organismi finanziari inteazionali del Nord del mondo e un legame strettissimo con Washington. La formula principale di stabilizzazione economica che il governo di Violeta Chamorro applica consiste nella «donazione» del governo statunitense di 3.550 milioni di dollari al Banco centrale del Nicaragua per garantire il «cordoba oro», la nuova moneta cambiata alla pari con il dollaro. La donazione viene pagata a caro prezzo: la rinuncia alla richiesta di pagamento di 17.000 milioni di dollari, secondo quanto previsto dalla sentenza della Corte internazionale dell’Aja delle Nazioni Unite come indennizzo per l’intervento nella guerra di aggressione degli anni Ottanta.
Al momento della sconfitta elettorale del Fsln, Daniel Ortega fa un appello ai suoi militanti a «governare dal basso». Ma la sconfitta provoca nei sandinisti una grande tristezza e spesso rassegnazione. Una sorta di «si salvi chi può» e «si rompano le fila» colpisce gli intellettuali, nonché gli ex ministri e ambasciatori: Daniel Ortega rimane da solo.
Dall’inizio del governo Chamorro, i sandinisti sono all’opposizione. Come risposta all’apertura del libero mercato, alla privatizzazione delle imprese statali, al licenziamento di massa del personale statale e all’incremento dei prezzi degli alimenti base, insieme alle organizzazioni dei lavoratori, dei contadini e dei rappresentanti dei quartieri popolari, essi paralizzano il paese in varie occasioni con violente proteste di piazza, esigendo che si preservino le conquiste sociali della rivoluzione.
Questa situazione polarizzata porta ai cosiddetti «accordi di transizione», in cui il governo neoliberista promette di lasciare intatte  molte delle conquiste economiche e sociali della rivoluzione. Un accordo che sarà denominato la «piñata sandinista». Questi accordi rallentarono lo smantellamento dei benefici ottenuti nel periodo sandinista. Tuttavia, lo scontento per i risultati elettorali e per questi accordi producono la più importante scissione all’interno dei sandinisti: nasce il «Movimento di rinnovamento sandinista» (Mrs).

Nelle successive elezioni del 1996 vince il «Partito liberale costituzionalista» (Plc), un partito con una base elettorale di tipo tradizionalista-clientelare. Presidente è Aoldo Alemán, un avvocato difensore delle cause somoziste, di sinistra reputazione, leader antisandinista, immagine del karma politico di Anastacio Somoza. Il governo di Alemán approfondisce l’applicazione del neoliberismo, con nuovi licenziamenti di massa, smantellamento delle dirigenze sindacali, sgombero di massa delle terre occupate, privatizzazione dei servizi pubblici e una grottesca corruzione e saccheggio delle risorse dello stato, accompagnata da bancarotta fraudolenta delle banche e infine ripartizione delle terre dei popoli indigeni agli ex contras. Nonostante queste premesse, la minima differenza di rappresentazione nel parlamento, le elezioni avvolte dall’ombra dei brogli, lo scandalo che produsse l’accusa di abuso sessuale della figliastra di Daniel Ortega inducono il fronte sandinista a proporre un patto di convivenza con il Plc di Alemán. Questo patto riguardava la ripartizione proporzionale dei rappresentanti degli organismi statali e giudiziali, insieme alla riforma della costituzione.
Questo accordo politico ha profonde ripercussioni nell’autorità morale del leader sandinista, generando sfiducia e alimentando le proposte dell’Mrs, proposte che consistevano nel cambio di direzione del sandinismo verso una democratizzazione della sua struttura centralista, derivata dalla guerra, ma più che altro al rinnovamento della sua dirigenza, considerata logorata dai suoi errori.
Al governo di Alemán succede  quello del suo vicepresidente, il conservatore Enrique Bolaños, un latifondista, che per uno stretto margine vince le elezioni del 2001 su Ortega. Il nuovo presidente si proclama nemico della corruzione che aveva caratterizzato il predecessore. Era stato infatti scoperto un saccheggio milionario dei fondi dello stato, insieme a tutti gli aiuti inteazionali arrivati per la ricostruzione a seguito dell’«uragano Mich» del 1998, che aveva distrutto la struttura produttiva del Nicaragua. 
Alemán viene scaricato anche dal governo statunitense. La divisione della destra lascia Bolaños con una minima rappresentanza parlamentare, che lo obbliga ad allearsi con l’Fsnl. Alleanza con cui riesce a togliere l’immunità parlamentare ad Alemán e a portarlo davanti alla giutizia. Una giudice sandinista lo condanna a 20 anni di prigione. L’ex presidente entra ed esce dal carcere più volte, in relazione al momento politico contingente, fino al dicembre 2007, quando viene deciso il suo incarceramento.
Il governo Bolaños continua a sviluppare la politica neoliberista, privatizzando i servizi pubblici che ancora restano come l’educazione pubblica (sotto la finzione della «autonomia scolastica») e l’acqua (sotto il travestimento di «contratti privati di industrializzazione ed ampliamento del servizio»).
Il governo è però minato dall’instabilità. Il presidente tenta di utilizzare l’esercito per controllare le proteste popolari e lo scontento per il moltiplicarsi della povertà e gli intenti di privatizzazione. Bolaños spacca infine la destra, formando il «Partito dell’alleanza liberale nicaraguense» (Aln), che però viene sconfitto nelle ultime elezioni (novembre 2006). 

Aconti fatti, tutti e tre i governi neoliberisti – di Violeta Chamorro, Aoldo Alemán ed Enrique Bolaños – hanno perseguito la privatizzazione dello stato nazionale, includendo i servizi base tra cui l’energia, la salute, l’educazione, l’acqua, il trasporto, le infrastrutture e il sistema pensionistico.
Questi governi hanno proceduto sottraendo al bilancio dello stato fondi destinati ai servizi pubblici, rendendoli così sempre più deficitari. L’intento era di arrivare ad una privatizzazione senza resistenze popolari e offrendo, a prezzi di bancarotta, alle società transnazionali 200 anni di conquiste sociali.
Una politica siffatta ha facilitato lo smantellamento del sistema produttivo nazionale, affossato anche dalla privatizzazione della Banca nazionale e di conseguenza del credito (colpendo con ciò i piccoli produttori, sia contadini che microimprenditori, che sono la maggioranza in Nicaragua).
In un secondo momento, viene distrutto il commercio interno, trasformando il Nicaragua in un grande importatore di beni e servizi esteri, che costituiscono il grande business della globalizzazione. Globalizzazione che in realtà, nei paesi poveri, altro non è se non una neocolonizzazione.

Di José Carlos Bonino

José Carlos Bonino




Qualcosa è cambiato

Introduzione

In passato, l’America centrale è stata al centro dell’attenzione dei media mondiali, che seguivano (invero non sempre con serena obiettività) la rivoluzione popolare sandinista in Nicaragua e quelle che erano in gestazione in Salvador e Guatemala. Il Costa Rica veniva chiamato «la Svizzera centroamericana», per la sua imparzialità e per aver «abolito» il suo esercito, mentre la stampa più attenta segnalava l’Honduras per essersi trasformato in una base militare controrivoluzionaria dei potenti vicini nordamericani.
Oggi l’America centrale si trova in una situazione differente. In Guatemala, ha appena (gennaio 2008) preso il potere Alvaro Colom, un presidente che si dice di centrosinistra. Per parte sua, il presidente dell’Honduras, Manuel Zelaya, lo scorso 19 luglio, si è presentato ai festeggiamenti per l’anniversario della rivoluzione sandinista sulla piazza della Rivoluzione, a Managua, e si è seduto tra Daniel Ortega ed Hugo Chávez. A Panamá guida il paese Martin Torrijos, figlio di un grande amico della rivoluzione sandinista.
Nel Salvador, il Farabundo Martì per la liberazione nazionale (Fmln), seguendo i passi del Fronte sandinista (Fsln), si sta attivando per costruire una piattaforma elettorale con buona possibilità di vincere le prossime elezioni presidenziali.

Il Nicaragua ha lasciato nel passato la dinastia dei Somoza; la nobiltà della sua rivoluzione e le distruzioni della guerra d’aggressione statunitense degli anni Ottanta; l’instabilità della sua transizione all’inizio degli anni Novanta e la tristezza della corruzione sotto i governi di Aoldo Alemán e Enrique Boloños. Oggi il Nicaragua cerca nel suo passato rivoluzionario, sperando di trovare una risposta che gli permetta di avere fede nella globalizzazione centroamericana, per la quale finora si è soltanto sacrificato…

In questo nostro dossier, abbiamo tentato con semplicità di formulare un’interpretazione della realtà nicaraguense, di quel che si sta facendo, di quel che si vede e di quel che crediamo stia dietro l’apparenza.

José Carlos Bonino

José Carlos Bonino




L’invasione dei SUV

Una moda devastante e diseducativa

Chi inquina, paga. Chi più inquina, più paga. Regole sacrosante, ma mai rispettate. A volte, neppure proposte, perché contrarie al libero mercato… L’esempio dei «nuovi mostri» che hanno invaso le nostre città.

Dicembre 2007, «Dossier motori» de La Stampa: pagina 4 pubblicità SUV Honda; pagina 6 descrizione di un nuovo SUV Hummer; pagina 7 pubblicità SUV Citroën; pagina 21 pubblicità SUV Nissan; pagina 23 pubblicità SUV Suzuki; pagina 27 pubblicità SUV Jeep; pagina 33 pubblicità SUV Land Rover; pagina 47 descrizione del nuovo SUV Iveco.
Se un inserto di 52 pagine ne dedica così tante ai SUV, significa che siamo dinanzi ad un fenomeno rilevante, come d’altra parte dimostrano i dati delle vendite, da anni in continuo aumento. I SUV – letteralmente Sport Utility Vehicles  – sono automobili pesanti, spesso con finiture di pregio, con una linea e,  a volte, anche con un nome ed una immagine commerciale, che trasmettono l’idea di un atteggiamento minaccioso ed arrogante nei confronti delle altre vetture (ma – volendo dar credito alle asillanti pubblicità – rispettoso dell’ambiente e della natura!). Alcuni hanno paraurti alti, sporgenti e rinforzati, definiti bull bars (barre anti-bufali), che possono essere causa di gravi danni in caso di incidenti con altre vetture, ciclisti, pedoni.
Si direbbe che il guidatore di questi veicoli voglia presentarsi come un dominatore della strada, muscoloso, potente e, allo stesso tempo, elegante. Ha scritto il prof. Giampaolo Fabris: «Il SUV è un fuoristrada di lusso che consente all’automobilista di sentirsi padrone dell’asfalto. Di fare veramente tutto quello che vuole. Si può guidare comodamente in città, parcheggiare sui marciapiedi e, almeno con la fantasia, attraversare il deserto. Chi guida si sente protetto da una vettura considerata sicura, avvolto in un grande scudo protettivo. (…) L’impressione è di un maggior dominio sulla strada e nei confronti con gli altri automobilisti. Che si guardano letteralmente dall’alto in basso».
In realtà, un SUV è un veicolo che fa fatica a fare manovre banali, che si muove impacciato nelle vie strette, che non rispetta le precedenze e che, per parcheggiare, spesso sale sui marciapiedi.

Per quale motivo una persona che vive in città e non deve affrontare percorsi in savane o praterie, dovrebbe viaggiare su un veicolo con caratteristiche da fuoristrada di lusso? Per decenza, lasciamo perdere l’amore per la natura, anche se qualcuno (editoriale di Auto&fuoristrada, settembre 2006) tenta di metterla in poesia: «Siamo dei privilegiati: per noi è più facile mettere le ruote fuori dall’asfalto, con la gratificante sensazione di lasciarci alle spalle traffico, rumori, pensieri». Per semplicità, lasciamo perdere pure le ragioni di tipo socio-antropologico, anche perché, stando a quanto scrive un editoriale de La mia auto 4×4 (agosto 2007), «Ma chi sono i nuovi acquirenti di 4×4? Un po’ tutti».
La risposta più frequente (quella che, in teoria, consentirebbe di giustificare eticamente il possesso di un SUV) riguarda la volontà di viaggiare in sicurezza con la famiglia. Questi veicoli sono proprio così sicuri? Il Centro prove di Quattroruote, la fonte settoriale più autorevole d’ Italia, ha fatto dei test e, per quanto riguarda la tenuta di strada e la frenata, è giunto alla conclusione che il miglior SUV non riesce neanche ad eguagliare le prestazioni della peggiore berlina.
Il collaudatore di Quattroruote ha riferito che il comportamento di questi pesanti veicoli, che hanno un baricentro alto e pneumatici con fianchi alti e cedevoli, è spesso imprevedibile e non sempre facilmente controllabile dal conducente, soprattutto su fondo bagnato. Ne deriva che manovre improvvise, come quella di cercare di evitare un ostacolo imprevisto, possono portare anche al ribaltamento del veicolo. I ribaltamenti possono avvenire anche in caso di uscite di strada e di collisioni con ostacoli fissi, ad esempio i marciapiedi. Il ribaltamento è un tipo di incidente particolarmente pericoloso perché si associa spesso a gravi traumi della testa.
Oltre a non essere sicuri per gli occupanti, i SUV sono particolarmente pericolosi per gli altri utenti della strada, che non viaggiano su veicoli più pesanti: ad esempio, secondo Quattroruote, il guidatore di una berlina, che viene urtata lateralmente, ha una probabilità di perdere la vita 30 volte superiore se a urtarlo è un fuoristrada o un SUV. Bergamo, 26 dicembre 2007: «Tre persone, padre, madre e la loro figlia di 10 anni sono morte in un incidente stradale accaduto a Grumello del Monte (Bergamo). La loro auto, una Fiat Punto, è stata investita da un SUV Grand Cherokee guidato da un conducente ubriaco (italiano, ndr). Illeso il conducente del fuoristrada». Napoli, 1 gennaio 2008: «Stavano litigando sulla tangenziale di Napoli per un banale incidente, quando un SUV Bmw X5 è sopraggiunto e ha investito le auto ferme sulla strada. Il bilancio è drammatico: tre morti».

Premesso che ognuno è libero di comprare la vettura che più gli piace (mai vorremmo venire accusati di essere contro il «libero mercato», icona intangibile dei nostri giorni), viene da chiedersi cosa possiamo pensare di un guidatore cittadino o autostradale che ha un veicolo che pesa, consuma (una Porsche Cayenne fa in città 4,4 chilometri con un litro di benzina, secondo i dati ottimistici del costruttore) (1)  e inquina il doppio di una normale vettura, confortevole, veloce, che ha meno probabilità di ribaltarsi e che tiene la strada e frena in condizioni di maggiore sicurezza.
Dipenderà dal fatto di guidare un’auto con i paraurti contro i bufali oppure di poter comprare (a 15.900 euro, sottocosto) un SUV cinese all’ipermercato (Corriere della sera, 19 e 24 dicembre 2007). Oppure, come si  legge su www.suv.it, dipenderà dai sentimenti: «A cosa serve la Cayenne? A far invidia a chi è invidioso!».
Come scrive il già citato editoriale de La mia auto 4×4, «il mondo si muove sempre più in fretta». È vero. Peccato che si muova verso la follia più distruttiva (ed autodistruttiva).

di Roberto Topino e Paolo Moiola

(1) Una Volkswagen Touareg fa 4,4 chilometri con un litro; una Nissan Patrol 6,9 eccetera. I consumi ufficiali (già molto elevati) sono però ben distanti dalla realtà. Un’inchiesta del dicembre 2007 ha dimostrato che le case automobilistiche dichiarano consumi falsi, inferiori fino al 50% a quelli effettivi. Così facendo anche le norme relative alle categorie d’appartenenza (Euro 3, Euro 4, ecc.)  perdono gran parte del loro significato.

Roberto Topino e Paolo Moiola




La parabola del «figliol prodigo» (16) L’amore precede sempre il pentimento

«Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (Mc 9,35)
«Che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno» (Gv 6,39)

Immobile, in corsa
Il ritorno del giovane figlio non è esaltante: in cuor suo non è sicuro dell’accoglienza del padre. Per non sbagliare, infatti, lungo il viaggio si prepara e impara a memoria il discorsetto con cui commuovere il «vecchio». Da questo suo modo di ragionare, implicito nel testo, si evince che il figlio non conosce il cuore del padre che considera come un padrone. Cominciamo a capire perché è scappato «dal padre»: non ne aveva mai conosciuto la personalità e il cuore. Egli ritorna lento nel passo e pesante nel cuore, consapevole di avere perduto ogni diritto legale. Il padre al contrario corre e si precipita «addosso» al figlio, consapevole di una cosa soltanto: il figlio gli ritorna vivo. Al figlio in partenza interessava «il patrimonio», al padre che resta interessa «la persona» del figlio.
Da un punto di vista etico, è il padre che prende l’iniziativa, rimettendo in moto il processo generativo per giungere a un nuovo parto. Non a caso, come abbiamo visto, Luca ricorre al vocabolario della gestazione e parto per descrivere gli atteggiamenti matei del padre che accoglie il figlio. L’incontro è drammatico; in pochi versetti l’autore costruisce una scena forte espressiva di contrasti, come in una scena drammaturgica: alla lentezza del figlio che torna si contrappone la frenesia del padre che corre.
È un comportamento contro natura: per la mentalità orientale correre è comportamento disdicevole. La persona che corre, specie se riveste un’autorità, «perde la faccia» e cioè mette in gioco il suo onore. Un padre o un maestro non corre verso il figlio o il discepolo: sono questi che devono andare e correre verso il maestro o il padre. La logica sottintesa è che la persona matura e saggia non corre, ma «sta» perché il saggio non ha mai fretta.
Per logica, sebbene estrema, semmai avrebbe dovuto essere il figlio in quanto giovane e inesperto a correre verso il padre e questi avrebbe dovuto aspettare ritto e fermo sulla soglia di casa. Non sappiamo quanto tempo è durata la vacanza del figlio giovane, ma nel capovolgimento dei comportamenti, noi scorgiamo la gravità e la pesantezza della realtà. Tutto si capovolge: il padre perde la dignità per affrettare il godimento del figlio.

Pateità preveniente
Da una parte c’è un uomo, partito da figlio per essere libero da ogni regola e costrizione anche affettiva, che ora ritorna solo con la disponibilità a fare il servo. Suo unico bagaglio è la richiesta di diventare un salariato che è meno di un servo. Questi infatti resta nella casa e fa parte del casato; il salariato esiste in funzione del lavoro: quando manca, il salariato viene mandato via. Dall’altra c’è il padre che non ha mai cessato di essere tale anche quando il figlio in un paese lontano sperperava la «sua vita». La pateità non si esaurisce mai: più i figli la sperperano più essa si rafforza e ingigantisce. È il segreto dell’essere di Dio e del conseguente suo agire: la pateità di Dio è preveniente perché anticipa sempre la debolezza dei figli e se ne fa carico. Il bacio del padre al figlio è il segno eloquente del ripristino dell’intimità senza riserve.
La conversione non è un atto di volontà che noi presentiamo a Dio come pegno per ricevere il suo perdono; al contrario, essa è la conseguenza dell’amore di Dio che  perdonando prima ancora di essee richiesto, pone le condizioni e suscita la conversione del cuore che è sempre un dono e frutto della grazia. Nessuno di noi è capace di conversione, solo il Signore può convertire: «Facci ritornare e noi ritoeremo» (Lam 5,1). Non è il figlio che ritorna di sua spontanea volontà o iniziativa, ma è il padre che lo attrae e lo attira a sé, mettendo in movimento tutte le possibilità che condurranno alla salvezza definitiva.
Il Dio di Gesù non pratica la religione del «tu dai una cosa a me e io do una cosa a te»; questa dinamica conduce soltanto alla logica della prostituzione, mentre quella di Dio è la salvezza della persona in vista della quale Dio previene anche il desiderio, come insegna pure Dante a proposito della intercessione di Maria: «La tua benignità non pur soccorre / a chi domanda, ma molte fïate / liberamente al dimandar precorre» (Paradiso, xxxiii,16-18).

Quale peccato?
I versetti 21 e 22 sono tormentati: l’edizione critica riporta un’infinità di varianti di molti codici che a tutti i costi vogliono armonizzarli con il v.18, facendo ripetere al figlio l’intero discorso che si è preparato e rallentando così l’irruenza del padre «precipitoso». Questo tentativo di restaurazione è in funzione chiaramente ecclesiale: si vuole mettere in evidenza l’atteggiamento umile e penitenziale del figlio che chiede perdono e lo chiede in forma completa o come si direbbe in morale in «forma integra». In questo modo il perdono del padre viene dopo la richiesta di perdono del figlio: ciò rispecchia la prassi della confessione sacramentale o monastica che vede il perdono subordinato alla contrizione. Un caso evidente di uso strumentale della scrittura perché è contro la chiarezza del testo lucano che antepone il perdono gratuito del padre alla disponibilità del figlio.
L’evangelista sottolinea che il figlio prima di partire si era rivolto al padre per prendere quello che non gli apparteneva: «Il più giovane dei due disse al padre: Padre, dammi…» (v.12), ora invece sottolinea che non è il «più giovane» che parla, ma soltanto «il figlio»: «Il figlio gli (al padre) disse: padre, ho peccato…» (v. 21). La stessa invocazione ha un suono diverso, perché pronunciata in circostanze diverse con atteggiamenti diversi e cuore diverso. Là il padre era un ostacolo da fare fuori, qui è il padre come rifugio e misura della colpa. Il figlio usa il termine proprio del rapporto con Dio: «Ho peccato!». La sua colpa non è morale, ma relazionale. Non ha peccato perché ha dissipato, perché è stato dissoluto, perché si è divertito – queste restano azioni ignobili e moralmente condannabili -, ma qui il suo peccato consiste nel non avere conosciuto il padre e nell’avere interrotto la relazione padre-figlio e figlio-padre.

Oltre l’integrità, la totalità
Del «peccato» abbiamo spesso una concezione materialista: misuriamo le volte, quantità e peso. La preoccupazione maggiore di un confessore era (o forse lo è ancora oggi?) salvaguardare l’integrità della confessione e quindi determinare le circostanze per definire l’entità dei peccati, lasciando spesso nel penitente il dubbio di una curiosità morbosa fuori luogo. Il peccato non è «una cosa», ma la relazione spezzata con Dio e con i fratelli. Non a caso Gesù ha ridotto tutta la toràh a un solo comandamento con un duplice esito: l’amore incondizionato di Dio che si manifesta e si vive nell’amore senza confini per il fratello (cf Mt 22,40 e 18,22). Peccare non è cosa facile e per riuscirvi bisogna mettervi molto impegno, perché esso è il rifiuto di Gesù Cristo come criterio di vita: il suo modo di pensare, vivere, rapportarsi, servire, parlare, morire diventano il nostro stile di vita ed è la fede. Il contrario è il peccato. Il figlio della parabola tra sé e il padre ha messo «un paese lontano» (v.13), cioè un abisso invalicabile che però il padre ha potuto superare perché quel figlio non è mai stato abbandonato, nemmeno quando sperperava la vita del padre.
Il figlio è frastornato di fronte a quel padre che avrebbe potuto attendere sulla soglia di casa, mentre invece gli accorcia la fatica del ritorno, andandogli incontro. Il figlio è prigioniero ancora della logica del rendiconto e si aspetta che il padre eserciti la sua autorità accogliendolo come un estraneo e declassandolo dalla dignità di figlio al ruolo di servo. «Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio» (v. 21). La prima parola che il figlio pronuncia è «padre» senza alcuna connotazione ed è il segno che sa ciò che ha perso. Al contrario finisce la frase con l’altro termine correlativo «figlio», connotato dalla dichiarazione di indegnità: «Padre, non sono degno d’essere figlio».

«21Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di es-ser chiamato tuo figlio. 22 Ma il padre disse ai servi: Presto…».

Peccatori presuntuosi
Da un punto di vista giuridico il figlio minore ha perso ogni diritto ed è per questo che si aspetta dal padre un comportamento secondo la legge perché il peccato contro il padre è anche un’invettiva «contro il Cielo». Il figlio ha coscienza che il suo peccato non è solo contro il padre, ma anche contro Dio, cioè è un atto di ribellione totale che merita la cancellazione dal libro della vita, cioè la morte. Dopo l’idolatria del vitello d’oro, a Mosè che si schiera dalla parte del popolo Dio dice: «Io cancellerò dal mio libro colui che ha peccato contro di me» (Es 32,33). Il figlio meriterebbe la morte, perché «ha colpito e maledetto» il padre (Es 21,15.17) e la maledizione di Dio è senza scampo per chi disonora il padre (Dt 27,16; cf Pr 20,20) perché «chi deruba il padre è compagno dell’assassino» (Pr 28,24). È questo il contesto giuridico ed etico del ritorno del figlio ed è all’interno di questo quadro di riferimento che risplende ancora più potente la figura del padre sia sotto il profilo legale che religioso.
Quando ancora era in «un paese lontano», solo e impuro in mezzo ai porci, il figlio si era preparato il discorso da recitare al padre. Lo ripete per non dimenticarlo: «Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi dipendenti» (Lc 15,18). Quando il padre giunge davanti a lui non gli lascia il tempo di finire il discorso che già è stato reintegrato prima ancora che chiedesse perdono. Fa appena in tempo a dichiarare che non pretende di essere ancora figlio che il padre gli tappa la bocca e il figlio non riesce a dire che accetta di essere trattato come un dipendente. Incaponirsi a chiedere perdono o pensare di non potere essere perdonati può costituire un grave peccato perché Dio (nella parabola rappresentato dal padre) previene la nostra stessa richiesta ed egli ha già perdonato prima ancora di averglielo chiesto.

Amare con le due tendenze
Spesso i nostri rapporti con Dio sono improntati a legalismo: di lui abbiamo una nozione più giuridica che patea. Dio ci perdona prima ancora di avere chiesto il perdono e spesso, come qui, non lo chiede nemmeno, anzi lo reputa superfluo. Tante volte abbiamo ripetuto un concetto semplice, ma difficile da interiorizzare in un contesto di religione legalista: Dio perdona perché è giusto o anche: Dio è giusto perché perdona. Che senso ha la morte di Gesù, se continuiamo a misurare col centimetro la nostra corrispondenza e la risposta di Dio? Agendo così noi proiettiamo in Dio il nostro modo di essere e vedere, valutare e giudicare. In una parola, noi attribuiamo a Dio la nostra piccineria e grettezza e dimentichiamo che Dio è sempre più grande del nostro peccato, del nostro cuore, della nostra debolezza, del nostro limite (cf 1Gv 3,20). Per questo i rabbini spiegano il motivo per cui nella parola «cuore» in ebraico «lebab» vi sono due «b»: nel cuore regnano sempre due tendenze, una verso il bene e una verso il male. Il vero credente è colui che ama Dio con ambedue le tendenze. Anche quando abbiamo coscienza di fare il male, noi non possiamo cessare di amare Dio, perché egli ci ama anche quando lo rinneghiamo. Egli è fedele anche quando noi siamo infedeli perché il Dio di Gesù Cristo è «Dio non uomo» (Os 11,9).
Davanti al figlio che rinuncia al suo essere figlio, negando così al padre la possibilità della pateità, il padre compie tre gesti, altamente simbolici e colmi di significato attraverso tre oggetti: vestito, anello, calzari (v. 22), di cui tratteremo nel prossimo numero.    (continua – 16)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Tra sogno e realismo

Reportage da un paese dal futuro incerto

Mentre a livello nazionale e internazionale si discute sullo status del Kosovo, la gente è alle prese con i problemi di sempre: tensione tra le varie etnie, disoccupazione, corruzione, mancanza di strutture adeguate. Penalizzati sono soprattutto i giovani, che costituiscono metà della popolazione. Ma non mancano segni di speranza.

All’ufficio postale di Prizren c’è la fila. Almeno 20 persone in coda; e sono tutti giovanissimi. «Si usa così tanto da voi?» domando all’amico Blerim. «No, i ragazzi sono in coda per ricaricare il cellulare. Da qualche mese, quando è iniziato questo servizio, le poste sono prese d’assalto». E io che già gridavo al miracolo delle nuove generazioni, che mantengono la voglia di comunicare via mezzo cartaceo. «Comunicano a modo loro, ma con gli sms, si scambiano foto e musiche. Proprio come in Italia».
Blerim Bobaj, ha 31 anni, ben 7 sopra l’età media dei due milioni di kosovari, il 50% dei quali ha meno di 20 anni. Il suo mestiere è il cornoperante. Dalla fine del conflitto etnico del 1999, «risolto» nei 78 giorni di bombardamenti Nato sulla Serbia, Bobaj ha lavorato con tre organizzazioni non governative, una degli Stati Uniti, una francese e l’ultima italiana: Ipsia, la ong delle Acli, grazie alla quale ha potuto conoscere l’Italia.
«È chiaro che il futuro del Kosovo dipende dai giovani, il problema è che oggi essi non sembrano interessati a quello che li aspetta alla fine degli studi» spiega il mio amico. A gruppi di 5-10 li vedi scorrazzare nel prestigioso centro storico di Prizren, cuore dell’incrocio di civiltà con le sue moschee (tra cui quella di Sinan Pasha, costruita nel 1463, la più antica dei Balcani, con il minareto più alto d’Europa), la cattedrale cattolica, le chiese ortodosse, il bagno e il ponte turco. Tutti giovanissimi, con jeans, occhiali da sole, cellulare alla mano. Ha ragione Bobaj: proprio come da noi.
«Oramai è l’Occidente il modello dei ragazzi di qui – riprende -, non è solo per colpa loro; ma il risultato è che le tradizioni se ne stanno andando». Nelle città kosovare, a Prizren come nella capitale Pristina, le novità degli ultimi anni si chiamano centri commerciali e università private.
«Il consumismo è arrivato anche qui: è come se il Kosovo fosse un’isola europea nel cuore dei Balcani». L’impressione è proprio questa: l’euro è la moneta ufficiale; al momento di entrare nella regione (fino a oggi serba, in base alla risoluzione 1.244 dell’Onu, ma di fatto governata dalle forze inteazionali), sul telefonino compare la scritta: «Benvenuti a Monaco». «Già, perché non abbiamo neanche un prefisso telefonico nostro, e quindi usiamo quello del piccolo principato» aggiunge Bobaj.

Il problema vero, però, è un altro. Questo cambio di valori rischia di far aumentare ulteriormente la disoccupazione, che è oggi al 60% e non si è mai abbassata dalla guerra in poi. «Anche la cooperazione internazionale, a parte alcune eccezioni, oggi non offre più lavoro. Molti progetti han chiuso per mancanza di fondi» dice Bobaj, che da 6 mesi, dopo la fine dell’ultimo progetto con Ipsia, è tornato a fare l’idraulico con suo padre, mestiere che ha sempre fatto per pagarsi gli studi. «Vorrei anche andare all’estero, ma per noi kosovari è impossibile, i visti, quando si ottengono, sono temporanei, per qualche settimana».
In una situazione simile, qualcosa potrebbe cambiare con la decisione sul nuovo status del Kosovo, tornata alla ribalta in questi mesi. «Conosco molta gente qua a Prizren (che ha 171 mila abitanti e si trova a 18 chilometri dal confine con l’Albania, ndr), e ti assicuro che la maggior parte di noi non passa molto tempo a parlare di indipendenza, autonomia o altro». Come dire, «sono gli altri che decidono per noi».
«Il Kosovo è diventato una merce di scambio nei rapporti inteazionali» aggiunge Bobaj. Da una parte Russia e Cina con la Serbia, dall’altra Stati Uniti con l’Albania. In mezzo, come spesso accade, l’Europa (vedi riquadro).
«Non si può più tornare alla pacifica convivenza di un decennio fa, ovvero prima dell’avvento di Milosevic al potere a Belgrado – dice Raitan Dashi, 63enne che ha passato gran parte del post-conflitto in Italia -. L’odio sanguinario che qualche anno fa ha fatto scoppiare il conflitto ha creato una diffidenza enorme».
Dalla fine degli eventi del 1999 ad oggi, sono scomparse 2.047 persone. Dashi e sua moglie tre anni fa sono tornati al loro villaggio a nordest di Prizren, mentre le sue due figlie hanno messo su famiglia nella provincia a nord di Milano.
«So che quello che dico non è positivo, ma non sarei realistico dicendo che un serbo sarebbe ben accolto, perlomeno in campagna». In realtà, nelle città qualche cambiamento c’è stato negli ultimi anni. A parte l’enclave della zona nord di Mitrovica, dove i 20 mila serbi presenti vivono praticamente isolati dagli 80 mila albanesi e la tensione non è mai scesa, nel resto delle città (Peja, Klina, Prizren, Giacova, Pristina) i serbi sono tornati a farsi vedere nei supermercati, negli uffici amministrativi, senza grossi problemi, «come succedeva prima».
Allo stesso modo, le altre minoranze (una decina, tra cui rom, turchi, bosniaci) non sono più oggetto di discriminazione o soprusi, anche se oggi sono più che dimezzate: erano  il 12% prima del conflitto e sono scese al 5% della popolazione.
Dalla primavera 2004, quando c’è stata un’ondata di violenze che ha provocato almeno 40 morti e molte case bruciate (come reazione alla morte proprio a Mitrovica di tre bambini albanesi affogati nel fiume Ibar mentre erano inseguiti da ragazzini serbi), sono stati fatti alcuni passi verso la normalizzazione. «È un lavoro lungo e difficile quello a favore delle minoranze, ancor più arduo di quando c’era l’emergenza umanitaria e bisognava risolvere il problema di centinaia di migliaia di profughi che dovevano tornare a casa» dice Orhan Miftari, 32 anni, responsabile di Caritas Kosovo, ente nato nel 1992 come sezione di Caritas Germania e diventato autonomo dopo i bombardamenti Onu. «Oggi gran parte del nostro operato si rivolge a ripristinare la convivenza tra le varie etnie, con progetti di integrazione e inclusione che non sempre vanno a buon fine – continua Miftari -, però la situazione sta migliorando, in modo lento, ma costante, e questo ci spinge a non gettare la spugna».

Come per Bobaj, anche per il giovane responsabile della Caritas kosovara i discorsi sullo status del Kosovo passano in secondo piano di fronte ai problemi della società civile. «La prima battaglia da vincere oggi è quella contro la perdita delle nostre tradizioni – riprende Miftari -. Se per la convivenza possiamo sperare in risultati positivi nel futuro, per quanto riguarda la salvaguardia del valore della famiglia stiamo facendo notevoli passi indietro».
In che senso? «Si sta consumando una rottura con il passato: le nuove generazioni, spinte da nuovi modelli che non appartengono loro, stanno lasciando a se stessi gli anziani, spesso abbandonandoli al loro destino, andando a vivere in un’altra casa – spiega il responsabile Caritas -. Per la prima volta, in Kosovo si parla di non autosufficienza di persone anziane o disabili. Si stanno cercando soluzioni, che per ora non arrivano».
Dopotutto, un vero stato non c’è e i fondi per aiutare le persone con problemi non ci sono. «Ma anche potenziando il servizio di assistenza, le cose non si risolvono: quasi sempre la presenza di persone non autosufficienti non viene segnalata da nessun familiare; e quando si viene a sapere, spesso è troppo tardi» ammette Miftari.
Nelle centinaia di villaggi kosovari, il capovillaggio (riconoscibile dal copricapo bianco a scodella) rimane ancora una figura autorevole, ma il suo carisma non è più quello di un tempo. «Faccio fatica a farmi rispettare dai più giovani, che hanno in testa l’Europa e non vedono l’ora di andarsene» mi sussurra prima di recarsi a fare una visita medica Haxi (il cognome è incomprensibile, così pure il nome del suo villaggio, tra Prizren e Giacova), capovillaggio 74enne con il quale condivido una corsa in un combi, i taxi collettivi diffusi in tutti i Balcani.

Il miraggio di una vita migliore all’estero è ancora molto diffuso, nonostante la voglia di molti giovani di partecipare alla «ricostruzione» della propria terra. Dopotutto, i problemi cronici del Kosovo post-conflitto sono la prima fonte di scoraggiamento delle nuove generazioni. Disoccupazione a parte, l’altro annoso problema è la carenza di elettricità, dovuta al fatto che l’unica centrale della regione non basta al fabbisogno. Nella capitale e nelle altre città la corrente c’è tre ore sì e tre ore no un giorno, quello successivo quattro ore sì e due no; nelle campagne va peggio, arrivando a un’ora di erogazione ogni cinque. I generatori sono ancora oggi uno dei simboli del Kosovo.
«Come si può lavorare in queste condizioni?» chiede il proprietario di una macelleria di Prizren, al quale si affianca annuendo il responsabile di uno delle decine di internet point della città, tanto diffusi quanto economici.
Poi ci sono le altre questioni aperte della regione: traffici illeciti e corruzione ancora estesa. «Ma qualcosa in questo senso si sta facendo» riprende il cornoperante Bobaj, mostrando un foglietto che viene distribuito da qualche mese in tutti gli edifici pubblici cittadini. «C’è un numero nuovo al quale chiamare per segnalare episodi di corruzione o racket – spiega -, garantendo l’anonimato: la gente si fida e chiama. Nella sola Prizren, una quarantina di persone sono state arrestate grazie alle segnalazioni».
Il servizio è stato messo a punto dalla polizia kosovara con l’appoggio delle forze Unmik, il contingente Onu in Kosovo. Il quale, benché abbia ridotto la sua presenza e stia progressivamente lasciando i poteri in mano alle autorità locali (la vecchia sede Unmik della città è dall’anno scorso sede della polizia municipale), è ancora ben visibile nelle strade kosovare. «Non siamo ancora pronti a cavarcela da soli; la presenza internazionale serve come precauzione, anche se spesso non esercita più un ruolo di controllo».
Un esempio? «Guarda la chiesa lassù sulla collina – dice Bobaj, indicando il monastero ortodosso di San Giorgio, il più grande e bello della città -, tutt’attorno ci sono le forze Unmik, ma mentre negli anni scorsi la loro presenza serviva a evitare danneggiamenti all’edificio, oggi i soldati sono lì solo perché si ha la migliore vista dall’alto della città». 
La conferma alle parole del cornoperante arriva poco dopo. «È un ottimo punto di osservazione e la chiesa è ora riaperta per le visite» spiega un militare tedesco all’uscita da uno dei barbieri più rinomati del centro storico. Nel corso degli anni, la distanza tra popolazione locale e forza internazionale di pace è diminuita notevolmente. «Il contatto non è mai troppo, ma le relazioni si possono sviluppare bene – continua il militare -. Certo non tutti apprezzano la nostra presenza, ma c’è molta più tranquillità che in passato. Il fatto che, poco alla volta, aumentino le esperienze positive di integrazione con le minoranze, è un buon punto di partenza. Non è detto che, indipendenza o meno, non si possa tornare con gli anni alla convivenza di prima». È la speranza di tutti. O quasi. 

Di Daniele Biella

MATASSA SENZA BANDOLO

Il 10 dicembre 2007 si è chiusa con un nulla di fatto la commissione formata dalle delegazioni di kosovari albanesi e serbi, di intermediari di Usa, Ue e Russia, sotto la guida del mediatore Onu Martti Ahtisaari, per la ricerca di un compromesso sullo status del Kosovo. La proposta di «indipendenza sotto tutela internazionale» è rifiutata dai kosovari albanesi, che reclamano piena indipendenza, e dai serbi, che non vogliono perdere la sovranità sulla loro provincia, in base al diritto internazionale.
Le due posizioni inconciliabili hanno radici storiche. Nel Kosovo i serbi hanno le radici della propria identità nazionale: vi sono conservate le reliquie dei primi re ortodossi e buona parte del patrimonio culturale e religioso. A partire dal 1389, però, tali radici, cominciarono ad essere sconvolte: gli ottomani annientarono la coalizione serbo-bosniaca nella battaglia della Piana dei merli e avviarono l’occupazione e islamizzazione dei Balcani. Per 520 anni il Kosovo rimase sotto il potere turco. I tentativi di ribellione provocarono repressioni, esodi massicci di serbi, rimpiazzati con trasferimenti di musulmani albanesi.
Nel 1912, in seguito alle guerre balcaniche, la Serbia ristabilì la sua sovranità sul Kosovo e riprese la ricolonizzazione del territorio con famiglie serbe, al posto di quelle turche e albanesi costrette a fuggire o emigrare. Altri esodi e contro esodi di serbi e albanesi si alternarono durante le due guerre mondiali, finché il Kosovo divenne parte della Federazione jugoslava (1945), come provincia autonoma della Serbia, con uno status di grande autonomia, ma inferiore alle sei repubbliche federate (Slovenia, Croazia, Bosnia, Serbia, Macedonia, Montenegro), che avevano il diritto costituzionale di secessione.
Dopo la morte di Tito e la dissoluzione della Federazione jugoslava, il forte incremento demografico dei kosovari albanesi (90% della popolazione totale) mise in allarme il nazionalismo serbo, guidato da Sloboda Milosevic, che revocò gran parte delle autonomie del Kosovo (1989) e avviò una politica di ri-serbazione forzata, proibendo la lingua albanese nelle scuole e sostituendo funzionari amministrativi e insegnanti con personale serbo.
Inizialmente l’etnia albanese reagì con la resistenza non violenta, guidata dalla Lega democratica del Kosovo (Ldk) di Ibrahim Rugova, stabilendo istituzioni e scuole separate, dichiarando l’indipendenza della Repubblica del Kosovo (1990), riconosciuta solo dall’Albania. A partire dal 1995, molti separatisti albanesi scelsero la lotta armata, guidata dall’Esercito di liberazione del Kosovo (Uck), terrorizzando la popolazione serba, costringendola alla fuga, distruggendo chiese, santuari e monasteri. La repressione delle milizie serbe fu altrettanto violenta, finché l’intervento Nato, con massicci bombardamenti sulla Serbia (1999), costrinse Belgrado ad accettare la presenza nel Kosovo di forze inteazionali di interdizione (Unmik e Nato), che non sempre sono riuscite a impedire i rigurgiti di violenza contro persone, case e chiese nelle enclave in cui erano isolati i gruppi della minoranza serba (2004).
Di fronte al fallimento delle trattative Onu, l’ex capo guerrigliero dell’Uck, Hashim Thaci, uscito vincitore dalle elezioni di novembre 2007 con il suo Partito democratico del Kosovo (Pdk), aveva minacciato la dichiarazione unilaterale di indipendenza per il 10 dicembre 2007, ma tutto è rimandato al 2008.

Dal 1999 il Kosovo è praticamente autosufficiente e la Serbia non vi esercita alcuna sovranità effettiva. Anche se, sul piano legale resta valida la risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza, che contempla la sovranità serba sul Kosovo.
Ma il problema, ormai, non è più l’indipendenza, ma il suo riconoscimento in ambito europeo e atlantico. Tale riconoscimento è diventato uno dei temi scottanti nella guerriglia fredda tra Stati Uniti, favorevoli da sempre all’autodeterminazione, e la Russia, che vi si oppone, non tanto per amore dei serbi, ma piuttosto per ripicca antiamericana. L’Unione europea è divisa: Gran Bretagna, Austria e Germania sono a favore (gli ultimi due stati hanno numerose comunità di immigrati kosovari), Grecia e Cipro contrari, gli altri paesi dell’Ue indecisi. All’inizio erano contrarie anche Spagna, Slovacchia e Romania. 
Il riconoscimento di un’eventuale dichiarazione unilaterale d’indipendenza, secondo gli oppositori, costituirebbe un precedente con conseguenze incontrollabili, perché incoraggerebbe altre minoranze etniche a fare altrettanto: baschi e catalani in Spagna, corsi e bretoni in Francia, ungheresi in Slovacchia e Romania, turchi a Cipro, serbi in Bosnia e Croazia, albanesi in Serbia (Presevo), Macedonia e Montenegro, curdi in Turchia, abkhazi e ossezi in Georgia, russi nelle Repubbliche baltiche…
La soluzione della matassa kosovara interessa e coinvolge sempre più l’Unione europea, che continua a trattare con le parti in causa. Al governo kosovaro propone un’indipendenza sotto il protettorato civile dell’Onu, tuttora in funzione, e una più articolata amministrazione europea, con l’impegno di adeguare la macchina governativa agli standard europei in fatto di giustizia, polizia, carceri e altri settori vitali del paese. Alla Serbia, se accetta tale compromesso, vengono aperte le porte dell’Unione europea. L’integrazione di Serbia e Kosovo nell’Ue metterebbe la sordina alle rivendicazioni di sovranità e garantirebbe il rispetto dei diritti delle minoranze serbe nella ex provincia.
A partire da gennaio 2008, la presidenza semestrale dell’Unione europea è affidata alla Slovenia, un fatto di alto valore simbolico: Slovenia e Kosovo costituiscono l’inizio e l’epitome della dissoluzione della Federazione jugoslava. Riuscirà a chiudere per sempre la crisi balcanica? Ha tutte le carte in regola per porsi come esempio di transizione pacifica; inoltre, conosce gli umori delle popolazioni slave come le sue tasche, per cui potrebbe riuscire nell’impresa in cui le grandi potenze hanno fallito.

Benedetto Bellesi

Daniele Biella e Benedetto Bellesi




ELOGIO DELLA TENEREZZA

Bambini disabili e comunità indigene andine

Llaqui causaimanta cushicui causaicama: in lingua quechua significa:
«Dalla sofferenza alla felicità». È il cammino sperimentato da alcuni bambini fisicamente o psicologicamente svantaggiati di varie comunità indigene della diocesi di Riobamba, in Ecuador. Grazie alla tenerezza e all’amorevole caparbietà di un missionario di lungo corso.

Il racconto di Gesù che predica nella sinagoga di Nazaret, secondo la versione che ce ne dà l’evangelista Matteo, illustra lo stupore manifestato dalla gente per lo stile del discorso del messia. La gente, infatti, rimaneva meravigliata e diceva: «Da dove mai viene a costui questa sapienza e questi miracoli?… E si scandalizzavano per colpa sua» (Mt 13, 54.57).
Non è il contenuto dell’insegnamento di Gesù ciò che causa scandalo, bensì il modo e il metodo di insegnare, le opzioni e le intenzioni che lasciano intravedere il punto di partenza di un cammino nuovo. Sappiamo bene che il vangelo è una storia emergente, una «contro-storia» vissuta tra gli ultimi del mondo, in cui si scorge perfino la prospettiva di un avvenire inaudito «dove gli ultimi diventano i primi».
Partendo da questo presupposto e volendo testimoniare coerentemente la nostra fede cristiana abbiamo l’impegno di dar vita a eventi educativi che servano da premessa obbligata a futuri pedagogici impensati e inauditi.
Tale impegno ci sfida quando ci addentriamo nel difficile contesto delle persone disabili all’interno del mondo indigeno andino, contesto nel quale dobbiamo osare domande scomode. In altre parole, bisogna chiederci seriamente se dobbiamo accettare a braccia incrociate i vari fallimenti riguardo ai bambini disabili nel mondo culturale e sociale delle tradizioni indigene attuali. Cosa facciamo quando ci troviamo al cospetto di una persona, in modo particolare di un bambino «speciale» e portatore di difficoltà personali e comunitarie, lo abbandoniamo? Ci dichiariamo incapaci di soluzione? Il disabile è da considerarsi solamente come soggetto di terapie straordinarie o può entrare anche lui in una quotidianità educativa vissuta e alla portata degli altri bambini del suo clan, nella sua zona di residenza? Dobbiamo aspettare di raggiungere nuovi orizzonti attraverso percorsi idonei e già previsti o diventiamo artigiani di una pratica possibile oggi, qui, adesso?

Doppiamente svantaggiati

Nella mentalità culturale indigena conta colui che vale e che sa farsi valere. Chi, al contrario, ha bisogno di una mano, di un aiuto, di un appoggio che non sia vincolato a una scadenza da onorare non ha posto a sedere neanche nella compassione. Nel mondo indigeno un bambino disabile vale poco, per non dire nulla; anzi, è un prestito da rimborsare. Nessuno pensa che con il tempo possa rendere. Un tempo le famiglie se ne sbarazzavano immediatamente; poi, grazie all’evolversi sociale e all’incontro con  il cristianesimo non l’hanno più fatto, ma il disagio nei confronti di un membro della comunità fisicamente o psicologicamente svantaggiato non è diminuito. Alla mamma un figlio disabile costa troppo, è una creatura alla quale bisogna dare il minimo indispensabile perché possa vivere, ma essendo un caso «extra-ordinario» è anche fonte di inevitabili spese extra… Questo incide molto sulla vita di tutti i giorni, visto tutto il tempo che si deve dedicare all’accompagnamento del bambino con disabilità, a discapito del lavoro e a detrimento dell’appoggio che si potrebbe offrire agli altri figli sani.
Nel contesto indigeno tradizionale le famiglie non possono neppure aspettarsi un grande aiuto dalle proprie autorità comunitarie. Un bimbo con handicap è un evento straordinario e ha bisogno di sostegni straordinari. In questi anni abbiamo cercato di portare avanti un lavoro di educazione dei dirigenti indigeni, orientato al rispetto per la persona, soprattutto per i bambini, spingendo affinché la comunità sentisse l’importanza di dare ai giovani sussidi e sostegni per la loro formazione. Ma il cammino è ancora lungo; nel mondo indigeno non esiste ancora uno spirito di gratuità: aiutano perché sono aiutati. L’idea di sacrificare qualche cosa di personale a titolo gratuito e a beneficio altrui non appartiene ancora a una cultura che fonda la propria etica della relazione sulla reciprocità e, quindi, sul do ut des: ti do se mi dai, oppure mi aspetto qualcosa da te in cambio di quanto ti ho dato. Al contrario, il gesto verso un bambino disabile è pura solidarietà, perché un bambino del genere non può darti nulla in cambio.
Con pazienza abbiamo insinuato l’idea che la situazione delle persone in difficoltà deve diventare una priorità dell’organizzazione e della progettazione comunitaria. La famiglia fa parte di una comunità, ne rappresenta la sua porzione più piccola; i suoi problemi e le sue priorità sono di interesse comune e non si limitano ai membri della famiglia stessa. Ne consegue che una buona progettazione comunitaria non deve pensare esclusivamente alla strada, all’acquedotto, ma puntare al benessere della gente inteso in un senso complessivo. Lo stesso discorso vale anche per gli anziani. Diventando vecchie e malate le persone iniziano a rimanere al margine della società e cominciano ad aver paura, paura, persino, che si dia loro qualcosa per andarsene da questo mondo il più in fretta possibile. Finché una persona serve, lavora e produce si guadagna il rispetto; quando invece la stessa persona non riesce più a contribuire alla vita della comunità diventa un peso, un valore passivo nel bilancio che deve essere limitato al massimo in attesa di venire eliminato del tutto. Chiaramente generalizzare non è possibile, ma nello stesso tempo bisogna riconoscere che questa mentalità è ancora viva. È una degenerazione del concetto di reciprocità che diventa un assoluto soffocante e schiavizzante.

Medicina «del cuore»

È dunque possibile che a tali sfide si possa rispondere con la tenerezza? La tenerezza non è solo una capacità affettiva, ma un trattamento che la pedagogia educativa deve cominciare a stimare e considerare come prezioso alleato. Diventare umani nelle relazioni reciproche e vincolanti per vari motivi di vicinanza e di mutuo riconoscimento è compito di tutti i giorni e di ogni giorno in particolare. Per questo parliamo di quotidianità educativa nella costruzione dell’elemento umano, cercando e avvicinandoci al più concreto, più conosciuto e più prossimo. Lì, di fronte alla persona reale e vicina, suggeriamo gli accorgimenti della sopravvivenza, come resistenza agli sconforti e come speranza di un modo di vivere nuovo, adatto a divenire parte ordinaria della vita.
Vogliamo educare esseri umani a diventare più umani e «meglio» umani, ben consapevoli che l’umanità in sé comporta una condizione non conclusa e incompiuta.
Nella cosmovisione andina l’armonia tra le creature è essenziale per la convivenza. Ognuno deve stare al proprio posto senza invasioni o abusi spaziali. Se uno, invece, non occupa il proprio posto per insufficienza o provvisorietà di qualsiasi genere bisogna aiutarlo ad arrivare ad assumere una posizione propria nel contesto comunitario.
Sorge allora incontrastato il diritto alla tenerezza: amorosa, sensibile, affettiva. La tenerezza è la qualità che rende possibile la convivenza umana rispettando la singolarità e la diversità di ognuno, che fa volgere lo sguardo e prestare attenzione verso il più debole, la persona svantaggiata che non ha una posizione definita e conclusa nell’armonia del cosmo.
Più che attribuzione, la tenerezza è un paradigma di convivenza che deve realizzarsi nel terreno familiare, sociale e comunitario, conquistando progressivamente il diritto ad esistere nei territori che, per varie ragioni, si sentono autorizzati ad escludere i differenti, i «non conclusi», coloro che non hanno posizione, come nel caso dei portatori di disabilità.
A Nazaret, Gesù si stupì della incredulità dei suoi compaesani. La sua pedagogia aveva indicato come realtà prioritarie momenti umani non conclusi:  poveri, ciechi, prigionieri, sordomuti, ecc. che aspettavano attenzione e considerazione. Aveva anche lasciato capire che i loro affetti e le loro cosmovisioni senza tenerezza per la povera gente erano progetti lontani da Dio.
Sarà un messaggio valido anche per noi, oggi? Nel nostro mondo c’è la tenerezza? Nella chiesa, nelle nostre comunità religiose c’è la tenerezza? Domande scomode, ma che è urgente farsi. Nella lettera ai Romani (10, 10), San Paolo parla di: parola e cuore. Con la parola proclami e con il cuore credi. È difficile far entrare la tenerezza in un determinato contesto perché oltre alle parole bisogna saper mettere il cuore.
In questo oggi latinoamericano, così pieno di sfide e così scao di incoraggiamenti e speranze, irrompe una riflessione nuova e promettente che, senza permesso, avvicina e articola campi teorici e pratici nella pedagogia e nella scienza dell’educazione. Il progetto di Gesù conserva tutta la sua forza e la sua attualità.
In un mondo senza tenerezza abbiamo provato a porci la domanda: «La tenerezza fa bene o no? Anche a coloro che sembrano escluderla dalle loro relazioni interpersonali?». Quando si è iniziata la nostra attività con i bambini disabili delle nostre comunità indigene, si è agito su un piano di scommessa: «Scommettiamo che la tenerezza piace?». È piaciuta ed è stata la prima medicina, che ha letteralmente trasformato bambini rifiutati, marginalizzati, senza possibilità e che adesso si sentono stupendi. Solo poco tempo fa mi è giunta la notizia che due bambine della nostra comunità hanno partecipato alle paraolimpiadi, organizzate in Ecuador dall’esercito, e una di esse ha vinto una medaglia. La tenerezza ha fatto effetto, è entrata in piccole dosi, ma ora non se ne può più fare a meno. Ricordo la «battaglia delle scarpe», combattuta tempo fa: cosa non c’è voluto per inculcare l’importanza di usare scarpe in un ambiente come quello montano della provincia del Chimborazo in Ecuador, dove si vive a circa tremila metri d’altezza! Adesso tutti mettono le scarpe e non possono fae a meno. Quando si comincia ad usare una cosa e si fa esperienza della sua utilità, poi non se ne può più fare a meno! Se mettiamo tenerezza nelle nostre relazioni con i bambini, questa viene da loro assimilata con naturalezza e altrettanto spontaneamente trasmessa ad altri.
Sono solamente 5 anni che si lavora in questo campo, ma già si vedono piccoli risultati che confortano e fanno ben sperare per il futuro; bisogna assolutamente confidare nel tempo. In particolare lo si nota fra le ragazze del posto che abbiamo iniziato a formare come educatrici: che bello vedere con che tenerezza trattano questi bambini. Un’indigena che si preoccupa di un’altra indigena è un bel segno! Ragazzi che si preoccupano di altri indigeni che non appartengono direttamente alla loro comunità rappresentano un bel passo avanti, si creano delle trasformazioni che produrranno del bene non soltanto ai bambini più svantaggiati, ma alle famiglie e, attraverso di loro, a tutta la comunità.  

di Giuseppe Ramponi

    QUANDO LA TENEREZZA PAGA

Una goccia d’ acqua fresca nell’oceano della solitudine: questa è l’esperienza di Bucapne (Buscar casa para niños especiales), un progetto che si propone di cercare casa per bambini diversamente abili.
Il progetto è nato cinque anni fa, al rientro dalle mie vacanze in Italia. Avevo fresca nella memoria la triste visione di bambini emarginati da qualsiasi contesto sociale ed educativo perché indigeni e disabili. Nelle comunità indigene il «problema disabili» esiste, anche se molte volte in modo nascosto, ed è generalmente avvertito come una disgrazia. Nessuno però, si sente di dare a questa «disgrazia» una risposta concreta; chi, del resto, investirebbe con coscienza un solo dollaro su una scommessa già persa in partenza? In una cultura dove neanche una moglie merita sostegno economico quando si ammala e non può più essere fonte di guadagno, come ci si potrebbe aspettare di veder finanziate opere per bambini che sono e saranno sempre problemi costosi senza soluzione?
Nelle città esistono istituzioni adeguate all’assistenza di persone disabili, ma accettano soltanto i bambini le cui famiglie presentano determinati requisiti come una certa possibilità economica e la disponibilità di tempo per accompagnare e seguire la persona nel cammino di riabilitazione.
Quando ho deciso di occuparmi di questi  bambini, ho cercato di fare una diagnosi della situazione reale. Era infatti importante avere un quadro generale dei possibili fruitori del programma. I miei collaboratori si sono messi all’opera e alla fine delle loro ricerche hanno presentato una lista di ben ottanta casi da prendere in considerazione. Davanti a tale numero ho deciso che se proprio dovevo pensare ad un’opera conclusiva della mia carriera missionaria, non poteva essere che quella.
Amici generosi mi hanno animato e concesso l’appoggio di cui avevo bisogno. Alcuni di essi dovranno andare in cielo a «furor di poveri» per l’incoraggiamento e la mano che hanno saputo darmi.
Comprai un pulmino perché la prima cosa da fare era accompagnare i bambini presso specialisti che ci aiutassero a selezionare bene i casi su cui intervenire. Il risultato di questo lavoro iniziale fu positivo: grazie ai primi interventi molti bambini migliorarono la vista, l’udito, il modo di parlare. Altri bambini vennero inseriti in vari centri educativi della zona. Rimasero quelli che avevano bisogno di trattamento speciale, i cosiddetti «formula 3A»: Amore, Attenzione e Alimentazione. Tra di essi vi erano bambini ciechi, denutriti, con gravi problemi motori, di espressione, epilettici, ecc. Tutte creature da «rifare» nei cinque sensi.
Oggi come oggi, anno 2008, posso dire che si sono conseguiti dei buoni risultati. L’azione continua, anche se essendo dovuto rientrare in Italia agisco a distanza e mi appoggio a preziosi collaboratori del posto che continuano a setacciare le comunità nella ricerca di casi non ancora individuati. Ora le mamme non si vergognano più nel portare sulla schiena i loro bambini disabili e si avvicinano al progetto (un tempo guardato con sospetto) con fiducia e speranza.
I punti positivi si sommano in titoli di «missione compiuta». Ecco i principali.
✔ Bambini che si pensava essere inguaribili sono stati invece ricuperati con successo.
✔ Bambini sono stati iscritti in scuole speciali per sordi, ciechi e down.
✔ Bambini con disabilità cronica e irrimediabile hanno trovato casa permanente in istituzioni governative specializzate.
✔ Una dozzina di bambini con gravi problemi di denutrizione sono stati ricuperati e avviati a frequentare centri educativi normali.
✔ Varie ragazze indigene hanno ricevuto una formazione specializzata, diretta a migliorare l’assistenza dei bambini affetti da disabilità fisica e mentale nelle comunità locali.
✔ Sono stati formati e abilitati anche alcuni animatori comunitari in grado di aiutare le famiglie che vivono il problema di un figlio disabile a conoscersi e a crescere in modo da creare intorno al bambino un ambiente sereno e idoneo alla crescita. Tali animatori si occupano anche di avviare relazioni con i dirigenti locali, così da creare un fronte comune e organizzare iniziative mirate e comuni in favore dei bambini svantaggiati.
Rimane il problema di finanziare un progetto che ha solo uscite economiche e nessuna entrata sicura. Il progetto dei bambini speciali è cominciato nel dicembre 2002. Da allora siamo diventati tutti evangelici perché, come dice il vangelo: i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i sordi ascoltano;  tutti ricevono molta tenerezza e molto amore e sono felici. Le entrate sicure non esistono. Di sicuro ci sono solo la Provvidenza e la tenerezza di Dio. Se il Signore vorrà continuare a servirsi del nostro ministero non ci farà mancare i mezzi economici necessari e sufficienti a dare a un bambino disabile un po’ di felicità.

Giuseppe Ramponi




Presenza scomoda

Cristiani a Urmia, nel Nord dell’Iran

La storia dei cristiani assiri, caldei, armeni è costellata di ostilità e persecuzioni; quelli che vivono a Urmia, nell’Azerbaigian occidentale (Iran), non fanno eccezione. L’emorragia di giovani in cerca di libertà continua; eppure la presenza cristiana nel mondo islamico ha ancora senso e costituisce un esempio per i cristiani che vivono nei paesi liberi.

Urmia è una tranquilla città nel nord dell’Iran, capoluogo della provincia dell’Azerbaigian occidentale. Pare che il suo nome significhi «culla d’acqua». L’acqua in questione potrebbe essere quella del lago omonimo, sulle cui rive è distesa la città: un’acqua salatissima, forse più di quella del Mar Morto, tanto che in alcuni punti il sale si raccoglie e diventa spiaggia e scogli. Oppure potrebbe essere l’acqua che scende dai monti Zagros, sulle cui propaggini hanno cominciato ad arrampicarsi i nuovi quartieri della città.
Se si attraversano gli Zagros e si scende dall’altro versante, quello iracheno, si arriverà nella piana del Tigri, non lontano dai resti di Ninive, l’antica capitale dell’impero assiro, un nome che rimanda d’istinto al manuale scolastico di storia antica.

IDENTITà CRISTIANA
Quello assiro fu uno dei tanti imperi, la cui gloria sorse e tramontò in quella parte d’Asia che si suole chiamare «fertile mezzaluna». Dei regni e popoli che vi si succedettero – medi, sumeri, accadi, babilonesi, cassiti, hittiti, mitanni – oggi rimangono solo pochi resti. Si stenta a credere che gli assiri, invece, siano riusciti a non sprofondare nell’abisso della storia e siano arrivati fino a noi attraverso i millenni.
La conversione alla fede cristiana li ha distinti come gruppo e li ha aiutati a mantenere viva la coscienza della propria identità in una terra dove hanno sempre predominato altre religioni: lo zoroastrismo sotto i parti e i sassanidi, l’islam a partire dalla conquista araba del vii secolo. Altro tratto distintivo di questa comunità è la lingua: essi parlano una lingua semitica del gruppo aramaico, che nella variante antica è rimasta fino a oggi la lingua della liturgia.
Gli assiri conobbero il cristianesimo già nel primo secolo; la loro evangelizzazione si fa risalire all’apostolo Tommaso, cui fu affidato il compito di portare la buona notizia alle genti della Mesopotamia. 
Centro spirituale dei cristiani della Mesopotamia era il patriarcato di Seleucia-Ctesifonte, la cui sede si trovava fuori dei confini orientali dell’impero romano; di qui la definizione di chiesa d’Oriente, o siriaco orientale, con cui furono indicate le comunità cristiane costituitesi nell’impero persiano. La circostanza di trovarsi nel territorio dei persiani, nemici di Roma, fu determinante per la chiesa d’Oriente, perché non poté partecipare ai concili della cristianità occidentale e seguì un percorso suo. Essa adottò la dottrina cristologica antiochena, un rappresentante della quale, Nestorio, fu sconfessato al concilio di Efeso del 431. Per questo motivo spesso si parla, impropriamente, di chiesa nestoriana. In realtà, i cristiani d’Oriente non si riconoscono in questo termine e Nestorio rimane per loro una figura secondaria.
In quanto minoranza, in Oriente i cristiani sperimentarono forme diverse di ostilità e subirono la persecuzione sotto i re sassanidi. Essendo loro preclusa la via dell’Occidente, essi rivolsero il proprio slancio missionario a est e portarono il cristianesimo in India, Cina e Mongolia. I loro monaci erano tenuti in grande considerazione alla corte del Gran Khan.
Quando gli eserciti mongoli di Hulagu distrussero Baghdad, nel 1258, e stabilirono il proprio dominio sulla Persia, i cristiani non solo furono risparmiati, ma godettero del favore dei conquistatori. Nuove chiese furono costruite in diversi centri dell’Azerbaigian: oltre che a Urmia, dove la presenza degli assiri è attestata dall’inizio del xii secolo, a Tabriz, Salmas, Marāghe. I cristiani non sfuggirono, invece, alla ferocia di Tamerlano, che alla fine del xiv secolo percorse a più riprese la Persia e la Mesopotamia, distruggendo e uccidendo. I secoli successivi furono più tranquilli, ma con l’inizio della prima guerra mondiale una nuova tragedia si abbatté su queste comunità.

FUGA DAL GENOCIDIO
Si calcola che all’inizio del Novecento nella regione di Urmia i cristiani, tra assiri, caldei e armeni, fossero circa il 40% della popolazione. Essi abitavano prevalentemente nei villaggi. Nell’Ottocento avevano cominciato ad arrivare in Persia i missionari occidentali, primi tra tutti i protestanti americani, che nel 1834 aprirono una missione a Urmia, subito seguiti dai lazzaristi francesi, poi dagli inglesi e, infine, dai russi.
A quei tempi la Russia si contendeva con l’impero britannico il dominio sulla Persia che, rimanendo formalmente uno stato indipendente, era stata divisa nel 1907 in due zone di influenza: quella inglese a sud e quella russa a nord. Quando la Russia entrò in guerra contro l’impero ottomano, benché la Persia fosse neutrale, le sue province settentrionali furono ben presto interessate dal conflitto.
Alla fine del 1914 gli ottomani attaccarono le posizioni russe nel Caucaso e cominciarono ad avanzare verso Tabriz e Urmia. Questo fatto non lasciava presagire niente di buono per i cristiani. Nella regione si sapeva dei massacri contro gli armeni avvenuti in Turchia negli anni 1894-96 e della politica dei «Giovani turchi», sfociata nel genocidio di un milione e mezzo di armeni e 275 mila cristiani assiri e siro-caldei.
Alla notizia dell’arrivo dei turchi molti cristiani fuggirono verso il Caucaso russo, quelli rimasti cercarono rifugio presso le missioni occidentali, mentre le truppe irregolari curde al seguito degli ottomani razziavano e distruggevano i villaggi. Si calcola che le missioni americane siano arrivate a ospitare fino a 15 mila rifugiati, quella francese 10 mila. Sebbene gli ottomani rispettassero la loro neutralità, le condizioni al loro interno erano così terribili che moltissimi morirono per malattie e stenti. Alla fine della guerra, dopo una seconda occupazione ottomana nel 1918, ai cristiani fu permesso di tornare, ma la loro presenza nella regione non toò mai più ai livelli di prima.

L’ESODO CONTINUA
Molte di queste cose mi erano ancora ignote quella mattina, mentre, seduta nel cortile della chiesa di Santa Maria, aspettavo di parlare con un rappresentante della comunità assira. Secondo una tradizione locale, questa chiesa fu eretta sulla tomba di uno dei magi che seguirono la stella di Gesù, ma nulla rimane dell’edificio originale e neppure di quello ricostruito dai russi a fine Ottocento, raso al suolo durante l’occupazione ottomana. Al suo posto è sorta una spartana cappella, accanto alla quale, in anni recenti, è stata costruita una chiesa molto più grande.
Era un venerdì, giorno di festa e di riposo in Iran; il cortile era pieno di giovani, venuti a fare lezione di aramaico. Sebbene lo parlino in famiglia, i ragazzi che frequentano le scuole statali non sempre imparano anche a scriverlo e a leggerlo.
Mentre osservavo i crocchi in attesa della lezione e meditavo su quale lingua avremmo utilizzato per comunicare, mi sono sentita salutare in perfetto italiano. No, non era uno sperduto connazionale capitato per caso in quel luogo, era padre Bengiamin, o Paolo, come si fa chiamare quando è in Italia. Non avrei potuto trovare una guida migliore.
Padre Bengiamin è in Italia dal 1996. È stato il patriarca Dinkha iv a chiedergli di venire a studiare nel nostro paese. Dopo essere stato ordinato sacerdote nel 2001 ha continuato gli studi. Ha alle spalle cinque anni di Gregoriana e adesso sta ultimando un master in diritto canonico presso il Pontificio istituto orientale.
Tanti anni in Italia, eppure ogni anno ha problemi con il permesso di soggiorno, come se fosse un novellino. In estate dà una mano all’altro sacerdote assiro di Urmia, padre Dariaush, che si trova da solo a provvedere a una comunità di 3-4 mila persone. Padre Bengiamin si ricorda di quando gli assiri erano 20 mila in città e provincia, quasi 50 mila in tutto l’Iran. Adesso i numeri sono diversi. A Teheran, dove c’è il gruppo più numeroso, sono meno di 6 mila. Anche la comunità assira, come quella armena, è afflitta dal fenomeno dell’emigrazione. Le mete principali sono America e Australia, più di rado l’Europa.

GIOCHI PANASSIRI
Proprio quel venerdì si concludevano i giochi panassiri, una manifestazione che si svolge ormai da sei anni e che raccoglie giovani da tutti i paesi in cui sono presenti le comunità assire: oltre all’Iran, la Georgia, l’Armenia, l’Iraq e la Siria. Tutti parlano la stessa lingua, con piccole differenze locali. I giochi si svolgono nel club assiro di Urmia; l’alloggio, invece, è offerto dal governo iraniano, che quest’anno ha messo a disposizione un albergo in riva al lago. La comunità non sarebbe in grado di pagare le spese della manifestazione, circa 50 mila euro, se non ci fossero i finanziamenti pubblici, ottenuti attraverso il proprio rappresentante in parlamento.
I giochi sono una grande occasione d’incontro: per 10 giorni i giovani stanno insieme, ne nascono amicizie, che proseguono con scambi di visite e che, a volte, hanno come esito il matrimonio. Per gli assiri iraniani questa possibilità non è irrilevante. I matrimoni misti in Iran non sono ammessi, a meno che l’uomo o la donna cristiani siano disposti ad abiurare la propria fede. Durante lo scià c’era libertà di culto, ma adesso la conversione a una fede diversa dall’islam è un delitto che prevede perfino la pena di morte.
Quando padre Bengiamin e padre Dariaush si recarono all’albergo per salutare i partecipanti ai giochi, mi invitarono ad accompagnarli. Gli iracheni erano già partiti, mentre gli altri gruppi si stavano raccogliendo nella hall e nello spiazzo davanti all’ingresso per godere degli ultimi momenti insieme. C’era un’atmosfera di festa. Per molti quello non voleva essere un addio, ma un arrivederci, ci si scambiava indirizzi, promesse di visite; qualcuno indossava la maglia della nostra nazionale di calcio, vincitrice della coppa del mondo.
Padre Bengiamin, che ben conosce le abitudini degli italiani, mi invitò a prendere il caffè preparato dagli armeni, gli unici a non condividere la predilezione orientale per il tè. Ne approfittai per scambiare qualche parola con loro.
L’Armenia, come la Georgia, è un paese cristiano, di conseguenza per gli assiri la vita è più facile che nei paesi di fede islamica. C’è, però, in agguato un pericolo d’altro genere, quello dell’assimilazione. Assimilarsi offre innegabili vantaggi: finché vengono percepiti come un gruppo a sé, gli assiri restano esclusi dalle reti di solidarietà, che favoriscono, nel lavoro e nella politica, gli armeni.
A questo proposito è interessante il ruolo che svolge la lingua. Si assimilano gli assiri che frequentano le scuole armene e che quindi finiscono per usare abitualmente la lingua locale, mentre quelli che frequentano le scuole russe mantengono la propria identità. Il fenomeno dell’assimilazione è massimamente diffuso tra coloro che sono emigrati in Occidente: difatti, mi diceva con un certo tono di recriminazione il rappresentante della comunità armena, gli unici a non partecipare ai giochi sono gli assiri della diaspora.

LIBERI…  A SAN SERGIO
Per il pomeriggio mi avevano consigliato di visitare la chiesa assira di san Sergio, appena fuori città, sulle pendici degli Zagros, che nei giorni di festa diventa meta di escursioni e picnic. Quando vi fui arrivata, capii perché il luogo è così popolare. Circondata da campi e ulivi, l’antica chiesa si trova a metà collina, in una posizione che domina la regione circostante. Da lì lo sguardo abbraccia tutta Urmia e arriva fino al lago e ai monti lontani.
L’edificio è di un’estrema semplicità: rettangolare, in pietra; all’interno è diviso in due cappelle comunicanti, le pareti sono completamente spoglie e solo la croce sul fondo sta a indicare dove ci troviamo. Mi sedetti sull’unica sedia a contemplare quella pace. Di tanto in tanto entrava qualche visitatore; i musulmani si comportavano come in moschea: lasciavano le scarpe all’ingresso, anche se non c’erano tappeti da calpestare.
Saranno state le cinque, ma di gente lì intorno non se ne vedeva molta. Ero un po’ delusa, perché mi aspettavo di trovarvi più animazione. Ma un’ora più tardi, discendendo da una passeggiata su per la collina, mi si presentò uno spettacolo del tutto imprevisto: vie e spiazzo intorno a san Sergio formicolavano di gente, macchine parcheggiate dappertutto, altre stavano riempiendo un ampio prato poco distante. Mi domandavo dove avrebbero trovato posto tutte quelle che stavano salendo, formando una sequenza ininterrotta fino a dove arrivava l’occhio.
Non meno sorprendente era vedere che le persone lì convenute avevano messo da parte l’etichetta islamica: i giovani si mischiavano tra loro, molte ragazze e signore erano senza velo e, a volte, addirittura sbracciate.
Uno dei motivi per cui i cristiani lasciano l’Iran è di riacquistare la libertà di comportarsi in luogo pubblico come ci si comporta nel privato, tra familiari e amici. I doppi standard nel vestirsi, nei rapporti interpersonali, cui tutti sono costretti, cristiani e musulmani allo stesso modo, sono un aspetto assai poco piacevole della vita in questo paese.
Si può, dunque, capire l’aspirazione a liberarsi per sempre dalle rigide regole di comportamento imposte dalla Repubblica islamica, e non solo per poche ore, su a san Sergio. Di una libertà di tal fatta coloro che si trasferiscono in Occidente ne trovano in abbondanza.
C’è, però, chi ritiene che la presenza dei cristiani in questi luoghi continui ad avere un senso, anche nelle non facili condizioni in cui si trovano a vivere. Ne ebbi una conferma il giorno dopo, nell’incontro con l’arcivescovo caldeo di Urmia, mons. Thomas Meram.

CATTOLICI ASSIRO-CALDEI
Seppellita tra i vicoli di un vecchio quartiere di Urmia, non molto distante da quella assira, si trova la chiesa cattolica caldea.
Nel 1552, a seguito di una disputa sull’elezione del nuovo patriarca, all’interno della chiesa d’Oriente si verificò uno scisma. Coloro che non lo riconobbero ne elessero un altro, il quale l’anno successivo chiese e ottenne il riconoscimento di papa Giulio iii. Per la parte entrata in comunione con Roma si affermò da allora il termine «caldea». Il vecchio nome legato alla nazionalità, però, continuò a esercitare una certa attrazione, tanto che nel 1973 i caldei lo reinserirono: ora si chiamano ufficialmente «cattolici assiro-caldei».
La chiesa caldea di Urmia, un ampio edificio di recente costruzione, al momento della mia visita era deserta, finché arrivò il sacrestano a riordinare l’altare. Saputo che ero italiana, il signor Michail mi prese in simpatia e, vista la mia curiosità, mi domandò a bruciapelo se mi sarebbe piaciuto parlare con l’arcivescovo Thomas Meram, sempre che egli avesse tempo per ricevermi.
Di lì a poco, mi trovai di fronte un uomo sulla sessantina, in maniche di camicia, dai modi semplici e risoluti. Un incontro inaspettato per tutti e due. Da persona abituata a non perdere tempo in convenevoli, monsignore attaccò subito a parlare della sua comunità; nelle sue parole è risuonata quella nota di rimpianto che ben conoscevo: ai tempi dello scià i cristiani caldei erano 30 mila, adesso arrivano a malapena a 5 mila.
Quando era sacerdote a Teheran, nel 1977, mons. Meram conosceva personalmente le 1.600 famiglie della città, più altre 200 che non figuravano nei registri. Si celebravano 110 battesimi all’anno, 40 matrimoni. Ma adesso…
Adesso la gente se ne va in America, senza sapere neanche perché. Molti partono per ricongiungersi a parenti che vi abitano di già e che li chiamano. Non ci sono motivi gravi per lasciare il paese. «Qui possiamo praticare la nostra fede senza problemi – continua mons. Meram -. Quattro anni fa ho ricostruito la chiesa e un rappresentante del governo è venuto alla consacrazione; adesso stiamo costruendo una nuova sede arcivescovile».
Le sue parole si stavano facendo sempre più accalorate. «Penso che dobbiamo ringraziare Dio di vivere in un paese musulmano, in questo modo teniamo salda la nostra fede. E sì, perché l’Europa si sta scristianizzando. Guardi la Spagna. Zapatero non è un agnostico, ma uno che ha dichiarato guerra al cristianesimo. Tutto è lecito, ogni tipo di comportamento sessuale, ogni forma di manipolazione della vita.
Per un musulmano questa è la dimostrazione della superiorità della loro fede, e sa perché? Perché per loro l’Europa è una terra tutta cristiana, così come nei paesi islamici tutti sono musulmani. Per loro vale l’equazione: Europa = cristianesimo. Quindi, nella loro testa tutto ciò che accade in Europa è opera di cristiani. Così, quando è scoppiato il caso delle barzellette su Maometto, l’impressione che se ne è avuta qui è che siano stati dei cristiani a pubblicarle.
Quando il governatore della nostra provincia è venuto ad assistere a una messa in occasione dei 27 anni della rivoluzione islamica, giorno che coincideva con la presentazione di Cristo al tempio, ne ho approfittato per affrontare l’argomento. Gli ho spiegato che non bisogna mettere in conto quelle barzellette alla cristianità, perché in Europa, come nel resto del mondo, non esistono governi cristiani, semmai il contrario».
Le parole di mons. Meram non ammettevano repliche, né, d’altronde, io avrei avuto alcunché da replicare. L’arcivescovo di Urmia, che parlava un ottimo inglese, dimostrava di essere bene informato sulla situazione europea: era venuto diverse volte in Occidente e in quel momento davanti a lui, sul tavolo, c’era una nota rivista italiana d’attualità e politica.

Alla luce dei fatti recenti, qualcosa, però, si potrebbe aggiungere al suo discorso. Se è vero che i cristiani assiri e caldei non hanno motivi seri per abbandonare l’Iran, ciò non vale, purtroppo, per un altro paese musulmano. I loro confratelli che vivono al di là degli Zagros, in territorio iracheno, stanno attraversando uno dei peggiori periodi della loro storia millenaria: sono perseguitati per la loro fede e oggetto di continue minacce e violenze da parte di gruppi ed elementi che mirano alla totale islamizzazione del paese.
La cronaca riporta una serie continua di intimidazioni, attacchi a chiese e uccisioni di fedeli e religiosi. Nessuno è in grado di garantire la loro incolumità. Dal 2003 il numero dei cristiani in Iraq si è dimezzato e continua a diminuire. E come non fuggire, se per il solo fatto di portare al petto una croce si può essere impunemente ammazzati, come sotto i «Giovani turchi», che all’inizio del Novecento svuotarono il proprio paese della presenza cristiana?
Allora gli eccidi furono organizzati dal governo, adesso le violenze trovano terreno favorevole grazie al caos e alla mancanza di istituzioni credibili, ma il risultato potrebbe essere lo stesso. 

di Bianca Maria Balestra

Bianca Maria Balestra