Ciudad Juarez, città di frontiera e di femminicidi
Accade a Ciudad Juárez, infeale città di frontiera tra Messico e Usa: centinaia di giovani donne vengono sequestrate, torturate, abusate, uccise e gettate nel deserto come spazzatura. Per tal genere di violenza è stato coniato un triste neologismo: femminicidio. Un’associazione
di madri delle vittime chiede inutilmente verità e giustizia.
Questa è una brutta storia. Orribile. Di quelle che succedono nei film, ma che poi hanno un lieto fine. Invece la storia, vera, dei femminicidi a Ciudad Juárez (Stato di Chihuahua, Messico), non ha nessun lieto fine. Anzi. È sempre peggio. È dal 1993 che donne poco più che ragazzine, dai 12 ai 22 anni al massimo, vengono rapite, abusate, torturate e uccise da uomini senza scrupoli, che dopo avere nascosto il risultato della loro efferatezza, fanno perdere le proprie tracce.
Sono tante, a oggi, le vittime di queste pratiche inumane: almeno 500 accertate; altre 600 ancora desaparecidas, scomparse. Nel solo 2008, 60 morte o scomparse. Tutte che lasciano una famiglia, spesso bambini, orfani in piccolissima età. Ancora più sconcertante è il fatto che i colpevoli restano tutti o quasi impuniti.
La giustizia messicana, infatti, è impotente, se non indifferente. Gli organi di polizia, quelli che dovrebbero garantire la sicurezza della gente comune, sono spesso collusi, corrotti; in alcuni casi si trasformano addirittura in carnefici. È successo, infatti, che qualche poliziotto venisse incriminato per atti di violenza contro le donne, per poi essere, naturalmente, prosciolto. Oppure, in mancanza di colpevoli per le numerose morti del femminicidio, gli stessi corpi di polizia, alla ricerca disperata di capri espiatori, obbligassero innocenti a confessare un reato mai commesso.
È un inferno, oggi, essere donna a Ciudad Juárez. Più ancora donna e povera, costretta a lavori umili come i tui massacranti delle maquiladoras, le enormi catene di montaggio di quei prodotti di alta tecnologia che poi inondano le case dei benestanti del primo mondo. Stati Uniti in primis: le almeno 800 maquiladoras si trovano proprio a ridosso del confine statunitense.
È durante i viaggi nottui verso questi lavori, nei cambi di tuo, che il tragico destino di centinaia di giovani messicane si compie. Rapite alla discesa dall’autobus, alla fermata, oppure dagli autisti stessi a fine corsa. Poi, dopo le assurde sevizie e una morte tanto lenta quanto atroce, l’abbandono del corpo in luoghi sperduti, nei quali gli investigatori arriveranno solo giorni dopo, a decesso ormai avvenuto da tempo.
Proprio come nel film di denuncia Bordertown, quello con Jennifer Lopez e Martin Sheen nei panni di giornalisti che vogliono scoprire la verità sugli omicidi della città di frontiera messicana. Nel film verrà ucciso lui, ridotta al silenzio lei. Un po’ come succede nella realtà: si susseguono gli attentati, le intimidazioni a chi cerca di far uscire dal silenzio questa storia di delitti e impunità atroci. Basti pensare che anche regista e attori di Bordertown sono stati minacciati di morte, e il film è andato in onda in Messico solo il 16 maggio di quest’anno, più di due anni dopo la sua uscita nel resto del mondo.
M a c’è un gruppo di persone le quali, più di tutte, hanno la propria vita appesa a un filo, in conseguenza al loro coraggio civile e volontà di raccontare al Messico e al mondo intero quello che succede nelle notti di Ciudad Juárez. Sono le donne di Nuestras hijas de regreso a casa (Le nostre figlie tornino a casa), un’associazione dal 2001 in prima linea nella ricerca della verità sulle morti impunite.
La storia dell’associazione è quella delle sue fondatrici: quattro donne che in un modo o nell’altro hanno toccato con mano cosa vuol dire perdere una persona cara in quel modo orrendo. Ora quelle donne sono rimaste tre, perché Julia Cano, madre-coraggio a cui nel marzo 1995 avevano ucciso la figlia 15enne e che da allora aveva preso in affido sei orfani di altre donne assassinate, è morta il 29 settembre 2008: il suo cuore non ha retto all’ennesima tragedia, la morte durante una rissa di uno dei suoi figli affidatari, appena 24enne (il Messico è un paese con i più alti indici di violenza al mondo).
Gli altri cinque sono ora rimasti senza una madre per la seconda volta, e mentre si cerca loro una nuova famiglia, i parenti e conoscenti di Julia hanno attivato un conto, rintracciabile anche sul sito web dell’associazione, dove raccogliere donazioni.
Le altre tre fondatrici di Nuestras hijas de regreso a casa si chiamano Norma Andrade, María Luisa García Andrade e Marisela Ortiz Rivera. Nel corso degli anni sono state affiancate da decine di persone, raggiunte da migliaia di attestati di solidarietà, e da questo trovano la forza per andare avanti nella loro lotta ardua contro un nemico tanto enorme quanto invisibile. È la stessa Marisela Ortiz che lo dice in ogni occasione pubblica. È lei la portavoce più conosciuta dell’associazione, sempre in prima linea alle marce settimanali per il centro della città, con le croci rosa in mano (simbolo dei femminicidi), spesso in viaggio all’estero; così pure le altre due donne, per sensibilizzare l’opinione pubblica a muoversi, a fare qualcosa per aiutare l’universo femminile di Ciudad Juárez a uscire dal proprio incubo.
«Non smetteremo mai di chiedere giustizia, anche a costo di sacrificare la vita» spiega Marisela, che quando ti parla ti guarda in faccia, con uno sguardo risoluto e tenero allo stesso tempo. È lo sguardo di una madre di due figlie, segnata da anni di sofferenze, di atrocità vissute da vicino: nel febbraio 2001, mentre lavorava nella scuola come insegnante, ha conosciuto la realtà del femminicidio in prima persona. «Alejandra, la mia alunna migliore, venne rapita e mai più ritrovata. Aveva 17 anni. Da quel momento ho cambiato vita» racconta Marisela.
Da allora è diventato un volto noto, e, con Norma, Marìa Luisa e le altre donne dell’associazione non hanno mai smesso di parlare. «Anche alcuni uomini ci aiutano, ma non si fanno vedere in pubblico» rivela la donna, ben cosciente che il machismo (maschilismo) in Messico è ancora oggi una piaga quotidiana.
F inora, il frutto del loro impegno è poco, troppo poco in patria. Tutta colpa, senza ombra di dubbio, delle istituzioni latitanti. Molto eco, invece, all’estero; ne sono una conferma la serie di condanne pubbliche da parte di istituzioni inteazionali contro il governo centrale messicano e le amministrazioni dei distretti federali.
Su tutte, la risoluzione del Parlamento europeo dell’11 ottobre 2007, che, all’interno di una denuncia delle violenze di genere perpetrate nell’America centrale, faceva particolare riferimento alle efferatezze di Ciudad Juárez. Solo a quel punto, del resto, il Goveo messicano, ha dato segni di cedimento del proprio immobilismo: il presidente, Felipe Calderón ha dichiarato che si sarebbe impegnato in prima persona per cambiare le cose.
Salito al potere grazie a brogli elettorali, spesso accusato di chiudere gli occhi di fronte a varie situazioni di palesi violazioni dei diritti umani, come le repressioni contro i movimenti degli insegnanti nello Stato di Oaxaca e le esperienze non violente di democrazia dal basso degli zapatisti nel Chiapas, il presidente ha lasciato le cose inalterate a un anno dalla sua promessa. L’unico ufficio creato ad hoc, quello «per la ricerca di donne scomparse», gestito dalla Procura della giustizia dello stato di Chihuahua, ha chiuso i battenti lo scorso aprile, con la scusa dei tagli imposti da una riforma governativa; così viene evidenziato ancora una volta il disinteresse delle istituzioni, che non vuole considerare la lotta al femminicidio una priorità.
Anche per questo, il 25 luglio 2008, una nuova condanna al governo messicano è arrivata dalla Coidh, la «Corte interamericana dei diritti umani», importante organizzazione continentale, che ha deciso di citare in giudizio lo stato messicano per le sue colpe e negligenze in una udienza pubblica, che si terrà i primi mesi del 2009 a San José in Costa Rica, sede della Coidh.
Poco conta che, nel frattempo, il 17 settembre scorso, si sia finalmente consumato il primo vero processo orale per femminicidio. Una donna di nome Dolores Tarín, sopravvissuta per miracolo al suo aguzzino, ha potuto testimoniare contro di lui, grazie anche a un giudice ostinato, che ha voluto a tutti i costi l’udienza in aula, alla quale si è arrivati nonostante le pressioni governative che richiedevano, incredibilmente, il patteggiamento. Ma conta molto, invece, per le associazioni in difesa dei diritti umani messicane.
Purtroppo, l’impunità continuerà a dilagare: per un caso che arriva in tribunale, ce ne sono altre centinaia che mai arriveranno. Oppure ci arrivano tramite menzogne e la ricerca di un colpevole a tutti i costi, come nel caso di David Meza Argueta: fu arrestato nel 2003 ed è stato prosciolto nel 2006, dopo tre anni di carcere, quando si è arrivati alla detenzione dei due poliziotti che gli avevano estorto, sotto tortura, la confessione di un omicidio mai commesso.
A d accrescere l’amarezza di dovere accettare che fino ad oggi poco o nulla è cambiato, si aggiunge il prezzo da pagare da parte di chi alza la voce chiedendo giustizia ed è altissimo.
«Dal maggio 2005, i bus nottui che trasportano le operaie, entrano nelle maquiladoras della città e le portano fino sotto casa, senza lasciarle ai bordi di strade buie; e quando una donna scompare, viene subito cercata senza attendere 48 ore dalla denuncia come succedeva prima» dice Marisela.
Ma è poca cosa. A cominciare dalla stessa donna, dal 2001 alle prese con attentati di ogni tipo. «In questi anni sono stata attaccata più volte da persone con il volto coperto – rivela Marisela. Hanno minacciato, se non la smetto di parlare, di rapire e uccidere le mie figlie, poi avrebbero fatto lo stesso con me. Un giorno sono stata inseguita in macchina, tamponata, spinta fuori strada. Il primo agosto 2007 mi hanno sparato due pallottole che per fortuna hanno colpito la carrozzeria della macchina e non me. Dal 2005 cammino con un bastone: il piede zoppo è il triste ricordo di una macchina che mi ha investita».
E questo nonostante che la donna vada in giro con la scorta; dal 2003 al 2005 ha avuto quella statale, ma è stata un’esperienza controproducente: poco professionale, non si presentava all’ora prestabilita e, aggiunge la stessa Marisela, «sembrava un modo per controllarmi, per questo ho chiesto di sospenderla».
Poche settimane fa, la sfortunata donna ha perso un nipote: anche lui prima rapito, poi torturato e ammazzato. Non si sa se il fatto sia direttamente connesso alla sua attività, di certo ha contribuito ulteriormente ad accrescere la paura. Per questo, si è mossa ancora una volta Amnesty Inteational, che già negli scorsi anni l’aveva appoggiata con appelli urgenti al governo messicano. In questi giorni, tramite soprattutto una delle sue reti locali, il gruppo 108 di Vimercate (MI), Marisela è riuscita a rimediare una scorta governativa dalla commissione per prevenire e sradicare la violenza contro le donne a Ciudad Juárez.
Anche le altre donne girano ora sotto scorta; ma il pericolo è ritornato alto dopo il 3 ottobre 2008, quando è stato proiettato nelle maggiori città messicane, tra cui la stessa città dei femminicidi, un crudo documentario fatto da due dei pochi giornalisti impegnati nella causa. «Sì, perché tutti gli altri sono corrotti dalle autorità – aggiunge sconcertata Marisela -. Basti pensare che in televisione noi appariamo pochissimo, e quando accade è per screditarci: viene detto alla gente che con la nostra attività roviniamo l’immagine di Ciudad Juárez nel mondo». Incredibile.
E l’opinione pubblica? «O ci crede, o è consenziente: abbiamo fatto un sondaggio, chiedendo ai passanti se sapevano la storia del femminicidio. Ebbene, solo uno su dieci conosceva la situazione in modo soddisfacente». Di fronte a tutte queste difficoltà, le donne dell’associazione non si danno (ancora) per vinte. E continuano a viaggiare per il Messico e il mondo per svegliare le coscienze.
In Italia, Marisela torna proprio a dicembre 2008. Viene ricevuta, con Amnesty, dall’ambasciata messicana. È candidata per ricevere la cittadinanza onoraria dalla città di Torino. Tiene anche molti incontri pubblici: andiamola a conoscere. Lei ha un sogno, smettere di scrivere quotidianamente sul sito dell’associazione: «Oggi è il giorno tale e ancora non si è risolto niente»; vorrebbe invece scriverci: «Da oggi in poi non ci saranno più femminicidi a Ciudad Juárez».
Di Daniele Biella
Daniele Biella