Cari missionari

Giustizia per tutti…

Egregio Direttore,
mi permetto di fare qualche appunto all’articolo di padre Giuseppe Ramponi sul vescovo ecuadoregno Eduardo Proaño (M.C. 7-8 2008, p.16)) e, in genere, sul tono di moda in questi decenni, una visione dei popoli vicina a Rousseau: popoli originariamente buoni e dalla vita sociale quasi paradisiaca, rovinati completamente dai cattivi europei per di più cristiani.
L’evangelizzazione dell’America Latina ha le sue ombre, ma anche le sue luci: Turibio di Mongrovejo e Pietro Claver ne sono piccoli esempi… C’è poi la mentalità in molti popoli di dare sempre la colpa ad altri dei loro mali, ai cattivi sfruttatori: ieri il colonialismo, oggi il mercato globale e capitalismo selvaggio…
Noi popoli dell’Europa a chi dobbiamo chiedere i danni? Ai cartaginesi, ai romani, agli unni, ai mongoli, ai turchi… Siamo usciti da una lunga storia di guerre, stupri, pestilenze, fame e miserie d’ogni genere… A scuola ci hanno insegnato l’aspetto positivo della cultura greca che con Alessandro Magno ha unificato il mondo antico, così come poi il latino con Roma e con la chiesa: e oggi l’inglese, il francese, lo spagnolo non hanno forse portato anche qualcosa di buono nella crescita dei popoli?
L’ America Latina e specialmente l’Africa sono state evangelizzate, o meglio scolarizzate, da migliaia di missionari e missionarie usciti da tante povere famiglie e, pur con tutti i loro limiti, non sono andati in paesi lontani per imporre i loro usi e costumi e neppure per portare la rivoluzione delle armi, ma un po’ di vangelo secondo le loro capacità. Anche la grande emigrazione dall’Europa verso le Americhe non è stata principalmente un fatto di potenti contro poveri, ma un incontro e uno scontro di poveracci con poveracci. In Europa abbiamo impiegato più di mille anni per capire che forse è meglio non scannarci a vicenda e formare invece una comunità.
La creazione geme nelle doglie del parto… Il mondo nuovo, dove la giustizia ha stabile dimora, verrà dopo la fine di questo… saluti e buon lavoro.
Don Silvano Cuffolo
Oropa (BI)

Grazie, don Silvano, per questa sua riflessione. Siamo d’accordo. Ma intanto dobbiamo darci da fare perché il Regno di pace e di giustizia per tutti cresca già in questo mondo.

«Chi inquina uccide»,
non solo con i Suv

Dopo la lettura delle pagine dedicate ai Suv (M.C. 2-2008 p. 66-67) sono ancor più convinto che l’acquisto degli Sport Utility Vehicle sia una moda più che una necessità, un cedimento alla macchina pubblicitaria più che la risposta alla domanda di sicurezza sulle strade. Al tempo stesso mi sembrano doverose alcune puntualizzazioni.
Primo: anche la critica al Suv rischia di diventare una moda, se è disgiunta dalla critica a tutto un modo di concepire il diritto al lavoro, mobilità, svago. Consideriamo, ad esempio, il settore della pesca: l’aumento del prezzo del gasolio ha messo in grossissima difficoltà le compagnie; ci sono state molte agitazioni, scioperi, richieste di aiuto economico all’Unione Europea, oltre che ai governi nazionali e alle amministrazioni locali. Ma una congiuntura economica drammatica come questa non dovrebbe essere anche l’occasione per cominciare a prendere finalmente e seriamente in considerazione l’ipotesi di sfruttare le risorse del mare in modo più saggio, più equilibrato, più responsabile?
Se è vero, come è vero, che alcuni colossi della navigazione commerciale (Cosco Container Lines, K Line, Yang Ming, Hanjing Shipping, ecc…) hanno raggiunto un accordo sulla riduzione delle velocità delle loro navi da 25 a 21,5 nodi e probabilmente si accorderanno per ulteriori riduzioni (studiosi e tecnici hanno calcolato che una diminuzione della velocità del 10%, per un portacontainer può significare una riduzione del consumo di combustibile del 30%), perché non si dovrebbe trovare un’intesa analoga anche per il settore della pesca e per quello della navigazione da diporto?
E quell’Europa che spinge tanto per la rottamazione, ridimensionamento e rinnovamento delle flotte pescherecce (troppi i pescatori, troppi e troppo vecchi i natanti), non potrebbe spingersi un tantino più in là ed esigere da armatori e costruttori la messa in atto di tutti gli accorgimenti e soluzioni aerodinamiche che la modea tecnologia offre, per consentire all’uomo di lavorare e magari anche di divertirsi in mare senza rovinarlo?
Secondo: non mi convince affatto la linea scelta da alcuni governi nazionali e, soprattutto, locali che hanno deciso di far pagare l’ingresso dei Suv nei centri storici (a Londra, per esempio, Jeep & C. entrano solo se pagano l’equivalente di 33 euro al giorno…). È una cosa altamente diseducativa, una ignominiosa resa alla logica del «vuoi inquinare? Paga!».  No, cari premier e cari sindaci, sempre più innamorati delle tasse, erano molto più convincenti ed educative le domeniche senza auto: quelle che, nell’ormai lontano inverno 1973-1974, trasformarono non solo le città, ma anche le strade extraurbane (autostrade comprese) in piccoli paradisi.
Vorrei ricordarvi che chi inquina uccide: lo ha detto tante vole anche papa Giovanni Paolo ii, lo ha ribadito il suo successore; e su MC lo hanno documentato magnificamente il dott. Topino e la dott.ssa Novara.
In uno stato che funziona nessuna autorità può dire a chicchessia «vuoi uccidere? Paga!». No, in uno stato di diritto non può esserci spazio per approcci del genere, che non differiscono molto da quelli che caratterizzano il mondo dei contrabbandieri, bracconieri, camorristi, mafiosi.
Nessun medico serio si permetterebbe di dire a un paziente, pieno di problemi a causa della sua golosità, «per contenere i danni della gran mangiata e gran bevuta che ti farai, ingoia questa pasticca, fatti questa iniezione».
Smettiamo, quindi, di prendere di mira i proprietari di Suv, come se fossero tutti gradassi, prepotenti, ubriaconi, carnefici, e di difendere gli altri automobilisti, motoscornoteristi, camionisti, come se fossero tutti umili, sobri, vittime. Ridimensioniamo anche la storia che chi mangia pesce, rispetto a chi mangia carne, fa meno male alla salute propria e agli equilibri planetari: sia in mare che nelle acque intee, la pressione sulle risorse ittiche ha raggiunto livelli intollerabili, così come è intollerabile la tragedia delle morti bianche a bordo delle imbarcazioni: fonti Fao riportano che «ogni giorno almeno 70 persone muoiono in incidenti di pesca nei mari dei quattro continenti», numero ben maggiore di quello che si riscontra in edilizia e agricoltura.
Guglielmo De Tigris
Urbino

UN MURO CHE NON DIVIDE

Il 20° secolo, il più sanguinario che la storia ricordi, ha dato luogo a catastrofi umane senza precedenti, che hanno leso la dignità di milioni di persone. A 90 anni dalla fine della Grande guerra, la parrocchia di Ciano del Montello ha voluto realizzare, nel piazzale della chiesa, un «Monumento alla pace», inaugurato la sera del 27 settembre scorso.
Questo piccolo lembo di terra veneta, in prima linea ai piedi del Montello e lambito dal fiume Piave, fu teatro di avvenimenti drammatici e vide i suoi abitanti lasciare i luoghi natii come profughi o combattenti, pagando un prezzo altissimo in termini di vite umane e privazioni generalizzate, senza dimenticare i caduti dei paesi all’epoca nemici. 
L’intento principale dell’iniziativa è quello d’attuare una sorta di consegna intergenerazionale, per far sì che il ricordo sopravviva nella memoria e divenga, nel tempo, segno concreto per la tutela della libertà e della pace.
Il parroco, don Saverio Fassina, e gli animatori dei gruppi estivi si sono fatti promotori dell’opera, riflettendo a lungo su come poterla realizzare in maniera da rendere protagonisti i bambini e i giovani, così lontani nel tempo da quei tragici eventi, eppure eredi e diretti destinatari di sottesi messaggi di speranza per l’avvenire.
Avvalendosi della professionalità dell’architetto Giampaolo Blandini, si è scelto di valorizzare il muro dell’antico cimitero, che un tempo sorgeva accanto alla chiesa, applicandovi formelle in ceramica variopinta, create dai ragazzi, e aventi come tema predominante la pace. Accanto a queste ne sono state inserite altre, provenienti da viaggi o pellegrinaggi in diversi paesi del mondo, spesso martoriati, quali Etiopia, Palestina e Irlanda; esse contengono non solo messaggi iconografici, ma anche simbologie cristiane. Sul muro s’incontrano altresì iscrizioni islamiche, giunte dal Marocco, per affermare quella vicinanza umana che vuole andare oltre le etnie e le confessioni religiose.
Chiunque giunga in questi luoghi può sentirsi, così, accolto dalle parole: «La pace sia con te», espresse in varie lingue, fedi e immagini. Queste sono le «pietre vive» che coesistono, si sovrappongono e dialogano.

Il fulcro di tutto il progetto si sviluppa su un’area quadrata di circa quattro metri per quattro. Su uno dei lati è rappresentata il Montello, con tralci d’uva ed elementi plastici che rimandano alle case e chiese del territorio; sull’altro vi è un richiamo al Monte Grappa, definito da alti alberi e percorso da aneliti di vita, prematuramente spezzati…
Nel mezzo della composizione è collocata una fontana per quanti, assetati d’acqua e di giustizia, si fermeranno per trovare ristoro. Alla base di questa sono disposti i sassi del fiume Piave, di diverse dimensioni e fattezze, per evocare l’incertezza traballante di passi confusi, tormentati da angoscia e paura. L’acqua, elemento vivificante, intende favorire la purificazione della memoria, personale e collettiva, e la rinascita.
Per evidenziare maggiormente questa idea di rinnovamento, un velo d’acqua ha il privilegio di scorrere sui versi di una poesia dell’ecuadoriano Jorge Carrera Andrade (1903 – 1978), pioniere della difesa della natura e della bellezza del mondo, sulla quale vedeva incombere il rischio dello sfregio di una ragione senza spirito.
«Verrà un giorno più duro degli altri:
scoppierà la pace sulla terra
come un sole di cristallo.
Un fulgore nuovo avvolgerà le cose.
Gli uomini canteranno nelle strade
liberi ormai della morte menzognera.
Il frumento crescerà sui resti delle armi distrutte
e nessuno verserà il sangue del fratello.
Il mondo allora sarà delle fonti
e delle spighe che imporranno il loro impero
d’abbondanza e freschezza senza frontiere».

La speranza è che quanti lo desiderano, piccoli o grandi, continuino ad apporre nuove formelle, provenienti da diversi luoghi ed esperienze, su questo «muro di pace». L’intero complesso è concepito, pertanto, come un’opera in divenire, un monumento vivo.
In questi luoghi, quasi completamente distrutti dalla guerra, bambini e ragazzi di Ciano, tramite questa esperienza, hanno compreso in maniera tangibile che l’infanzia e la giovinezza sono un momento privilegiato per diventare, in prima persona, portatori e costruttori di pace. Il compito loro affidato è di diffondere questo giornioso messaggio. In opere e parola. Perché non sempre i muri dividono.
Rosella Cervi
Ciano del Montello (TV)

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