Voci e lacrime attraverso il muro

Essere cristiani in Terra Santa oggi

Esperienze di viaggio, pellegrinaggio e permanenza  in Terra Santa si trasformano nella narrazione di piccole storie quotidiane. Racconti che parlano di fatica, violenza, sofferenza e resistenza dei cristiani che vivono nei territori occupati.

Il 10 ottobre 2008, il Centro di animazione missionaria dell’Istituto Missioni Consolata di Torino ha ospitato l’incontro-dibattito «Essere cristiani in Terra Santa: affrontare l’occupazione, riscattare la speranza».
La serata è stata promossa dalla rivista «Missioni Consolata», dalle edizioni Paoline, da Pax Christi e dalla redazione di «Infopal.it».
Erano presenti don Nandino Capovilla, referente di Pax Christi per la Palestina; Betta Tusset, di Pax Christi; Gianluca Solera, cornordinatore del network Anna Lindh per il dialogo tra le culture; p. Ugo Pozzoli, direttore di «Missioni Consolata»; Filippo Fortunato Pilato, direttore di «www.Jerusalem-Holy-Land.org»; Angela Lano, direttrice dell’agenzia stampa «Infopal.it», moderatrice dell’incontro.
Durante la conferenza sono stati presentati i libri: «Bocche scucite», di N. Capovilla e B. Tusset, edizioni Paoline; «Voce che grida nel deserto», di Michel Sabbah, (a cura di Nandino Capovilla), edizioni Paoline; «Muri, lacrime e za’tar», di Gianluca Solera, edizioni Nuovadimensione. 
Abbiamo rivolto alcune domande a Solera e Capovilla sulla situazione che descrivono in dettaglio nei loro libri.

La difficile quotidianità dei cristiani in Terra Santa

Essere cristiani in Terra Santa, quali sono le difficoltà e le sfide, che, nella vostra esperienza di viaggio e pellegrinaggio, avete potuto constatare?

Gianluca Solera: «Credo che la grande sfida consista nel saper vivere la fede in una situazione di oppressione politico-militare che determina tutta la storia di un popolo, e farlo parlando di speranza e riscatto alla propria gente.
Vorrei rispondere raccontando anche dell’esperienza del pellegrinaggio in sé. Lo spirito dei pellegrinaggi in Terra Santa soffre di un problema di poca permeabilità, dell’incapacità di voler entrare in contatto con le comunità cristiane locali senza ridursi a percorrere itinerari «museali» tra Santo Sepolcro e Monte delle Beatitudini. Come vincere questa resistenza alla permeabilità? Innanzitutto bisogna sconfiggere una pigrizia di fondo da parte dei promotori di pellegrinaggi, che spesso sono ciechi alla condivisione dell’esperienza del pellegrinaggio con la chiesa incarnata di Terra Santa. Per un qualsiasi pellegrino che non conosce la realtà locale, è molto difficile entrare in contatto e comunione con le comunità cristiane del posto. In secondo luogo bisogna sfidare la politica di separazione e isolamento imposta dalle autorità israeliane su villaggi e città palestinesi, che rende complicato l’accesso alle comunità cristiane in Cisgiordania. Sono convinto che un pellegrinaggio che non sfida quest’isolamento, è un pellegrinaggio povero umanamente e già morto in partenza nello spirito».
Don Nandino Capovilla: «I cristiani di Terra Santa sono essi stessi un appello vivente, fortissimo, alla presenza, alla condivisione delle loro sofferenze. Dai vescovi al credente: tutti aspettano con trepidazione che, dall’Occidente, arrivi qualcuno a sostenerli, a portare solidarietà, a conoscere la drammatica situazione in cui sono costretti a vivere sotto occupazione».

Sia in «Muri, lacrime e za’tar» sia in «Voce che grida dal deserto» e in «Bocche scucite» emerge, a un certo punto, il tema dell’«insicurezza» dei cristiani che vivono a Gerusalemme e in Israele. Essi si sentono trattati dalle autorità israeliane come «cittadini di serie B». Qual è la vostra esperienza?

Solera: «Ho percepito i cristiani soffrire in silenzio, quel silenzio che è proprio di chi si sente minoranza. L’insicurezza dei cristiani è anche quella dei musulmani, ovvero di tutti gli arabi israeliani che vivono in un regime di effettiva discriminazione e di isolamento. D’altro lato, i cristiani in quanto minoranza sono più esposti al rischio di scomparire, di vedere i loro diritti umani e civili calpestati giorno dopo giorno, di vivere la tentazione del ripiegamento nel privato. Il sinodo diocesano delle chiese cattoliche di Terra Santa, conclusosi nel 2000, ha sollevato questa questione e ha chiesto un impegno pubblico maggiore da parte della comunità cristiana araba in Israele. I risultati delle ultime elezioni politiche nel paese hanno manifestato questa volontà di emergere e di farsi ascoltare, con l’elezione, per la prima volta, di tre arabi cristiani a membri della Knesset (parlamento israeliano, ndr). Credo che sia la pista giusta. Maggiore senso di responsabilità pubblica da parte dei cristiani arabi di Israele e Gerusalemme significherebbe maggiore attenzione ai problemi effettivi della convivenza e coesistenza inter-religiosa e soprattutto maggiore azione sociale contro la discriminazione etnica in Israele».
Capovilla: «Sì, in Israele si sentono cittadini di serie B, perché lo stato continua a sostenere l’ebraicità come valore assoluto, quindi sia i cittadini cristiani sia i musulmani – cioè, gli arabi palestinesi – soffrono per le discriminazioni che colpiscono tutti gli ambiti della loro vita. Interessante è la sintesi tracciata da Sabbah nel suo libro:  “Noi siamo discriminati in quanto palestinesi, non in quanto cristiani”».

Persecuzioni islamiche
anti-cristiane?

In entrambi i testi sopracitati si parla di cristiani che lasciano la Palestina. Una certa informazione, anche italiana, punta il dito contro i musulmani. Tuttavia, sia monsignor Sabbah sia i religiosi intervistati da Solera smorzano queste tesi e accusano, invece, l’occupazione israeliana. Qual è la vostra opinione?

Solera: «Credo che non vi sia una volontà egemonica da parte dei musulmani palestinesi. La questione è che i numeri fanno la differenza, e i musulmani si fanno demograficamente più numerosi che i cristiani, con conseguenze materiali sulle regole e gli spazi della convivenza. Ma credo che la convivenza sia possibile, anzi necessaria per preservare la diversità, che è una delle ricchezze fondanti del “carattere palestinese”. Che le autorità israeliane possano usare possibili tensioni intee alla società palestinese non è da escludere, e fa parte delle armi utilizzate per indebolire la coesione sociale palestinese e quindi la capacità di lotta nazionale. Ho personalmente conosciuto dei palestinesi cristiani che, alle ultime elezioni politiche hanno votato Hamas in distretti quali Betlemme o Ramallah, e questo la dice lunga sulla complessità delle relazioni intee, che non si possono semplificare in una visione conflittuale interreligiosa».
Capovilla: «I cristiani non lasciano la Palestina a causa dei musulmani. Lo confermano le dichiarazioni autorevoli di Sabbah che, in “Voce che grida dal deserto”, scrive:  “Da alcuni anni è in atto una campagna che vorrebbe far risaltare un’ipotetica persecuzione dei cristiani da parte dei musulmani. Che vi siano difficoltà nei rapporti, per una ragione o per l’altra, tra maggioranza e minoranza, è comprensibile e avviene qui come in ogni altro contesto. Noi palestinesi, cristiani e musulmani, siamo un solo popolo. Abbiamo le radici nella stessa terra, la Palestina. Le apparteniamo entrambi”.  Le sue parole sono una garanzia del nostro dovere di smontare tale propaganda, che è favorevole e funzionale, in Occidente, ad alimentare lo “scontro di civiltà” e quindi la “crociata anti-Islam” attualmente in corso. Il patriarca ripete sempre: “Siamo una piccola minoranza e quindi ci sono problemi di convivenza, come in qualsiasi  società, ma è ben altra cosa approfittare di piccoli episodi di criminalità trasformandoli in atti di discriminazione anti-cristiani e in propaganda”».

Cos’è cambiato da quando Hamas ha vinto le elezioni, nel gennaio 2006, e come viene considerato il movimento islamico tra i cristiani?

Solera: «Ripeto, molti cristiani votarono Hamas per ragioni politiche. Non so se farebbero lo stesso ora, dopo aver conosciuto le conseguenze dell’embargo imposto dalla comunità internazionale, ma questa è un’altra storia. Tra alcuni cristiani vi è apprensione, si teme che un movimento politico di ispirazione islamica possa marginalizzare la comunità cristiana e stimolare passioni irrazionali anti-cristiane. A metà settembre, quando stavo a Gaza, incontrai alcuni cristiani e feci la stessa domanda: ne ricevetti una risposta insperata, ovvero che non si sentivano minacciati da Hamas, ma piuttosto dai conflitti intestini, e che “Hamas li lasciava in pace”. La conclusione che ne traggo è che la comunità cristiana soffre certamente dell’animosità Hamas – Fatah, esponendo i suoi membri ai rischi della spirale di una lotta politica fratricida, ma che l’emersione di Hamas quale movimento di ispirazione islamica non comporta necessariamente l’affermazione di una politica di persecuzione su basi religiose».
Capovilla: «Purtroppo, il nostro modo di percepire e comprendere le varie dimensioni del conflitto è spesso lontano dai fatti reali. I cristiani, pur essendo contrari a radicalismi fondamentalisti che si scontrano con la natura laica della Palestina, non hanno problemi con Hamas. Il loro rapporto non è negativo: ad esempio, le autorità di Hamas nella Striscia di Gaza dimostrano rispetto nei loro confronti».

Il Muro che nasconde
la sofferenza dei palestinesi

I pellegrini si accorgono del «Muro di annessione»?

Solera: «Purtroppo no, nella maggior parte dei casi. Anche quando raggiungono Betlemme provenienti da Gerusalemme, passando con l’autobus attraverso quell’orrendo muro alto quasi nove metri, non si rendono conto di cosa significhi essere circondati da una barriera di cemento. Non fanno l’esperienza fisica dell’isolamento a cui è sottoposto un qualsiasi cittadino di Betlemme. Purtroppo, per “accorgersi” del Muro, è necessario vivee almeno un poco le conseguenze, mentre le facilitazioni al transito concesse esclusivamente ai pellegrini contribuiscono a rendere falsa l’immagine che uno straniero porta a casa della politica di segregazione imposta con la costruzione del Muro. Un poco di condivisione della sofferenza della segregazione in Terra Santa non farebbe male ai nostri pellegrini, e lo dico con franchezza».
Capovilla: «Lo vedono con gli occhi, ma non lo percepiscono. Vengono subito istruiti dalla guida sui “motivi di sicurezza” sottostanti… Ormai, con questa scusa tutto è possibile: anche chiudere milioni di persone in una grande prigione. Da qualche anno a questa parte, tutti i venerdì, alle 17, a Betlemme, in prossimità dell’apertura del Muro destinata a lasciar passare gli autobus dei pellegrini, un gruppo di suore organizza un rosario. Una preghiera contro il Muro. Nonviolenta. I pellegrini vengono invitati a scendere dai pullman e a unirsi alla preghiera, ma nessuno lo fa…».

Cosa si può fare, o si sta già facendo, per sensibilizzare l’opinione pubblica italiana, in particolare quella cattolica?

Solera: «Si sta facendo molto, ma sempre poco se compariamo gli sforzi di informazione e sensibilizzazione compiuti con il numero importante di pellegrini che visitano la Terra Santa senza un’adeguata preparazione culturale e politica. Quando si prega per la pace in Terra Santa, lo si fa spesso con quell’astrattezza e neutralità che rivela una mancanza di conoscenza della reale quotidianità delle comunità cristiane di Terra Santa. Credo che un buon modo di pregare per la pace sarebbe quello di gemellarsi con una delle molteplici parrocchie della Palestina, a cominciare da quelle più isolate, come quelle di Gaza o di Nablus. In altre parole, vedo necessaria una campagna di “adozione” delle parrocchie palestinesi da parte delle nostre e un lavoro pubblico che non esiterei a definire di contro-informazione sui cristiani di quella regione».
Capovilla:  «È importante preparare i pellegrini che partono, attraverso un lavoro paziente, spirituale e anche storico. Questa “apertura degli occhi” è un dovere morale e spirituale, pastorale, ancor più doveroso per noi, come cristiani».

Ebrei e israeliani «contro l’occupazione»

In Israele ci sono gruppi, movimenti, singoli cittadini ebrei che sostengono e lottano a fianco dei palestinesi. Sono gli «israeliani che chiedono giustizia»: Parents’ Circle, Icahd di Jeff Halper, i Refuseniks, i Naturei Karta, Bat Shalom, giornalisti come Amira Hass e Gideon Levy, storici come Ilan Pappe e tanti altri di cui i nostri media non parlano mai. Che peso hanno, secondo voi, queste organizzazioni e queste persone, in Israele?

Solera: «A metà settembre di quest’anno, ho incontrato Gideon Levy a Tel Aviv e Amira Hass a Ramallah, e ho posto loro la stessa domanda. Questi movimenti sono l’anima critica, la parte più sana della società civile israeliana che rifiuta di cadere nella logica dominante di disumanizzazione dei palestinesi e di compressione dei valori e delle libertà civili all’interno di Israele. Certo sono una minoranza, ma una minoranza necessaria, che rifiuta di parlare di pace senza giustizia. Debbo anche riconoscere, tuttavia, che la frustrazione e il pessimismo si sono accumulati in questi anni anche tra queste voci coraggiose. Gideon Levy riceve continuamente minacce verbali dal pubblico ebreo israeliano, e questo logoramento indebolisce anche lo spirito di un giornalista come lui. Amira Hass, che continua a vivere a Ramallah, è ancora più pessimista sul livello di apertura dei suoi concittadini verso un dibattito franco sulle cause profonde della crisi israelo-palestinese, e si aspetta un ciclico ritorno alla violenza, quasi che solamente la sofferenza possa scuotere le coscienze. Durante lo stesso viaggio, ho incontrato molte delle organizzazioni israeliane che lottano contro l’occupazione. Tutte hanno segnalato il rischio che alcuni settori del potere israeliano cerchino di “normalizzare” i rapporti israelo-palestinesi anche attraverso iniziative della cosiddetta società civile. La “normalizzazione” è una parola che non piace alle organizzazioni anti-occupazione, e l’unico modo per evitarla è avere propositi chiari ed espliciti ed azioni coerenti con essi, perché la “normalizzazione” è percepita dai palestinesi come un tentativo di pacificare senza giustizia. Oggi come oggi, queste organizzazioni sono in difficoltà anche logistica, e richiedono il nostro sostegno politico, civico e anche finanziario. Il loro successo starà nella capacità di creare spazi “binazionali” in cui ebrei israeliani e arabi lavorino insieme per un’alternativa alla politica di segregazione (come fanno ad esempio Parents’ Circle e Combatants for Peace). La loro missione consiste nel continuare a protestare sui cantieri del Muro e nel sensibilizzare israeliani e palestinesi sulla necessità di trasformare il loro modo di pensare il conflitto.
Queste organizzazioni sono accomunate da una visione critica del processo di pace e dell’iniziativa di Annapolis (Usa), del novembre 2007; credono che le parti che negoziano siano deboli e delegittimate di fronte all’opinione pubblica, e vogliono lavorare su un terreno più ampio che quello dell’opposizione alla costruzione degli insediamenti o del Muro di separazione. Ovvero, sulla memoria, sulla pianificazione territoriale alternativa, sulla demilitarizzazione della società, sugli stereotipi culturali, sulla preservazione delle risorse naturali come l’acqua, e soprattutto sulla formazione di un pensiero critico tra le persone. Gideon Levy mi diceva: “La società israeliana ha bisogno di uno scossone (breakthrough) emotivo”. Per questo, il lavoro coraggioso di queste organizzazioni che alcuni israeliani vorrebbero bollare come “traditrici della patria” è così importante».
Capovilla: «Io credo che la loro presenza incida più di quello che vediamo. Mons. Sabbah risponde a questa domanda puntando lo sguardo sulle future generazioni. Speriamo che esse possano superare i blocchi del passato e aprirsi alla dignità di tutti gli esseri umani e al rispetto dei diritti civili».

Violenza e nonviolenza
in Palestina

Il tema della «resistenza nonviolenta» è caro a molti cristiani e musulmani impegnati per la giusta soluzione alla causa palestinese, e mons. Sabbah ne parla ripetutamente nel suo libro. I villaggi palestinesi di Nil’in e Bil’in, ma non solo, ne sono un coraggioso esempio. Che cosa ne pensate?

Solera: «È sicuramente una strada da percorrere, e l’esempio di Bil’in, dove tutti i venerdì, da tre anni, gli abitanti del piccolo villaggio palestinese di Bil’in manifestano contro la costruzione del Muro è straordinario. Tuttavia, credo che non possa essere esclusiva. Come mi diceva Molly Malekar, direttrice dell’associazione di donne israeliane Bat Shalom che lavora per una giusta riconciliazione, i soldati del suo paese hanno picchiato pure lei durante una manifestazione non-violenta contro il Muro. Ovvero, il messaggio di Malekar era: “Non dobbiamo illuderci che la pratica non-violenta possa essere sufficiente a debellare la macchina dell’oppressione e a indebolire la forza militare e la volontà politica israeliana”. Condivido questa preoccupazione. Credo che si debba simultaneamente lavorare alla costruzione di un pensiero critico e alternativo dentro la società israeliana. D’altro lato, non possiamo neppure negare il diritto alla resistenza dei palestinesi, che potrebbe manifestarsi anche in modo armato, sempreché rispettino i canoni del diritto internazionale, che richiede, ad esempio, di non coinvolgere civili e inermi in eventuali scontri o azioni di difesa. Se da un lato dobbiamo ammettere che la resistenza palestinese non sia stata sufficientemente creativa e si sia definitivamente screditata con l’utilizzo dei kamikaze, d’altro lato dobbiamo riconoscere ai palestinesi il diritto all’autodifesa, e aiutarli a trovare il modo più efficace di esercitarlo, senza ulteriormente alimentare il vortice cieco della vendetta e della ritorsione violenta. Come cristiani è un dibattito difficile, ma necessario. Credo che la cultura della nonviolenza possa contribuire a ridisegnare i termini della legalità dell’uso della violenza stessa, che attualmente poteri statali come quello israeliano pretendono esercitare con diritto in forma esclusiva».
Capovilla:  «Con la nonviolenza si può: Michel Sabbah ha fiducia in questo mezzo. La forza sta nel lavoro sotterraneo e nel non valutare il risultato dall’effetto immediato, che è tipico, invece, della violenza».

«La pace è nelle mani di Israele», afferma Sabbah, che aggiunge: «l’ostacolo più grande alla pace è rappresentato dall’occupazione militare israeliana». Perché in Occidente si pensa che, invece, tutto dipenda dai palestinesi e che Israele non abbia «interlocutori validi»?

Solera: «Credo che tre siano le ragioni: il senso di responsabilità storica nei confronti degli ebrei, che ci porta a esser parziali nel nostro giudizio; il senso di prossimità culturale maggiore nei confronti degli israeliani, percepiti come europei rispetto agli arabi o ai musulmani, per i quali proviamo invece un inconscio sentimento di diffidenza, se non di ostilità; infine, la scarsa informazione disponibile in Occidente sulla vita che si svolge nei territori occupati. Quest’ultima ragione ha giocato un ruolo decisivo nel convincermi a scrivere il mio libro. Contribuire a diffondere in Occidente un’informazione corretta e prossima alle ragioni dei più oppressi è un imperativo per coloro che come noi hanno conosciuto la realtà dei territori occupati».
Capovilla: «Dobbiamo rilevare con amarezza che di fronte allo stato di Israele, ogni critica è avvertita come un attacco al popolo ebraico. Questo impedisce di accettare che la pace sia davvero nelle mani di Israele, come dice Sabbah».

Cisgiordania e Gaza sotto assedio

La popolazione palestinese, a Gaza e in Cisgiordania, è ormai allo stremo. Quali azioni di solidarietà ritenete valide e possibili?
Solera: «Due sono le azioni necessarie: rompere l’embargo e l’assedio a cui è sottoposta soprattutto la Striscia di Gaza, e sostenere politicamente i movimenti palestinesi. Molti dei palestinesi che ho incontrato mi dicevano:  “Non vogliamo il vostro pane, ma il vostro sostegno politico”. Ridurre la Palestina a un problema umanitario significa confondere le conseguenze con le cause, e contribuire indirettamente a mantenere lo status quo».
Capovilla: «Ci sono tantissime iniziative di solidarietà con il popolo palestinese, ma i media non ne parlano mai. Hanno prestato attenzione alla missione del Free Gaza Movement, forse perché più eclatante o forse perché a bordo delle due imbarcazioni, che ad agosto sono giunte al porto di Gaza rompendo virtualmente l’assedio, c’erano alcuni personaggi di spicco internazionale. In generale, i mezzi di informazione non parlano delle azioni di sostegno alla popolazione assediata, quindi, molti pensano che non si faccia nulla…».

Gerusalemme assiste a una forte ebraicizzazione, sia dal punto di vista urbanistico sia culturale e sociale. I luoghi santi cristiani e musulmani sono a rischio?

Solera: «Certamente lo sono in quanto luoghi di fede vivi, spazi sociali per cristiani e musulmani. Non credo che i luoghi sacri rischino la distruzione fisica. Ciò che mi preoccupa è che vengano trasformati in “reliquari” di archeologia religiosa, a cui non possono accedere i credenti locali per pregare o per incontrarsi. La giudaizzazione di Gerusalemme è anche questo: decomporre gli spazi comunitari e collettivi delle comunità cristiana e musulmana locali e banalizzare il patrimonio storico religioso a recinti di memoria».
Capovilla: «Non penso sia questo il problema reale, quanto piuttosto il fatto che il volto della Città Santa è ormai sfigurato. E ciò la mette a rischio di non poter diventare, un giorno, la capitale dello Stato palestinese. La stessa diplomazia internazionale che non concede a Israele di spostare a Gerusalemme le sedi delle ambasciate straniere dovrebbe impegnarsi affinché essa non diventi possesso di un solo Stato, di una sola comunità». 

Di Angela Lano

Angela Lano




Cari missionari

Giustizia per tutti…

Egregio Direttore,
mi permetto di fare qualche appunto all’articolo di padre Giuseppe Ramponi sul vescovo ecuadoregno Eduardo Proaño (M.C. 7-8 2008, p.16)) e, in genere, sul tono di moda in questi decenni, una visione dei popoli vicina a Rousseau: popoli originariamente buoni e dalla vita sociale quasi paradisiaca, rovinati completamente dai cattivi europei per di più cristiani.
L’evangelizzazione dell’America Latina ha le sue ombre, ma anche le sue luci: Turibio di Mongrovejo e Pietro Claver ne sono piccoli esempi… C’è poi la mentalità in molti popoli di dare sempre la colpa ad altri dei loro mali, ai cattivi sfruttatori: ieri il colonialismo, oggi il mercato globale e capitalismo selvaggio…
Noi popoli dell’Europa a chi dobbiamo chiedere i danni? Ai cartaginesi, ai romani, agli unni, ai mongoli, ai turchi… Siamo usciti da una lunga storia di guerre, stupri, pestilenze, fame e miserie d’ogni genere… A scuola ci hanno insegnato l’aspetto positivo della cultura greca che con Alessandro Magno ha unificato il mondo antico, così come poi il latino con Roma e con la chiesa: e oggi l’inglese, il francese, lo spagnolo non hanno forse portato anche qualcosa di buono nella crescita dei popoli?
L’ America Latina e specialmente l’Africa sono state evangelizzate, o meglio scolarizzate, da migliaia di missionari e missionarie usciti da tante povere famiglie e, pur con tutti i loro limiti, non sono andati in paesi lontani per imporre i loro usi e costumi e neppure per portare la rivoluzione delle armi, ma un po’ di vangelo secondo le loro capacità. Anche la grande emigrazione dall’Europa verso le Americhe non è stata principalmente un fatto di potenti contro poveri, ma un incontro e uno scontro di poveracci con poveracci. In Europa abbiamo impiegato più di mille anni per capire che forse è meglio non scannarci a vicenda e formare invece una comunità.
La creazione geme nelle doglie del parto… Il mondo nuovo, dove la giustizia ha stabile dimora, verrà dopo la fine di questo… saluti e buon lavoro.
Don Silvano Cuffolo
Oropa (BI)

Grazie, don Silvano, per questa sua riflessione. Siamo d’accordo. Ma intanto dobbiamo darci da fare perché il Regno di pace e di giustizia per tutti cresca già in questo mondo.

«Chi inquina uccide»,
non solo con i Suv

Dopo la lettura delle pagine dedicate ai Suv (M.C. 2-2008 p. 66-67) sono ancor più convinto che l’acquisto degli Sport Utility Vehicle sia una moda più che una necessità, un cedimento alla macchina pubblicitaria più che la risposta alla domanda di sicurezza sulle strade. Al tempo stesso mi sembrano doverose alcune puntualizzazioni.
Primo: anche la critica al Suv rischia di diventare una moda, se è disgiunta dalla critica a tutto un modo di concepire il diritto al lavoro, mobilità, svago. Consideriamo, ad esempio, il settore della pesca: l’aumento del prezzo del gasolio ha messo in grossissima difficoltà le compagnie; ci sono state molte agitazioni, scioperi, richieste di aiuto economico all’Unione Europea, oltre che ai governi nazionali e alle amministrazioni locali. Ma una congiuntura economica drammatica come questa non dovrebbe essere anche l’occasione per cominciare a prendere finalmente e seriamente in considerazione l’ipotesi di sfruttare le risorse del mare in modo più saggio, più equilibrato, più responsabile?
Se è vero, come è vero, che alcuni colossi della navigazione commerciale (Cosco Container Lines, K Line, Yang Ming, Hanjing Shipping, ecc…) hanno raggiunto un accordo sulla riduzione delle velocità delle loro navi da 25 a 21,5 nodi e probabilmente si accorderanno per ulteriori riduzioni (studiosi e tecnici hanno calcolato che una diminuzione della velocità del 10%, per un portacontainer può significare una riduzione del consumo di combustibile del 30%), perché non si dovrebbe trovare un’intesa analoga anche per il settore della pesca e per quello della navigazione da diporto?
E quell’Europa che spinge tanto per la rottamazione, ridimensionamento e rinnovamento delle flotte pescherecce (troppi i pescatori, troppi e troppo vecchi i natanti), non potrebbe spingersi un tantino più in là ed esigere da armatori e costruttori la messa in atto di tutti gli accorgimenti e soluzioni aerodinamiche che la modea tecnologia offre, per consentire all’uomo di lavorare e magari anche di divertirsi in mare senza rovinarlo?
Secondo: non mi convince affatto la linea scelta da alcuni governi nazionali e, soprattutto, locali che hanno deciso di far pagare l’ingresso dei Suv nei centri storici (a Londra, per esempio, Jeep & C. entrano solo se pagano l’equivalente di 33 euro al giorno…). È una cosa altamente diseducativa, una ignominiosa resa alla logica del «vuoi inquinare? Paga!».  No, cari premier e cari sindaci, sempre più innamorati delle tasse, erano molto più convincenti ed educative le domeniche senza auto: quelle che, nell’ormai lontano inverno 1973-1974, trasformarono non solo le città, ma anche le strade extraurbane (autostrade comprese) in piccoli paradisi.
Vorrei ricordarvi che chi inquina uccide: lo ha detto tante vole anche papa Giovanni Paolo ii, lo ha ribadito il suo successore; e su MC lo hanno documentato magnificamente il dott. Topino e la dott.ssa Novara.
In uno stato che funziona nessuna autorità può dire a chicchessia «vuoi uccidere? Paga!». No, in uno stato di diritto non può esserci spazio per approcci del genere, che non differiscono molto da quelli che caratterizzano il mondo dei contrabbandieri, bracconieri, camorristi, mafiosi.
Nessun medico serio si permetterebbe di dire a un paziente, pieno di problemi a causa della sua golosità, «per contenere i danni della gran mangiata e gran bevuta che ti farai, ingoia questa pasticca, fatti questa iniezione».
Smettiamo, quindi, di prendere di mira i proprietari di Suv, come se fossero tutti gradassi, prepotenti, ubriaconi, carnefici, e di difendere gli altri automobilisti, motoscornoteristi, camionisti, come se fossero tutti umili, sobri, vittime. Ridimensioniamo anche la storia che chi mangia pesce, rispetto a chi mangia carne, fa meno male alla salute propria e agli equilibri planetari: sia in mare che nelle acque intee, la pressione sulle risorse ittiche ha raggiunto livelli intollerabili, così come è intollerabile la tragedia delle morti bianche a bordo delle imbarcazioni: fonti Fao riportano che «ogni giorno almeno 70 persone muoiono in incidenti di pesca nei mari dei quattro continenti», numero ben maggiore di quello che si riscontra in edilizia e agricoltura.
Guglielmo De Tigris
Urbino

UN MURO CHE NON DIVIDE

Il 20° secolo, il più sanguinario che la storia ricordi, ha dato luogo a catastrofi umane senza precedenti, che hanno leso la dignità di milioni di persone. A 90 anni dalla fine della Grande guerra, la parrocchia di Ciano del Montello ha voluto realizzare, nel piazzale della chiesa, un «Monumento alla pace», inaugurato la sera del 27 settembre scorso.
Questo piccolo lembo di terra veneta, in prima linea ai piedi del Montello e lambito dal fiume Piave, fu teatro di avvenimenti drammatici e vide i suoi abitanti lasciare i luoghi natii come profughi o combattenti, pagando un prezzo altissimo in termini di vite umane e privazioni generalizzate, senza dimenticare i caduti dei paesi all’epoca nemici. 
L’intento principale dell’iniziativa è quello d’attuare una sorta di consegna intergenerazionale, per far sì che il ricordo sopravviva nella memoria e divenga, nel tempo, segno concreto per la tutela della libertà e della pace.
Il parroco, don Saverio Fassina, e gli animatori dei gruppi estivi si sono fatti promotori dell’opera, riflettendo a lungo su come poterla realizzare in maniera da rendere protagonisti i bambini e i giovani, così lontani nel tempo da quei tragici eventi, eppure eredi e diretti destinatari di sottesi messaggi di speranza per l’avvenire.
Avvalendosi della professionalità dell’architetto Giampaolo Blandini, si è scelto di valorizzare il muro dell’antico cimitero, che un tempo sorgeva accanto alla chiesa, applicandovi formelle in ceramica variopinta, create dai ragazzi, e aventi come tema predominante la pace. Accanto a queste ne sono state inserite altre, provenienti da viaggi o pellegrinaggi in diversi paesi del mondo, spesso martoriati, quali Etiopia, Palestina e Irlanda; esse contengono non solo messaggi iconografici, ma anche simbologie cristiane. Sul muro s’incontrano altresì iscrizioni islamiche, giunte dal Marocco, per affermare quella vicinanza umana che vuole andare oltre le etnie e le confessioni religiose.
Chiunque giunga in questi luoghi può sentirsi, così, accolto dalle parole: «La pace sia con te», espresse in varie lingue, fedi e immagini. Queste sono le «pietre vive» che coesistono, si sovrappongono e dialogano.

Il fulcro di tutto il progetto si sviluppa su un’area quadrata di circa quattro metri per quattro. Su uno dei lati è rappresentata il Montello, con tralci d’uva ed elementi plastici che rimandano alle case e chiese del territorio; sull’altro vi è un richiamo al Monte Grappa, definito da alti alberi e percorso da aneliti di vita, prematuramente spezzati…
Nel mezzo della composizione è collocata una fontana per quanti, assetati d’acqua e di giustizia, si fermeranno per trovare ristoro. Alla base di questa sono disposti i sassi del fiume Piave, di diverse dimensioni e fattezze, per evocare l’incertezza traballante di passi confusi, tormentati da angoscia e paura. L’acqua, elemento vivificante, intende favorire la purificazione della memoria, personale e collettiva, e la rinascita.
Per evidenziare maggiormente questa idea di rinnovamento, un velo d’acqua ha il privilegio di scorrere sui versi di una poesia dell’ecuadoriano Jorge Carrera Andrade (1903 – 1978), pioniere della difesa della natura e della bellezza del mondo, sulla quale vedeva incombere il rischio dello sfregio di una ragione senza spirito.
«Verrà un giorno più duro degli altri:
scoppierà la pace sulla terra
come un sole di cristallo.
Un fulgore nuovo avvolgerà le cose.
Gli uomini canteranno nelle strade
liberi ormai della morte menzognera.
Il frumento crescerà sui resti delle armi distrutte
e nessuno verserà il sangue del fratello.
Il mondo allora sarà delle fonti
e delle spighe che imporranno il loro impero
d’abbondanza e freschezza senza frontiere».

La speranza è che quanti lo desiderano, piccoli o grandi, continuino ad apporre nuove formelle, provenienti da diversi luoghi ed esperienze, su questo «muro di pace». L’intero complesso è concepito, pertanto, come un’opera in divenire, un monumento vivo.
In questi luoghi, quasi completamente distrutti dalla guerra, bambini e ragazzi di Ciano, tramite questa esperienza, hanno compreso in maniera tangibile che l’infanzia e la giovinezza sono un momento privilegiato per diventare, in prima persona, portatori e costruttori di pace. Il compito loro affidato è di diffondere questo giornioso messaggio. In opere e parola. Perché non sempre i muri dividono.
Rosella Cervi
Ciano del Montello (TV)




Sogno un Natale …

Notte di Natale, la più santa che ci sia, con stelle, campane, musica celestiale. Quanto vorrei che assieme a tutta questa luce e poetica tenerezza ci fosse anche la visione di Dio, per capire se siamo sulla stessa sintonia o se ci perdiamo in un’altra lunghezza d’onda con un mondo, una vita e un sentire completamente differenti.
Io so che quel bambino adagiato sulla paglia in una stalla, perché la povertà dei suoi genitori non consentiva di avere un altro posto, era figlio di Dio. Non vennero riconosciuti i suoi diritti di Signore del cielo e della terra per i tratti umani che mostrava. Che tragico errore di categorie mentali ingiuste che condannavano Dio solo perché si mostrava uomo povero! Che tragedia! Avessero mai saputo o anche soltanto immaginato che in quel bambino si celava la pienezza della natura divina… chissà che feste, che celebrazioni imponenti e spettacolari.
Nelle sacre scritture non ho mai letto che Dio ordinava la preparazione di liturgie straordinarie. Ha sempre ribadito di preferire la misericordia, di dare priorità al diritto e alla giustizia. Dio ha fatto sapere esattamente cosa vuole. È ancora scritto e nessuno lo ha cancellato: «Io voglio – dice Dio – essere per voi un padre, e che voi siate miei figli».
Lungo i secoli, i «devoti» hanno costruito una serie di esigenze, che sono entrate nella mentalità comune, e tutti accettano pacificamente sacrifici, offerte, olocausti, manifestazioni gloriose.

Nel mondo indio, che ho conosciuto direttamente, la festa di Natale è quasi ignorata come celebrazione trionfale, a differenza degli altri che invece si indebitano, per fare cose pompose e straordinarie da ricordare e vantarsene. Gli indios ne rimangono ai margini, partecipandovi solo se ingaggiati come comparse per i balli folklorici, che accompagnano le parate e le processioni del Bambin Gesù. Ricordo che non ho mai avuto fede accogliente per queste celebrazioni natalizie, dove si mangia e si beve, ma non nasce niente di Gesù, di Cristo, di Figlio di Dio, di Padre Divino.

Io sogno un Natale che fa nascere un mondo differente, un mondo che viene affidato alla nostra fede e alla nostra carità per diventare senza mali, senza offese e discriminazioni, senza ostentazioni a scapito della solidarietà amata e promossa a tutti i livelli, comunitari e sociali. Il Natale è Dio che si è avvicinato per essere padre e figlio, per incarnare il suo amore e la sua misericordia. Natale vuol dire che la grazia diventa grazia ricevuta e Dio, finalmente, può arrivare a tutti, con la sua benevolenza e dolcezza. In questo modo, il Natale diventa la più bella notizia per l’uomo e per il mondo, canto di dignità per il povero e l’umiliato, sorgente perenne di libertà e speranza per tutti.
Non succeda mai che si celebri il Natale di Gesù, senza far posto alla sua nascita nella nostra vita. Non ci può essere Natale di Gesù senza la sua nascita in noi.

Giuseppe Ramponi