Cina: Anche gli Uiguri vogliono esistere

Reportage dal Xinjiang

Sono 8 milioni gli uiguri, popolazione altaica di
religione musulmana.  Abitano il Xinjiang, regione nell’estremo
Nord-Ovest cinese, dove il governo centrale sta inviando – già dal 1950
– gente di origine han, che ha occupato tutte le posizioni strategiche.
La pratica islamica è fortemente limitata, come l’uso della lingua
uigura. Pechino non ammette discussioni su una regione dalla posizione
strategica e ricca di risorse minerarie. Ma il movimento separatista
non si dà per vinto, nonostante sia stato inserito tra le
organizzazioni terroristiche.

«Siamo di Kucha (1), ma
da tre mesi viviamo in quella tenda». Milawa indica un accampamento
improvvisato di fianco alla profonda buca che sta scavando. Mentre
parla, il suo yaglik, il velo islamico, si scosta e lascia intravedere
una ciocca di capelli corvini. «Aiuto Memtimin Akhun (2). Ormai lui è
anziano e questo lavoro gli è diventato faticoso» racconta la donna,
mentre l’uomo si sistema il doppa, il tradizionale copricapo uiguro.
Memtimin
e Milawa sono due dei circa 8 milioni di uiguri che popolano la regione
autonoma del Xinjiang 新疆, letteralmente «nuovi territori».
Il letto
del fiume Yulong 玉龙  (3) attraversa la storica città di Khotan (4), ed
è uno dei pochi luoghi dove ancora si trova la giada. «Lavoriamo qui da
marzo a settembre – continua Milawa -, ma alcuni di noi scavano tutto
l’anno, sotto la pioggia e la neve, nella speranza di trovare
qualcosa». I cercatori di giada lavorano a mani nude con pale e
picconi, incuranti di eventuali frane o piene che la stagione calda può
riservare. «Ogni anno in media muoiono quindici persone, molti sono
bambini». Dice il settantenne Memtimin Akhun. Mostrando le mani
callose, continua: «Da quando siamo qui abbiamo trovato due pietre: per
una piccola i commercianti cinesi ci danno 900 kuai (circa 90 euro,
ndr), ma se la pietra è grande e pura possiamo arrivare a guadagnare
15.000 kuai (circa 1500 euro, ndr)». Nel frattempo sono arrivati due
compratori han, mentre parliamo le contrattazioni si fanno serrate.
Lasciato il letto del fiume e la periferia della città, ci spostiamo
nel centro di Khotan: nei negozi di oggetti di giada, in uno dei corsi
principali della città e tutti gestiti da cinesi han, i prezzi dei
preziosi oscillano dai 20 ai 300 mila kuai. Tutte le attività hanno i
laboratori annessi, sul retro, dove gli incisori lavorano senza sosta.

C’era un tempo in cui…

Gli
artigiani della giada un tempo erano uiguri, oggi non hanno più la
possibilità, soprattutto per ragioni economiche, di praticare questa
antica arte. Durante la dinastia Qing (5), fuori dalle mura della
«Città proibita», a Pechino, c’era il quartiere musulmano uiguro, oggi
via Xichangan: vi erano orafi, artigiani della giada, danzatori e
musicisti. Secondo la leggenda, l’imperatore Qianlong lo fece costruire
per la sua amatissima concubina, originaria di quelle lontane terre
occidentali, la leggendaria Xiang Fei (6), appena catturata dai
territori conquistati: la ragazza aveva nostalgia di casa, per questo
passava la vita alla finestra, osservando la vita e l’attività del
quartiere appena fuori le mura, dalla torre in cui abitava, reclusa.
Popolazione
altaica, gli uiguri parlano una lingua del ceppo turcico scritta in
caratteri arabi, sono di religione musulmana e si sentono parte del
cuore dell’Eurasia (7), i territori comunemente chiamati Asia Centrale.
Costituiscono ancora la maggioranza nella regione, che formalmente è
autonoma, ma di fatto il controllo delle autorità centrali e del
Partito comunista è percepibile in tutti i settori della vita pubblica
e privata della popolazione. Dagli anni Cinquanta, con la fondazione
della Repubblica popolare, incoraggiate dal governo centrale, le
migrazioni di cinesi han, l’etnia maggioritaria in Cina, stanno
ridisegnando il volto di questa area, che Pechino considera di
importanza cruciale, soprattutto per i suoi confini con gli stati
centroasiatici e le sue risorse energetiche, tra cui petrolio e uranio.
Pechino vede lo sviluppo economico del Xinjiang come un suo grande
successo e un’ottima strategia per preservare l’unità nazionale.

Se il Xinjiang
si chiamasse Uyghuristan

«Siamo
un popolo orgoglioso e fiero della nostra cultura». Abdulwahab alza la
voce per farsi sentire, mentre danze e musiche catalizzano l’attenzione
dei partecipanti al matrimonio di un lontano cugino, «La nostra storia
e la nostra cultura sono ricche di incontri e influenze dall’antica
Persia, dall’India e dalla Cina. Questo ci dà qualcosa in più, possiamo
vantare una tradizione che ha preso il meglio di queste grandi
civiltà». Il matrimonio per gli uiguri è un’occasione per stare insieme
a parenti e amici, ma anche per conoscere nuove persone, che spesso
vengono invitate per strada. Il ballo si scatena al ritmo del dap
(tamburo suonato a mano), del dutar (strumento a due corde di seta dal
lungo collo), del tämbur (lunghissimo liuto a cinque corde metalliche),
del balaman (corto strumento a fiato a due canne verticali con sette
cavità per le dita, che si accorda con una canna orizzontale fissata
vicino alla parte superiore dove c’è la bocca) e altri strumenti a
corde e a fiato finemente intagliati e ricoperti da pelli, generalmente
di rettili (8).
Situata nell’estremo Nord-Ovest cinese, grande tre
volte la Francia, la regione fu conquistata definitivamente nel XIX
secolo, durante le campagne espansionistiche della dinastia Qing. I
suoi confini con Mongolia, Russia, Kazakhstan, Kyrgyzistan, Tagikistan,
Afghanistan, Pakistan e India la rendono una regione strategica,
rappresenta un ponte per l’Asia centrale, che attira la Cina come fonte
di risorse e nuovi mercati.
Molti uiguri vorrebbero chiamare il
Xinjiang «Turkestan Orientale» o «Uyghuristan», termini che possono
valere il carcere se pronunciati pubblicamente: coloro che vengono
sorpresi a parlarne vengono tacciati di separatismo. La fisionomia
della gente varia dall’occhio a mandorla con zigomo alto, capelli neri
e pelle scura, fino al biondo con occhi chiari. Vivono tra deserti,
steppe, depressioni e altopiani battuti dai venti, in origine erano
nomadi dediti alla pastorizia e si spostavano attraverso la Mongolia e
in tutto il centro Asia. Dal IX secolo sono stanziali e vivono
principalmente nelle oasi a sud del deserto del Taklamakan,
letteralmente «dove entri e non esci più». Kashgar, Khotan, Yarkand e
Yenghissar: in passato questi centri erano antichi e potenti regni
buddisti situati sul segmento meridionale della Via della seta,
diventati musulmani nel XIV secolo quando l’islam conquistò quelle
terre soppiantando buddismo,  nestorianesimo e manicheismo.

Urumqi
e un museo
con troppi segreti

«I
primi annali cinesi riferivano degli stravaganti barbari alle frontiere
occidentali: una marmaglia dalla pelle bianca e i capelli rosso acceso,
nasi enormi e occhi verdi o azzurri» (9). Victor H. Mair, sinologo e
archeologo che ne ha studiato le origini, sostiene che siano
discendenti dei Tocari, antico popolo indoeuropeo che viveva nel bacino
del Tarim nel III millennio a.C. Secondo questa teoria, una tra le
tante sulle origini di questo popolo, i loro antenati riposano nelle
teche e nei magazzini del museo di Urumqi, capitale del Xinjiang.
Furono
gli archeologi Sven Hedin, Albert Von le Coq e Aurel Stein a trovare
decine di mummie seppellite e preservate dalle sabbie del deserto del
Taklamakan. In seguito a queste prime spedizioni del XX secolo ce ne
furono tante altre che portarono alla luce più di cento corpi. La
statura e le fattezze delle mummie preoccupano il governo cinese: sono
alti, dal metro e ottanta ai due metri, i resti dei capelli sono
chiari, le fattezze dei visi vicine a quelle europee. Gli abiti e le
maschere, preservati dal clima secco e dal terreno alcalino del bacino
del Tarim, sono decorati e rifiniti con tecniche e motivi tipicamente
indoeuropei.
Scoperte scomode per le autorità, che tardano a dare
i permessi per fare i test genetici: e se queste verifiche attestassero
origini non cinesi delle mummie? È un interrogativo scottante, il
governo teme che i separatisti uiguri si possano avvalere di questo
eventuale risultato per rafforzare le loro tesi indipendentiste. Il
tempo passa e gli antichi corpi continuano a deteriorarsi nei magazzini
dei musei cinesi, ma nel 2004 gli archeologi riescono a far prevalere
le necessità scientifiche sugli intrighi e le controversie politiche.
Gli studi hanno collocato le esistenze degli antichi uomini tra i 4000
e i 3000 anni fa, mentre i test genetici hanno rilevato un Dna europeo,
provando definitivamente che i primi popoli della Cina occidentale non
erano estremo orientali. Archeologi e studiosi stanno cercando di
capire la provenienza di queste popolazioni e il motivo che li aveva
spinti a insediarsi in quelle aree. Il saggio di Victor H. Mair The
Tarim – Mummies: Ancient China and the Earliest Peoples from the West –
analizza scientificamente molti degli enigmi di mummie che nei circoli
scientifici e storici sono considerate alla stregua di quelle egizie,
ma che, per motivi essenzialmente politici, il grande pubblico
difficilmente ne sente parlare. Solo qualche esemplare è esposto ora al
museo di Urumqi.

Uiguri ed han:
esistenze parallele

«I
miei studenti non trovano lavoro. Alcuni sono già laureati ma le
aziende cinesi preferiscono assumere gli han». Nabjan insegna inglese
in una scuola privata di Ghuljia, città al confine con il Kazakhstan, e
mentre parla si guarda nervosamente intorno: nonostante siamo in un
mercato e siano le 11 del mattino, ha paura, la polizia e i corpi
anti-sommossa pattugliano la città 24 ore su 24, e chi viene sorpreso a
parlare con occidentali rischia come minimo un interrogatorio. I suoi
occhi azzurri sembrano privi di speranza, ma a un certo punto si
illuminano: «Per noi è difficilissimo e molto costoso ottenere il
passaporto, non è che ci puoi dare una mano dall’Italia?».
Uiguri e
han costituiscono oggi l’85% della popolazione della multietnica
regione, si incontrano difficilmente, più spesso si scontrano. Le loro
vite sono esistenze parallele: i centri urbani sono prevalentemente
abitati da han, gli uiguri vivono invece in appositi quartieri e nei
villaggi rurali. La regione è una tra quelle dove il gap città-campagna
è più alto, nonostante i sussidi del governo, nelle campagne la povertà
è estrema.
Uscendo dai centri urbani si incontrano villaggi dove
la gente vive delle attività del mercato, i barbieri lavorano di buona
lena e i chioschi di manta   (10) e laghman (11) vanno per la maggiore.
Le attività seguono i ritmi della campagna, dove si lavora senza
macchinari con metodi antiquati. Mentre si cucina e nei piccoli
esercizi si vende di tutto, nella parte han della città di Ghuljia i
dipendenti di ChinaTelecom praticano gli esercizi di tajiquan a ritmo
di musica, un metodo che tiene in salute e rafforza lo spirito di
gruppo.
Al sistema scandito dalla terra e dalla religione degli
uiguri si contrappongono l’ordine e la gerarchia della cultura
confuciana (12), che dominano i ritmi della popolazione han. A Kashgar,
importante centro sull’antica Via della seta, un «esercito» di cuochi
alle dipendenze di un albergo è in fila sul marciapiede. Il capo, come
ogni giorno, li chiama per nome e dà loro la valutazione sul lavoro
svolto. «È un sistema molto utile per rafforzare lo spirito di gruppo e
premiare chi si distingue sul lavoro», mi dice con convinzione Zhigang,
trasferitosi dal Qinghai e da cinque anni responsabile del personale
dell’albergo. Nello stesso momento a Yekshembe, villaggio contadino
fuori città, si lavora con mezzi rudimentali. I carretti trainati dagli
asini portano la gente nel mercato, gli anziani vanno dal barbiere e
bevono ayrun, una bevanda a base di acqua, sale e yogurt acido di
capra. Sono a pochi km di distanza, ma qui città e campagna sembrano
separate da due secoli di storia.  

«Bingtuan» e «mandarino»:
 i piani di Pechino

Dopo
il 1949, anno della fondazione della Repubblica popolare cinese, il
Xinjiang divenne un territorio da «sinizzare» (13). Si cominciò con il
trasferimento di guaigioni militari e contadini han che fondarono i
bingtuan, unità di produzione agricola e industriale distribuite su
tutto il territorio e aventi la duplice funzione di sfruttamento delle
risorse e controllo del territorio.
Contestualmente si attuarono
politiche ad hoc per incoraggiare il dislocamento della popolazione
dalle varie regioni della Cina allo Xinjiang.
«Qui guadagno il
triplo di quello che guadagnavo nello Shaanxi – mi confessa un
ingegnere han – e le case hanno dei prezzi molto bassi rispetto a tutte
le altre zone della Cina».
Il 59,4% della popolazione della
regione non è di etnia han, sono uiguri, mongoli, hui e kazaki, ma
molto presto questa maggioranza diventerà una minoranza.
Human
Rights in China denuncia che «l’educazione bilingue è messa in pratica
solo nelle scuole primarie, dove la lingua delle minoranze viene
utilizzata nelle classi e nei libri di testo. A livello di scuole
secondarie il medium d’insegnamento diventa il mandarino». Durante i
colloqui di lavoro è un prerequisito fondamentale conoscere alla
perfezione il mandarino, lingua ideografica, isolante e tonale del
gruppo sino-tibetano, che non ha alcuna somiglianza con lo uiguro,
lingua alfabetica, flessiva e altaica del ceppo turcico. Questo fattore
linguistico, insieme a una palese discriminazione del popolo uiguro,
«sono egoisti e arretrati, molto diversi da noi cinesi», confessa il
mio amico han di Urumqi, vittima di una propaganda che raggiunge tutti,
costituisce un elemento fondamentale per la perdita dell’identità
culturale e la formazione di un’élite uigura urbana e sinizzata da una
parte,  e sacche di povertà nelle campagne e nei quartieri uiguri.
Le
rivendicazioni separatiste si sono fatte sentire nel corso dei decenni
attraverso dimostrazioni e manifestazioni, talvolta con la formazione
di veri e propri gruppi politici. Gli storici sostengono che nei
periodi in cui l’autonomia reale fu riconosciuta, tutti precedenti al
1949, la situazione era positiva, ma il petrolio e la grande quantità
di risorse naturali hanno fatto sì che le attuali autorità cinesi non
percorressero la via del dialogo, ma quella più «facile e immediata»
della repressione. 
Il Xinjiang del XXI secolo è una terra dal
futuro incerto, la sua situazione è sconosciuta ai più e la stampa
dedica all’argomento poco inchiostro, un’attenzione uniforme e
superficiale. La sua storia millenaria fatta di passaggi di culture e
religioni tra le più diverse, che si sono succedute e hanno convissuto
dando vita a un sincretismo culturale e religioso oramai raro, si
preserva in parte in seno alla comunità uigura.

Se le mummie
del Taklamakan parlassero

Lo
scrittore inglese Colin Thubron, mentre osserva le mummie del
Taklamakan durante il viaggio raccontato in Ombre sulla Via della Seta,
così le descrive: «I corpi provocano un guizzo di apprensione. Sembrano
paralizzati nell’atto di morire, qui rinviato come per caso, quasi
fossero uccelli bloccati in volo. All’ingresso del museo un avviso
informa che le reliquie esposte provano che la provincia è parte
inalienabile della Cina. In realtà, naturalmente, suggeriscono il
contrario. I cadaveri non riposano in pace. La loro strana
conservazione li solleva dalla preistoria nel presente politico, più
potenti di uno scheletro o di un frammento di Dna. Sono in attesa, come
una famiglia solenne. Sembra che le loro posture – le ginocchia piegate
di traverso, le mani serrate in maniera incerta – non siano definitive,
quasi che un giorno debbano alzarsi e portare il loro bambino in
strada».

Di Alessandra Cappelletti

Note

(1) Città nel nord del Xinjiang.
(2) Akhun è un titolo che nella cultura uigura indica rispetto per un anziano, di cui ne accompagna il nome.
(3)   Letteralmente «Drago di Giada».
(4) Antico centro della Via della Seta nel sud della regione.
 (5) Ultima dinastia imperiale, 1644-1911.
 (6) Nome cinese, quello uiguro è Iparxan.
(7) Franco Mazzei e Vittorio Volpi, Asia al centro, EGEA, Milano 2007.
 (8)
Un’ampia panoramica sugli strumenti di musica uigura si può trovare sul
sito http://www.uyghurensemble.co.uk/
en-html/nf-research-article1.html, storia e tipologie di musica al
link:
http://www.amc.org.uk/education/articles/Music%20of%20the%20Uyghurs.htm, mentre esempi di muqam si possono ascoltare su:
http://www.meshrep.com/music/index.html(9) Colin Thubron, Ombre sulla via della seta, Ponte alle Grazie, Milano 2006, p. 127
(10) Profumati fagottini ripieni di carne di capra, cotti in tradizionali foi di pietra.
(11) Una specie di tagliatelle condite con carne e verdura, molto speziate.
 (12)
Tra i principi cardine: rispetto per i superiori, ordine, parsimonia e
gerarchia. Il testo fondamentale è il Lunyu, i dialoghi di Confucio.
(13)
Con il termine sinizzazione si fa riferimento all’applicazione di
politiche volte a diffondere i valori confuciani in contesti usualmente
estranei.

Alessandra Cappelletti




FREI BETTO. La mosca blu e le lusinghe del potere

 

Il famoso programma «fame zero» si è trasformato in un progetto assistenziale (bolsa familia) e collettore di voti. Avrebbe dovuto essere molto di più: un programma emancipatorio. A parte questo, i problemi strutturali del Brasile sono ancora tutti irrisolti: la riforma agraria e i senzaterra, la corruzione del potere, le incredibili diseguaglianze. Tutto male, dunque? No, perché sempre meglio «un’America Latina con Lula che senza». Su questo Frei Betto, teologo e scrittore di chiara e meritata fama, non ha alcun dubbio.

Durante gli anni dei governi militari, un’emittente televisiva lo chiamava «il frate del terrore». In carcere è stato dal 1969 al 1973, quando aveva 25 anni. Quattro anni che Carlos Alberto Libânio Christo conosciuto come Frei Betto non ha dimenticato. Religioso domenicano, teologo, scrittore di fama internazionale, Frei Betto è certamente una delle voci più autorevoli del Brasile e dell’America Latina.
Militante di movimenti e comunità cattoliche di base, è stato responsabile della pastorale operaia per 22 anni nella cintura industriale di San Paolo (detta ABC dalle iniziali delle città satelliti). Era stato nominato da mons. Claudio Hummes.
Qui conosce e diventa amico di un operaio e sindacalista di nome Luiz Inacio da Silva noto come Lula (1).
Ancora oggi, c’è sempre qualcuno che prova a rinfacciargli qualcosa: l’essere di sinistra, apertamente di sinistra; l’adesione alla Teologia della liberazione (Tdl); la stima verso la Cuba di Fidel Castro e il Venezuela di Hugo Chávez, il presidente latinoamericano più odiato dai media e dai politici occidentali. Lui non si scompone. Tranquillo, pacato, sicuro nelle risposte. Pur non essendo mai stato affiliato ad alcun partito politico (neppure al Partido dos trabalhadores, di cui fu tra i promotori assieme a Lula), Frei Betto ha dalla sua la forza della coerenza: l’essersi sempre schierato a fianco dei poveri e degli impoveriti, anche quando «la mosca azul» del potere lo ha blandito da vicino.

Il Brasile di Lula:
più delusioni o più successi?

Frei Betto perché è finita la sua collaborazione con il governo del suo amico Lula?  E soprattutto, lei è rimasto deluso da questi anni di presidenza?
«Prima di cominciare, chiariamo subito un punto di partenza: sia il Brasile che l’America Latina sono – oggi – migliori con Lula che senza Lula».

Detto questo, cosa non ha condiviso delle scelte politiche operate dall’ex operaio metallurgico e sindacalista divenuto presidente?
«La statura politica di Lula è stata costruita attraverso un movimento popolare. Una volta giunto al potere ha sbagliato appoggiandosi ad una sola gamba, quello del Congresso, dimenticando quella dei movimenti sociali.
Era l’unico presidente nella storia del Brasile ad avere la possibilità di reggersi su 2 gambe. Invece, non ha mantenuto i vincoli con i movimenti. Lula ha preferito un contatto diretto con i poveri senza la mediazione dei movimenti popolari. Questo, secondo me, è grave.
Adesso Lula ha l’appoggio dei più poveri e dei più ricchi.  I poveri perché oggi hanno migliori condizioni di vita, i ricchi perché oggi sono diventati ancora più ricchi.
Tutti gli altri che stanno nel mezzo sono – invece – sostenitori critici di Lula».

La riforma agraria,
assente ingiustificata

Il movimento dei sem terra aveva riposto molte speranze in Lula. Ma è rimasto deluso: il latifondo continua ad imperare e la riforma agraria non si vede…
«È vero. Sono convinto che il futuro capitalista del Brasile non esiste se non ci sarà una riforma agraria. Tra l’altro, questa è una proposta storica del partito di Lula, ma non c’è alcun segnale che si farà.
Assieme all’Argentina, il Brasile è il solo paese americano che non ha mai fatto una riforma agraria.
Eppure il Brasile è il paese con più terre coltivabili delle 3 Americhe. Senza contare l’Amazzonia che non è coltivabile, ma che è ricchissima di risorse e soprattutto regolatrice del clima dalla Florida alla Patagonia».

Lula e il Brasile si sono buttati nel business dei cosiddetti «biocombustibili», per la produzione di etanolo partendo dalla canna da zucchero. Lei è stato durissimo al riguardo…
«Affamare le persone per nutrire le automobili? Assurdo! Non si dovrebbe parlare di biocombustibili, ma di necrocombustibili. In greco, “bio” significa “vita”, mentre “necro” significa “morte”. Questo, secondo me, è il termine corretto per questi prodotti».

A gennaio 2009, Belem ospiterà il «Forum social mundial». Che ne pensa?
«Penso che avrà molto impatto perché si terrà in Amazzonia. Qui un territorio pari a 22 volte il Belgio è stato deforestato. E non ci sono misure contro questo disastro: il governo Lula è stato incapace di difendere l’Amazzonia. Non si chiede un santuario ecologico da chiudere al mondo, ma almeno uno sviluppo sostenibile.
Ora il governo ha un piano di strade da costruire o per pavimentare quelle esistenti. Però questo favorirà i latifondisti, i cercatori di pietre preziose, gli sfruttatori clandestini delle ricchezze del sottosuolo e delle foreste.
In Amazzonia, un metro cubo di legno prezioso vale 10 euro, mentre al porto di Genova vale 3.000 euro. Meglio che il commercio della cocaina il cui rapporto è di molto inferiore, più o meno100 a 1000!».

Anche gli affamati
votano…

Lei ha partecipato all’ideazione e – dal 2003 al 2004 – alla prima applicazione del programma «Fame zero» (Fome zero in brasiliano, Hambre cero in spagnolo, ndr).  Poi se ne è andato, quasi sbattendo la porta…
«Fondamentalmente il programma Fome zero era dato da 60 politiche pubbliche per beneficiare 11 milioni di famiglie, 44 milioni di persone, molto povere, miserabili. In un anno e mezzo queste persone avrebbero dovuto essere capaci di abbandonare il programma e andare avanti con le proprie forze. Insomma. Si trattava di un programma emancipatorio. Nel 2003 andò molto bene ed io ero molto carico. Nel 2004 Lula dimette il ministro e ne nomina un altro. Si cambia radicalmente il programma: ci sono famiglie entrate nel 2003 che ancora sono dentro; delle 60 politiche pubbliche ne è rimasta una sola – bolsa familia -, quella che prevede la distribuzione ogni mese di una somma a ciascuna famiglia.
Perché cambiarono? Perché scoprirono che il programma era una fonte fantastica di voti. Ogni famiglia che riceve questi sussidi vota per Lula e per i suoi. Soprattutto nel Nord-est.
All’inizio c’era un comitato di garanti della società civile, che decideva che famiglie entravano e uscivano. Lo hanno azzerato sostituendolo con sindaci e burocrati, pur sapendo dell’altissimo grado di corruzione di questi: infatti cominciarono ad entrare come beneficiari parenti, nipoti e così via.
Insomma, il programma era completamente cambiato rispetto agli inizi ed io non ero d’accordo. Pertanto, ne uscii. Dissi a Lula, che non avrei continuato con il programma. Era il dicembre del 2004 e ancora non si sapeva dei gravi casi di corruzione».

Vuoi conoscere una persona?
Dagli il potere…

La sua esperienza all’interno delle stanze del potere le ha consentito di scrivere qualcosa – qualcosa di forte – al riguardo…
«È vero. Ci sono 2 letterature perenni: quella mistica e quella che tratta del potere. Platone, Aristotele, Machiavelli: tutte le loro opere hanno resistito fino ad oggi perché sono rimaste attuali.
Dopo la mia esperienza al governo, anch’io ho scritto due libri. Il primo è stato A mosca azul: reflexão sobre o poder, La mosca blu: riflessione sul potere. Mi ha molto impressionato vivere nel potere per quasi 2 anni e allora mi sono chiesto cosa accade alla gente quando arriva lì.
Sono uscito dal governo con due convinzioni: il potere non cambia nessuno ma fa sì che uno si riveli, si mostri nella sua vera natura. Qualsiasi potere!
La seconda convinzione è invece questa. L’essere umano ha 5 grandi tentazioni: primo il potere, secondo il potere, terzo il potere, quarto il denaro e quinto il sesso. Sono convinto di ciò. Per mesi mi sono preparato a scrivere questo libro sul potere.
Dopo ne presentai un altro dal titolo Calendario do poder, Calendario del potere, che è il mio diario all’interno del potere: riunioni, lettere, tutto. L’ho scritto perché io sentivo che ero pagato dalla popolazione del Brasile: res publica, cosa pubblica.
Come ho detto all’inizio: meglio con Lula che senza. Però, io sono un sostenitore critico».

Quali sono le cose significative fatte da Lula e dal suo governo?
«Il governo Lula ha ottenuto cose importanti. Per esempio, la stabilità economica del paese, in primis con l’inflazione ferma al 3-5%. Ora la gente può preparare meglio i propri bilanci familiari. Secondo, il salario minimo. Ai tempi di Cardoso era un sogno che superasse i 100 dollari, oggi passa i 300.
C’è “Luce per tutti”: con questo programma l’energia elettrica arriva in ogni angolo e la gente può comprarsi il suo frigorifero e il suo televisore. Non c’è repressione dei movimenti popolari, nonostante le grida di protesta dei ricchi e dei media. Al governo non stanno bene le manifestazioni dei semterra, ma non c’è repressione.
Ancora: non c’è più privatizzazione del patrimonio pubblico e delle aziende pubbliche. Lula inoltre ha aperto il Brasile alle relazioni inteazionali. È stato il primo presidente brasiliano ad entrare nel mondo arabo, prima riservato agli Usa.
Insomma, ci sono cose estremamente positive. Il problema è che il governo di Lula non ha cambiato le fondamenta del Brasile come la struttura fondiaria. Cosa succederà quando al governo non ci saranno più queste persone?».

Nel 2010 scadrà il mandato di Lula. Essendo il secondo consecutivo, non potrà ripresentarsi per un terzo periodo. È fiducioso sulla successione?
«Mica tanto. Perché il partito di Lula si è mosso confusamente.
Aveva 2 candidati per la successione a Lula ma ora non ha nessuno dei 2. Sono sospettati di mancanza di etica ed ora stanno fuori dai giochi. Quindi, Lula non sa su chi puntare. Quello di trasferire i voti ad un proprio successore designato non è una cosa automatica: occorre che questi abbia un minimo di carisma e di simpatia.
Aveva puntato su Dilma Rousseff, ministra della Casa civil, per importanza la seconda carica dello stato. Ma la donna è senza carisma e poi è stata coinvolta nello scandalo delle targhette di credito dei politici.
La legge non permette che un candidato sia eletto per 3 volte consecutive, ma nel 2014 Lula può tornare e, rimanendo così le cose, sono sicuro che questo accadrà. Sarà il primo brasiliano ad essere eletto presidente della Repubblica per 3 volte».

Chávez e gli altri:
l’importante è demonizzarli

Detto del Brasile di Lula, parliamo di America Latina in generale. Da qualche anno per essa si parla di «primavera democratica». Cosa ne pensa?
«Negli ultimi 40 anni abbiamo avuto 3 periodi: le dittature militari, i governi neoliberali ed ora i governi democratici popolari.
Le dittature militari hanno prodotto un costo umano estremamente grave, oltre ad un costo economico. Tutti i paesi andarono in bancarotta sotto quelle dittature. Poi le oligarchie abbracciarono la soluzione neoliberista uscita dal Consenso di Washington (2).
Ci furono la privatizzazione del patrimonio pubblico, la repressione brutale dei movimenti popolari e sindacali, una corruzione tremenda e – anche in questo caso – disastro economico (debito estero, dipendenza, deindustrializzazione).
A quel punto le popolazioni latinoamericane respinsero quelle oligarchie che avevano appoggiato prima le dittature e poi il modello neoliberalista. E iniziarono a cercare candidati che avevano “cara de pueblo” e non appartenevano a quelle classi sociali.
Da qui il prestigio politico di un Chávez, di un Lula, di un Morales, di un Correa, di un Ortega.
Una cosa va sottolineata: tutti costoro sono diventati presidenti attraverso processi impeccabilmente democratici».

Ma ciò sembrerebbe non bastare: molti dei presidenti che lei ha citato godono di pessima stampa negli Stati Uniti, in Spagna, in Italia. Ad esempio, Evo Morales e soprattutto Hugo Chávez Frias. Come lo spiega?
«Chávez può non essere una persona simpatica, ma non vi è alcun dubbio che per 8 volte è stato vincitore di competizioni democratiche. Come ha rispettato il giudizio popolare quando ha perso – per un solo punto percentuale – l’ultimo referendum sulla nuova Costituzione (dicembre 2007, ndr)».

Nel maggio 2007 Chávez non confermò la concessione dello stato a Radio Caracas Televisión (Rctv). Apriti cielo…
«Il presidente era nella piena legittimità quando non ha rinnovato una concessione statale a Radio Caracas Televisión appartenente ad un privato! In tutta l’America Latina, la televisione è proprietà dello stato e non del privato. Mi spiego: lo stato dà le concessioni, ma può ritirarle in qualsiasi momento, perché sono situazioni che rientrano nella sicurezza nazionale. La gente si dimentica di questo particolare.
Quando vedo questi mezzi di comunicazione che parlano di Chávez come fosse un mostro, mi viene rabbia. Perché questa gente non si rende conto che per l’America Latina questa potrebbe essere l’ultima occasione per dar vita ad un cambiamento in maniera pacifica e democratica. Se – ancora una volta – Europa e Stati Uniti creeranno instabilità politica nelle Americhe, allora non so cosa potrà accadere».

La situazione della Colombia si discosta molto da quella degli altri paesi latinoamericani. Che ne pensa lei?
«C’è un consenso tra la sinistra latinoamericana che in Colombia la lotta armata non ha futuro. Noi (ed io mi includo) abbiamo la responsabilità di pacificare la Colombia.
In 40 anni governo colombiano e Usa con le armi non sono riusciti a distruggere la guerriglia.  Dunque, occorre cercare un’uscita politica come in Salvador, come in Guatemala, come nello stesso Brasile.
Il piano era liberare i sequestrati e, come contropartita, i prigionieri. E poi inserire la guerriglia come partito politico, come in Nicaragua, in Salvador, in Guatemala.
Chi potrebbe parlare con le Farc? Nessuno meglio di Fidel Castro, che però è malato. Dopo Fidel, la miglior persona che possiede credibilità è Chávez. Bush, non volendo dare meriti al presidente venezuelano, ha ordinato ad Uribe di fare gli attacchi che hanno compromesso tutto il delicato disegno politico. Vedremo se le cose cambieranno con il nuovo presidente Usa».

Mettendo da parte la Colombia, in generale come vede la situazione dell’America Latina?
«Io sono molto ottimista. Stiamo vivendo il nostro migliore momento per l’integrazione latinoamericana. Abbiamo il Mercosur, l’Alba. E nessuno dà importanza all’Organizzazione degli stati americani (Oea)».

Lo stato nell’economia:
ieri «ospite sgradito», oggi…

Appena fino a ieri, l’intervento dello stato nel sistema economico capitalista era visto come una disgrazia. Oggi tutto sembra rovesciato: patas arriba, «gambe all’aria», direbbe Eduardo Galeano…
«Se c’è una bugia ben raccontata è quella secondo la quale lo stato non deve entrare nell’economia. La realtà di oggi dimostra l’esatto contrario.
Se io volessi fare soldi, fonderei una banca. Il banchiere è come qualcuno che si getta in mare senza saper nuotare tanto ci sarà sempre qualcuno pronto a salvarlo.  È quello che sta accadendo, iniziando dagli Stati Uniti».

A parte i cambi di rotta dettati dalle contingenze del presente, cosa dovrebbe fare lo stato?
«Non è sufficiente che esso sia l’arbitro. Lo stato deve provvedere alla popolazione e, per principio etico, soprattutto ai poveri.
Un esempio concreto:  i paesi che hanno la migliore sanità ed istruzione sono quelli dove lo stato è più presente in queste aree.
In America Latina, qual è il paese  che presenta le migliori condizioni di salute ed istruzione? È Cuba.
Non c’è competizione tra un bambino brasiliano ed uno cubano!  In Brasile, ci sono 4 ore di lezione con una maestra impreparata e senza strumenti; a Cuba, le ore sono 8 e gli strumenti didattici (computers, in primis) non mancano. Insomma, c’è un altro livello di cultura e formazione.
Il Brasile ha uno dei più alti indici di violenza urbana del mondo: più di 40.000 morti all’anno. Quali sono le cause? Non è la povertà: ci sono paesi più poveri, per esempio in Africa. È la mancanza di scolarità.
Tra Rio e San Paolo ci sono 2.300.000 giovani (il dato è del 2004), tra i 14 e i 24 anni, che non hanno completato le scuole dell’obbligo, uscendone prima.
L’80 per cento degli assassinati e l’80 per cento degli assassini viene da qui. Mi sembra che questo dica molto».

Quando la Tdl era
più temuta del marxismo

La Teologia della liberazione sta perdendo il contatto con la base?
«La Teologia della liberazione non è una scienza che si produce nei seminari o nelle accademie. La Tdl non è Leonardo Boff o Gustavo Gutiérrez (3). La Tdl sono le comunità di base e non il contrario.
Gli anni d’oro della Tdl furono gli anni Settanta-Ottanta. La Tdl nacque dalla pratica dei cristiani nella loro lotta per la liberazione e trovò molta forza dall’imperialismo Usa in America Latina.
Nelson Rockefeller (rappresentante  del presidente Nixon ed autore del controverso The Rockefeller Report on Latin America, ndr) considerava la Tdl come più minacciosa dello stesso  marxismo. Effettivamente la Tdl ebbe molta influenza sia nella rivoluzione sandinista che in El Salvador.
Una volta sconfitta la rivoluzione sandinista e i movimenti guerriglieri dell’America Latina, la Tdl cominciò a non preoccupare più l’imperialismo.
Un altro fattore che ha contribuito a ridurre la spinta della Tdl è stata la fine delle dittature militari».

D’accordo sul ruolo dell’imperialismo Usa e delle dittature militari. Ma quale è stata la posizione del Vaticano rispetto alla Tdl?
«Con papa Giovanni Paolo II si ebbe un processo di “vaticanizzazione” dei vescovi, con un’attenzione particolare a favorire la nomina di coloro che non fossero legati alla Tdl.
Molti vescovi sono passati dalle comunità di base ai movimenti pentecostali e catecumenali, Comunione e liberazione, Rinnovazione carismatica. Ma le comunità ecclesiastiche di base non sono sparite. Oggi si concentrano non tanto sulla materia teologica quanto su quella biblica, sullo studio della Bibbia attraverso circoli biblici che producono una quantità incredibile di materiali. Però, sono guardati con pregiudizio dai vescovi.
Certamente non c’è più quella fame di conoscenza teologica degli anni Settanta, quando i libri di Gustavo e Boff si vendevano come pane caldo e c’era la fila davanti alle librerie quando uscivano.
Siamo in un momento di transizione non tanto per la teologia, ma per i riflessi politici nella teologia».

A proposito di libri, in quell’epoca anche lei fece notizia con un lavoro di risonanza internazionale…
«Fu nel 1985, quando uscì il mio libro intervista a Fidel, in cui questi riconosceva la validità della fede cattolica. Era la prima volta da parte di un presidente comunista al potere e questo ebbe un impatto tremendo in tutta la sinistra. In Cuba questo libro vendette un milione di copie con una popolazione di appena 11 milioni di abitanti».
Come religioso, come vede la situazione attuale della chiesa cattolica latinoamericana?
«Il modello organizzativo della chiesa ha fallito. Il suo è un metodo parrocchiale, premoderno, preurbano che presuppone che la gente comunichi per “prossimità geografica”. No, non è così: oggi la gente comunica per “prossimità elettronica”.
Il mio migliore amico può vivere in Torino anche se io vivo in San Paolo. Posso parlargli 3-4 volte al giorno per internet.
La chiesa cattolica in America Latina, e specialmente in Brasile, perde l’1% di fedeli all’anno. In 20 anni è passata dal comprendere il 91% della popolazione brasiliana all’attuale 71%. Anche perché non sappiamo usare i mezzi di comunicazione. Siamo artigianali, amatoriali. Parliamo nella televisione cattolica di noi e per noi. Ma non sappiamo parlare al pubblico non cattolico».

Quali alternative
al capitalismo in crisi?

Dove va l’America Latina? Anzi, cosa sogna lei per l’America Latina?
«Nessuno vuole più una lotta armata. E l’orizzonte socialista appare molto lontano. Oggi chiediamo di costruire un processo democratico partecipativo all’interno di una struttura che rimane capitalistica».

Il capitalismo sta vivendo una grave crisi di credibilità.  Ma sulle alternative non sembra esserci molta chiarezza…
«Molti di noi, di sinistra o vicini alla sinistra, pensano che il socialismo sia ormai una cosa del passato.
Io sono dell’idea che si debba costruire una società in cui tutti abbiano una democrazia politica ma anche una democrazia economica. Quest’ultima si avrà soltanto quando i beni saranno equamente divisi tra la gente, cosa che adesso non avviene. Questo significa che non esiste una democrazia economica.
In ogni caso, io continuo ad essere convinto che il capitalismo sia incompatibile con i diritti umani e con il vangelo».

Di Paolo Moiola

Note

(1)  Il tornitore che sfidò i potenti, intervista a Luis Inacio da Silva detto Lula, MC dicembre 1999, a cura di Paolo Moiola. Disponibile anche in spagnolo e in inglese. Si veda inoltre: Paolo Moiola, Il Brasile riconferma la speranza, MC, gennaio 2007.
(2) Il termine «Consenso di Washington» fu coniato nel 1989 dal ricercatore John Williamson dell’Istituto di Economia internazionale della capitale Usa. Da una riunione tra gli Usa e 10 paesi dell’America Latina, Williamson trasse un documento – appunto il Consenso di Washington – in cui si prescrivevano 10 misure per riformare la politica economica latinoamericana: rigida disciplina fiscale, riduzione della spesa pubblica, politica di liberalizzazioni, privatizzazione dei beni pubblici, eccetera. Era la rigida applicazione della filosofia e dei dettami neoliberisti.
(3)  Si leggano le interviste a Gustavo Gutiérrez raccolte da Paolo Moiola: Gli esclusi non si arrenderanno, MC, febbraio 1998; «Ma i giovani statunitensi mi dicono che…», MC, dicembre 2003. Sul teologo peruviano e sulla teologia della liberazione si leggano – inoltre – le opinioni (contrapposte) di Mons. Bambaren e Mons. Cipriani: MC, maggio 2000, a cura di Paolo Moiola.

Il Mondo capovolto

Ieri: libero mercato, privatizzazioni, deregulation, profitti, crescita. E il loro corollario: speculazioni, diseguaglianze crescenti, devastazione ambientale. Oggi: crollo, crisi, recessione, disoccupazione. A gran voce si reclama l’intervento dello stato, fino a ieri ripudiato. Ma basterà? E ancora: è utopia costruire qualcosa di diverso e migliore?


Sta avvenendo come per le guerre in Iraq ed Afghanistan, che da «giuste», «inevitabili», «umanitarie» sono diventate uno sbaglio che si vorrebbe riparare ma non si sa come. Il modello economico fondato sul capitalismo neoliberista è caduto in disgrazia, travolto da errori e contraddizioni. Fino a ieri, il libero mercato era la soluzione, anzi l’unica soluzione, per il progresso dell’umanità. Non si volevano regole e lacciuoli perché frenavano il dispiegarsi delle forze economiche (private). La fantasia umana ha così potuto volare libera ed ha partorito un mondo fondato sulla speculazione finanziaria e sull’inganno che ha portato vantaggi a pochi e danni a molti, in primis alle popolazioni del cosiddetto Terzo mondo (impoverite) e all’ambiente (devastato).
Oggi, fa effetto sentire politici ed economisti neoliberisti che spiegano (tentano di spiegare) il crollo di quello che consideravano il solo sistema economico possibile. Ci dicono che il fallimento è dovuto ad alcune mele marce che, per proprio tornaconto, hanno tradito lo spirito del capitalismo e che lo stato (fino a poco tempo fa, disprezzato secondo i notissimi slogan: «meno stato, più mercato»; «meno pubblico, più privato») deve tornare in campo per riparare i danni e ripristinare la fiducia. Oggi è giusto ricordare quelle organizzazioni (dal Forum social mundial ad Attac alla maggior parte delle Ong) e quei presidenti (soprattutto latinoamericani: Chávez e Morales su tutti), che – pur attaccati e spesso derisi –  hanno sempre criticato quel sistema.
Un discorso a parte meritano i mezzi di informazione. In Italia, è interessante vedere l’imbarazzo di coloro che – su media importanti – avevano magnificato il sistema, mentre persone competenti e preparate su piccoli media – Tonino Pea e Francuccio Gesualdi su Altreconomia, Andrea Di Stefano su Valori, tanto per citae alcuni – da tempo parlavano di insostenibilità di questo modello economico e della sottostante filosofia neoliberista. Rispettabile la posizione de Il Sole 24Ore, quotidiano della Confindustria, che nella prefazione di un suo ottimo libro scrive: «Dalla grande crisi non usciremo soltanto più poveri, ma verranno profondamente cambiati molti dei paradigmi della nostra vita contemporanea: l’idea stessa della libertà di mercato, la natura dei rapporti fra pubblico e privato (…) un altro mondo, ma non per questo necessariamente peggiore, se avremo la capacità e la lungimiranza di riscoprire la centralità dell’impresa e la civiltà del lavoro, liberandoci dall’illusione , fortemente diseducativa, che il denaro produca da solo altro denaro» (2).
Ma le notizie più sorprendenti arrivano dall’estero. L’inglese The Times, quotidiano conservatore, in ottobre pubblica un lungo articolo (2) in cui, inopinatamente, si chiede: «Ma allora aveva ragione Marx?». Meno tecnica ma più umana l’opinione di Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco di Baviera: «Il movimento marxista ha cause reali e pone questioni giustificate. Poggiamo tutti sulle spalle di Marx, perché aveva ragione. Nella sua analisi della situazione (…) ci sono punti inconfutabili. (Marx) ha bene analizzato il carattere di merce del lavoro e previsto la mercificazione di tutti i settori della vita. (…) Con il tipo di capitalismo ereditato dalla Seconda guerra mondiale non andiamo lontano» (3).
Assai più modestamente, avevamo visto giusto anche noi di Missioni Consolata quando – pur criticati da una parte dei lettori – scrivevamo dei guasti prodotti dal neoliberismo e dalle politiche delle amministrazioni statunitensi.
L’economia non è una scienza esatta. Anzi, forse non è neppure una scienza (4). Sarebbe importante che tornasse ad essere una materia finalizzata all’interesse collettivo, avendo come elementi centrali l’equità distributiva, la sobrietà dei consumi e il rispetto degli equilibri ambientali. Insomma, l’esatto contrario di quanto avvenuto fino ad oggi.

Paolo Moiola

(1) Ferruccio de Bortoli, Il mondo che verrà cambierà la vita di tutti, in AaVv, La grande crisi. Domande e risposte, i libri de Il Sole 24 Ore, ottobre 2008.
(2) Philip Collins, Karl Marx: did he get it all right?, The Times, 21 Ottobre 2008; reperibile sul sito del quotidiano.
(3) Su Der Spiegel, settimanale tedesco, 25 ottobre 2008, ripreso dal quotidiano La Stampa del 26 ottobre 2008; le tematiche sono analizzate nel recente libro del prelato tedesco dal titolo Il capitale. Una difesa dell’uomo.
(4)  Come suggerisce Giovanni Sartori, Corriere della sera, 19 ottobre 2008.

Paolo Moiola




Dove va il Kenya?

Gravi incognite di un paese che sembrava ricco e felice

Dietro i disordini scoppiati in seguito ai controversi risultati elettorali del dicembre 2007, si celano gravi problemi irrisolti: possesso della terra, tensioni etniche, squilibri economici e sociali, corruzione…
I due contendenti leaders politici si sono messi d’accordo, ma cresce il malcontento della gente, mettendo a rischio il futuro del paese.

I più sprovveduti non se lo aspettavano, i più attenti sì. Il Kenya è oggi in fondo alla classifica della pace. Secondo il Global Peace Index, compilato dall’Istituto per l’Economia e la Pace in Australia, su 140 nazioni il Kenya è precipitato al 119° posto. Le cause principali della sua caduta nella classifica della pace sono state le violenze post-elettorali del gennaio scorso, le bande dei Mungiki e dei Sabaot nel distretto del monte Elgon al confine con l’Uganda, il crescente numero di rapine a mano armata e gli omicidi a contratto, l’abbondanza di armi da fuoco illegali, l’aumento delle razzie di bestiame e i sequestri di autoveicoli pubblici e privati.
Naturalmente questo non è tutto il Kenya; ma lo si credeva un paese ricco e felice, a differenza di molte altre nazioni africane. Sembravano sparite anche le divisioni etniche tra le numerose tribù che lo compongono. Oggi invece molti africani non kenioti che vengono in Kenya restano sorpresi da queste divisioni e si sentono spesso chiedere «a quale tribù appartieni?»; una domanda che sarebbe considerata scortese nelle loro nazioni di provenienza.
Il Kenya, le cui dimensioni territoriali sono all’incirca quelle della Francia, ha sette province. Quella di Nyanza, situata sulle rive del Lago Vittoria, è la patria della comunità etnica luo, il cui modo di vita tradizionale è strettamente legato alla pesca. All’epoca dell’indipendenza del paese, i luo erano la seconda comunità etnica del Kenya numericamente più grande. Insieme al gruppo maggioritario, i kikuyu, avevano combattuto per l’indipendenza dalla Gran Bretagna.
Al contrario dei luo, situati sul confine occidentale del Kenya lontano dalla capitale Nairobi, i kikuyu vivevano e vivono ancora oggi prevalentemente nella Provincia Centrale che circonda il monte Kenya. Al tempo del colonialismo britannico furono l’etnia maggiormente danneggiata dalle espropriazioni di terre, volute dalle autorità coloniali per permettere agli agricoltori bianchi di stabilirsi in zone vicine alla capitale. Ne derivò una violenta ribellione, quella dei Mau-Mau, repressa nel sangue dall’esercito britannico negli anni Cinquanta del secolo scorso.
Il Kenya ottenne l’indipendenza nel 1963 e tutte le comunità etniche del paese accolsero con entusiasmo l’elezione a primo presidente della giovane repubblica Jomo Kenyatta, un kikuyu imprigionato per anni nelle carceri inglesi perché favorevole all’indipendenza.
Nel 1978, dopo la morte di Kenyatta, fu scelto a succedergli Daniel Arap Moi, un candidato di compromesso, appartenente all’etnia kalenjin, che abita la provincia della Rift Valley, una depressione di grande bellezza naturale che attraversa il Kenya da nord a sud, tradizionalmente abitata da popolazioni dedite alla pastorizia, tra le quali emerge l’etnia dei kalenjin.
Fino a qualche tempo fa, la Rift Valley era considerata il granaio del Kenya, ma dal gennaio 2008, colpita da sanguinosi conflitti etnici e con quasi 300 mila rifugiati, l’agricoltura è stata quasi del tutto devastata e abbandonata.
Nello stesso tempo, in Kenya si era verificato un rapido incremento della popolazione e il governo si rese conto che un gran numero di piccoli agricoltori era in cerca di terra da coltivare. Si decise di risolvere il problema assegnando a questi agricoltori zone fuori dalla Provincia Centrale, a scarsa densità demografica, ma dotate di terre fertili. Tali terre furono trovate soprattutto nella provincia della Rift Valley e furono subito occupate da coloni kikuyu oltre che da etnie provenienti dall’altro lato della Rift Valley, come i luo. Ciò provocò il risentimento delle popolazioni che da secoli abitavano la Rift Valley. 
Negli anni ‘80 e ‘90 gli scontri per il possesso della terra avvennero soprattutto dove i kalenjin avevano cominciato a razziare il bestiame e a cacciare gli agricoltori di altre etnie. L’evento peggiore si verificò nel 1992, quando furono uccise 1.500 persone. Sembra che in questi atti di violenza fosse addirittura coinvolto lo stesso governo del presidente Moi di etnia kalenjin.

Tuttavia, dietro alle violenze avvenute in Kenya con un numero considerevole di morti e di profughi, non c’è solo il problema delle terre, ma anche il conflitto tra luo e kikuyu; questi ultimi oggetto di una spropositata politica di investimenti considerata dai luo sfavorevole nei loro confronti. Scoppiarono così rivolte in tutta la provincia e il leader politico luo di allora, Oginga Odinga, fu arrestato con l’accusa di fomentare le rivolte. Un altro luo, il ministro della pianificazione economica Tom Mboya, filoccidentale e moderato, fu ucciso in una serrata lotta con Odinga per la successione all’ormai vecchio Kenyatta.
Dietro le recenti violenze avvenute in Kenya permane dunque il conflitto tra luo e kikuyu. Forse il principale teatro di queste violenze fu il Kibera slum di Nairobi, un luogo periferico della capitale dove è evidente la disuguaglianza economica e dove coloro che provengono dai territori dei luo tendono a gravitare in cerca di una sistemazione economica migliore. Il Kenya ha uno dei più alti redditi pro capite fra i paesi africani, ma ha anche il maggior divario nella distribuzione delle ricchezze. Negli ultimi decenni le proporzioni raggiunte dalla corruzione politica hanno inoltre messo il paese in una posizione anche peggiore rispetto a quella dei suoi vicini e, inevitabilmente, i tassi di crescita economica sono rimasti indietro.
Non solo a Nairobi, ma in molte altre città keniote la disuguaglianza economica è evidente nell’architettura delle zone ricche e nell’architettura fatiscente di quelle povere. Una foto scattata dal satellite e reperibile su internet mostra come all’interno dei confini della città c’è una superficie occupata da una serie di campi da golf e un’altra uguale occupata dagli slums, in cui vivono fino a tre milioni di persone. La consapevolezza di questa disuguaglianza, unita al risentimento etnico, si è combinata in una miscela esplosiva con forti tensioni e violenze nei primi mesi di quest’anno.

I n tale situazione le elezioni del dicembre 2007, che portarono di nuovo al potere il kikuyu Mwai Kibaki, furono giudicate dagli osservatori inteazionali «molto irregolari». Buona parte di loro ritennero infatti che il presidente legittimamente eletto fosse il capo dell’opposizione, Raila Odinga, appartenente all’etnia luo, membro del Parlamento di Nairobi e rappresentante di un’area che include Kibera slum. È anche figlio di Oginga Odinga, il leader politico della comunità luo imprigionato durante i disordini del 1969.
Le violente proteste contro le irregolarità avvenute alle elezioni del dicembre scorso sono con ogni probabilità non un fatto marginale, ma piuttosto una risposta alle molte tensioni che aspettavano soltanto di esplodere. È perciò importante che ora tra il presidente kikuyu Mwai Kibaki e il luo Raila Odinga si sia raggiunto un accordo di pace e che tale accordo abbia successo.
L’accordo propone un’autentica condivisione del potere, considerato il primo passo verso il superamento di rancori profondamente e storicamente radicati, in modo da costruire uno stato riconciliato, dove prevalga il senso del bene comune. L’auspicio è che in questo frangente i cristiani, tra cattolici e protestanti in Kenya sono più della metà della popolazione, abbiano un ruolo significativo nella maturazione del paese verso un’autentica democrazia. La strada è senza dubbio difficile. I rancori storici si sono accumulati e non sono stati affrontati per tempo.
Nel maggio scorso nei campi dei circa 300 mila rifugiati a causa dei conflitti etnici è stata lanciata dal governo l’operazione «Toate a casa». A Eldoret, in uno dei campi di questi rifugiati, si è tenuta una cerimonia interreligiosa, con la partecipazione di parlamentari locali di etnia kalenjin che predicavano il perdono e la pace. Alcuni di questi leaders sono sospettati di aver incitato il massacro dei kikuyu nel gennaio scorso.
Le difficoltà sono comunque enormi. L’agricoltura è stata devastata. Molte zone sono rimaste incolte, il prezzo delle sementi, dei fertilizzanti e del carburante sono alle stelle e la pioggia tarda a venire. Per coloro che hanno perso casa, bestiame e tutto il resto «tornare a casa» è un grosso problema, circondati come sono dai vicini che non li potevano vedere e che hanno razziato tutto quello che potevano. Per coloro che possedevano solo una capanna e un piccolo negozio di beni di consumo, si troveranno invece un cumulo di ceneri. «Toare a casa» sarà difficile, molto difficile.

E non è tutto finito qui! Come sempre succede in simili casi, i disordini di fine 2007 e inizio 2008 si sono trascinati dietro altri fatti incresciosi. Decine di piccoli commercianti, che avevano fornito del materiale a sostegno del partito del presidente Kibaki, non hanno ancora ricevuto alcun pagamento per un totale di 14 milioni di scellini (140 mila euro). Trattandosi per lo più di piccoli commercianti, ora rischiano la bancarotta. I dirigenti del partito del presidente, che avevano raccolto tale materiale, affermano di non avere nessuna responsabilità nel pagamento.
Inoltre, dopo parecchi mesi dai disordini elettorali, nei campi della Rift Valley vi sono ancora circa 20 mila rifugiati in precarie condizioni, malgrado gli aiuti dall’estero. A Timboroa il governo italiano ha costruito 200 piccole abitazioni per i più bisognosi; altre centinaia sono in costruzione da parte di diverse organizzazioni di assistenza umanitaria.
Ma succede anche qui come con i poveri polli di Renzo di manzoniana memoria: delle 2 mila stufe d’emergenza, donate dalla Germania, i rifugiati denunciano la sparizione di un certo numero; dove sono andate a finire? Non si sa! I rifugiati lamentano anche la scomparsa di vettovaglie, naturalmente vendute al pubblico dagli amministratori locali.
Infine, secondo la polizia, almeno 30 bambini sono stati abbandonati nelle vicinanze dei campi dei rifugiati di Eldoret e della tendopoli della Rift Valley. Tutto questo mentre il presidente Kibaki e il primo ministro Odinga discutono tra loro come punire gli arrestati responsabili delle violenze post-elettorali. Odinga chiede l’amnistia per tutti; Kibaki promette severe condanne. Odinga cerca il dialogo con i Mungiki; il capo della polizia promette severe repressioni finché la «setta» è fuorilegge.
Nel frattempo i parlamentari, già abbondantemente stipendiati dal governo, si rifiutano di pagare le tasse. «Ci vogliono ridurre alla miseria come i nostri elettori» diceva un parlamentare; e un altro: «Pagheremo le tasse quando ci aumenteranno lo stipendio che ci compensi di quanto abbiamo perso».
E non basta: la polizia avvisa che una nuova banda criminale, denominata «Siafu» (formiche caivore), sta operando negli slums di Nairobi, in conflitto con quelle già esistenti, ossia i Mungiki, i Talebani e i Kamjeschi. Queste bande raggruppano gruppi etnici diversi tra loro e si dividono determinate aree della baraccopoli di Nairobi.
Veramente a questo punto ci si può chiedere: «Dove va il Kenya?». 

Di Giampietro Casiraghi

Giampietro Casiraghi




Il lungo inverno

Trai profughi georgiani

Terminate le ostilità tra Russia e Georgia, si sono spenti anche i riflettori dei mass media e nessuno parla più delle vittime di tali ostilità: circa 200 mila profughi e sfollati. Alcuni hanno cominciato a tornare alle proprie case, anche se danneggiate dai bombardamenti; per molti di essi, che hanno avuto la casa distrutta o che temono di rientrare nelle aree ormai per loro insicure, è invece iniziata una fase di vita da rifugiati, in strutture di accoglienza spesso carenti anche di servizi più essenziali o sicuramente inadatte a fronteggiare il duro inverno del Caucaso.

N uvole nere si ammassano nel cielo di Gori, la piccola città georgiana che diede i natali a Josif Stalin. Arrivano dal vicino Caucaso e sono da sempre un segno di sventura per contadini, soldati, poveri e sbandati.
Essere profugo in Georgia significa scrutare il cielo con crescente timore giorno dopo giorno, ma anche guardare con angoscia le foglie degli alberi che cadono. Già a ottobre scendono i primi venti gelidi dalle montagne e alla picchiata delle temperature che caratterizza gli invei da queste parti mancano solo poche settimane. Sarà dura passare un inverno chiusi dentro una tenda, assistiti da volontari che dispongono di tanta buona volontà e poco più.
È in corso uno scontro di interessi sulla pelle di circa ventimila persone, spostate come pacchi da una parte all’altra del paese. È terribile da constatare, ma il loro futuro appare legato sempre più all’interesse dei media inteazionali.
Chi ricorda il conflitto estivo del Caucaso che ha persino distolto l’attenzione dalle mirabolanti olimpiadi cinesi? Nessuno. Le vittime della guerra non fanno vendere se non nel momento iniziale del conflitto, dopo diventano mediaticamente improponibili.
La Georgia è un paese che vive in stato di non pace da circa tre mesi, di fatto occupato militarmente da una super potenza che ne controlla più di un terzo del territorio. È in corso una silenziosa guerra civile. In tutto il paese un sistema mafioso ben radicato alimenta traffici di ogni genere. Predoni sono liberi di girare per villaggi ormai abitati solo più da vecchi. La chiesa ortodossa georgiana, diffidente e aggressiva, non esita a dichiarare da che parte Dio in persona si piazza sul campo di battaglia.
Questa purtroppo è la Georgia di oggi. Una nazione con paesaggi spettacolari, tradizione e cultura, ma che ha avuto la malaugurata sorte di entrare in guerra con la Russia. Un paese che assomiglia tanto a un campo di battaglia, che ospita conflitti per interessi altrui.
In questo delirio nei prossimi mesi si dovranno assistere almeno ventimila profughi stanziali, che si aggiungono agli oltre duecentomila che dal 1991, anno del primo conflitto, vagano per il paese.
Molti tra questi tentano di spacciarsi come «nuovi» profughi nella speranza che la loro condizione possa migliorare.
Fortunatamente, l’aggettivo non è scelto a caso, la stragrande maggioranza dei 15 mila iniziali di quest’ultimo conflitto sono tornati a casa; a molti di loro la sorte non ha voltato del tutto le spalle: nessun lutto, nessun saccheggio e la casa ancora in piedi. I restanti ventimila invece sono persone sul cui telefonino appaiono messaggi come: «Ti abbiamo appena abbattuto la casa col bulldoozer, bastardo georgiano. Non tornare mai più». Sono gli sfollati dalle due regioni ribelli, Abkhazia e Sud Ossetia.

E siste l’orrore e abita da queste parti. Come fronteggiare questa situazione? Come lavorare nel caos totale? Chi comanda? Chi esegue? Chi ruba e chi no?
Soprattutto ora che i media inteazionali se ne sono andati, la Georgia è tornata a essere uno sconosciuto paese incastrato, perso chissà dove nel mondo.
Inizialmente il governo del colorito presidente georgiano Saakashvili, un ragazzone che ama affacciarsi dai balconi per arringare le folle, ha dato ordine di aprire scuole e asili per dare un tetto ai profughi. Sul chi dovesse dare assistenza materiale invece è tuttora un mistero. I municipi in linea teorica si occupano del cibo.
Se un profugo è «fortunato» e capita in una scuola dove copre il servizio la Caritas, mangia come al ristorante, con qualità e quantità sorprendenti. Se invece gli va storto e il rancio lo porta il camioncino del comune spesso si tratta di: pane (un chilo ogni dieci persone), pacchi tipo «razione k» dell’esercito americano (disgustosi), oppure cibo in scatola della mezzaluna rossa (ancora peggio). Questo provoca tensioni e frustrazioni; il senso di sfascio imminente cresce e genera una sfiducia contagiosa.

E ntrando in ogni scuola si notano subito mucchi enormi di vestiti: sono tutti regalati dalle persone che vivono nei paraggi. Roba lisa e vecchia, ma che con l’arrivo dell’inverno potrebbe divenire utile.
Per quanto riguarda l’igiene personale, la Caritas si occupa di distribuire del materiale arrivato soprattutto dalla Polonia. Ma containers possono arrivare anche da congregazioni religiose, fondazioni, privati. Mancano, soprattutto, pannolini per bambini, detersivo, prodotti per l’igiene.
Quando vengono distribuiti questi prodotti si assiste a delle scene molto amare: donne (sempre loro, sempre in prima fila, sempre a lavorare) che litigano furiosamente per un pacco di latte in polvere, un assorbente, uno shampoo.
Eroiche in questo caso sono le volontarie della Caritas, che con santissima pazienza discutono, convincono, responsabilizzano, compilano cento fogli per la burocrazia… In questo tipo di organizzazione, c’è spazio per tutti i soggetti che devono risolvere le emergenze senza sapere come, magari inventandosi idee e progetti in tempo reale.
Esempio: una volontaria che lavora per una Ong passa davanti a un asilo e scopre che mai nessuno ha portato prodotti per l’igiene (capita spessissimo). Inizia la ricerca che passa attraverso tutte le Caritas, i soliti missionari, ambasciate, Croce Rossa, ecc. Se riesce a mettere insieme ciò di cui abbisognano i rifugiati, carica tutto su un camioncino, anche questo da trovare, e lo distribuisce.
Passaggi istituzionali: zero. Organizzazione: zero. È il trionfo dell’arte di arrangiarsi, ma anche lo scempio del concetto di aiuto di stato.
Che l’anarchia regni sovrana è dato dal fatto che non si capisce se stiano arrivando containers con aiuti materiali oppure no. Il deposito Caritas di Tblisi, che dovrebbe fungere da centro di smistamento, è praticamente vuoto. I georgiani ironizzano che gli aiuti in arrivo per il loro paese si devono cercare a Mosca.
In questo marasma c’è spazio anche per le pagliacciate mediatiche: recentemente un cacciatorpediniere Usa ha attraccato nel porto di Poti e ha scaricato centinaia di pacchi di acqua minerale. Uno dei pochi prodotti che la Georgia esporta è l’acqua minerale.
Questo per quanto riguarda i territori non ribelli. Per il Sud Ossetia e Abkhazia nessuno sa nulla. Non si sa se ci siano profughi in Russia, né se chi non è scappato sia assistito da qualcuno. Le autorità di Tblisi non possono entrare dentro una zona occupata dai russi.
Secondo alcune testimonianze i militari sovietici starebbero portando centinaia di containers con ponti aerei. Ma di fatto si tratta di territori fuori controllo: le ultime notizie certe provenienti da Tskhinvali, capoluogo della Sud Ossetia risalgono a ottobre.

I l presidente georgiano Saakashvili ha chiesto al mondo due miliardi di dollari per la ricostruzione del paese. Se mai arriveranno, la gestione sarà un problema non da poco. La Georgia è un paese dove la corruzione dilaga, anche se è in diminuzione, almeno in certi settori come le forze dell’ordine; mentre la reputazione delle Ong locali è quanto di più debole possa esistere al mondo.
Le scuole che inizialmente ospitavano i rifugiati lentamente stanno tornando ad assolvere i loro compiti, così chi qui aveva trovato riparo si trova costretto a vivere in una tenda oppure a rifugiarsi dentro ex ospedali militari cadenti, basi dell’esercito, i vecchi blok sovietici.
Il governo georgiano con i soldi della comunità europea vorrebbe dare una casetta a ogni famiglia; ma voci critiche giungono dalle massime associazioni inteazionali: c’è il timore che tutto si possa trasformare in una immensa speculazione edilizia fatta ai danni di profughi, che verrebbero indotti, più o meno volontariamente, a lasciare le loro «nuove» abitazioni.
Ma non tutto è così nero come potrebbe sembrare, anche se le zone di luce sono quasi sempre legate alla presenza di istituzioni occidentali, curate e coccolate, certe volte anche troppo. Esistono infatti personaggi ambigui che girano per il paese a caccia di giornalisti occidentali cui vendere storie, emozioni, progetti con cui fare la famosa e sempitea «marchetta».
Sono personaggi senza scrupoli, spesso georgiani, che puntano a lucrare sulla massa di denaro in arrivo. Sono in caccia di pubblicità a basso costo e per questo non esitano a offrire pranzi, cene, e compensi vari.
Ma questa è un’altra storia. 

Di Maurizio Pagliassotti

Maurizio Pagliassotti




OLTRE LA GUERRA

Russia-Georgia: sullo stato delle cose

INTRODUZIONE

Già a proposito dei conflitti interni scoppiati in Georgia nel 1992/1993 si era parlato di «pulizia etnica», quando oltre 280 mila georgiani furono costretti a lasciare l’Abkhazia e l’Ossetia del Sud, per vivere in situazioni miserabili, profughi nel proprio paese.
Per 15 anni vari organismi inteazionali hanno discusso e proposto soluzioni per sopire le tensioni secessioniste delle due regioni e permettere agli sfollati di tornare nelle loro regioni di origine. Invece, i tragici eventi dell’agosto scorso, in cui si sono fronteggiati l’esercito russo, quello georgiano e le milizie separatiste dell’Ossetia, hanno provocato centinaia di vittime e un esodo di massa dall’Ossetia del Sud, raddoppiando il numero dei profughi.
Sono risuonate di nuovo le parole «genocidio» e «pulizia etnica» come accuse reciproche  tra Mosca e Tblisi: la Russia ha accusato la Georgia di aver condotto un’operazione di pulizia etnica contro il popolo osseto; la Georgia si è rivolta alla Corte di Giustizia dell’Aja accusando la Federazione russa di avere messo in moto una crociata basata su «atti di discriminazione razziale» e di avere condotto con il suo esercito una «metodica pulizia etnica» nei confronti dei georgiani delle due repubbliche separatiste.

Vicende storiche e interessi economici e politici immediati condizionano l’informazione su ciò che sta capitando nel piccolo ma strategico paese caucasico. Con questo breve dossier vogliamo aiutare, per quanto è possibile, a leggere la realtà, senza schierarsi con l’uno o l’altro contendente.
Anzi, in qualche modo vogliamo schierarci, ma dalla parte delle vittime della guerra e delle violenze dei mesi scorsi: sono circa mezzo milione le persone che hanno dovuto fuggire dalle violenze e rifugiarsi nei campi profughi. Alcune hanno iniziato a tornare nelle loro case e a ricostruire la propria vita; la maggioranza, invece, non ha alcuna speranza di ritorno e dipende totalmente dalla solidarietà internazionale.


OLTRE LA GUERRA

Sulla guerra dell’agosto 2008 tra Georgia e Russia si è scritto tanto, ma troppo spesso a sproposito.
La storia dei rapporti tra i due paesi è sempre stata complessa, ma non drammatica, sia durante l’impero russo che ai tempi dell’Unione Sovietica. Le cose sono cambiate in epoca recente (primi anni Novanta), con il nazionalismo georgiano e l’arrivo (non disinteressato) di Washington. Da ultimo va sottolineato che, contrariamente alla vulgata occidentale, il deficit di democrazia e libertà non è soltanto russo. Perché Tblisi e il presidente Saakashvili non sono attori immacolati.

Il recente conflitto tra Russia e Georgia ha imposto all’attenzione internazionale la regione caucasica, le cui dinamiche storiche e politiche sono nel complesso assai poco note (1). Tale conflitto è stato descritto e interpretato in maniera varia e contrastante, molto spesso pregiudizialmente a sostegno dell’una o dell’altra parte (2). Questo articolo mira invece ad affrontare, più che a rispondere, una questione tanto importante quanto complessa: la guerra di agosto è stata davvero l’esito di un secolare e inevitabile contrasto tra la Russia e la Georgia?

AI TEMPI DELL’IMPERO RUSSO

La Georgia ha una storia quanto mai remota, che risale al primo millennio a.C., entrando presto a contatto con la Grecia, l’Iran e Roma. La Georgia è anche uno dei primi paesi a convertirsi al cristianesimo – tradizionalmente nel 336, grazie all’opera di santa Nino – costituendo nei secoli una delle più antiche chiese ortodosse (3).
Dopo un periodo di particolare splendore, nei secoli XII-XIII, la Georgia si divise in piccoli regni e principati, indipendenti ma contesi a lungo tra gli imperi musulmani di Turchia e Persia, nonché minacciati dalle incursioni devastatrici dei bellicosi montanari del Caucaso settentrionale.  I viaggiatori e i missionari europei dei secoli XVII-XVIII (Della Valle, Castelli, Chardin) concordano nel descrivere un paese devastato dalle invasioni musulmane e dal disordine interno, le cui regioni meridionali tendevano a islamizzarsi. Alla luce di questa difficile situazione politica, i georgiani iniziarono già nella seconda metà del XVII secolo ad avvicinarsi alla Russia, potenza cristiana e ortodossa in rapida ascesa, ma senza ottenere alcun aiuto concreto ed esponendosi invece ai sospetti di ottomani e persiani.
Nel 1783 il re Erekle II, che pure era riuscito a riunire buona parte della Georgia orientale, riconobbe il protettorato russo. Il suo successore, Giorgi XII, inviò un’ambasciata a Pietroburgo per chiedere che la Russia esercitasse una piena autorità sul paese, a condizione che egli e i suoi successori potessero restare sul trono. Nel dicembre 1800, l’imperatore russo Paolo I non rispettò questa richiesta, peraltro contraddittoria, e proclamò invece l’annessione della Georgia orientale alla Russia (4). Nei decenni successivi l’impero russo conquistò anche tutti i territori della Georgia occidentale.
Nonostante l’affinità religiosa (il cristianesimo ortodosso) e sociale (anche in Georgia i contadini erano asserviti alla nobiltà), i georgiani accolsero in maniera alquanto negativa la perdita dell’antica e pur precaria indipendenza, anche a causa della politica, per molti aspetti ottusa, della Russia. In particolare, va segnalato il grave attacco portato all’identità religiosa della Georgia. Nel 1811 il patriarca Anton, appartenente alla famiglia reale, fu destituito e sostituito da un esarca russo incaricato di governare la chiesa georgiana, che perse così la sua antica autocefalia.
I primi decenni del dominio russo furono inoltre segnati da numerose rivolte anti-russe, sia contadine che nobiliari. Solo nei decenni successivi, soprattutto grazie all’accorta politica del viceré Michail Voroncov (1844-1855), la Georgia avrebbe trovato un inserimento più positivo all’interno dell’Impero russo. Nonostante le difficoltà politiche e religiose, per i georgiani, così come per i loro vicini armeni, l’inserimento nell’impero russo ebbe delle importantissime conseguenze storico-culturali. Da un lato pose fine alla secolare soggezione alle dominazioni musulmane, dall’altro consentì la recezione della cultura europea modea, sia pure attraverso la mediazione di quella russa. Non a caso la prima generazione degli intellettuali georgiani modei – i cosiddetti «padri» – è nota come Tergdaleulni, vale a dire «coloro che hanno superato il Tergi» per recarsi a studiare a Mosca e Pietroburgo (5).
Un altro fattore positivo dell’inserimento della Georgia nell’impero russo fu che, sia pure sotto una dominazione straniera, per la prima volta dopo molti secoli, il paese toò ad essere unito, superando almeno in parte il forte frazionamento regionale che ne costituisce una caratteristica fondamentale (6).
Anche i georgiani, peraltro, risentirono negativamente della svolta autoritaria e russificatrice che tutto l’impero russo conobbe dopo l’assassinio di Alessandro II nel 1881. Una serie di misure restrittive li colpì soprattutto nella sfera dell’educazione, ma tale politica repressiva fu contrastata efficacemente da un forte movimento nazionale, guidato inizialmente da membri della nobiltà, che si levò a difesa della lingua, della letteratura e della cultura georgiane. Il progressivo rafforzamento di una identità nazionale modea e il difficile rapporto con la Russia spiegano come, nonostante lo sviluppo demografico, economico e culturale conosciuto in epoca zarista, dopo la rivoluzione d’Ottobre la Georgia si sia rapidamente resa indipendente. Un’indipendenza durata soltanto dal 1918 al 1921, sino all’invasione dell’Armata Rossa.
AI TEMPI DELL’URSS
Per sette decenni la Georgia fu inserita nell’Unione Sovietica e costretta a subie le politiche di collettivizzazione, lotta antireligiosa, repressione culturale e così via. Pur in questo contesto difficile e spesso tragico, il paese conobbe anche gli aspetti positivi dell’epoca sovietica: costituzione di strutture culturali modee (accademia, università), un forte aumento dell’istruzione media, una notevole industrializzazione e così via. Da segnalare anche il fatto che all’interno della Georgia, che costituiva una delle 15 repubbliche sovietiche, vennero costituite tre autonomie territoriali – Abkhazia, Ossetia meridionale e Agiaria – assegnate a minoranze etniche o culturali (7).
In definitiva, anche nell’epoca sovietica la Georgia conobbe tanto gli aspetti negativi quanto quelli positivi del sistema. Non c’è ragione per affermare che abbia sofferto più di altri paesi; anzi, il livello di vita e istruzione era tra i più alti dell’Urss. Sin dagli anni ‘70, inoltre, in Georgia iniziò a delinearsi un «nazionalismo eterodosso», capace, per esempio, di contrastare vivacemente i tentativi di Mosca di limitare l’uso della lingua nazionale (8).

I DISEGNI DI WASHINGTON (E QUELLI DI MOSCA)

Dopo la fine dell’Urss nel 1991, la Georgia, o almeno la sua classe dirigente, ha coltivato con ostinazione il progetto di un completo distacco dalla Russia e di avvicinamento all’Europa e all’Occidente in generale, che per molti aspetti appare in contrasto sia con la storia che con la  collocazione geografica di questo paese. Ma, come osserva ironicamente uno studioso russo, «… in Europa e negli Stati Uniti è possibile emigrare, ma divenire parte del mondo economico e culturale dell’Europa, ignorando la Russia, resta un desiderio irreale per tutte le regioni del Caucaso, nessuna esclusa» (9). 
Durante la presidenza fortemente nazionalista di Zviad Gansakhurdia (1991-1992) Tblisi si rifiutò di aderire alla Csi (10) e portò avanti una politica micro-imperiale ostile sia alla Russia che alle autonomie delle minoranze etniche presenti sul suo territorio (11). La Russia appoggiò allora le rivendicazioni indipendentiste di osseti e abkhazi, che sono riusciti a rendersi de facto indipendenti dopo violente guerre nel periodo 1991-93.
Tali conflitti, tra l’altro, hanno determinato l’emigrazione massiccia degli osseti dalla Georgia e dei georgiani dall’Abkhazia. Da allora truppe russe sono presenti nelle due entità secessioniste con funzione di peace-keeping e su mandato internazionale. La Georgia, peraltro, non ha mai accettato questa situazione, anche se durante la lunga presidenza di Shevaadze (1992-2003) non ha potuto in alcun modo ribaltarla.
La situazione è profondamente cambiata dopo la cosiddetta «rivoluzione delle rose», che tra la fine del 2003 e l’inizio del 2004 portò all’avvento di una dirigenza fortemente filo-occidentale guidata da Mikheil Saakashvili. Questa evoluzione politica della Georgia è avvenuta indubbiamente con il favore e l’aperto sostegno degli Stati Uniti (12).
Nell’ambito del più generale ridispiegamento strategico e militare verso sud-est, iniziato dopo l’11 settembre 2001, Washington ha infatti individuato nella Georgia il paese chiave della sua penetrazione nella regione caucasica, più di quanto – per differenti ragioni – possano divenirlo l’Armenia e l’Azerbaigian.
Al tempo stesso, tuttavia, dopo la disastrosa crisi post-sovietica degli anni ‘90, sotto la presidenza di Putin, la Russia è tornata a consolidare le sue posizioni, in particolare nel cosiddetto «estero vicino», vale a dire le ex repubbliche sovietiche, mettendo in dubbio quella «transizione egemonica» (13), che appariva inevitabile sino a pochi anni prima. Soprattutto nel Caucaso, i paesi e i popoli sono quindi in larga misura ostaggi non tanto di conflitti arcaici, come spesso si pretende, quanto piuttosto di questa rivalità geopolitica: mentre la Georgia e, in misura minore, l’Azerbaigian hanno assunto una posizione filo-americana, l’Armenia (incluso l’Alto Karabakh) e soprattutto l’Abkhazia e l’Ossetia meridionale continuano a essere schierate con Mosca.

L’UNIONE EUROPEA, LA NATO, IL KOSOVO 

In questa complicata situazione si è inserita da qualche tempo anche l’Unione europea. Dopo oltre un decennio di scarso interesse nei confronti della regione, nel giugno 2004 Georgia, Armenia e Azerbaigian sono state incluse nella «Politica europea di vicinanza» (14).
Il nuovo atteggiamento di Bruxelles ha varie motivazioni. In primo luogo è collegato con la questione della candidatura della Turchia, il cui eventuale ingresso porterebbe le frontiere europee direttamente sul Caucaso. Ma anche con la «rivoluzione delle rose» in Georgia, che ha profondamente modificato la situazione di questo paese, facendone il principale motore dell’avvicinamento all’Unione europea. Infine, la crescente preoccupazione europea per l’affidabilità delle foiture energetiche russe ha reso particolarmente rilevante la regione come via alternativa del transito di gas e petrolio (15).
Pur priva delle ambizioni egemoniche di Russia e Stati Uniti, l’accresciuta presenza europea nel Caucaso meridionale non ha però attenuato le tensioni regionali. La dirigenza georgiana, forte del dichiarato sostegno americano, è infatti decisa a riconquistare il controllo dei territori perduti.
Sin dal 2004 Tblisi è riuscita a riprendere pacificamente il controllo dell’Agiaria, una regione abitata da georgiani musulmani, che negli anni precedenti aveva conosciuto una sorta di blanda indipendenza, mentre ha condotto nei confronti di Abkhazia e Ossetia meridionale una politica fatta sia di proposte di vasta autonomia sia di pressione militare.
Già nell’estate 2004 vi furono scontri in Ossetia meridionale, mentre nel 2006 Tblisi rioccupò militarmente la valle di Kodori, in Abkhazia. L’intensificazione delle rivendicazioni georgiane su queste regioni ravvivò allora la prospettiva di un loro incorporamento nella Federazione russa. Più volte sollecitata dai dirigenti di Abkhazia e Ossetia meridionale, tale annessione di territori giuridicamente appartenenti alla Georgia è stata a lungo respinta dalla Russia, soprattutto alla luce delle forti ripercussioni intee (si pensi alla Cecenia) e inteazionali che avrebbe potuto avere.
Mosca ha invece largamente concesso la cittadinanza russa agli abitanti di Abkhazia e Ossetia meridionale, portando avanti una politica di sostanziale integrazione di queste regioni.
La situazione è tuttavia nettamente cambiata dopo il riconoscimento da parte degli Stati Uniti e di molti (ma non tutti) paesi europei dell’indipendenza del Kosovo, che ha comprensibilmente accresciuto le analoghe aspirazioni di Abkhazia ed Ossetia meridionale.
Un altro fattore che ha contribuito notevolmente ad aumentare la tensione nella regione è stata la richiesta georgiana di entrare nella Nato, tanto fortemente osteggiata da Mosca quanto caldeggiata dagli Stati Uniti. Il vertice Nato di Bucarest, nell’aprile di quest’anno, aveva però rimandato l’adesione georgiana, soprattutto per l’opposizione di alcuni paesi europei (Germania e Francia in particolare), preoccupati del sicuro peggioramento dei rapporti con Mosca che tale decisione avrebbe comportato.

AUTORITARISMO RUSSO E DEMOCRAZIA GEORGIANA?

Alla luce di questi precedenti, il conflitto russo-georgiano è stato in effetti improvviso, ma non certo imprevisto. Se il suo esito militare appare chiaro, più complesso risulta interpretae il senso e le conseguenze politiche.
Nonostante molti errori e incomprensioni, i rapporti storici tra Russia e Georgia non sono certo stati così negativi da doversi inevitabilmente concludere con una guerra. Né appare corretto, a differenza di quanto i media occidentali hanno largamente proposto, interpretare il conflitto di agosto come uno scontro tra l’autoritarismo neo-imperiale russo e la democrazia georgiana.
Infatti, se il deficit di democrazia e libertà di espressione della Russia odiea è ampiamente noto, ben poco si sa delle analoghe inclinazioni della dirigenza georgiana, che sarà anche filo-occidentale, ma ha brutalmente represso le manifestazioni dell’opposizione nello scorso novembre, gestito le elezioni presidenziali in maniera quanto mai contestata, nonché imposto su magistratura e informazione radiotelevisiva un controllo non molto differente da quello che viene rimproverato a Mosca (16).
In effetti, al di là delle gravi responsabilità di una dirigenza georgiana irresponsabile nel portare avanti una politica micro-imperiale, ammantata di slogan democratici, il conflitto di agosto può essere considerato essenzialmente uno scontro, breve ma cruento, tra l’egemonismo globale statunitense (che si serve del cliente georgiano) e quello locale russo (che utilizza invece abkhazi e osseti). Parlare a questo proposito di una nuova guerra fredda tra Russia e Occidente è del tutto fuorviante, ma sicuramente ci sarebbero buone ragioni per ripensare modalità e obbiettivi dell’espansione verso est della Nato e dell’Unione Europea. 

di Aldo Ferrari


Note:

(1) Per uno sguardo d’insieme sulla storia della regione caucasica e dei suoi conflitti si veda lo studio di A. Ferrari, Breve storia del Caucaso, Carocci, Roma 2007.
(2) Uno strumento utile per l’aspetto geopolitico è il volume «Quadei speciali di Limes», Russia contro America. Peggio di prima, settembre 2008, interamente dedicato al conflitto russo-georgiano e alle sue implicazioni globali.
(3) Sulla chiesa e la spiritualità georgiana si può fare riferimento soprattutto alle pubblicazioni di  G. Shurgaia (a cura di), Santa Nino e la Georgia: Storia e spiritualità cristiana nel paese del Vello d’oro, Edizioni Antonianum, Roma 2000; La spiritualità ortodossa. Martirio di Abo, santo e martire di Cristo, Edizioni Studium, Roma 2003; La Chiesa ortodossa di Georgia ieri e oggi, in A. Ferrari (a cura di), Popoli e Chiese dell’Oriente cristiano, Edizioni Lavoro, Roma 2008, pp. 249-303. Interessante anche lo studio di N. Gabashvili, La Georgia e Roma. Duemila anni di dialogo tra cristiani, Libreria editrice Vaticana, Roma 2003.
(4) Sulle controverse circostanze che portarono all’annessione della Georgia orientale alla Russia si veda lo studio di L. Magarotto, L’annessione della Georgia alla Russia (1783-1801), Campanotto Editore, Udine 2004.
(5) Il Tergi (in russo Terek), è il fiume che segna il confine, più simbolico che reale, peraltro, tra il Caucaso settentrionale e la Russia.
(6) Su questa fase della storia georgiana si veda soprattutto R. G. Suny, The Making of Georgian Nation, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 1942, pp. 63-164.
(7) Occorre peraltro osservare che altre consistenti minoranze nazionali non ebbero alcun riconoscimento territoriale, in particolare gli armeni e gli azeri che costituiscono la maggioranza della popolazione in alcune regioni meridionali del paese. È molto probabile che proprio la mancata costituzione di queste autonomie abbia risparmiato alla Georgia post-sovietica altri conflitti etno-territoriali. 
(8) Cfr. H. Carrère D’Encausse, Esplosione di un impero? La rivolta delle nazionalità in U.R.S.S., tr. it. E/O, Roma 1988, pp. 235-239.
(9) A. Zubov, Il futuro politico del Caucaso, in P. Sinatti (a cura di), La Russia e i conflitti nel Caucaso, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 2001,  p. 68.
(10) La «Comunità degli stati indipendenti» (Csi) è una federazione di 11 dei 15 stati dell’ex Unione Sovietica. Gli esclusi sono i tre paesi baltici (Lituania, Lettonia, Estonia) e la Georgia.
(11) Cfr. O. Vasilieva, La Georgia quale modello di piccolo impero, in C. M. Santoro (a cura di), Nazionalismo e sviluppo politico nell’ex Urss, SPAI, Milano, 1995, pp. 206-228.
(12) Cfr. P. Sinatti, La Georgia tra Mosca e Washington, in «Limes. Rivista di geopolitica», 2004, 1, p. 292.
(13) Per «transizione egemonica» si intende il passaggio dal controllo – prevalente o assoluto – di uno stato ad un altro in una determinata regione. Nel caso del Caucaso meridionale, ovviamente da Russia a Stati Uniti.
(14) La «politica europea di vicinanza» (o vicinato o prossimità) è un insieme di misure politiche, giuridiche ed economiche che – senza costituire un passo ufficiale verso l’ingresso nell’Unione Europea – ne costituiscono però un importante presupposto. Georgia, Armenia e Azerbaigian sono state coinvolte nella primavera del 2004.
(15) Cfr. A. Ferrari, Breve storia del Caucaso, cit., pp. 131-132.
(16) Si veda al riguardo l’articolo, pubblicato in un sito non certo filo-russo, Reports slam Georgian Govement for use of force, authoritarian tendencies, in «Civil Society», http://www.eurasianet.org/departments/insight/articles/eav122107.shtml.
Anche Missioni Consolata ha parlato delle carenze democratiche della Georgia: nel numero di gennaio 2008 e sul numero monografico di ottobre-novembre 2008.


Aldo Ferrari




ACCOGLIETELO NEL SIGNORE CON PIENA GIOIA

La parabola del «figliol prodigo» (23)

«29 Ma egli rispondendo, disse a suo padre: Guarda/Ecco, da tanti anni [io] ti sono schiavo e mai un tuo comando ho trasgredito, e (tu) mai mi hai dato un capretto perché con i miei amici  potessi essere felice (= fare festa). 30 Ma quando questo tuo figlio, che ha mangiato con le prostitute la tua vita, è venuto, (tu) hai ucciso per lui il vitello grasso». «31 Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32 ma bisognava fare festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».

Nella puntata precedente abbiamo lasciato il figlio «anziano» in preda all’ira contro il padre, che ha osato accogliere il fratello tornato a casa, dopo il tradimento e il pentimento. Nei nostri orecchi risuona ancora come una lama affilata e piantata nella carne viva l’espressione «questo tuo figlio», carica di disprezzo senza tregua e senza  sconti.

Stare con il padre senza esserci
Il fratello maggiore ha rinnegato la «frateità» e si è chiuso nella sua solitudine, che diventa anche rifiuto della pateità perché egli si considera non figlio, ma «schiavo»: «Da tanti anni (io) ti sono schiavo (in greco: doulèuō) e mai un tuo comando ho trasgredito» (v. 29). Stare a casa col padre deve essergli pesato come un macigno perché egli si è imposto non di «stare col padre», ma di vigilare sulla eredità che considerava sua a tutti gli effetti. La giustificazione della sua tirchieria avara è riversata sul padre, perché l’egoista non sa portare nemmeno le responsabilità delle proprie scelte, ma ha bisogno sempre di un paravento, dietro cui riparare il proprio perbenismo e la propria grettezza.
Il v. 29 dove il figlio maggiore accusa di avarizia, vi è una ripresa del tema dell’«avere» che segna tutta la parabola e che ci pare importante sottolineare anche visivamente;
v. 12: Padre, DAMMI (dice il figlio minore che pretende la vita e l’eredità del padre prima della sua morte);
v. 16: Nessuno gli DAVA (al figlio minore che vuole saziarsi almeno del cibo dei porci);
v. 22: Disse: DATEGLI l’anello al dito (dice il padre ai servi per reintegrare il minore nell’eredità);
v. 29: Mai mi HAI DATO un capretto (dice il maggiore al padre per giustificare la sua gretta avarizia);
v. 31: Tutto è TUO (dice il padre al maggiore che non ha mai potuto godersi quello che aveva).
Il figlio maggiore si dimostra autentico figlio di Adam che, rifiutando di riconoscere la «signoria» di Dio, finisce per ritrovarsi «nudo» per se stesso e incapace di riconoscere gli altri come suoi simili. Caino uccide il fratello Abele, perché senza padre non c’è fratello. Nella parabola di Lc, avviene il contrario: non riconoscere la frateità significa disconoscere anche la pateità di Dio. D’altra parte i due atteggiamenti sono simmetricamente corrispondenti («chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede?», 1Gv 4,20), perché senza fratelli non c’è padre.
Il fratello maggiore si ribella al padre che accoglie e «salva» il fratello minore, come il profeta Giona s’indignò con Dio perché concesse a Ninive un’opportunità di salvezza (Gn 4,1.4), mentre egli nel furore della sua personale giustizia avrebbe voluto distruggere tutta la città, abitanti e animali compresi.

Simbolismo dei nomi: il Barabbà e i barabbi
Esaminando il v. 28 (cf MC 7-8 [2008] 72-73) abbiamo parlato del «giorno dell’ira» e ci siamo riferiti sia a Caino che al profeta Giona che, ora, trovano pieno compimento nel figlio «anziano» della parabola, che si contrappone in modo lampante al padre come evidenzia lo schema seguente:
Due mondi e due prospettive si confrontano e si oppongono. È evidente che Lc non intende raccontare solo una parabola edificante, ma vuole proporre una catechesi in prospettiva cristologica. La figura del padre è simbolica di Dio che viene in cerca dei suoi figli vaganti nel deserto come pecore smarrite (Lc 15,4.8). Egli ha inviato il Figlio primogenito per radunare e salvare i «figli minori», che costituiscono l’umanità intera fino ad offrire la sua vita «perché (…) non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma (…) lo risusciti nell’ultimo giorno» (Gv 6,39).
A questo riguardo nella scena della passione, in modo esplicito Matteo e in modo più implicito, come è suo costume, l’evangelista Giovanni giocano sul significato dei nomi aramaico-ebraici per esprimere il senso profondo degli avvenimenti. Pilato chiede alla folla urlante che scelgano chi liberare tra «Gesù, chiamato Cristo» [cioè il Bar-Abbà, Figlio unigenito del Padre] e «Barabba» [cioè il bar-abbà in aramaico] che significa figlio del padre/papà (cf Mt 27,17; Gv 18,40).
Gesù per salvare i «figli minori», cioè noi, non esita a dare la sua vita fino alla morte; mentre il fratello maggiore della parabola vuole la morte del fratello minore. Per Lc il figlio «anziano» è l’anti-Cristo, il vero figlio di Adam, che vuole usurpare per sé l’albero della conoscenza del bene e del male (cf Gen 3,2-6), escludendo dal suo orizzonte tutti gli altri fratelli (cf Gen 4,9). Sta qui la natura del peccato del figlio anziano: essa consiste nella «solitudine» della sua vita, che egli pretende di vivere da sé e per sé, senza padre e senza fratello.
Egli vive da solo, cioè per se stesso nell’abisso della grettezza, fuori da ogni parvenza di comunità e di relazione. Isolato nel suo egoismo, trasuda rabbia, odio e morte. Il suo peccato è più grave di quello del fratello minore che, anche andando con le prostitute (cf Lc 15,13.30), in qualche modo cercava una parvenza di relazione e di comunione; in modo certamente sbagliato, ma anche «in un paese lontano» (Lc 15,13) non visse mai da solo.

Questo tuo figlio….questo tuo fratello
Il figlio maggiore rinnega perfino il fratello (v. 30), che lo identifica solo come figlio di suo padre: «Questo tuo figlio». Il padre si rende perfettamente conto e risponde (v. 32) riportandolo a un livello profondo di affettività: «Questo tuo fratello». Per il figlio primogenito, il fratello «ha mangiato con le prostitute la tua vita (= del padre)»; per il padre il figlio minore, invece, «era morto ed è tornato in vita»; per l’egoista conta il patrimonio, per il padre la vita salvata.
C’è nella scrittura un altro tentativo simile a questo, quando, dopo il peccato d’idolatria compiuto da Israele che si è fabbricato il vitello d’oro, Mosè sale a Dio per intercedere il perdono. Dio ripudia il suo popolo e cerca, solleticando la vanagloria, di circuire Mosè per ricominciare una storia nuova, con persone nuove, con esiti diversi. Nelle parole di Dio Israele diventa il popolo di Mosè: «Allora il Signore disse a Mosè : “Và, scendi, perché il tuo popolo, che tu hai fatto uscire dal paese d’Egitto, si è pervertito”» (Es 32,7). Mosè non cade nel tranello e rimanda a Dio la responsabilità della salvezza dall’Egitto: «Mosè supplicò il Signore, suo Dio, e disse: “Perché, Signore, divamperà la tua ira contro il tuo popolo, che tu hai fatto uscire dal paese d’Egitto con grande forza e con mano potente?”» (Es 32,11). L’autore conclude lapidariamente che «il Signore abbandonò il proposito di nuocere al suo popolo» (Es 32,14).
Di fronte alla fermezza della verità, anche Dio si piega e abbandona l’ira della morte, ma non il fratello maggiore della parabola lucana, che resta chiuso nelle spire della morte sua e degli altri. Non sappiamo come va a finire, perché la parabola si conclude con le parole del padre che rimanda il figlio maggiore alla sua responsabilità di primogenito. Egli però non risponde e Lc lascia il lettore con il sapore della prospettiva che almeno il figlio minore è salvo, al sicuro, in casa, in attesa che il padre rientri. La conclusione è aperta: forse convertito dalle parole del padre, il figlio anziano è entrato anche lui nella festa della risurrezione; ma forse, e più plausibilmente, ha sbattuto la porta e se ne è andato, maledicendo il padre che si è perso dietro il figlio minore.

«Io sarò sempre con te»
Alla dichiarazione del maggiore che si dichiara non figlio, ma «schiavo» (Lc 15,29), il padre risponde (Lc 15,31) con parole che manifestano la grandezza abissale della pateità: «Figlio, tu sei sempre con me». Bisogna fare attenzione a questa risposta del padre che non sembra così ovvia come potrebbe apparire. Il padre non dice di essere lui «sempre con il figlio» perché egli non ha mai messo in questione o in dubbio la propria pateità. Al contrario, è il «figlio» che non «deve» dimenticare di «stare sempre col padre» perché, accecato dagli interessi materiali, ha perso di vista anche la presenza della pateità.
Quale tragedia si consuma tra questi due uomini! Una pateità sempre presente è misconosciuta, mentre una frateità mai condivisa viene espulsa. Un padre tesse le relazioni vitali tra i figli e uno (il minore) lo uccide e l’altro (il maggiore) lo uccide e seppellisce.

a) Nell’AT, i patriarchi
Nell’AT, l’espressione «io sono/sarò con te» indica la protezione e la familiarità/vicinanza che Dio ha con i patriarchi: Abramo (Gen 21,22), Isacco (Gen 26,3.24), Giacobbe (Gen 28,15); con Mosè (Es 3,12), con Giosuè (Gs 1,5.9) nella prospettiva di una alleanza di amore filiale e paterno. Dio si prende cura di coloro che chiama e non li abbandona alla solitudine della disperazione.
Parlando il linguaggio della «vicinanza», il padre tenta di rimettere il figlio, che si è perduto senza mai muoversi da casa, nella scia dei patriarchi e reinserirlo nella trama della salvezza che si fa storia, ricordandogli che non ha motivo di sentirsi solo, perché avrebbe dovuto sentire la presenza patea. Invece il figlio maggiore, pieno di sé, abitato solo da interessi materiali, non solo non ha percepito la presenza del padre, ma ha anche rinnegato e oscurato la «Shekinàh/Dimora/Presenza» di Dio.
Mentre il fratello minore è stato capace di riannodare i nodi della sua esistenza, ritornando alla sua origine e alla sua identità, il fratello maggiore, stando sempre fuori di casa (il testo non dice che è entrato), in un colpo solo, ha reciso il suo passato e il suo futuro. Senza storia e senza prospettiva.

b) Nel NT: il Figlio della necessità
Nel NT si usa la stessa espressione per coloro che hanno condiviso le prove con Gesù (Lc 22,28-29), per il ladrone pentito che per primo sperimenta la promessa del compimento del regno: «Oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23,43), segni premonitori di una realtà più profonda e radicale: la totale identità tra Gesù/il Figlio e Dio/il Padre: «Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie» (cf Lc 15,31 con Gv 17,10).
Per Lc, l’evangelista del discepolo, seguire Gesù significa imitarlo nell’unità col Padre, l’opposto esatto di ciò che vive, decide e sceglie il figlio maggiore della parabola, che fu generato figlio, ma volle essere schiavo, finendo per diventare ateo praticante, idolatra senza Dio.
La parabola si conclude con la dichiarazione del padre sulla «necessità» della festa che richiama la gioia del pastore che ritrova la sua pecora (Lc 15,6) e quella della donna casalinga che ritrova la moneta (Lc 15,9), formando, a livello tematico, una specie di «inclusione» tra l’inizio e la fine del capitolo 15 di Lc, aggiungendo così un altro elemento unitario sul piano letterario.
Lc è particolarmente legato a questa «ineluttabilità necessaria»: nel NT il verbo al presente (= dêi – bisogna) e all’imperfetto (= èdei – bisognava) ricorre almeno 100 volte, di cui 40 solo in Luca: una presenza massiccia e segno che l’autore vuole sviluppare un proprio pensiero teologico.
Già al compimento dei dodici anni, in occasione della cerimonia della «Bar mtzvàh – figlio del comandamento», quando il giudeo diventa maggiorenne, mentre era nel tempio a discutere con i dottori della Toràh, alla madre che lo rimprovera, risponde che è suo compito (= dêi – bisogna) occuparsi delle cose del Padre suo (Lc 2,41-50, qui v. 49).
In Lc, Gesù è pressato della «necessità» che gli studiosi, specialmente di teologia, definiscono come «necessità di Dio o divina» per sottolineare il mistero della libertà di Gesù congiunto con quello di una chiamata particolare per un compito particolare: Gesù non si sottrae alla volontà del Padre fino al punto che la sceglie come fondamento della sua vita: «Prese la ferma decisione di dirigersi verso Gerusalemme» (Lc 9,51), la città di Dio, la città del compimento delle profezie, la città, dove la «necessità» di Dio diventa redenzione degli uomini e delle donne.

Un padre senza fine
Di fronte alla necessità della gioia che condivide la vita ritrovata del fratello, il figlio maggiore prende le distanze, si priva da sé della festa, e pretende anche di essere giusto. Il padre parla al plurale (in greco si ha il verbo in forma impersonale che può quindi leggersi come «plurale»): «È necessario che noi ci si rallegri e si faccia festa», aprendo uno spiraglio sul fatto che la gioia o è comunitaria o è un inganno.
Insieme ci si salva, da soli ci si danna. La comunità è il luogo principe della festa di accoglienza, ma ancora una volta il figlio maggiore ne resta volutamente fuori, mentre il figlio minore è immerso nel cuore della «casa», immagine della chiesa, che lo accoglie con amore materno e lo custodisce entro i muri del suo cuore.
Un padre e due figli. Il figlio scapestrato ora è dentro la casa, mentre il maggiore rimane fuori; il padre che prima era col minore a fare festa, ora è fuori accanto al maggiore per condividee l’angoscia e la resistenza; il figlio minore inizia il suo cammino di catecumenato dentro la chiesa in cui condivide la sua gioia di salvato, il figlio maggiore è in procinto di dare voce e corpo alla sua auto-scomunica perché egli si esclude da solo dalla prospettiva di salvezza della chiesa intera.
Tra i due è il padre che ancora una volta spezza la sua vita, una parte per figlio, pur di tenerli uniti. Nella penna di Lc, il padre è sempre in movimento perché corre da un figlio all’altro, dentro e fuori la casa/chiesa: alla fine è l’unico a non avere un posto, ma è anche il solo che sa stare accanto ai suoi figli senza pretendere da loro nulla in cambio del suo «esserci».
Non cerca di cambiare i figli, ma li aiuta a guardare dentro di sé perché soltanto loro conoscono «la necessità» del loro cuore e il bisogno della loro vita.     (continua – 23)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Un cuore caldo sotto i ghiacci

Viaggio nella terra di vulcani e geyser

Isola vasta ma spopolata, a 3 km dal circolo polare artico, ricca di secolari fenomeni vulcanici, meta turistica per intenditori, l’Islanda ha deciso di sfruttare le sue ingenti riserve energetiche con impianti industriali inquinanti, mettendo a rischio la sua fama di paese meno inquinato del mondo.

Una terra nera, rugosa e drammatica che sprigiona densi vapori bianchi: è la prima immagine che l’Islanda offre di sé appena l’aereo atterra all’aeroporto di Keflavik, a un’ora dalla capitale Reykjavik (baia fumosa). La zona è tra le più calde dell’isola, con fenomeni geotermici violenti, solfatare e soffioni: queste forze della natura vengono sfruttate per produrre energia e altre comodità per la vita degli abitanti e la delizia dei turisti, come le vasche di acqua termale all’aria aperta. 
Il primo tuffo lo facciamo nella piscina pubblica di Reykjavik. Appena ci ha sentite parlare, un operaio addetto allo stabile si avvicina e ci racconta la sua storia avventurosa: si chiama Roberto, ha 68 anni e vive in Islanda da 35 anni; è fuggito da Napoli, lasciando moglie e figli, per trasferirsi in Canada; ha lasciato la seconda moglie e si è rifugiato in Islanda, dove ha deciso di rimanere con una terza moglie e tre dei suoi cinque figli.
«Tutti gli anni ritorno a Napoli, ma non è più la mia città. Oramai il mio paese è questo e ci vivo bene» afferma con il suo forte accento napoletano. E quando gli faccio notare la modestia di negozi e abitazioni, mi spiega che gli islandesi non vivono per l’immagine, sono persone vere, genuine e democratiche. Poi mi indica un anziano signore con barba bianca che sta entrando nello stabile della piscina con la sacca a tracolla, e aggiunge: «È il presidente del senato».
L’Islanda è ritenuta il primo paese europeo a darsi un governo democratico. Era il 930: la comunità locale si riunì presso il lago Thingvellir e scelse i loro rappresentanti che formarono l’Assemblea (Althing) con il potere di legiferare e governare il paese.
La storica località si trova a cavallo della frattura che divide le due placche continentali dell’Eurasia e dell’America. Il lungo canyon spacca la pianura, con due muraglioni di basalto nero che continuano ad allontanarsi, al ritmo di un millimetro all’anno. La terra in Islanda non è mai stata ferma ed è in continua evoluzione: qui sono avvenuti e avvengono più della metà dei fenomeni vulcanici nel mondo.
geyser, crateri e caldere
Lasciata Reykjavik, città piacevole e luminosa, con una piccola Toyota a nolo imbocchiamo la Ring Road, più di 2 mila km di strada che corre lungo tutta la costa islandese. Ci inoltriamo in un territorio per certi aspetti terrificante, segnato profondamente da fenomeni vulcanici, caldere fumanti, campi neri di lava e monti erosi e scarsa vegetazione.
Deviando verso la costa per raggiungere i villaggi di pescatori, troviamo un pugno di casette, protette da una lunga barriera di rocce nere, costruita dopo un devastante tsunami. Continuando la Ring Road verso est, attraverso immense distese di sabbia nera solcata da rivoli scuri, ci avviciniamo alle calotte glaciali, le più grandi d’Europa. Confesso che i primi due giorni mi sono trovata spaesata, oppressa dal grigio infinito di paesaggi drammatici e da una luce spettrale.
Spaventose eruzioni, documentate nei secoli passati, hanno lasciato il segno: la lava solidificata nelle forme più strane, è ricoperta oggi da uno spesso strato di muschio. Per chilometri si viaggia in un paesaggio fatto di campi coperti da enormi cuscini verdi. Nelle lagune lungo la costa vi sono ancora i ghiacci e moltissimi uccelli, che ho imparato a conoscere e amare durante i precedenti viaggi nei paesi del nord. Scopro che i villaggi segnati sulla mappa, dai nomi impronunciabili, sono in realtà case isolate, alla base di monti che paiono cumuli di cenere nera.
Siamo a metà maggio, i rari salici nani hanno gemme vellutate, ma i lupini devono ancora schiudersi. Il sole pare non voglia mai tramontare: in pochi giorni accenderà i colori del cielo e delle acque, fiumi, lagune e oceano. Minuscoli fiori rosa si apriranno sulla lava nera e la luce incredibile del nord ci terrà compagnia anche di notte.
solitudine
Gudveig vive da oltre 50 anni a Skaftafell, ai margini del più grande parco nazionale dell’Islanda. Si era sposata a 18 anni, nel 1954, quando ancora andava a scuola, a Reykjavik. «Mio padre era cattolico e io conservo un bellissimo ricordo della scuola della cattedrale e delle suore».
I primi anni a Skaftafell furono molto duri. Il giovane marito aveva scelto questa fattoria isolata, posta su di un ripido pendio, tra due grandi lingue di ghiaccio della calotta glaciale del Vatnajokull, per allevare pecore e cavalli. Allora non c’era acqua né luce e tutti i lavori dovevano essere fatti a mano. Uno dopo l’altro nacquero 5 figli.
«Mio marito era una persona meravigliosa» continua commossa, indicandomi il ritratto alla parete, che mostra un uomo dai bei lineamenti e ridenti occhi azzurri. «Quando nel ’64 gli fu offerto il lavoro di guardia nel parco nazionale appena costituito, la vita cambiò e arrivarono alcune comodità. L’allevamento da allora è proibito, per proteggere flora e fauna autoctoni, mentre il turismo è aumentato molto». L’ anziana signora è felice di ricevere durante l’estate gli ospiti, che, oltre a rompere la solitudine delle interminabili notti boreali, portano anche denaro buono.
Per più di 50 anni lo sguardo di questa donna gentile ha spaziato sull’immensa distesa grigia del Sandur, una deprimente pianura di fine sabbia nerastra e limo, che i torrenti glaciali hanno portato a valle fino alla costa. Nelle lunghe notti invernali Gudveig ha tempo per tessere e ricamare, ricoprendo sedie, poltrone e pareti della casa minuscola, dalle molte stanzette. Ha pure dipinto quadri, ispirandosi alla natura. I cinque figli hanno viaggiato molto e ora vivono nella capitale. Gli 11 nipoti vengono a passare le vacanze qui, a casa della nonna, e aiutano ad accogliere i turisti.

ALLA RICERCA DI SE STESSI
Naturalmente non tutti gli islandesi si rassegnano all’isolamento. Uno di essi è Petrus. Lo incontriamo in una pensione con vista sul porto di Seydisfjordur, una cittadina situata nell’omonimo fiordo della costa nordorientale dell’isola. È arrivato la sera da Reykjavik dopo otto ore di auto con la bella moglie e due gemelle di 12 anni.
Petrus ha studiato e lavorato negli Stati Uniti per 7 anni, poi è voluto ritornare in patria, stabilendosi nella capitale. «Viaggio molto per lavoro e conosco Milano e Roma» mi spiega. Hanno in progetto di imbarcarsi per l’Europa e spendere un mese di vacanza in Scozia, con tappe intermedie in Norvegia e a Copenaghen.
L’Islanda, infatti, continua a mantenere i suoi legami storici con le nazioni che l’hanno dominata. Per quasi tre secoli la Danimarca ha mantenuto il controllo politico e commerciale dell’Islanda, fino al giorno dell’indipendenza ottenuta solo dopo la seconda guerra mondiale (1944).
Mentre Petrus e famiglia s’imbarcano, dal traghetto sono appena scesi due giovani neozelandesi, in bicicletta. Arrivano da un anno di viaggio in Asia. Cinque mesi li hanno passati in India e ora contano di fermarsi un mese in Islanda, sempre in bici, dormendo in tenda.
Sulla strada che porta al lago Mivatn incontriamo un ventunenne di Tabor, Repubblica Ceca, che viaggia solo e spera di vendere foto e reportage a Praga per pagarsi il prossimo viaggio. Sulla bicicletta ha la sua casa, compreso un fornello col quale ci prepara un caffè, al tavolo di un rifugio che troviamo a metà percorso, perfettamente attrezzato e pulito, con servizi, docce e piscina termale, anche se incustodito, non essendo ancora in piena stagione turistica.
Qui incontro Peter, giovane ungherese che viaggia solo, a piedi e in autostop, da oltre un mese. Ha lasciato l’università ed è partito alla ricerca di se stesso. Ci sono anche due cinesi di Singapore, con auto a nolo e perfetta attrezzatura d’alta montagna. Per loro questo viaggio, programmato da tempo con molta cura, è la realizzazione di un sogno.

TERRA DI MIGRATORI
Procedendo verso il nord, per chilometri non incontriamo altri veicoli, il paesaggio è ancora segnato dalla neve, i colori sono brillanti, l’aria fredda, le lagune popolate di uccelli.
Ad Akureyri alloggiamo nella pensione di Elin. Ci racconta che da bambina aveva imparato a pescare sulla barca del padre, quando vivevano a Darvik, villaggio di pescatori situato in un’ansa dell’Eyiafjordur. Dopo il diploma, si era iscritta all’università di Akureyri e aveva insegnato nel college di agraria di Hòlar, finché ha aperto la guest house dove ci siamo sistemate.
«Devi andare a Hòlar – mi raccomanda Elin -, è una zona storica e molto bella». La cittadina si trova a una settantina di chilometri da Akureyri. Nel medioevo era stata sede vescovile, capitale ecumenica e pedagogica fino alla Riforma, quando il re della Danimarca impose il luteranesimo e l’ultimo, battagliero vescovo cattolico venne decapitato, insieme ai suoi due figli (1550). Il college, che prepara anche per il turismo, ha sede accanto all’antica chiesa.
Anche la storia della chiesa in Islanda è interessante: si dice che siano stati i monaci irlandesi i primi abitanti dell’isola, trovandola ideale per la loro vita eremitica (vedi riquadro). Nell’anno mille gli islandesi furono convertiti al cristianesimo, per volere dell’Assemblea di Thingvellir, pur lasciando la libertà di onorare le divinità tradizionali: Thor e Odino.
Il predominio della confessione luterana è ben testimoniata dalla cattedrale di Akureyri, che con le sue torri di cemento sovrasta il centro città. La chiesa cattolica, invece si trova in una zona residenziale ed è stata ricavata da una villetta.
La domenica vi incontriamo padre Patrick, un prete arrivato 20 anni fa dall’Irlanda per prendersi cura della minuscola comunità, formata prevalentemente da migranti filippini. La comunità ha riempito la chiesetta, anche perché ci sono le prime comunioni. Vi incontro pure una coppia di genovesi, in visita al figlio che lavora all’università come insegnante di storia: da pochi giorni gli è nato il secondo figlio. La moglie è scozzese, entrambi si dicono entusiasti di vivere in questa città, dove la famiglia è molto aiutata dalle strutture pubbliche.
Inquinamento
La guest house di Elin si è riempita per il fine settimana. Alcuni sono giovani operai della fonderia di alluminio della multinazionale Alcoa, al centro di polemiche con gli ambientalisti. Sono arrivati dal lontano Reydarfjordur per trascorrere una notte di festa nei locali di questa cittadina, che ha fama di essere vivace.
«Lavoriamo alla produzione, senza maschere filtranti, in condizioni molto dure – mi confida Chris, un immigrato ungherese -. L’ambiente è saturo di polvere di alluminio, molto tossica. Ma la paga è 10 volte quella che guadagnerei in patria».
Chris sa benissimo che le polveri danneggiano la salute, in particolare il cervello. «Ho 28 anni e spero di lasciare tra due o tre anni e ritornare a casa». Le navi arrivano dall’Australia, mi dice. Ma io so che caricano il minerale anche a Iryan Jaia, in Indonesia, dove esiste una enorme, ricchissima miniera sfruttata dalla Bechtel americana, a 4 mila metri, su un vulcano coperto ancora da ghiacci. Il materiale estratto, ricchissimo di minerali preziosi, scende direttamente al mare, dove viene imbarcato e spedito in Islanda, da molti anni ormai.
L’Islanda possiede ingenti riserve energetiche quasi intatte. Sino ad oggi l’Islanda ha impiegato un ventesimo dell’energia geotermica e appena un decimo di quella idroelettrica, esclusivamente per l’uso domestico (l’80% delle abitazioni sono riscaldate dalle caldissime acque del sottosuolo) e per le coltivazioni in serra. Si tratta di energie rinnovabili, pulite e a basso costo, che il governo ha deciso di vendere al mercato internazionale. Un’operazione semplice in apparenza, se non fosse che l’Islanda è nel mezzo dell’Atlantico, per cui è impossibile trasferire altrove i suoi preziosi megawatt.
L’unica soluzione è quella di ospitare sul proprio suolo imprese straniere che abbiano bisogno di grandi quantitativi di energia. Per questo, nel 2003 la compagnia energetica nazionale, la Landsvirkjun, ha firmato un contratto miliardario con la più grande multinazionale dell’alluminio, l’americana Alcoa.
Altre fonderie sono in progetto, che dovranno essere alimentate da una nuova grande diga, che sommergerà una vasta zona selvaggia e remota. I promotori del progetto parlano di compromesso sostenibile, rischi contenuti, opportunità di lavoro per la gente, che viene comunque reclutata all’estero, per i lavori a rischio. Il pericolo di inquinamento è grave, nel mare, nei fiumi e in un territorio ricco di acqua, finora rimasto incontaminato. La società civile appare divisa tra ottimisti e scettici, e solo un piccolo gruppo di persone sembra disposto a battersi per portare alla luce le molte questioni controverse di tali imprese, tra cui i rischi ambientali e quelli economici.
«Credo che potremmo fare a meno di queste fabbriche di alluminio – afferma Elin -. Il turismo è la nostra industria più forte. Ma il paese è diviso su questo argomento. Vi è crisi economica, i prezzi sono alti e la popolazione scende, specialmente nei villaggi».
A Husavik pare che la gente sia favorevole al nuovo insediamento industriale dell’Alcoa, previsto nelle vicinanze. Tuttora il villaggio vive della pesca e soprattutto del turismo, perché è qui che si osservano facilmente i cetacei, che in questa zona sono protetti e la pesca non è stata riaperta come è avvenuto altrove dopo anni di chiusura.
«Anche io ho lavorato sui pescherecci – mi dice Michael, che ci ospita nella sua bella casa -. Dovevo pulire il pesce appena pescato: una vita durissima, che gli islandesi non vogliono più fare. Oggi sono i polacchi a imbarcarsi per lunghi periodi nei mesi freddi e bui della pesca, da gennaio a marzo».
L e famiglie islandesi possono essere molto numerose, i giovani amano viaggiare, girano il mondo e poi magari ritornano. Pare che la gente d’Islanda sia tra le più felici in Europa. Ma allora, mi domando, perché l’anno scorso 20 giovani madri sono morte per overdose? Una percentuale altissima, se consideriamo la popolazione di appena 300 mila anime. La notte è molto lunga e in inverno le ore di luce sono 3 o 4. Anche l’alcornol è un problema, come in tutti i paesi freddi. 

Di Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




Incontro tra bisogno e risposta

Pietro Gamba: medico dei campesinos

L’avvincente avventura di un ex operaio meccanico che ha deciso di diventare medico per dedicarsi ai meno fortunati di Anzaldo e di altri sperduti paesi della Bolivia. Ha fondato un ospedale e tra mille difficoltà riesce a curare il fisico e lo spirito, meritandosi stima e fiducia dell’intera popolazione.

Quella del bergamasco Pietro Gamba può essere definita un’avventura, che ha avuto inizio nel 1975, quando, a 23 anni, decise l’obiezione di coscienza anziché il normale servizio di leva. Lasciato il lavoro di operaio, tale scelta lo portò a dedicarsi al servizio dei più sfortunati, in particolare dei campesinos boliviani di Challviri. Tale avventura è ampiamente raccontata e illustrata nel libro scritto da Riccardo Scotti, con fotografie di Giovanni Diffidenti, «Il medico dei campesinos. La vita e l’opera di Pietro Gamba in Bolivia», ed. Ananke, Torino.
Ma perché venire proprio in questo paese sperduto e così lontano dalla vita civile e dai propri famigliari? Secondo il suo pensiero e la sua convinzione tutto nasce dal desiderio di pensare in modo diverso, e dalla necessità di divenire un «uomo nuovo»: rinunciare alle comodità e alle sicurezze e mettersi in gioco con i più poveri, con i semplici, e gli umili.
«La storia – spiega il dottor Gamba – è il bene che vince la realtà, modificandola… La mia scelta trae origine da due eventi fondamentali: la contestazione del ’68, con tutte le sue implicazioni socio-politiche che la stessa ha comportato, e l’evento del Concilio Vaticano II, che ha dato nuova luce e nuova veste all’impegno dei laici nella chiesa e per la chiesa».
Pietro, primo di nove fratelli, è nato a Stezzano nel 1952, in una famiglia di modesti contadini. Fin da ragazzo amava frequentare l’oratorio costituendo un gruppo di collegamento epistolare con i carcerati e militari del paese, che lamentavano problemi come il senso di inutilità che avvertivano nel prestare un anno di servizio militare, anziché occuparlo in modo più utile socialmente… In seguito si diploma come tornitore meccanico, lavorando in una fabbrica per tre anni e, giunto il momento di svolgere il servizio militare, decide di impegnare la propria vita al prossimo meno fortunato.
Nonostante in Italia non fosse ancora prevista l’obiezione di coscienza il giovane bergamasco si rivolse agli organismi missionari per ottenere l’esenzione dal servizio militare in alternativa a un impegno nella missione.

Determinante fu l’incontro con Bepo Valvassori, fondatore del Patronato San Vincenzo di Bergamo, che gli fece conoscere la sua Opera dedita all’accoglienza e all’assistenza degli orfani e degli emarginati. Oltre a essere stato il suo padre spirituale, don Bepo ascoltò le richieste di Pietro sostenendo e rafforzando il suo desiderio di impiegare la propria esistenza al servizio dei più bisognosi, suggerendogli di compiere la sua caritatevole missione in Bolivia.
Nel settembre del 1975, Pietro si imbarcò nel porto di Genova per raggiungere l’America Latina e dopo un mese di viaggio sbarcò ad Antofagasta, sulla costa cilena, per poi proseguire per Ciudad de Niño di La Paz. Si stabilì ad Anzaldo, piccolo paese di montagna a 3.200 metri di altitudine, dalle strade strette e tortuose, ma passaggio obbligato per i commerci degli indios.
Dopo due anni di stretto contatto con questa realtà, condividendo ogni loro problema ed esigenza e rendendosi conto che quella popolazione necessitava anche di un medico, il giovane Gamba toò in Italia per laurearsi in medicina e chirurgia all’università di Padova. Dopo un breve periodo di tirocinio in Svizzera, dove fondò «Asociacion Humanitaria dott. Pietro Gamba», gruppo di appoggio di alcune persone sensibili alla sua iniziativa, toò in Bolivia.
Con l’aiuto di tanti volontari nel corso degli anni, l’intera comunità di circa 12 mila abitanti distribuiti in un’area di quasi 60 chilometri quadrati, venne dotata di un ospedale, sistema elettrico, acquedotto e rete fognaria. Notevoli conquiste per una più umana condizione di vita, nonostante l’approccio iniziale con i campesinos non sia stato facile, soprattutto per la comprensibile diffidenza di questa gente.
Molti i problemi che dovette affrontare soprattutto all’inizio, come la difficoltà di comunicare con gli abitanti del posto che conoscevano soltanto il quechua, l’idioma delle popolazioni di origine incaica, ancora sconosciuto a Pietro. La loro naturale riservatezza, non disgiunta dal forte senso d’unione all’interno della loro comunità, fu uno degli aspetti che più lo colpirono, tanto da condividere sin dall’inizio usi e costumi (compreso l’abbigliamento) dei contadini con cui voleva affrontare questa esperienza.
Partecipò attivamente al lavoro collettivo e a riunioni della comunità principalmente per promuovere una sensibilizzazione cristiana che si sarebbe concretizzata con la preghiera domenicale comunitaria. Ma le esigenze di comunicazione diventavano sempre più impellenti, tanto che dovette studiare il quechua. L’idioma era particolarmente impegnativo e difficile da imparare, tanto da dubitare sulla possibilità di proseguire questa esperienza.
Una delle prime realizzazioni comunitarie fu l’edificazione di una scuola, alla quale Pietro partecipò senza risparmiare fatica e dedizione. In tal modo poté avvicinarsi sempre più alla gente umile e ospitale, rendendosi disponibile anche alle attività più normali della popolazione; un impegno e generosità molto apprezzato dai campesinos, che permisero al dottore di insegnare ai loro bambini un po’ di catechismo e la lingua spagnola, che non parlavano neppure a scuola.

Oltremodo significativa e importante è la sua opera di medico, che esercita soprattutto tra la popolazione di Anzaldo.
Nelle zone più depresse della Bolivia la mortalità infantile era molto elevata: un bambino su tre entro il primo anno di vita e uno su due entro i cinque anni. Le cause erano dovute alle pessime condizioni igieniche, all’ alimentazione insufficiente, alla carenza di vitamine, oltre alle complicazioni provocate da malattie polmonari; a ciò si aggiungeva la scarsa assistenza medica, sia perché molto costosa, sia per la naturale diffidenza nei confronti della medicina ufficiale; i campesinos, infatti, non la ritenevano capace di risolvere i loro problemi di salute, ma pensavano fosse un mezzo per approfittare delle loro scarse risorse economiche.
Nel suo impegno medico e sanitario, il dottor Gamba è coadiuvato da altri quattro medici (un internista, un chirurgo e due biochimici) e alcune infermiere. L’ospedale, attraverso una convenzione con i padri Scolopi che gestiscono la parrocchia e la scuola locale, fornisce un’assistenza sanitaria a circa 800 studenti e con i Comuni di Acacio e San Pedro de Buenavista sono stati firmati degli accordi per il Sumi (Seguro universal materno infantil), per la risoluzione dei problemi inerenti alla gravidanza, al parto e ai primi anni di vita del neonato.
«Durante l’anno – spiega il dott. Gamba – si visitano circa 4 mila pazienti, che provengono da Anzaldo e dalle aree limitrofe, e si effettuano circa 200 interventi di chirurgia; in particolare sono stati praticati finora interventi per l’applicazione di pace-maker, impianti di protesi d’anca e interventi di correzione della colonna vertebrale, e di oftalmologia».
La dedizione di Pietro Gamba continua senza interruzione ormai da oltre un ventennio, a parte una breve pausa nei mesi scorsi per ricongiungersi con la famiglia e presentare il suo libro. In tale occasione ha richiamato l’attenzione sul concetto di assistenzialismo puro, come di una vera piaga per la povertà. E ha così spiegato: «Non di rado, di fronte all’estrema povertà, ci si sente come in preda a un delirio di onnipotenza benefico. Questa volontà di dare conforto e aiuto, se esasperata, può favorire una forma di welfare patealistico, che non risolve alla radice i problemi ma, al contrario e più concretamente, spreca molto denaro».
Anche per questa ragione il dottor Gamba vorrebbe che l’orgoglio dei campesinos fosse più forte e sentito, tanto da indurlo a responsabilizzarli maggiormente con la richiesta di piccoli contributi per le cure loro prestate, rendendoli così più partecipi alla propria vita. Proprio come intendeva il medico alsaziano Albert Schweitzer: non solo una assistenza non gratuita per il bene di tutti, ma anche condivisione e solidarietà con i propri simili. 

Di Eesto Bodini

Eesto Bodini




Migliaia di croci … rosa

Ciudad Juarez, città di frontiera e di femminicidi

Accade a Ciudad Juárez, infeale città di frontiera tra Messico e Usa: centinaia di giovani donne vengono sequestrate, torturate, abusate, uccise e gettate nel deserto come spazzatura. Per tal genere di violenza è stato coniato un triste neologismo: femminicidio. Un’associazione
di madri delle vittime chiede inutilmente verità e giustizia.

Questa è una brutta storia. Orribile. Di quelle che succedono nei film, ma che poi hanno un lieto fine. Invece la storia, vera, dei femminicidi a Ciudad Juárez (Stato di Chihuahua, Messico), non ha nessun lieto fine. Anzi. È sempre peggio. È dal 1993 che donne poco più che ragazzine, dai 12 ai 22 anni al massimo, vengono rapite, abusate, torturate e uccise da uomini senza scrupoli, che dopo avere nascosto il risultato della loro efferatezza, fanno perdere le proprie tracce.
Sono tante, a oggi, le vittime di queste pratiche inumane: almeno 500 accertate; altre 600 ancora desaparecidas, scomparse. Nel solo 2008, 60 morte o scomparse. Tutte che lasciano una famiglia, spesso bambini, orfani in piccolissima età. Ancora più sconcertante è il fatto che i colpevoli restano tutti o quasi impuniti.
La giustizia messicana, infatti, è impotente, se non indifferente. Gli organi di polizia, quelli che dovrebbero garantire la sicurezza della gente comune, sono spesso collusi, corrotti; in alcuni casi si trasformano addirittura in carnefici. È successo, infatti, che qualche poliziotto venisse incriminato per atti di violenza contro le donne, per poi essere, naturalmente, prosciolto. Oppure, in mancanza di colpevoli per le numerose morti del femminicidio, gli stessi corpi di polizia, alla ricerca disperata di capri espiatori, obbligassero innocenti a confessare un reato mai commesso.
È un inferno, oggi, essere donna a Ciudad Juárez. Più ancora donna e povera, costretta a lavori umili come i tui massacranti delle maquiladoras, le enormi catene di montaggio di quei prodotti di alta tecnologia che poi inondano le case dei benestanti del primo mondo. Stati Uniti in primis: le almeno 800 maquiladoras si trovano proprio a ridosso del confine statunitense.
È durante i viaggi nottui verso questi lavori, nei cambi di tuo, che il tragico destino di centinaia di giovani messicane si compie. Rapite alla discesa dall’autobus, alla fermata, oppure dagli autisti stessi a fine corsa. Poi, dopo le assurde sevizie e una morte tanto lenta quanto atroce, l’abbandono del corpo in luoghi sperduti, nei quali gli investigatori arriveranno solo giorni dopo, a decesso ormai avvenuto da tempo.
Proprio come nel film di denuncia Bordertown, quello con Jennifer Lopez e Martin Sheen nei panni di giornalisti che vogliono scoprire la verità sugli omicidi della città di frontiera messicana. Nel film verrà ucciso lui, ridotta al silenzio lei. Un po’ come succede nella realtà: si susseguono gli attentati, le intimidazioni a chi cerca di far uscire dal silenzio questa storia di delitti e impunità atroci. Basti pensare che anche regista e attori di Bordertown sono stati minacciati di morte, e il film è andato in onda in Messico solo il 16 maggio di quest’anno, più di due anni dopo la sua uscita nel resto del mondo.

M a c’è un gruppo di persone le quali, più di tutte, hanno la propria vita appesa a un filo, in conseguenza al loro coraggio civile e volontà di raccontare al Messico e al mondo intero quello che succede nelle notti di Ciudad Juárez. Sono le donne di Nuestras hijas de regreso a casa (Le nostre figlie tornino a casa), un’associazione dal 2001 in prima linea nella ricerca della verità sulle morti impunite.
La storia dell’associazione è quella delle sue fondatrici: quattro donne che in un modo o nell’altro hanno toccato con mano cosa vuol dire perdere una persona cara in quel modo orrendo. Ora quelle donne sono rimaste tre, perché Julia Cano, madre-coraggio a cui nel marzo 1995 avevano ucciso la figlia 15enne e che da allora aveva preso in affido sei orfani di altre donne assassinate, è morta il 29 settembre 2008: il suo cuore non ha retto all’ennesima tragedia, la morte durante una rissa di uno dei suoi figli affidatari, appena 24enne (il Messico è un paese con i più alti indici di violenza al mondo).
Gli altri cinque sono ora rimasti senza una madre per la seconda volta, e mentre si cerca loro una nuova famiglia, i parenti e conoscenti di Julia hanno attivato un conto, rintracciabile anche sul sito web dell’associazione, dove raccogliere donazioni.
Le altre tre fondatrici di Nuestras hijas de regreso a casa si chiamano Norma Andrade, María Luisa García Andrade e Marisela Ortiz Rivera. Nel corso degli anni sono state affiancate da decine di persone, raggiunte da migliaia di attestati di solidarietà, e da questo trovano la forza per andare avanti nella loro lotta ardua contro un nemico tanto enorme quanto invisibile. È la stessa Marisela Ortiz che lo dice in ogni occasione pubblica. È lei la portavoce più conosciuta dell’associazione, sempre in prima linea alle marce settimanali per il centro della città, con le croci rosa in mano (simbolo dei femminicidi), spesso in viaggio all’estero; così pure le altre due donne, per sensibilizzare l’opinione pubblica a muoversi, a fare qualcosa per aiutare l’universo femminile di Ciudad Juárez a uscire dal proprio incubo.
«Non smetteremo mai di chiedere giustizia, anche a costo di sacrificare la vita» spiega Marisela, che quando ti parla ti guarda in faccia, con uno sguardo risoluto e tenero allo stesso tempo. È lo sguardo di una madre di due figlie, segnata da anni di sofferenze, di atrocità vissute da vicino: nel febbraio 2001, mentre lavorava nella scuola come insegnante, ha conosciuto la realtà del femminicidio in prima persona. «Alejandra, la mia alunna migliore, venne rapita e mai più ritrovata. Aveva 17 anni. Da quel momento ho cambiato vita» racconta Marisela.
Da allora è diventato un volto noto, e, con Norma, Marìa Luisa e le altre donne dell’associazione non hanno mai smesso di parlare. «Anche alcuni uomini ci aiutano, ma non si fanno vedere in pubblico» rivela la donna, ben cosciente che il machismo (maschilismo) in Messico è ancora oggi una piaga quotidiana.

F inora, il frutto del loro impegno è poco, troppo poco in patria. Tutta colpa, senza ombra di dubbio, delle istituzioni latitanti. Molto eco, invece, all’estero; ne sono una conferma la serie di condanne pubbliche da parte di istituzioni inteazionali contro il governo centrale messicano e le amministrazioni dei distretti federali.
Su tutte, la risoluzione del Parlamento europeo dell’11 ottobre 2007, che, all’interno di una denuncia delle violenze di genere perpetrate nell’America centrale, faceva particolare riferimento alle efferatezze di Ciudad Juárez. Solo a quel punto, del resto, il Goveo messicano, ha dato segni di cedimento del proprio immobilismo: il presidente, Felipe Calderón ha dichiarato che si sarebbe impegnato in prima persona per cambiare le cose.
Salito al potere grazie a brogli elettorali, spesso accusato di chiudere gli occhi di fronte a varie situazioni di palesi violazioni dei diritti umani, come le repressioni contro i movimenti degli insegnanti nello Stato di Oaxaca e le esperienze non violente di democrazia dal basso degli zapatisti nel Chiapas,  il presidente ha lasciato le cose inalterate a un anno dalla sua promessa. L’unico ufficio creato ad hoc, quello «per la ricerca di donne scomparse», gestito dalla Procura della giustizia dello stato di Chihuahua, ha chiuso i battenti lo scorso aprile, con la scusa dei tagli imposti da una riforma governativa; così viene evidenziato ancora una volta il disinteresse delle istituzioni, che non vuole considerare la lotta al femminicidio una priorità.
Anche per questo, il 25 luglio 2008, una nuova condanna al governo messicano è arrivata dalla Coidh, la «Corte interamericana dei diritti umani», importante organizzazione continentale, che ha deciso di citare in giudizio lo stato messicano per le sue colpe e negligenze in una udienza pubblica, che si terrà i primi mesi del 2009 a San José in Costa Rica, sede della Coidh.
Poco conta che, nel frattempo, il 17 settembre scorso, si sia finalmente consumato il primo vero processo orale per femminicidio. Una donna di nome Dolores Tarín, sopravvissuta per miracolo al suo aguzzino, ha potuto testimoniare contro di lui, grazie anche a un giudice ostinato, che ha voluto a tutti i costi l’udienza in aula, alla quale si è arrivati nonostante le pressioni governative che richiedevano, incredibilmente, il patteggiamento. Ma conta molto, invece, per le associazioni in difesa dei diritti umani messicane.
Purtroppo, l’impunità continuerà a dilagare: per un caso che arriva in tribunale, ce ne sono altre centinaia che mai arriveranno. Oppure ci arrivano tramite menzogne e la ricerca di un colpevole a tutti i costi, come nel caso di David Meza Argueta: fu arrestato nel 2003 ed è stato prosciolto nel 2006, dopo tre anni di carcere, quando si è arrivati alla detenzione dei due poliziotti che gli avevano estorto, sotto tortura, la confessione di un omicidio mai commesso.

A d accrescere l’amarezza di dovere accettare che fino ad oggi poco o nulla è cambiato, si aggiunge il prezzo da pagare da parte di chi alza la voce chiedendo giustizia ed è altissimo.
«Dal maggio 2005, i bus nottui che trasportano le operaie, entrano nelle maquiladoras della città e le portano fino sotto casa, senza lasciarle ai bordi di strade buie; e quando una donna scompare, viene subito cercata senza attendere 48 ore dalla denuncia come succedeva prima» dice Marisela.
Ma è poca cosa. A cominciare dalla stessa donna, dal 2001 alle prese con attentati di ogni tipo. «In questi anni sono stata attaccata più volte da persone con il volto coperto – rivela Marisela. Hanno minacciato, se non la smetto di parlare, di rapire e uccidere le mie figlie, poi avrebbero fatto lo stesso con me. Un giorno sono stata inseguita in macchina, tamponata, spinta fuori strada. Il primo agosto  2007 mi hanno sparato due pallottole che per fortuna hanno colpito la carrozzeria della macchina e non me. Dal 2005 cammino con un bastone: il piede zoppo è il triste ricordo di una macchina che mi ha investita».
E questo nonostante che la donna vada in giro con la scorta; dal 2003 al 2005 ha avuto quella statale, ma è stata un’esperienza controproducente: poco professionale, non si presentava all’ora prestabilita e, aggiunge la stessa Marisela, «sembrava un modo per controllarmi, per questo ho chiesto di sospenderla».
Poche settimane fa, la sfortunata donna ha perso un nipote: anche lui prima rapito, poi torturato e ammazzato. Non si sa se il fatto sia direttamente connesso alla sua attività, di certo ha contribuito ulteriormente ad accrescere la paura. Per questo, si è mossa ancora una volta Amnesty Inteational, che già negli scorsi anni l’aveva appoggiata con appelli urgenti al governo messicano. In questi giorni, tramite soprattutto una delle sue reti locali, il gruppo 108 di Vimercate (MI), Marisela è riuscita a rimediare una scorta governativa dalla commissione per prevenire e sradicare la violenza contro le donne a Ciudad Juárez.
Anche le altre donne girano ora sotto scorta; ma il pericolo è ritornato alto dopo il 3 ottobre 2008, quando è stato proiettato nelle maggiori città messicane, tra cui la stessa città dei femminicidi, un crudo documentario fatto da due dei pochi giornalisti impegnati nella causa. «Sì, perché tutti gli altri sono corrotti dalle autorità – aggiunge sconcertata Marisela -. Basti pensare che in televisione noi appariamo pochissimo, e quando accade è per screditarci: viene detto alla gente che con la nostra attività roviniamo l’immagine di Ciudad Juárez nel mondo». Incredibile.
E l’opinione pubblica? «O ci crede, o è consenziente: abbiamo fatto un sondaggio, chiedendo ai passanti se sapevano la storia del femminicidio. Ebbene, solo uno su dieci conosceva la situazione in modo soddisfacente». Di fronte a tutte queste difficoltà, le donne dell’associazione non si danno (ancora) per vinte. E continuano a viaggiare per il Messico e il mondo per svegliare le coscienze.
In Italia, Marisela torna proprio a dicembre 2008. Viene ricevuta, con Amnesty, dall’ambasciata messicana. È candidata per ricevere la cittadinanza onoraria dalla città di Torino. Tiene anche molti incontri pubblici: andiamola a conoscere. Lei ha un sogno, smettere di scrivere quotidianamente sul sito dell’associazione: «Oggi è il giorno tale e ancora non si è risolto niente»; vorrebbe invece scriverci: «Da oggi in poi non ci saranno più femminicidi a Ciudad Juárez».

Un sogno da sostenere e realizzare: una eventuale sconfitta sarebbe una grave disfatta per l’intera società umana. 

Di Daniele Biella

Daniele Biella




Società civile, americana

Forum sociale delle Americhe: terza edizione

Pochi mezzi ma molto entusiasmo per il terzo Forum sociale delle Americhe.
Gli incontri continentali si alternano a quello globale,  il più famoso Forum sociale mondiale, con scadenza biennale.  Nell’atmosfera variopinta e fiera della cosmogonia Maya donne e uomini del Nord, del Centro e del Sud America si sono incontrati per 4 giorni. In un momento storico importante, con il continente attraversato
da venti di cambiamento, i movimenti sociali hanno discusso di sovranità alimentare, agrocombustibili, ambiente, sfruttamento delle risorse naturali… Reportage da Città del Guatemala.

Al grido: «un’altra America è possibile» si è aperto il 7 ottobre scorso a Città del Guatemala il terzo Foro sociale delle Americhe (Fsa). «Tutti i paesi del continente sono rappresentati» sostiene lo staff dell’organizzazione. Sono stati registrati 7.200 partecipanti per i 526 eventi organizzati del Forum (Foro in spagnolo). Non sono certamente mancate le critiche al comitato organizzativo che negli ultimi dodici mesi ha lavorato in Guatemala per gestire al meglio l’evento. L’organizzazione si può dire abbia rispecchiato uno spaccato veritiero del tessuto sociale guatemalteco, contraddistinto da una estrema frammentarietà e divisione intea.
A inizio pianificazione si era stabilito un budget di oltre un milione di dollari che è stato successivamente ridotto, a causa della carenza di finanziamenti estei, a 111.000 dollari. Malgrado i vari momenti critici dei preparativi, le numerose polemiche e un repentino tentativo di boicottaggio all’ultimo minuto da parte del rettore dell’Università di San Carlos, che ha concesso gli spazi per il Foro, il risultato finale è notevole.

obiettivi ambiziosi

Il Fsa fa parte del Forum sociale mondiale (si veda MC luglio 2006, ndr) e nasce come spazio di incontro a livello continentale per dialogare, analizzare e proporre soluzioni o strategie di lotta contro le regole della globalizzazione capitalista.
Il primo Forum a livello americano fu realizzato a Quito in Ecuador mentre il secondo in Venezuela. Il 2008 è invece l’anno del Guatemala. Il terzo Fsa viene realizzato in un momento chiave per il continente americano, in cui si presenta una doppia sfida: ampliare e consolidare un percorso di cambiamenti che si è aperto negli ultimi anni e fronteggiare la persistenza di forme di dominio oligarchico, vecchie e nuove, che ostacolano la corrente trasformatrice. 
Gli obiettivi del Foro sono quattro: creare uno spazio ampio per la costruzione di una strategia condivisa a favore della difesa delle risorse naturali e del territorio; articolare i movimenti sociali del continente favorendone la cornordinazione; rafforzare i processi di resistenza e identificare vie alternative di sviluppo basate sulla cooperazione tra i popoli americani; potenziare l’intercambio socio-culturale degli abitanti del continente.
Il Guatemala contraddistingue l’apertura del Foro con il richiamo alle tradizioni ancestrali dei popoli indigeni. Il giorno dell’inaugurazione, davanti al rettorato dell’Università, si svolge una cerimonia sacra Maya. Le guide spirituali bruciano aghi di pino, foglie e petali invocando la protezione degli antenati, del sole e della luna. Le migliaia di partecipanti che giungono per ultimare l’iscrizione, osservano il rito attonite.
La pioggia cerca di ostacolare il momento, ma per i guatemaltechi non è sufficiente a fermare la tradizione. Il sindaco indigeno, autorità che affianca il sindaco eletto, di Chichicastenango, cittadina che vanta il mercato indigeno più grande del centro America, indossa con fierezza il suo abito tradizionale. Attraverso un interprete dice che mai aveva visto così tanta gente da così tanti paesi diversi: per questo il Foro è un atto sociale e di solidarietà, perché riunisce i popoli.

Intoppi linguistici e
organizzativi

La musica spontanea, i colori, i banchetti dei prodotti più svariati, fanno da coice a quattro giorni di eventi densi e significativi. Il calendario prevede tre sessioni giornaliere di seminari, dalle 9 del mattino alle 5 del pomeriggio, dislocati in svariate aule sul campus universitario.
I temi di confronto e di approfondimento sono innumerevoli ed è difficile scegliere cosa seguire. Il comitato organizzativo ha cercato di individuare sei assi tematici ma questo non facilita i partecipanti ad orientarsi. Una linea seguita da molti è selezionare i seminari in base all’ente responsabile del contenuto, che spesso ne garantisce la validità.
I temi più discussi riguardano la sovranità alimentare e la difesa delle risorse naturali, soprattutto in relazione allo sfruttamento minerario e allo sviluppo degli agrocombustibili; l’uguaglianza di genere; il riconoscimento e il rispetto delle diversità. 
Tutti i workshop sono in spagnolo e questo risulta un punto di critica diffuso: molta gente delle comunità rurali non parla castillano ma solo le lingue indigene, così come i numerosi partecipanti degli Stati Uniti e Canada si trovano in forte difficoltà a seguire gli eventi.
Don Santo Perez, promotore agricolo del Municipio di Comitancillo, nel Nord del Guatemala, è giunto al Foro con la moglie e il figlio maggiore. Incontrare altri contadini, rendersi conto della grandezza del movimento sociale e capire che la lotta dei campesinos della sua comunità è la stessa lotta di milioni di altri campesinos in tutto il continente americano, è una gioia immensa per lui.
La moglie invece sembra un po’ persa, non parla una sola parola di spagnolo e per lei gli agrocombustibili o gli Ogm (organismi geneticamente modificati) sono soggetti senza significato. È difficile valutare l’impatto del Foro su gente semplice, spesso analfabeta, che per la prima volta esce dal proprio piccolo mondo per unirsi al grido di: «Un altro mondo è possibile, un’altra America è possibile».

Evo manda un messaggero

Giovedì 9 ottobre tutti si chiedevano se il tanto annunciato Evo Morales sarebbe davvero arrivato per condividere la sua lotta all’interno del Fsa. La gente lo aspettava ma si è dovuta accontentare di un messaggio letto sul palco centrale, che il presidente boliviano (indigeno) ha voluto trasmettere ai movimenti sociali riuniti nella giornata continentale di solidarietà con la Bolivia. 
«Fratelli e sorelle, quello che è successo il 10 agosto con il referendum revocatorio in Bolivia (vedi MC ottobre 2008, ndr) è un atto importante non solo per i boliviani ma per tutti i popoli dell’America Latina. Lo dedichiamo a tutti i rivoluzionari del continente e del mondo, rivendicando la lotta di tutti i processi di cambio. Io venivo a esprimere la forma per recuperare il buon vivere, ritrovare la nostra visione della madre terra, che per noi è vita, perché non è possibile che il modello capitalista converta la natura in merce.
Vediamo sempre maggiori coincidenze tra i movimenti indigeni e le organizzazioni sociali, che lottano per il vivir bien.  Il mio saluto abbraccia tutti, perché possiamo, in forma unita, trovare un certo equilibrio nel mondo».
Un ampio programma artistico e culturale completa il quadro del Foro: lo spazio del Cinema Alteativo, il Teatro Permanente e il Teatro all’aria aperta consacrano l’arte come espressione di lotta e di educazione popolare. E quando i riflettori si spengono e i cancelli dell’Università di San Carlos si chiudono il Foro si sposta nelle strade del centro storico o nei tanti luoghi allestiti per dare ospitalità alle migliaia di persone a simboleggiare una mobilizzazione vera, condivisa e continua.
Non importa se i mezzi di comunicazione di massa non ne parlano e se non esce un solo articolo sui quotidiani locali: il movimento sociale americano esiste e ha dimostrato in questi giorni del Foro di essere forte e combattivo. 

Di Ermina Martini

Crisi o sovranità (alimentare)?
Sono vari i momenti di discussione all’interno del terzo Foro Sociale delle Americhe sugli effetti e sulle cause della crisi alimentare che si sta abbattendo sul continente.
Alcuni fattori sono specifici della situazione attuale: un 5% della causa della crisi è legato alla produzione degli agrocombustibili e alla sottrazione di terreno per produzione agricola. Indubbiamente ha anche influito l’aumento del prezzo del petrolio.
Un’altra causa molto attuale è l’ingresso del capitale speculativo nell’agrobusiness: esistono prodotti finanziari per le principali produzioni cerealicole mondiali. In Messico per esempio, è già stata comprata la produzione di mais dei prossimi tre anni, sotto forma di futures (vedi MC giugno 2008, ndr). Questo significa che non importa quanto si produrrà ma il valore dato alle azioni acquisite.

Esistono poi cause più antiche, nate nel momento in cui si è smesso di vedere l’agricoltura come cultura e la si è trasformata in business.
L’82% delle sementi presenti nel mercato mondiale è oggi retto dalle norme della proprietà intellettuale. Cinquanta anni fa 7.000 imprese commerciavano sementi, oggi ne esistono 17, tre delle quali controllano oltre il 50% del mercato.  Business piuttosto piccolo, se confrontato ad altri settori: arriva a soli 23 milioni di dollari.
Sono nate, spiega Silvia Ribeiro ricercatrice presso l’Etc Group (istituto di ricerca privato, si occupa di studi socio economici e ambientali) in Messico, quelle che vengono chiamate imprese «glocali». Neologismo nato da globale-locale, indica un’impresa multinazionale che si insedia nel mercato locale (in questo caso di sementi) e adatta i propri prodotti al contesto e alla cultura locale.

La crisi alimentare odiea non è dovuta a una crisi produttiva: dal 1961 a oggi la produzione agricola mondiale è triplicata, mentre la popolazione è solo duplicata, per cui sarebbe in grado di coprire il fabbisogno di tutti. La crisi odiea è una crisi di sistema: oggi la priorità politica non è garantire l’accesso agli alimenti ma far si che il mercato dell’agrobusiness sia redditizio. E per questo è lasciato in mano alla speculazione finanziaria.
Bisogna insistere per affermare il concetto di sovranità alimentare e non solo di sicurezza alimentare. Occorre proclamare il diritto umano ad avere accesso agli alimenti. La speranza diffusa è che la crisi finanziaria attuale sia seguita da una crisi dell’economia reale: collasseranno le esportazioni di beni quali caffè, zucchero e bisognerà riconvertire la produzione a favore di beni per il consumo locale.
Più profonda sarà la crisi più ampie saranno le possibilità di cambio politico.

E.Ma.

La sfida degli agrocombustibili

Chi pensa che la produzione degli agrocombustibili possa essere la soluzione per limitare il cambio climatico, purtroppo si sbaglia.
Questo è il concetto più chiaro che emerge da un pre-forum di due giorni sul tema svoltosi a Città del Guatemala al quale hanno partecipato i principali studiosi del settore. Concetto ribadito nei vari seminari di divulgazione promossi durante il Forum stesso. «Il tema degli agrocombustibili è estremamente complesso e quanto mai attuale» spiega Alexandra Strickner dell’Institute for Agricolture and Trade Policy, «si mischiano dinamiche differenti, come le politiche di sicurezza energetica, la minaccia alla biodiversità, lo stress idrico e l’insicurezza alimentare dei paesi produttori».

Lo scenario del continente americano è molto vario. Il caso della Colombia rappresenta indubbiamente il quadro più negativo: la struttura produttiva del paese si basa sulla canna da zucchero e la palma africana: 12.000 lavoratori sono impegnati nella produzione della prima e guadagnano 2 dollari per ogni tonnellata di canna tagliata. Il 40% dei colombiani soffre di malnutrizione e la Colombia importa tutti i suoi alimenti, fatta eccezione del riso.
Il Guatemala è invece il paese dove la produzione di agrocombustibili ha avuto un peso maggiore nella perdita di terreno utilizzato per la produzione alimentare, tale da ridurre il raccolto di grano dell’80%. Il Brasile vede gli agrocombustibili come fonte di indipendenza energetica, ma anche come sostegno alla produzione familiare, impegnata per il biodiesel. Oltre 10 milioni di ettari di terra servono per produrre etanolo e il paese è leader nel trasferimento di tecnologia per il processamento.
Stupisce quasi che sul tema si sia espressa con giudizio negativo anche la Banca mondiale. L’istituzione ha definito la produzione di agrocombustibili non redditizia sul lungo periodo e fattore causa di una maggiore insicurezza alimentare.
Una produzione si definisce sostenibile se ha un basso impatto ambientale, se non necessita di risorse estee e se rispetta una certa equità nell’uso del beneficio prodotto.

Nel caso degli agrocombustibili nessuno di questi elementi viene rispettato: una tonnellata di palma africana produce un’emissione di CO2 dieci volte superiore a quella del petrolio e necessita di un’enorme quantità di acqua. Tutta la catena produttiva, dalle sementi alla trasformazione è controllata da un numero ristretto di imprese multinazionali, mentre la maggior parte della produzione per agrocombustibili dei paesi latino americani è destinata all’esportazione, con l’eccezione del Brasile.
«Stiamo fronteggiando una crisi energetica perché consumiamo più di quanto produciamo» spiega Roberto Stuart del Centro de Estudios y Analisis Politico de Nicaragua, «è quindi il modello che bisogna cambiare, agendo a livello di riduzione del consumo e non solo cercando nuove fonti». Occorre iniziare a controllare la domanda di agrocombustibili, applicare un sistema di certificazione di produzione sostenibile che tuteli le condizioni dei lavoratori e preservi l’ambiente.

Ermina Martini

Accordi tranello

A volte le agende della politica internazionale si dimenticano di tenere in considerazione i grandi appuntamenti dei movimenti sociali, e così è accaduto ad ottobre in Guatemala.
Mentre infatti si svolgeva il terzo Forum sociale delle Americhe, non molto distante dal campus universitario, erano in corso all’interno dell’Hotel Camino Real il quinto Vertice di negoziazione per il tanto criticato Accordo di Associazione (Ada) tra Unione europea (Ue) e Centro America. L’Accordo di associazione coinvolgerebbe i 27 paesi dell’Ue e  gli stati centro americani Nicaragua, Guatemala, Honduras, Salvador e Costa Rica. Sembra che da entrambi i lati ci siano vari motivi per accelerare le negoziazioni.
L’Ue si trova infatti di fronte a una fase di stallo nei negoziati con i paesi della Comunità andina delle nazioni (Bolivia, Colombia, Ecuador, Perù). Si registra il fallimento di quelli con i paesi di Africa, Caraibi e Pacifico (i cosiddetti accordi Acp) e la «stanchezza» di quelli con il Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay). Dall’altro lato alcuni governi centro americani sono favorevoli a firmare un trattato che di per sé non si differenzia molto dal Trattato di libero commercio con gli Stati Uniti.

Allo stato attuale delle negoziazioni l’Ada servirà soprattutto a difendere i diritti delle imprese private europee nella regione, mentre non si garantiscono i diritti fondamentali dei popoli locali. Anzi, si rischia, in mancanza dell’inserimento di norme precise di tutela dei diritti dei lavoratori, protezione dell’ambiente e  promozione dei diritti umani di compromettere una realtà regionale già altamente precaria. Sfortunatamente la strategia europea sembra piuttosto chiara, ovvero cercare di sottrarre fette di mercato a potenziali concorrenti spingendo accordi commerciali più competitivi rispetto ai trattati di libero commercio già conclusi dagli statunitensi.

All’interno del Foro sono stati organizzati innumerevoli momenti di confronto e di approfondimento sul tema e il 9 ottobre le organizzazioni Via Campesina, Amici della Terra e altre ancora hanno convocato una marcia di protesta contro l’Ada. I manifestanti, partiti dal Parque Central di Città del Guatemala sono giunti davanti all’Hotel dove si svolgevano i negoziati facendo sentire le loro grida di contestazione.
Portavoce del movimento sociale spiegano che devono essere garantiti e inclusi nell’Accordo il diritto all’alimentazione, il diritto alla salute e al lavoro, così come i diritti delle popolazioni indigene. L’Ue non può pretendere di lavarsene le mani includendo semplicemente i temi di cooperazione e dialogo politico, corollari all’asse commerciale. La gente vuole garanzie di una forma di sviluppo che possa portare benefici diffusi alla popolazione e non solo alle multinazionali europee.
E. Ma.

Ermina Martini