Un’impronta da lasciare

Alcuni eventi di discriminazione sociale che in questi ultimi mesi hanno riempito le pagine dei nostri giornali e rotocalchi hanno acuito interrogativi che da tempo abitano il nostro cuore e la nostra mente. Che ne è di Gesù Cristo? Che ne è della fede e della testimonianza cristiana nelle nostre società? Soprattutto, che ne sarà del cristianesimo in un prossimo futuro? Ancora recentemente qualcuno paveggiava una lenta dissoluzione, uno sciogliersi indolore (ancorché, forse, arricchente) dei valori cristiani all’interno del più vasto patrimonio etico dell’umanità. Altri ancora si immaginavano – o si auguravano -una chiesa sempre capace di conciliare gli opposti, grazie al suo seno generoso portato ad accogliere tendenze non solo diverse, ma a volte perfino contraddittorie. Oggi tutto ciò non avviene più; anzi, ci pare che la tentazione più seria che colpisce i testimoni del Signore Gesù, fattosi uomo come noi, morto e risorto per ristabilire la piena comunione dell’umanità e del cosmo intero con Dio, venga dall’irresistibile fascino di un cristianesimo apologetico, propenso a orientarsi sempre di più sulla sicurezza della legge e molto meno sul rischio della profezia.

Il cristianesimo sarà profezia oggi se rinuncerà a ogni forma di potere che non sia quello della Parola «disarmata». Sarà profezia se farà prevalere la compassione sulla legge, l’incontro sulla paura e la minaccia, la vita su ogni idolatria di morte. Sarà profezia se troverà, come diceva Giovanni Paolo II, discepoli capaci di essere «sentinelle della libertà, della giustizia e della pace».
In questi ultimi tempi, non sono mancati segnali che puntano decisamente in questa direzione. Il lucido editoriale di «Famiglia Cristiana», scritto nel luglio scorso contro la proposta di «catalogazione» dei bimbi Rom avanzata dal Ministro dell’Inteo, ha dato una sincera scossa a un mondo ecclesiale rassegnato, perché atrofizzato dalla paura e quindi incapace di assumere scelte profetiche ma impopolari. Insieme ad altre prese di posizione ufficiali (Caritas, Cei), ha contribuito a fornire un punto di riferimento concreto alla confusione di tanti fedeli, disorientati dall’aggressività e dalla parzialità con cui i media presentano oggi il problema migrazione.
Sono voci fuori dal coro che annunciano speranza in una società in cui la paura del diverso sembra prevalere, creando rancori e malcontenti, che sfociano frequentemente in autentiche guerre tra poveri. Sono voci che non devono rimanere inascoltate, in quanto ci dicono come oggi un cristianesimo che sappia ripresentare l’inaudito di una «Buona Notizia» debba ritrovare il suo senso e il suo posto. C’è ancora spazio per cristiani liberati dalle paure e aperti al dialogo e all’incontro con la diversità. Sarebbero fonte di speranza per tutti. Non soltanto per i poveri che abitano i campi nomadi o i famigerati centri di identificazione ed espulsione, ma per tutti i bambini e gli adulti che, in questo nostro mondo, sono «schedati» dalla fame, dall’indigenza, dallo sfruttamento… semplicemente perché appartengono alla classe dei miserabili. È lì tra loro, dove la chiesa deve lasciare la sua impronta.

Di Antonio Rovelli

Antonio Rovelli

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