Pietro Gamba: medico dei campesinos
L’avvincente avventura di un ex operaio meccanico che ha deciso di diventare medico per dedicarsi ai meno fortunati di Anzaldo e di altri sperduti paesi della Bolivia. Ha fondato un ospedale e tra mille difficoltà riesce a curare il fisico e lo spirito, meritandosi stima e fiducia dell’intera popolazione.
Quella del bergamasco Pietro Gamba può essere definita un’avventura, che ha avuto inizio nel 1975, quando, a 23 anni, decise l’obiezione di coscienza anziché il normale servizio di leva. Lasciato il lavoro di operaio, tale scelta lo portò a dedicarsi al servizio dei più sfortunati, in particolare dei campesinos boliviani di Challviri. Tale avventura è ampiamente raccontata e illustrata nel libro scritto da Riccardo Scotti, con fotografie di Giovanni Diffidenti, «Il medico dei campesinos. La vita e l’opera di Pietro Gamba in Bolivia», ed. Ananke, Torino.
Ma perché venire proprio in questo paese sperduto e così lontano dalla vita civile e dai propri famigliari? Secondo il suo pensiero e la sua convinzione tutto nasce dal desiderio di pensare in modo diverso, e dalla necessità di divenire un «uomo nuovo»: rinunciare alle comodità e alle sicurezze e mettersi in gioco con i più poveri, con i semplici, e gli umili.
«La storia – spiega il dottor Gamba – è il bene che vince la realtà, modificandola… La mia scelta trae origine da due eventi fondamentali: la contestazione del ’68, con tutte le sue implicazioni socio-politiche che la stessa ha comportato, e l’evento del Concilio Vaticano II, che ha dato nuova luce e nuova veste all’impegno dei laici nella chiesa e per la chiesa».
Pietro, primo di nove fratelli, è nato a Stezzano nel 1952, in una famiglia di modesti contadini. Fin da ragazzo amava frequentare l’oratorio costituendo un gruppo di collegamento epistolare con i carcerati e militari del paese, che lamentavano problemi come il senso di inutilità che avvertivano nel prestare un anno di servizio militare, anziché occuparlo in modo più utile socialmente… In seguito si diploma come tornitore meccanico, lavorando in una fabbrica per tre anni e, giunto il momento di svolgere il servizio militare, decide di impegnare la propria vita al prossimo meno fortunato.
Nonostante in Italia non fosse ancora prevista l’obiezione di coscienza il giovane bergamasco si rivolse agli organismi missionari per ottenere l’esenzione dal servizio militare in alternativa a un impegno nella missione.
Determinante fu l’incontro con Bepo Valvassori, fondatore del Patronato San Vincenzo di Bergamo, che gli fece conoscere la sua Opera dedita all’accoglienza e all’assistenza degli orfani e degli emarginati. Oltre a essere stato il suo padre spirituale, don Bepo ascoltò le richieste di Pietro sostenendo e rafforzando il suo desiderio di impiegare la propria esistenza al servizio dei più bisognosi, suggerendogli di compiere la sua caritatevole missione in Bolivia.
Nel settembre del 1975, Pietro si imbarcò nel porto di Genova per raggiungere l’America Latina e dopo un mese di viaggio sbarcò ad Antofagasta, sulla costa cilena, per poi proseguire per Ciudad de Niño di La Paz. Si stabilì ad Anzaldo, piccolo paese di montagna a 3.200 metri di altitudine, dalle strade strette e tortuose, ma passaggio obbligato per i commerci degli indios.
Dopo due anni di stretto contatto con questa realtà, condividendo ogni loro problema ed esigenza e rendendosi conto che quella popolazione necessitava anche di un medico, il giovane Gamba toò in Italia per laurearsi in medicina e chirurgia all’università di Padova. Dopo un breve periodo di tirocinio in Svizzera, dove fondò «Asociacion Humanitaria dott. Pietro Gamba», gruppo di appoggio di alcune persone sensibili alla sua iniziativa, toò in Bolivia.
Con l’aiuto di tanti volontari nel corso degli anni, l’intera comunità di circa 12 mila abitanti distribuiti in un’area di quasi 60 chilometri quadrati, venne dotata di un ospedale, sistema elettrico, acquedotto e rete fognaria. Notevoli conquiste per una più umana condizione di vita, nonostante l’approccio iniziale con i campesinos non sia stato facile, soprattutto per la comprensibile diffidenza di questa gente.
Molti i problemi che dovette affrontare soprattutto all’inizio, come la difficoltà di comunicare con gli abitanti del posto che conoscevano soltanto il quechua, l’idioma delle popolazioni di origine incaica, ancora sconosciuto a Pietro. La loro naturale riservatezza, non disgiunta dal forte senso d’unione all’interno della loro comunità, fu uno degli aspetti che più lo colpirono, tanto da condividere sin dall’inizio usi e costumi (compreso l’abbigliamento) dei contadini con cui voleva affrontare questa esperienza.
Partecipò attivamente al lavoro collettivo e a riunioni della comunità principalmente per promuovere una sensibilizzazione cristiana che si sarebbe concretizzata con la preghiera domenicale comunitaria. Ma le esigenze di comunicazione diventavano sempre più impellenti, tanto che dovette studiare il quechua. L’idioma era particolarmente impegnativo e difficile da imparare, tanto da dubitare sulla possibilità di proseguire questa esperienza.
Una delle prime realizzazioni comunitarie fu l’edificazione di una scuola, alla quale Pietro partecipò senza risparmiare fatica e dedizione. In tal modo poté avvicinarsi sempre più alla gente umile e ospitale, rendendosi disponibile anche alle attività più normali della popolazione; un impegno e generosità molto apprezzato dai campesinos, che permisero al dottore di insegnare ai loro bambini un po’ di catechismo e la lingua spagnola, che non parlavano neppure a scuola.
Oltremodo significativa e importante è la sua opera di medico, che esercita soprattutto tra la popolazione di Anzaldo.
Nelle zone più depresse della Bolivia la mortalità infantile era molto elevata: un bambino su tre entro il primo anno di vita e uno su due entro i cinque anni. Le cause erano dovute alle pessime condizioni igieniche, all’ alimentazione insufficiente, alla carenza di vitamine, oltre alle complicazioni provocate da malattie polmonari; a ciò si aggiungeva la scarsa assistenza medica, sia perché molto costosa, sia per la naturale diffidenza nei confronti della medicina ufficiale; i campesinos, infatti, non la ritenevano capace di risolvere i loro problemi di salute, ma pensavano fosse un mezzo per approfittare delle loro scarse risorse economiche.
Nel suo impegno medico e sanitario, il dottor Gamba è coadiuvato da altri quattro medici (un internista, un chirurgo e due biochimici) e alcune infermiere. L’ospedale, attraverso una convenzione con i padri Scolopi che gestiscono la parrocchia e la scuola locale, fornisce un’assistenza sanitaria a circa 800 studenti e con i Comuni di Acacio e San Pedro de Buenavista sono stati firmati degli accordi per il Sumi (Seguro universal materno infantil), per la risoluzione dei problemi inerenti alla gravidanza, al parto e ai primi anni di vita del neonato.
«Durante l’anno – spiega il dott. Gamba – si visitano circa 4 mila pazienti, che provengono da Anzaldo e dalle aree limitrofe, e si effettuano circa 200 interventi di chirurgia; in particolare sono stati praticati finora interventi per l’applicazione di pace-maker, impianti di protesi d’anca e interventi di correzione della colonna vertebrale, e di oftalmologia».
La dedizione di Pietro Gamba continua senza interruzione ormai da oltre un ventennio, a parte una breve pausa nei mesi scorsi per ricongiungersi con la famiglia e presentare il suo libro. In tale occasione ha richiamato l’attenzione sul concetto di assistenzialismo puro, come di una vera piaga per la povertà. E ha così spiegato: «Non di rado, di fronte all’estrema povertà, ci si sente come in preda a un delirio di onnipotenza benefico. Questa volontà di dare conforto e aiuto, se esasperata, può favorire una forma di welfare patealistico, che non risolve alla radice i problemi ma, al contrario e più concretamente, spreca molto denaro».
Anche per questa ragione il dottor Gamba vorrebbe che l’orgoglio dei campesinos fosse più forte e sentito, tanto da indurlo a responsabilizzarli maggiormente con la richiesta di piccoli contributi per le cure loro prestate, rendendoli così più partecipi alla propria vita. Proprio come intendeva il medico alsaziano Albert Schweitzer: non solo una assistenza non gratuita per il bene di tutti, ma anche condivisione e solidarietà con i propri simili.
Eesto Bodini