Viaggio nella terra di vulcani e geyser
Isola vasta ma spopolata, a 3 km dal circolo polare artico, ricca di secolari fenomeni vulcanici, meta turistica per intenditori, l’Islanda ha deciso di sfruttare le sue ingenti riserve energetiche con impianti industriali inquinanti, mettendo a rischio la sua fama di paese meno inquinato del mondo.
Una terra nera, rugosa e drammatica che sprigiona densi vapori bianchi: è la prima immagine che l’Islanda offre di sé appena l’aereo atterra all’aeroporto di Keflavik, a un’ora dalla capitale Reykjavik (baia fumosa). La zona è tra le più calde dell’isola, con fenomeni geotermici violenti, solfatare e soffioni: queste forze della natura vengono sfruttate per produrre energia e altre comodità per la vita degli abitanti e la delizia dei turisti, come le vasche di acqua termale all’aria aperta.
Il primo tuffo lo facciamo nella piscina pubblica di Reykjavik. Appena ci ha sentite parlare, un operaio addetto allo stabile si avvicina e ci racconta la sua storia avventurosa: si chiama Roberto, ha 68 anni e vive in Islanda da 35 anni; è fuggito da Napoli, lasciando moglie e figli, per trasferirsi in Canada; ha lasciato la seconda moglie e si è rifugiato in Islanda, dove ha deciso di rimanere con una terza moglie e tre dei suoi cinque figli.
«Tutti gli anni ritorno a Napoli, ma non è più la mia città. Oramai il mio paese è questo e ci vivo bene» afferma con il suo forte accento napoletano. E quando gli faccio notare la modestia di negozi e abitazioni, mi spiega che gli islandesi non vivono per l’immagine, sono persone vere, genuine e democratiche. Poi mi indica un anziano signore con barba bianca che sta entrando nello stabile della piscina con la sacca a tracolla, e aggiunge: «È il presidente del senato».
L’Islanda è ritenuta il primo paese europeo a darsi un governo democratico. Era il 930: la comunità locale si riunì presso il lago Thingvellir e scelse i loro rappresentanti che formarono l’Assemblea (Althing) con il potere di legiferare e governare il paese.
La storica località si trova a cavallo della frattura che divide le due placche continentali dell’Eurasia e dell’America. Il lungo canyon spacca la pianura, con due muraglioni di basalto nero che continuano ad allontanarsi, al ritmo di un millimetro all’anno. La terra in Islanda non è mai stata ferma ed è in continua evoluzione: qui sono avvenuti e avvengono più della metà dei fenomeni vulcanici nel mondo.
geyser, crateri e caldere
Lasciata Reykjavik, città piacevole e luminosa, con una piccola Toyota a nolo imbocchiamo la Ring Road, più di 2 mila km di strada che corre lungo tutta la costa islandese. Ci inoltriamo in un territorio per certi aspetti terrificante, segnato profondamente da fenomeni vulcanici, caldere fumanti, campi neri di lava e monti erosi e scarsa vegetazione.
Deviando verso la costa per raggiungere i villaggi di pescatori, troviamo un pugno di casette, protette da una lunga barriera di rocce nere, costruita dopo un devastante tsunami. Continuando la Ring Road verso est, attraverso immense distese di sabbia nera solcata da rivoli scuri, ci avviciniamo alle calotte glaciali, le più grandi d’Europa. Confesso che i primi due giorni mi sono trovata spaesata, oppressa dal grigio infinito di paesaggi drammatici e da una luce spettrale.
Spaventose eruzioni, documentate nei secoli passati, hanno lasciato il segno: la lava solidificata nelle forme più strane, è ricoperta oggi da uno spesso strato di muschio. Per chilometri si viaggia in un paesaggio fatto di campi coperti da enormi cuscini verdi. Nelle lagune lungo la costa vi sono ancora i ghiacci e moltissimi uccelli, che ho imparato a conoscere e amare durante i precedenti viaggi nei paesi del nord. Scopro che i villaggi segnati sulla mappa, dai nomi impronunciabili, sono in realtà case isolate, alla base di monti che paiono cumuli di cenere nera.
Siamo a metà maggio, i rari salici nani hanno gemme vellutate, ma i lupini devono ancora schiudersi. Il sole pare non voglia mai tramontare: in pochi giorni accenderà i colori del cielo e delle acque, fiumi, lagune e oceano. Minuscoli fiori rosa si apriranno sulla lava nera e la luce incredibile del nord ci terrà compagnia anche di notte.
solitudine
Gudveig vive da oltre 50 anni a Skaftafell, ai margini del più grande parco nazionale dell’Islanda. Si era sposata a 18 anni, nel 1954, quando ancora andava a scuola, a Reykjavik. «Mio padre era cattolico e io conservo un bellissimo ricordo della scuola della cattedrale e delle suore».
I primi anni a Skaftafell furono molto duri. Il giovane marito aveva scelto questa fattoria isolata, posta su di un ripido pendio, tra due grandi lingue di ghiaccio della calotta glaciale del Vatnajokull, per allevare pecore e cavalli. Allora non c’era acqua né luce e tutti i lavori dovevano essere fatti a mano. Uno dopo l’altro nacquero 5 figli.
«Mio marito era una persona meravigliosa» continua commossa, indicandomi il ritratto alla parete, che mostra un uomo dai bei lineamenti e ridenti occhi azzurri. «Quando nel ’64 gli fu offerto il lavoro di guardia nel parco nazionale appena costituito, la vita cambiò e arrivarono alcune comodità. L’allevamento da allora è proibito, per proteggere flora e fauna autoctoni, mentre il turismo è aumentato molto». L’ anziana signora è felice di ricevere durante l’estate gli ospiti, che, oltre a rompere la solitudine delle interminabili notti boreali, portano anche denaro buono.
Per più di 50 anni lo sguardo di questa donna gentile ha spaziato sull’immensa distesa grigia del Sandur, una deprimente pianura di fine sabbia nerastra e limo, che i torrenti glaciali hanno portato a valle fino alla costa. Nelle lunghe notti invernali Gudveig ha tempo per tessere e ricamare, ricoprendo sedie, poltrone e pareti della casa minuscola, dalle molte stanzette. Ha pure dipinto quadri, ispirandosi alla natura. I cinque figli hanno viaggiato molto e ora vivono nella capitale. Gli 11 nipoti vengono a passare le vacanze qui, a casa della nonna, e aiutano ad accogliere i turisti.
ALLA RICERCA DI SE STESSI
Naturalmente non tutti gli islandesi si rassegnano all’isolamento. Uno di essi è Petrus. Lo incontriamo in una pensione con vista sul porto di Seydisfjordur, una cittadina situata nell’omonimo fiordo della costa nordorientale dell’isola. È arrivato la sera da Reykjavik dopo otto ore di auto con la bella moglie e due gemelle di 12 anni.
Petrus ha studiato e lavorato negli Stati Uniti per 7 anni, poi è voluto ritornare in patria, stabilendosi nella capitale. «Viaggio molto per lavoro e conosco Milano e Roma» mi spiega. Hanno in progetto di imbarcarsi per l’Europa e spendere un mese di vacanza in Scozia, con tappe intermedie in Norvegia e a Copenaghen.
L’Islanda, infatti, continua a mantenere i suoi legami storici con le nazioni che l’hanno dominata. Per quasi tre secoli la Danimarca ha mantenuto il controllo politico e commerciale dell’Islanda, fino al giorno dell’indipendenza ottenuta solo dopo la seconda guerra mondiale (1944).
Mentre Petrus e famiglia s’imbarcano, dal traghetto sono appena scesi due giovani neozelandesi, in bicicletta. Arrivano da un anno di viaggio in Asia. Cinque mesi li hanno passati in India e ora contano di fermarsi un mese in Islanda, sempre in bici, dormendo in tenda.
Sulla strada che porta al lago Mivatn incontriamo un ventunenne di Tabor, Repubblica Ceca, che viaggia solo e spera di vendere foto e reportage a Praga per pagarsi il prossimo viaggio. Sulla bicicletta ha la sua casa, compreso un fornello col quale ci prepara un caffè, al tavolo di un rifugio che troviamo a metà percorso, perfettamente attrezzato e pulito, con servizi, docce e piscina termale, anche se incustodito, non essendo ancora in piena stagione turistica.
Qui incontro Peter, giovane ungherese che viaggia solo, a piedi e in autostop, da oltre un mese. Ha lasciato l’università ed è partito alla ricerca di se stesso. Ci sono anche due cinesi di Singapore, con auto a nolo e perfetta attrezzatura d’alta montagna. Per loro questo viaggio, programmato da tempo con molta cura, è la realizzazione di un sogno.
TERRA DI MIGRATORI
Procedendo verso il nord, per chilometri non incontriamo altri veicoli, il paesaggio è ancora segnato dalla neve, i colori sono brillanti, l’aria fredda, le lagune popolate di uccelli.
Ad Akureyri alloggiamo nella pensione di Elin. Ci racconta che da bambina aveva imparato a pescare sulla barca del padre, quando vivevano a Darvik, villaggio di pescatori situato in un’ansa dell’Eyiafjordur. Dopo il diploma, si era iscritta all’università di Akureyri e aveva insegnato nel college di agraria di Hòlar, finché ha aperto la guest house dove ci siamo sistemate.
«Devi andare a Hòlar – mi raccomanda Elin -, è una zona storica e molto bella». La cittadina si trova a una settantina di chilometri da Akureyri. Nel medioevo era stata sede vescovile, capitale ecumenica e pedagogica fino alla Riforma, quando il re della Danimarca impose il luteranesimo e l’ultimo, battagliero vescovo cattolico venne decapitato, insieme ai suoi due figli (1550). Il college, che prepara anche per il turismo, ha sede accanto all’antica chiesa.
Anche la storia della chiesa in Islanda è interessante: si dice che siano stati i monaci irlandesi i primi abitanti dell’isola, trovandola ideale per la loro vita eremitica (vedi riquadro). Nell’anno mille gli islandesi furono convertiti al cristianesimo, per volere dell’Assemblea di Thingvellir, pur lasciando la libertà di onorare le divinità tradizionali: Thor e Odino.
Il predominio della confessione luterana è ben testimoniata dalla cattedrale di Akureyri, che con le sue torri di cemento sovrasta il centro città. La chiesa cattolica, invece si trova in una zona residenziale ed è stata ricavata da una villetta.
La domenica vi incontriamo padre Patrick, un prete arrivato 20 anni fa dall’Irlanda per prendersi cura della minuscola comunità, formata prevalentemente da migranti filippini. La comunità ha riempito la chiesetta, anche perché ci sono le prime comunioni. Vi incontro pure una coppia di genovesi, in visita al figlio che lavora all’università come insegnante di storia: da pochi giorni gli è nato il secondo figlio. La moglie è scozzese, entrambi si dicono entusiasti di vivere in questa città, dove la famiglia è molto aiutata dalle strutture pubbliche.
Inquinamento
La guest house di Elin si è riempita per il fine settimana. Alcuni sono giovani operai della fonderia di alluminio della multinazionale Alcoa, al centro di polemiche con gli ambientalisti. Sono arrivati dal lontano Reydarfjordur per trascorrere una notte di festa nei locali di questa cittadina, che ha fama di essere vivace.
«Lavoriamo alla produzione, senza maschere filtranti, in condizioni molto dure – mi confida Chris, un immigrato ungherese -. L’ambiente è saturo di polvere di alluminio, molto tossica. Ma la paga è 10 volte quella che guadagnerei in patria».
Chris sa benissimo che le polveri danneggiano la salute, in particolare il cervello. «Ho 28 anni e spero di lasciare tra due o tre anni e ritornare a casa». Le navi arrivano dall’Australia, mi dice. Ma io so che caricano il minerale anche a Iryan Jaia, in Indonesia, dove esiste una enorme, ricchissima miniera sfruttata dalla Bechtel americana, a 4 mila metri, su un vulcano coperto ancora da ghiacci. Il materiale estratto, ricchissimo di minerali preziosi, scende direttamente al mare, dove viene imbarcato e spedito in Islanda, da molti anni ormai.
L’Islanda possiede ingenti riserve energetiche quasi intatte. Sino ad oggi l’Islanda ha impiegato un ventesimo dell’energia geotermica e appena un decimo di quella idroelettrica, esclusivamente per l’uso domestico (l’80% delle abitazioni sono riscaldate dalle caldissime acque del sottosuolo) e per le coltivazioni in serra. Si tratta di energie rinnovabili, pulite e a basso costo, che il governo ha deciso di vendere al mercato internazionale. Un’operazione semplice in apparenza, se non fosse che l’Islanda è nel mezzo dell’Atlantico, per cui è impossibile trasferire altrove i suoi preziosi megawatt.
L’unica soluzione è quella di ospitare sul proprio suolo imprese straniere che abbiano bisogno di grandi quantitativi di energia. Per questo, nel 2003 la compagnia energetica nazionale, la Landsvirkjun, ha firmato un contratto miliardario con la più grande multinazionale dell’alluminio, l’americana Alcoa.
Altre fonderie sono in progetto, che dovranno essere alimentate da una nuova grande diga, che sommergerà una vasta zona selvaggia e remota. I promotori del progetto parlano di compromesso sostenibile, rischi contenuti, opportunità di lavoro per la gente, che viene comunque reclutata all’estero, per i lavori a rischio. Il pericolo di inquinamento è grave, nel mare, nei fiumi e in un territorio ricco di acqua, finora rimasto incontaminato. La società civile appare divisa tra ottimisti e scettici, e solo un piccolo gruppo di persone sembra disposto a battersi per portare alla luce le molte questioni controverse di tali imprese, tra cui i rischi ambientali e quelli economici.
«Credo che potremmo fare a meno di queste fabbriche di alluminio – afferma Elin -. Il turismo è la nostra industria più forte. Ma il paese è diviso su questo argomento. Vi è crisi economica, i prezzi sono alti e la popolazione scende, specialmente nei villaggi».
A Husavik pare che la gente sia favorevole al nuovo insediamento industriale dell’Alcoa, previsto nelle vicinanze. Tuttora il villaggio vive della pesca e soprattutto del turismo, perché è qui che si osservano facilmente i cetacei, che in questa zona sono protetti e la pesca non è stata riaperta come è avvenuto altrove dopo anni di chiusura.
«Anche io ho lavorato sui pescherecci – mi dice Michael, che ci ospita nella sua bella casa -. Dovevo pulire il pesce appena pescato: una vita durissima, che gli islandesi non vogliono più fare. Oggi sono i polacchi a imbarcarsi per lunghi periodi nei mesi freddi e bui della pesca, da gennaio a marzo».
L e famiglie islandesi possono essere molto numerose, i giovani amano viaggiare, girano il mondo e poi magari ritornano. Pare che la gente d’Islanda sia tra le più felici in Europa. Ma allora, mi domando, perché l’anno scorso 20 giovani madri sono morte per overdose? Una percentuale altissima, se consideriamo la popolazione di appena 300 mila anime. La notte è molto lunga e in inverno le ore di luce sono 3 o 4. Anche l’alcornol è un problema, come in tutti i paesi freddi.
Claudia Caramanti