Dove va il Kenya?

Gravi incognite di un paese che sembrava ricco e felice

Dietro i disordini scoppiati in seguito ai controversi risultati elettorali del dicembre 2007, si celano gravi problemi irrisolti: possesso della terra, tensioni etniche, squilibri economici e sociali, corruzione…
I due contendenti leaders politici si sono messi d’accordo, ma cresce il malcontento della gente, mettendo a rischio il futuro del paese.

I più sprovveduti non se lo aspettavano, i più attenti sì. Il Kenya è oggi in fondo alla classifica della pace. Secondo il Global Peace Index, compilato dall’Istituto per l’Economia e la Pace in Australia, su 140 nazioni il Kenya è precipitato al 119° posto. Le cause principali della sua caduta nella classifica della pace sono state le violenze post-elettorali del gennaio scorso, le bande dei Mungiki e dei Sabaot nel distretto del monte Elgon al confine con l’Uganda, il crescente numero di rapine a mano armata e gli omicidi a contratto, l’abbondanza di armi da fuoco illegali, l’aumento delle razzie di bestiame e i sequestri di autoveicoli pubblici e privati.
Naturalmente questo non è tutto il Kenya; ma lo si credeva un paese ricco e felice, a differenza di molte altre nazioni africane. Sembravano sparite anche le divisioni etniche tra le numerose tribù che lo compongono. Oggi invece molti africani non kenioti che vengono in Kenya restano sorpresi da queste divisioni e si sentono spesso chiedere «a quale tribù appartieni?»; una domanda che sarebbe considerata scortese nelle loro nazioni di provenienza.
Il Kenya, le cui dimensioni territoriali sono all’incirca quelle della Francia, ha sette province. Quella di Nyanza, situata sulle rive del Lago Vittoria, è la patria della comunità etnica luo, il cui modo di vita tradizionale è strettamente legato alla pesca. All’epoca dell’indipendenza del paese, i luo erano la seconda comunità etnica del Kenya numericamente più grande. Insieme al gruppo maggioritario, i kikuyu, avevano combattuto per l’indipendenza dalla Gran Bretagna.
Al contrario dei luo, situati sul confine occidentale del Kenya lontano dalla capitale Nairobi, i kikuyu vivevano e vivono ancora oggi prevalentemente nella Provincia Centrale che circonda il monte Kenya. Al tempo del colonialismo britannico furono l’etnia maggiormente danneggiata dalle espropriazioni di terre, volute dalle autorità coloniali per permettere agli agricoltori bianchi di stabilirsi in zone vicine alla capitale. Ne derivò una violenta ribellione, quella dei Mau-Mau, repressa nel sangue dall’esercito britannico negli anni Cinquanta del secolo scorso.
Il Kenya ottenne l’indipendenza nel 1963 e tutte le comunità etniche del paese accolsero con entusiasmo l’elezione a primo presidente della giovane repubblica Jomo Kenyatta, un kikuyu imprigionato per anni nelle carceri inglesi perché favorevole all’indipendenza.
Nel 1978, dopo la morte di Kenyatta, fu scelto a succedergli Daniel Arap Moi, un candidato di compromesso, appartenente all’etnia kalenjin, che abita la provincia della Rift Valley, una depressione di grande bellezza naturale che attraversa il Kenya da nord a sud, tradizionalmente abitata da popolazioni dedite alla pastorizia, tra le quali emerge l’etnia dei kalenjin.
Fino a qualche tempo fa, la Rift Valley era considerata il granaio del Kenya, ma dal gennaio 2008, colpita da sanguinosi conflitti etnici e con quasi 300 mila rifugiati, l’agricoltura è stata quasi del tutto devastata e abbandonata.
Nello stesso tempo, in Kenya si era verificato un rapido incremento della popolazione e il governo si rese conto che un gran numero di piccoli agricoltori era in cerca di terra da coltivare. Si decise di risolvere il problema assegnando a questi agricoltori zone fuori dalla Provincia Centrale, a scarsa densità demografica, ma dotate di terre fertili. Tali terre furono trovate soprattutto nella provincia della Rift Valley e furono subito occupate da coloni kikuyu oltre che da etnie provenienti dall’altro lato della Rift Valley, come i luo. Ciò provocò il risentimento delle popolazioni che da secoli abitavano la Rift Valley. 
Negli anni ‘80 e ‘90 gli scontri per il possesso della terra avvennero soprattutto dove i kalenjin avevano cominciato a razziare il bestiame e a cacciare gli agricoltori di altre etnie. L’evento peggiore si verificò nel 1992, quando furono uccise 1.500 persone. Sembra che in questi atti di violenza fosse addirittura coinvolto lo stesso governo del presidente Moi di etnia kalenjin.

Tuttavia, dietro alle violenze avvenute in Kenya con un numero considerevole di morti e di profughi, non c’è solo il problema delle terre, ma anche il conflitto tra luo e kikuyu; questi ultimi oggetto di una spropositata politica di investimenti considerata dai luo sfavorevole nei loro confronti. Scoppiarono così rivolte in tutta la provincia e il leader politico luo di allora, Oginga Odinga, fu arrestato con l’accusa di fomentare le rivolte. Un altro luo, il ministro della pianificazione economica Tom Mboya, filoccidentale e moderato, fu ucciso in una serrata lotta con Odinga per la successione all’ormai vecchio Kenyatta.
Dietro le recenti violenze avvenute in Kenya permane dunque il conflitto tra luo e kikuyu. Forse il principale teatro di queste violenze fu il Kibera slum di Nairobi, un luogo periferico della capitale dove è evidente la disuguaglianza economica e dove coloro che provengono dai territori dei luo tendono a gravitare in cerca di una sistemazione economica migliore. Il Kenya ha uno dei più alti redditi pro capite fra i paesi africani, ma ha anche il maggior divario nella distribuzione delle ricchezze. Negli ultimi decenni le proporzioni raggiunte dalla corruzione politica hanno inoltre messo il paese in una posizione anche peggiore rispetto a quella dei suoi vicini e, inevitabilmente, i tassi di crescita economica sono rimasti indietro.
Non solo a Nairobi, ma in molte altre città keniote la disuguaglianza economica è evidente nell’architettura delle zone ricche e nell’architettura fatiscente di quelle povere. Una foto scattata dal satellite e reperibile su internet mostra come all’interno dei confini della città c’è una superficie occupata da una serie di campi da golf e un’altra uguale occupata dagli slums, in cui vivono fino a tre milioni di persone. La consapevolezza di questa disuguaglianza, unita al risentimento etnico, si è combinata in una miscela esplosiva con forti tensioni e violenze nei primi mesi di quest’anno.

I n tale situazione le elezioni del dicembre 2007, che portarono di nuovo al potere il kikuyu Mwai Kibaki, furono giudicate dagli osservatori inteazionali «molto irregolari». Buona parte di loro ritennero infatti che il presidente legittimamente eletto fosse il capo dell’opposizione, Raila Odinga, appartenente all’etnia luo, membro del Parlamento di Nairobi e rappresentante di un’area che include Kibera slum. È anche figlio di Oginga Odinga, il leader politico della comunità luo imprigionato durante i disordini del 1969.
Le violente proteste contro le irregolarità avvenute alle elezioni del dicembre scorso sono con ogni probabilità non un fatto marginale, ma piuttosto una risposta alle molte tensioni che aspettavano soltanto di esplodere. È perciò importante che ora tra il presidente kikuyu Mwai Kibaki e il luo Raila Odinga si sia raggiunto un accordo di pace e che tale accordo abbia successo.
L’accordo propone un’autentica condivisione del potere, considerato il primo passo verso il superamento di rancori profondamente e storicamente radicati, in modo da costruire uno stato riconciliato, dove prevalga il senso del bene comune. L’auspicio è che in questo frangente i cristiani, tra cattolici e protestanti in Kenya sono più della metà della popolazione, abbiano un ruolo significativo nella maturazione del paese verso un’autentica democrazia. La strada è senza dubbio difficile. I rancori storici si sono accumulati e non sono stati affrontati per tempo.
Nel maggio scorso nei campi dei circa 300 mila rifugiati a causa dei conflitti etnici è stata lanciata dal governo l’operazione «Toate a casa». A Eldoret, in uno dei campi di questi rifugiati, si è tenuta una cerimonia interreligiosa, con la partecipazione di parlamentari locali di etnia kalenjin che predicavano il perdono e la pace. Alcuni di questi leaders sono sospettati di aver incitato il massacro dei kikuyu nel gennaio scorso.
Le difficoltà sono comunque enormi. L’agricoltura è stata devastata. Molte zone sono rimaste incolte, il prezzo delle sementi, dei fertilizzanti e del carburante sono alle stelle e la pioggia tarda a venire. Per coloro che hanno perso casa, bestiame e tutto il resto «tornare a casa» è un grosso problema, circondati come sono dai vicini che non li potevano vedere e che hanno razziato tutto quello che potevano. Per coloro che possedevano solo una capanna e un piccolo negozio di beni di consumo, si troveranno invece un cumulo di ceneri. «Toare a casa» sarà difficile, molto difficile.

E non è tutto finito qui! Come sempre succede in simili casi, i disordini di fine 2007 e inizio 2008 si sono trascinati dietro altri fatti incresciosi. Decine di piccoli commercianti, che avevano fornito del materiale a sostegno del partito del presidente Kibaki, non hanno ancora ricevuto alcun pagamento per un totale di 14 milioni di scellini (140 mila euro). Trattandosi per lo più di piccoli commercianti, ora rischiano la bancarotta. I dirigenti del partito del presidente, che avevano raccolto tale materiale, affermano di non avere nessuna responsabilità nel pagamento.
Inoltre, dopo parecchi mesi dai disordini elettorali, nei campi della Rift Valley vi sono ancora circa 20 mila rifugiati in precarie condizioni, malgrado gli aiuti dall’estero. A Timboroa il governo italiano ha costruito 200 piccole abitazioni per i più bisognosi; altre centinaia sono in costruzione da parte di diverse organizzazioni di assistenza umanitaria.
Ma succede anche qui come con i poveri polli di Renzo di manzoniana memoria: delle 2 mila stufe d’emergenza, donate dalla Germania, i rifugiati denunciano la sparizione di un certo numero; dove sono andate a finire? Non si sa! I rifugiati lamentano anche la scomparsa di vettovaglie, naturalmente vendute al pubblico dagli amministratori locali.
Infine, secondo la polizia, almeno 30 bambini sono stati abbandonati nelle vicinanze dei campi dei rifugiati di Eldoret e della tendopoli della Rift Valley. Tutto questo mentre il presidente Kibaki e il primo ministro Odinga discutono tra loro come punire gli arrestati responsabili delle violenze post-elettorali. Odinga chiede l’amnistia per tutti; Kibaki promette severe condanne. Odinga cerca il dialogo con i Mungiki; il capo della polizia promette severe repressioni finché la «setta» è fuorilegge.
Nel frattempo i parlamentari, già abbondantemente stipendiati dal governo, si rifiutano di pagare le tasse. «Ci vogliono ridurre alla miseria come i nostri elettori» diceva un parlamentare; e un altro: «Pagheremo le tasse quando ci aumenteranno lo stipendio che ci compensi di quanto abbiamo perso».
E non basta: la polizia avvisa che una nuova banda criminale, denominata «Siafu» (formiche caivore), sta operando negli slums di Nairobi, in conflitto con quelle già esistenti, ossia i Mungiki, i Talebani e i Kamjeschi. Queste bande raggruppano gruppi etnici diversi tra loro e si dividono determinate aree della baraccopoli di Nairobi.
Veramente a questo punto ci si può chiedere: «Dove va il Kenya?». 

Di Giampietro Casiraghi

Giampietro Casiraghi