Reportage dal Xinjiang
Sono 8 milioni gli uiguri, popolazione altaica di
religione musulmana. Abitano il Xinjiang, regione nell’estremo
Nord-Ovest cinese, dove il governo centrale sta inviando – già dal 1950
– gente di origine han, che ha occupato tutte le posizioni strategiche.
La pratica islamica è fortemente limitata, come l’uso della lingua
uigura. Pechino non ammette discussioni su una regione dalla posizione
strategica e ricca di risorse minerarie. Ma il movimento separatista
non si dà per vinto, nonostante sia stato inserito tra le
organizzazioni terroristiche.
«Siamo di Kucha (1), ma
da tre mesi viviamo in quella tenda». Milawa indica un accampamento
improvvisato di fianco alla profonda buca che sta scavando. Mentre
parla, il suo yaglik, il velo islamico, si scosta e lascia intravedere
una ciocca di capelli corvini. «Aiuto Memtimin Akhun (2). Ormai lui è
anziano e questo lavoro gli è diventato faticoso» racconta la donna,
mentre l’uomo si sistema il doppa, il tradizionale copricapo uiguro.
Memtimin
e Milawa sono due dei circa 8 milioni di uiguri che popolano la regione
autonoma del Xinjiang 新疆, letteralmente «nuovi territori».
Il letto
del fiume Yulong 玉龙 (3) attraversa la storica città di Khotan (4), ed
è uno dei pochi luoghi dove ancora si trova la giada. «Lavoriamo qui da
marzo a settembre – continua Milawa -, ma alcuni di noi scavano tutto
l’anno, sotto la pioggia e la neve, nella speranza di trovare
qualcosa». I cercatori di giada lavorano a mani nude con pale e
picconi, incuranti di eventuali frane o piene che la stagione calda può
riservare. «Ogni anno in media muoiono quindici persone, molti sono
bambini». Dice il settantenne Memtimin Akhun. Mostrando le mani
callose, continua: «Da quando siamo qui abbiamo trovato due pietre: per
una piccola i commercianti cinesi ci danno 900 kuai (circa 90 euro,
ndr), ma se la pietra è grande e pura possiamo arrivare a guadagnare
15.000 kuai (circa 1500 euro, ndr)». Nel frattempo sono arrivati due
compratori han, mentre parliamo le contrattazioni si fanno serrate.
Lasciato il letto del fiume e la periferia della città, ci spostiamo
nel centro di Khotan: nei negozi di oggetti di giada, in uno dei corsi
principali della città e tutti gestiti da cinesi han, i prezzi dei
preziosi oscillano dai 20 ai 300 mila kuai. Tutte le attività hanno i
laboratori annessi, sul retro, dove gli incisori lavorano senza sosta.
C’era un tempo in cui…
Gli
artigiani della giada un tempo erano uiguri, oggi non hanno più la
possibilità, soprattutto per ragioni economiche, di praticare questa
antica arte. Durante la dinastia Qing (5), fuori dalle mura della
«Città proibita», a Pechino, c’era il quartiere musulmano uiguro, oggi
via Xichangan: vi erano orafi, artigiani della giada, danzatori e
musicisti. Secondo la leggenda, l’imperatore Qianlong lo fece costruire
per la sua amatissima concubina, originaria di quelle lontane terre
occidentali, la leggendaria Xiang Fei (6), appena catturata dai
territori conquistati: la ragazza aveva nostalgia di casa, per questo
passava la vita alla finestra, osservando la vita e l’attività del
quartiere appena fuori le mura, dalla torre in cui abitava, reclusa.
Popolazione
altaica, gli uiguri parlano una lingua del ceppo turcico scritta in
caratteri arabi, sono di religione musulmana e si sentono parte del
cuore dell’Eurasia (7), i territori comunemente chiamati Asia Centrale.
Costituiscono ancora la maggioranza nella regione, che formalmente è
autonoma, ma di fatto il controllo delle autorità centrali e del
Partito comunista è percepibile in tutti i settori della vita pubblica
e privata della popolazione. Dagli anni Cinquanta, con la fondazione
della Repubblica popolare, incoraggiate dal governo centrale, le
migrazioni di cinesi han, l’etnia maggioritaria in Cina, stanno
ridisegnando il volto di questa area, che Pechino considera di
importanza cruciale, soprattutto per i suoi confini con gli stati
centroasiatici e le sue risorse energetiche, tra cui petrolio e uranio.
Pechino vede lo sviluppo economico del Xinjiang come un suo grande
successo e un’ottima strategia per preservare l’unità nazionale.
Se il Xinjiang
si chiamasse Uyghuristan
«Siamo
un popolo orgoglioso e fiero della nostra cultura». Abdulwahab alza la
voce per farsi sentire, mentre danze e musiche catalizzano l’attenzione
dei partecipanti al matrimonio di un lontano cugino, «La nostra storia
e la nostra cultura sono ricche di incontri e influenze dall’antica
Persia, dall’India e dalla Cina. Questo ci dà qualcosa in più, possiamo
vantare una tradizione che ha preso il meglio di queste grandi
civiltà». Il matrimonio per gli uiguri è un’occasione per stare insieme
a parenti e amici, ma anche per conoscere nuove persone, che spesso
vengono invitate per strada. Il ballo si scatena al ritmo del dap
(tamburo suonato a mano), del dutar (strumento a due corde di seta dal
lungo collo), del tämbur (lunghissimo liuto a cinque corde metalliche),
del balaman (corto strumento a fiato a due canne verticali con sette
cavità per le dita, che si accorda con una canna orizzontale fissata
vicino alla parte superiore dove c’è la bocca) e altri strumenti a
corde e a fiato finemente intagliati e ricoperti da pelli, generalmente
di rettili (8).
Situata nell’estremo Nord-Ovest cinese, grande tre
volte la Francia, la regione fu conquistata definitivamente nel XIX
secolo, durante le campagne espansionistiche della dinastia Qing. I
suoi confini con Mongolia, Russia, Kazakhstan, Kyrgyzistan, Tagikistan,
Afghanistan, Pakistan e India la rendono una regione strategica,
rappresenta un ponte per l’Asia centrale, che attira la Cina come fonte
di risorse e nuovi mercati.
Molti uiguri vorrebbero chiamare il
Xinjiang «Turkestan Orientale» o «Uyghuristan», termini che possono
valere il carcere se pronunciati pubblicamente: coloro che vengono
sorpresi a parlarne vengono tacciati di separatismo. La fisionomia
della gente varia dall’occhio a mandorla con zigomo alto, capelli neri
e pelle scura, fino al biondo con occhi chiari. Vivono tra deserti,
steppe, depressioni e altopiani battuti dai venti, in origine erano
nomadi dediti alla pastorizia e si spostavano attraverso la Mongolia e
in tutto il centro Asia. Dal IX secolo sono stanziali e vivono
principalmente nelle oasi a sud del deserto del Taklamakan,
letteralmente «dove entri e non esci più». Kashgar, Khotan, Yarkand e
Yenghissar: in passato questi centri erano antichi e potenti regni
buddisti situati sul segmento meridionale della Via della seta,
diventati musulmani nel XIV secolo quando l’islam conquistò quelle
terre soppiantando buddismo, nestorianesimo e manicheismo.
Urumqi
e un museo
con troppi segreti
«I
primi annali cinesi riferivano degli stravaganti barbari alle frontiere
occidentali: una marmaglia dalla pelle bianca e i capelli rosso acceso,
nasi enormi e occhi verdi o azzurri» (9). Victor H. Mair, sinologo e
archeologo che ne ha studiato le origini, sostiene che siano
discendenti dei Tocari, antico popolo indoeuropeo che viveva nel bacino
del Tarim nel III millennio a.C. Secondo questa teoria, una tra le
tante sulle origini di questo popolo, i loro antenati riposano nelle
teche e nei magazzini del museo di Urumqi, capitale del Xinjiang.
Furono
gli archeologi Sven Hedin, Albert Von le Coq e Aurel Stein a trovare
decine di mummie seppellite e preservate dalle sabbie del deserto del
Taklamakan. In seguito a queste prime spedizioni del XX secolo ce ne
furono tante altre che portarono alla luce più di cento corpi. La
statura e le fattezze delle mummie preoccupano il governo cinese: sono
alti, dal metro e ottanta ai due metri, i resti dei capelli sono
chiari, le fattezze dei visi vicine a quelle europee. Gli abiti e le
maschere, preservati dal clima secco e dal terreno alcalino del bacino
del Tarim, sono decorati e rifiniti con tecniche e motivi tipicamente
indoeuropei.
Scoperte scomode per le autorità, che tardano a dare
i permessi per fare i test genetici: e se queste verifiche attestassero
origini non cinesi delle mummie? È un interrogativo scottante, il
governo teme che i separatisti uiguri si possano avvalere di questo
eventuale risultato per rafforzare le loro tesi indipendentiste. Il
tempo passa e gli antichi corpi continuano a deteriorarsi nei magazzini
dei musei cinesi, ma nel 2004 gli archeologi riescono a far prevalere
le necessità scientifiche sugli intrighi e le controversie politiche.
Gli studi hanno collocato le esistenze degli antichi uomini tra i 4000
e i 3000 anni fa, mentre i test genetici hanno rilevato un Dna europeo,
provando definitivamente che i primi popoli della Cina occidentale non
erano estremo orientali. Archeologi e studiosi stanno cercando di
capire la provenienza di queste popolazioni e il motivo che li aveva
spinti a insediarsi in quelle aree. Il saggio di Victor H. Mair The
Tarim – Mummies: Ancient China and the Earliest Peoples from the West –
analizza scientificamente molti degli enigmi di mummie che nei circoli
scientifici e storici sono considerate alla stregua di quelle egizie,
ma che, per motivi essenzialmente politici, il grande pubblico
difficilmente ne sente parlare. Solo qualche esemplare è esposto ora al
museo di Urumqi.
Uiguri ed han:
esistenze parallele
«I
miei studenti non trovano lavoro. Alcuni sono già laureati ma le
aziende cinesi preferiscono assumere gli han». Nabjan insegna inglese
in una scuola privata di Ghuljia, città al confine con il Kazakhstan, e
mentre parla si guarda nervosamente intorno: nonostante siamo in un
mercato e siano le 11 del mattino, ha paura, la polizia e i corpi
anti-sommossa pattugliano la città 24 ore su 24, e chi viene sorpreso a
parlare con occidentali rischia come minimo un interrogatorio. I suoi
occhi azzurri sembrano privi di speranza, ma a un certo punto si
illuminano: «Per noi è difficilissimo e molto costoso ottenere il
passaporto, non è che ci puoi dare una mano dall’Italia?».
Uiguri e
han costituiscono oggi l’85% della popolazione della multietnica
regione, si incontrano difficilmente, più spesso si scontrano. Le loro
vite sono esistenze parallele: i centri urbani sono prevalentemente
abitati da han, gli uiguri vivono invece in appositi quartieri e nei
villaggi rurali. La regione è una tra quelle dove il gap città-campagna
è più alto, nonostante i sussidi del governo, nelle campagne la povertà
è estrema.
Uscendo dai centri urbani si incontrano villaggi dove
la gente vive delle attività del mercato, i barbieri lavorano di buona
lena e i chioschi di manta (10) e laghman (11) vanno per la maggiore.
Le attività seguono i ritmi della campagna, dove si lavora senza
macchinari con metodi antiquati. Mentre si cucina e nei piccoli
esercizi si vende di tutto, nella parte han della città di Ghuljia i
dipendenti di ChinaTelecom praticano gli esercizi di tajiquan a ritmo
di musica, un metodo che tiene in salute e rafforza lo spirito di
gruppo.
Al sistema scandito dalla terra e dalla religione degli
uiguri si contrappongono l’ordine e la gerarchia della cultura
confuciana (12), che dominano i ritmi della popolazione han. A Kashgar,
importante centro sull’antica Via della seta, un «esercito» di cuochi
alle dipendenze di un albergo è in fila sul marciapiede. Il capo, come
ogni giorno, li chiama per nome e dà loro la valutazione sul lavoro
svolto. «È un sistema molto utile per rafforzare lo spirito di gruppo e
premiare chi si distingue sul lavoro», mi dice con convinzione Zhigang,
trasferitosi dal Qinghai e da cinque anni responsabile del personale
dell’albergo. Nello stesso momento a Yekshembe, villaggio contadino
fuori città, si lavora con mezzi rudimentali. I carretti trainati dagli
asini portano la gente nel mercato, gli anziani vanno dal barbiere e
bevono ayrun, una bevanda a base di acqua, sale e yogurt acido di
capra. Sono a pochi km di distanza, ma qui città e campagna sembrano
separate da due secoli di storia.
«Bingtuan» e «mandarino»:
i piani di Pechino
Dopo
il 1949, anno della fondazione della Repubblica popolare cinese, il
Xinjiang divenne un territorio da «sinizzare» (13). Si cominciò con il
trasferimento di guaigioni militari e contadini han che fondarono i
bingtuan, unità di produzione agricola e industriale distribuite su
tutto il territorio e aventi la duplice funzione di sfruttamento delle
risorse e controllo del territorio.
Contestualmente si attuarono
politiche ad hoc per incoraggiare il dislocamento della popolazione
dalle varie regioni della Cina allo Xinjiang.
«Qui guadagno il
triplo di quello che guadagnavo nello Shaanxi – mi confessa un
ingegnere han – e le case hanno dei prezzi molto bassi rispetto a tutte
le altre zone della Cina».
Il 59,4% della popolazione della
regione non è di etnia han, sono uiguri, mongoli, hui e kazaki, ma
molto presto questa maggioranza diventerà una minoranza.
Human
Rights in China denuncia che «l’educazione bilingue è messa in pratica
solo nelle scuole primarie, dove la lingua delle minoranze viene
utilizzata nelle classi e nei libri di testo. A livello di scuole
secondarie il medium d’insegnamento diventa il mandarino». Durante i
colloqui di lavoro è un prerequisito fondamentale conoscere alla
perfezione il mandarino, lingua ideografica, isolante e tonale del
gruppo sino-tibetano, che non ha alcuna somiglianza con lo uiguro,
lingua alfabetica, flessiva e altaica del ceppo turcico. Questo fattore
linguistico, insieme a una palese discriminazione del popolo uiguro,
«sono egoisti e arretrati, molto diversi da noi cinesi», confessa il
mio amico han di Urumqi, vittima di una propaganda che raggiunge tutti,
costituisce un elemento fondamentale per la perdita dell’identità
culturale e la formazione di un’élite uigura urbana e sinizzata da una
parte, e sacche di povertà nelle campagne e nei quartieri uiguri.
Le
rivendicazioni separatiste si sono fatte sentire nel corso dei decenni
attraverso dimostrazioni e manifestazioni, talvolta con la formazione
di veri e propri gruppi politici. Gli storici sostengono che nei
periodi in cui l’autonomia reale fu riconosciuta, tutti precedenti al
1949, la situazione era positiva, ma il petrolio e la grande quantità
di risorse naturali hanno fatto sì che le attuali autorità cinesi non
percorressero la via del dialogo, ma quella più «facile e immediata»
della repressione.
Il Xinjiang del XXI secolo è una terra dal
futuro incerto, la sua situazione è sconosciuta ai più e la stampa
dedica all’argomento poco inchiostro, un’attenzione uniforme e
superficiale. La sua storia millenaria fatta di passaggi di culture e
religioni tra le più diverse, che si sono succedute e hanno convissuto
dando vita a un sincretismo culturale e religioso oramai raro, si
preserva in parte in seno alla comunità uigura.
Se le mummie
del Taklamakan parlassero
Lo
scrittore inglese Colin Thubron, mentre osserva le mummie del
Taklamakan durante il viaggio raccontato in Ombre sulla Via della Seta,
così le descrive: «I corpi provocano un guizzo di apprensione. Sembrano
paralizzati nell’atto di morire, qui rinviato come per caso, quasi
fossero uccelli bloccati in volo. All’ingresso del museo un avviso
informa che le reliquie esposte provano che la provincia è parte
inalienabile della Cina. In realtà, naturalmente, suggeriscono il
contrario. I cadaveri non riposano in pace. La loro strana
conservazione li solleva dalla preistoria nel presente politico, più
potenti di uno scheletro o di un frammento di Dna. Sono in attesa, come
una famiglia solenne. Sembra che le loro posture – le ginocchia piegate
di traverso, le mani serrate in maniera incerta – non siano definitive,
quasi che un giorno debbano alzarsi e portare il loro bambino in
strada».
Note
(1) Città nel nord del Xinjiang.
(2) Akhun è un titolo che nella cultura uigura indica rispetto per un anziano, di cui ne accompagna il nome.
(3) Letteralmente «Drago di Giada».
(4) Antico centro della Via della Seta nel sud della regione.
(5) Ultima dinastia imperiale, 1644-1911.
(6) Nome cinese, quello uiguro è Iparxan.
(7) Franco Mazzei e Vittorio Volpi, Asia al centro, EGEA, Milano 2007.
(8)
Un’ampia panoramica sugli strumenti di musica uigura si può trovare sul
sito http://www.uyghurensemble.co.uk/
en-html/nf-research-article1.html, storia e tipologie di musica al
link:
http://www.amc.org.uk/education/articles/Music%20of%20the%20Uyghurs.htm, mentre esempi di muqam si possono ascoltare su:
http://www.meshrep.com/music/index.html(9) Colin Thubron, Ombre sulla via della seta, Ponte alle Grazie, Milano 2006, p. 127
(10) Profumati fagottini ripieni di carne di capra, cotti in tradizionali foi di pietra.
(11) Una specie di tagliatelle condite con carne e verdura, molto speziate.
(12)
Tra i principi cardine: rispetto per i superiori, ordine, parsimonia e
gerarchia. Il testo fondamentale è il Lunyu, i dialoghi di Confucio.
(13)
Con il termine sinizzazione si fa riferimento all’applicazione di
politiche volte a diffondere i valori confuciani in contesti usualmente
estranei.
Alessandra Cappelletti