Trai profughi georgiani
Terminate le ostilità tra Russia e Georgia, si sono spenti anche i riflettori dei mass media e nessuno parla più delle vittime di tali ostilità: circa 200 mila profughi e sfollati. Alcuni hanno cominciato a tornare alle proprie case, anche se danneggiate dai bombardamenti; per molti di essi, che hanno avuto la casa distrutta o che temono di rientrare nelle aree ormai per loro insicure, è invece iniziata una fase di vita da rifugiati, in strutture di accoglienza spesso carenti anche di servizi più essenziali o sicuramente inadatte a fronteggiare il duro inverno del Caucaso.
N uvole nere si ammassano nel cielo di Gori, la piccola città georgiana che diede i natali a Josif Stalin. Arrivano dal vicino Caucaso e sono da sempre un segno di sventura per contadini, soldati, poveri e sbandati.
Essere profugo in Georgia significa scrutare il cielo con crescente timore giorno dopo giorno, ma anche guardare con angoscia le foglie degli alberi che cadono. Già a ottobre scendono i primi venti gelidi dalle montagne e alla picchiata delle temperature che caratterizza gli invei da queste parti mancano solo poche settimane. Sarà dura passare un inverno chiusi dentro una tenda, assistiti da volontari che dispongono di tanta buona volontà e poco più.
È in corso uno scontro di interessi sulla pelle di circa ventimila persone, spostate come pacchi da una parte all’altra del paese. È terribile da constatare, ma il loro futuro appare legato sempre più all’interesse dei media inteazionali.
Chi ricorda il conflitto estivo del Caucaso che ha persino distolto l’attenzione dalle mirabolanti olimpiadi cinesi? Nessuno. Le vittime della guerra non fanno vendere se non nel momento iniziale del conflitto, dopo diventano mediaticamente improponibili.
La Georgia è un paese che vive in stato di non pace da circa tre mesi, di fatto occupato militarmente da una super potenza che ne controlla più di un terzo del territorio. È in corso una silenziosa guerra civile. In tutto il paese un sistema mafioso ben radicato alimenta traffici di ogni genere. Predoni sono liberi di girare per villaggi ormai abitati solo più da vecchi. La chiesa ortodossa georgiana, diffidente e aggressiva, non esita a dichiarare da che parte Dio in persona si piazza sul campo di battaglia.
Questa purtroppo è la Georgia di oggi. Una nazione con paesaggi spettacolari, tradizione e cultura, ma che ha avuto la malaugurata sorte di entrare in guerra con la Russia. Un paese che assomiglia tanto a un campo di battaglia, che ospita conflitti per interessi altrui.
In questo delirio nei prossimi mesi si dovranno assistere almeno ventimila profughi stanziali, che si aggiungono agli oltre duecentomila che dal 1991, anno del primo conflitto, vagano per il paese.
Molti tra questi tentano di spacciarsi come «nuovi» profughi nella speranza che la loro condizione possa migliorare.
Fortunatamente, l’aggettivo non è scelto a caso, la stragrande maggioranza dei 15 mila iniziali di quest’ultimo conflitto sono tornati a casa; a molti di loro la sorte non ha voltato del tutto le spalle: nessun lutto, nessun saccheggio e la casa ancora in piedi. I restanti ventimila invece sono persone sul cui telefonino appaiono messaggi come: «Ti abbiamo appena abbattuto la casa col bulldoozer, bastardo georgiano. Non tornare mai più». Sono gli sfollati dalle due regioni ribelli, Abkhazia e Sud Ossetia.
E siste l’orrore e abita da queste parti. Come fronteggiare questa situazione? Come lavorare nel caos totale? Chi comanda? Chi esegue? Chi ruba e chi no?
Soprattutto ora che i media inteazionali se ne sono andati, la Georgia è tornata a essere uno sconosciuto paese incastrato, perso chissà dove nel mondo.
Inizialmente il governo del colorito presidente georgiano Saakashvili, un ragazzone che ama affacciarsi dai balconi per arringare le folle, ha dato ordine di aprire scuole e asili per dare un tetto ai profughi. Sul chi dovesse dare assistenza materiale invece è tuttora un mistero. I municipi in linea teorica si occupano del cibo.
Se un profugo è «fortunato» e capita in una scuola dove copre il servizio la Caritas, mangia come al ristorante, con qualità e quantità sorprendenti. Se invece gli va storto e il rancio lo porta il camioncino del comune spesso si tratta di: pane (un chilo ogni dieci persone), pacchi tipo «razione k» dell’esercito americano (disgustosi), oppure cibo in scatola della mezzaluna rossa (ancora peggio). Questo provoca tensioni e frustrazioni; il senso di sfascio imminente cresce e genera una sfiducia contagiosa.
E ntrando in ogni scuola si notano subito mucchi enormi di vestiti: sono tutti regalati dalle persone che vivono nei paraggi. Roba lisa e vecchia, ma che con l’arrivo dell’inverno potrebbe divenire utile.
Per quanto riguarda l’igiene personale, la Caritas si occupa di distribuire del materiale arrivato soprattutto dalla Polonia. Ma containers possono arrivare anche da congregazioni religiose, fondazioni, privati. Mancano, soprattutto, pannolini per bambini, detersivo, prodotti per l’igiene.
Quando vengono distribuiti questi prodotti si assiste a delle scene molto amare: donne (sempre loro, sempre in prima fila, sempre a lavorare) che litigano furiosamente per un pacco di latte in polvere, un assorbente, uno shampoo.
Eroiche in questo caso sono le volontarie della Caritas, che con santissima pazienza discutono, convincono, responsabilizzano, compilano cento fogli per la burocrazia… In questo tipo di organizzazione, c’è spazio per tutti i soggetti che devono risolvere le emergenze senza sapere come, magari inventandosi idee e progetti in tempo reale.
Esempio: una volontaria che lavora per una Ong passa davanti a un asilo e scopre che mai nessuno ha portato prodotti per l’igiene (capita spessissimo). Inizia la ricerca che passa attraverso tutte le Caritas, i soliti missionari, ambasciate, Croce Rossa, ecc. Se riesce a mettere insieme ciò di cui abbisognano i rifugiati, carica tutto su un camioncino, anche questo da trovare, e lo distribuisce.
Passaggi istituzionali: zero. Organizzazione: zero. È il trionfo dell’arte di arrangiarsi, ma anche lo scempio del concetto di aiuto di stato.
Che l’anarchia regni sovrana è dato dal fatto che non si capisce se stiano arrivando containers con aiuti materiali oppure no. Il deposito Caritas di Tblisi, che dovrebbe fungere da centro di smistamento, è praticamente vuoto. I georgiani ironizzano che gli aiuti in arrivo per il loro paese si devono cercare a Mosca.
In questo marasma c’è spazio anche per le pagliacciate mediatiche: recentemente un cacciatorpediniere Usa ha attraccato nel porto di Poti e ha scaricato centinaia di pacchi di acqua minerale. Uno dei pochi prodotti che la Georgia esporta è l’acqua minerale.
Questo per quanto riguarda i territori non ribelli. Per il Sud Ossetia e Abkhazia nessuno sa nulla. Non si sa se ci siano profughi in Russia, né se chi non è scappato sia assistito da qualcuno. Le autorità di Tblisi non possono entrare dentro una zona occupata dai russi.
Secondo alcune testimonianze i militari sovietici starebbero portando centinaia di containers con ponti aerei. Ma di fatto si tratta di territori fuori controllo: le ultime notizie certe provenienti da Tskhinvali, capoluogo della Sud Ossetia risalgono a ottobre.
I l presidente georgiano Saakashvili ha chiesto al mondo due miliardi di dollari per la ricostruzione del paese. Se mai arriveranno, la gestione sarà un problema non da poco. La Georgia è un paese dove la corruzione dilaga, anche se è in diminuzione, almeno in certi settori come le forze dell’ordine; mentre la reputazione delle Ong locali è quanto di più debole possa esistere al mondo.
Le scuole che inizialmente ospitavano i rifugiati lentamente stanno tornando ad assolvere i loro compiti, così chi qui aveva trovato riparo si trova costretto a vivere in una tenda oppure a rifugiarsi dentro ex ospedali militari cadenti, basi dell’esercito, i vecchi blok sovietici.
Il governo georgiano con i soldi della comunità europea vorrebbe dare una casetta a ogni famiglia; ma voci critiche giungono dalle massime associazioni inteazionali: c’è il timore che tutto si possa trasformare in una immensa speculazione edilizia fatta ai danni di profughi, che verrebbero indotti, più o meno volontariamente, a lasciare le loro «nuove» abitazioni.
Ma non tutto è così nero come potrebbe sembrare, anche se le zone di luce sono quasi sempre legate alla presenza di istituzioni occidentali, curate e coccolate, certe volte anche troppo. Esistono infatti personaggi ambigui che girano per il paese a caccia di giornalisti occidentali cui vendere storie, emozioni, progetti con cui fare la famosa e sempitea «marchetta».
Sono personaggi senza scrupoli, spesso georgiani, che puntano a lucrare sulla massa di denaro in arrivo. Sono in caccia di pubblicità a basso costo e per questo non esitano a offrire pranzi, cene, e compensi vari.
Ma questa è un’altra storia.
Maurizio Pagliassotti