Tanzania: diario di un’esperienza di interculturalità
INTRODUZIONE
P er due settimane, sotto la guida di padre Alex Moreschi, un gruppo di 14 studenti e altrettanti docenti, provenienti dagli istituti superiori di 5 città italiane (Milano, Torino, Catania, Brindisi, Napoli), sono stati in Tanzania per realizzare un viaggio-scuola di scambio culturale. Turisti «non per caso», quindi, ma preparati a cogliere con intelligenza e sensibilità tanti aspetti che sfuggono ai turisti superficiali.
Al loro ritorno hanno fissato in un diario alcuni ricordi di ciò che hanno visto e alcune delle esperienze ed emozioni vissute, a contatto con una natura ancora incontaminata, con una popolazione ospitale, ma alle prese con tanti problemi di povertà e sottosviluppo.
Hanno scoperto un’altra Africa, lontana dagli stereotipi con cui essa viene presentata dai nostri mass media. Un’Africa ricca di valori umani e culturali, orgogliosa della propria storia e cultura, impegnata a emergere in tutti i campi della vita intellettuale, economica e sociale per camminare con le proprie gambe, con lo sguardo rivolto a un futuro di speranza.
I giovani hanno familiarizzato con i loro coetanei; i docenti hanno scambiato le proprie esperienze con i colleghi delle scuole tanzaniane. Tutti hanno ammirato, con sensibilità e solidarietà, il lavoro dei missionari e missionarie a favore dei più bisognosi.
È vero: il viaggio è stato troppo breve per comprendere molti altri aspetti positivi della gente del Tanzania, ma sufficiente per imparare tante cose. Il contatto interculturale ha insegnato a guardare alla realtà con più oggettività e umiltà, a sforzarsi di capire la diversità prima di giudicarla; a vedere le situazioni con gli occhi di chi le vive.
A contatto con la gente hanno capito che basta così poco per essere felice e nell’incontro con i missionari hanno constatato che anche con mezzi limitati si possono fare miracoli. Qualcuno in Tanzania ha lasciato il cuore; tutti sono tornati con la voglia di fare, incontrare, aiutare.
Roma 31.3.08
Ultimi Ripassi
S ul treno per Roma siamo in fermento: ci scambiamo conoscenze, idee, aspettative.
Abbiamo già imparato qualche parola in kiswahili: karibuni (benvenuto), jambo (ciao), habari (come stai), mzuri (sto bene), asante sana (grazie), tafadhali (per favore).
Confrontiamo le nostre informazioni sul Tanzania: sappiamo…
– che ha una superficie che è più del triplo di quella dell’Italia,
– che ha circa 35 milioni di abitanti contro i circa 58 milioni dell’Italia,
– che la metà della popolazione ha meno di 16 anni e che sono pochissime le persone che superano i 60 anni,
– che ha un altissimo indice di fertilità e che la popolazione sarà più che raddoppiata fra 20-30 anni,
– che c’è un’altissima mortalità infantile e che l’Aids colpisce circa il 7% della popolazione,
– che la vita media oscilla intorno ai 45 anni, mentre in Italia è di circa 75/80 anni.
S appiamo che saremo a sud dell’Equatore e che nel cielo vedremo le stelle dell’emisfero australe e la Croce del Sud. Ci raccontiamo della Rift Valley, dove è nata la vita, dei laghi incassati nella fascia occidentale della Rift Valley e dei 1.400 metri di profondità del Tanganika.
Cerchiamo sulla cartina il Lago Vittoria, le sorgenti del Nilo, il Kilimangiaro, ai confini con il Kenya. Ci raccontiamo degli esploratori alla ricerca delle sorgenti del Nilo, le storie di Livingstone, di Stanley…
A rriviamo a Fiumicino presto. In attesa di incontrare i nostri compagni di viaggio facciamo uno spuntino e un brindisi a base di succo di frutta e Malarone (facciamo una tabella per ricordarci la profilassi contro la malaria). Sono le 20 quando ci troviamo con gli altri, al check-in, «raccolti» dalla preside Giuliana di Ischia.
Verso le 23 partiamo con il volo della Qatar Airways, che fa scalo a Doha nel Qatar.
Dar es Salaam 1.4.08
Prime impressioni
A lle cinque del mattino siamo a Doha e verso le sette partiamo per Dar Es Salaam. Sorvoliamo l’Arabia: attraverso le nuvole vediamo il deserto attraversato da solchi di corsi d’acqua completamente asciutti.
Superato il Coo d’Africa, cerchiamo di intravvedere a ovest le cime del Kenya e del Kilimangiaro, che si perdono fra le nuvole. Quando atterriamo a Dar Es Salaam vediamo per prima cosa una lunga fila di palme, una accanto all’altra contro il cielo azzurro e terso; l’aria è calda e secca: siamo in Africa.
Sono le 14; siamo piuttosto provati dal viaggio. Ci siamo già conosciuti e mi sembra che possiamo fare un bel gruppo. Poco dopo arriva ad accoglierci padre Alex Moreschi, il missionario che ci farà da guida. Prendiamo posto su un pullmino e una jeep tipo anni ‘70, con sedili di plastica rovinata e «strapuntini»; con fatica i due autisti caricano i nostri infiniti bagagli sul tetto. Hakuna matata (non ci sono problemi).
Aggiungiamo altri termini al nostro vocabolario: pole pole (piano piano) quando il nostro autista va troppo veloce; kwenda (vai) e simama (fermati).
A ttraversiamo la città. Mi colpisce l’estrema povertà: lungo le strade, addossati a muri sbrecciati o seduti su vecchi copertoni, nel caldo afoso del pomeriggio, apparentemente senza aver nulla da fare, siedono uomini ed anche donne e bambini.
Si susseguono le catapecchie, i casermoni fatiscenti. Qua e là la miseria è interrotta da situazioni di un lusso incredibile: l’Hotel Kilimangiaro, con le sue torri di vetro, le macchine nuove, l’affaccendarsi di gente… la residenza del presidente, in un mega-parco… E poi ancora miseria.
Mi colpiscono i ragazzi che escono dalle scuole, in divisa, figure decorose.
Ci dirigiamo alla residenza del Tec (Tanzanian Episcopal Conference), che ci ospiterà nei giorni in cui stiamo a Dar Es Salaam. Chiusi da un cancello, alcuni edifici sobri ma decorosi si affacciano su un grande e rigoglioso cortile: ci sono l’ostello che ci ospita, la chiesa, la mensa, un piccolo bar con una piacevole terrazza: tutto è semplice, ma pulito e piacevole.
Rifletto sul fatto che la semplicità e il decoro di questi edifici si collocano fra il lusso sfrenato degli hotel occidentali e la povertà delle capanne.
Kigamboni 2.4.08
Tra i banchi dell’asilo
D estinazione Kigamboni, una penisola di fronte a Dar Es Salaam, che raggiungiamo con un traghetto che avrà, se va bene, 50 anni. Non si sa bene se più azzurro o più ruggine; ospita, in una variopinta diversità, macchine vecchissime, pullmini e jeep, e, stipate in mezzo a questi, persone di ogni tipo ed età, tutte rigorosamente di colore, anche se di etnie evidentemente diverse. Siamo gli unici bianchi, guardati un po’ in tralice con aria di disprezzo…
Fotografiamo cautamente, fra carretti di verdura e gelato conservato in bidoni simili ai nostri della spazzatura.
L a penisola di Kigamboni ospita circa 120 mila persone, al 90% musulmani.
Incontriamo padre Dario Rampin, al Centro della Consolata. Padre Dario è stato in Tanzania la prima volta dal 1983 al 1986. Ci spiega che quelli erano gli anni dell’utopia socialista di Nyerere.
Nyerere, presidente della Tanzania dalla sua costituzione in Repubblica (1964) è stato una figura importante per il paese; ha governato per molto tempo, con integrità, cercando di favorire lo sviluppo attraverso la politica dell’ujamaa: valorizzazione della comunità-villaggio e messa in comune dei beni. I giudizi sulla sua politica sono discordi: c’è chi appoggia la linea della condivisione dei beni, chi invece osserva che questa politica più che alla condivisione della ricchezza ha portato alla condivisione della povertà e non ha favorito alcuno sviluppo.
Attualmente la politica dell’ujamaa si ritiene superata; la nazione, grazie anche al condono del debito estero nel 2000, ha avuto un discreto sviluppo.
L a scuola elementare è obbligatoria per tutti. La scuola superiore è riservata ai meritevoli, anche se negli ultimi anni c’è stato uno sforzo per moltiplicare le scuole, a scapito talvolta della qualità di queste, poiché non sono stati formati i docenti. Il dubbio di molti è: è ottimo avere molte scuole o è preferibile avere una ottima scuola?
I missionari sono ben inseriti sul territorio ed hanno un ottimo rapporto con il clero locale; le loro scuole sono frequentate anche da bambini e ragazzi di diversa religione.
Nella religiosità popolare, spesso la pratica della religione cattolica si mescola a elementi dell’antico paganesimo ed è molto presente la superstizione. Il missionario è benvoluto e rispettato, ma è comunque in parte considerato «estraneo».
La convivenza fra cattolici e musulmani è pacifica; sorgono talvolta dei problemi nei casi di matrimoni misti. La famiglia è in genere monogamica ed è molto unita.
Nel lavoro i tanzaniani sono più attenti all’aspetto della socialità che a quello dell’efficienza.
V isitiamo l’asilo costruito da padre Dario, che si chiama Asilo Serenella, ed è portato avanti da due maestre e una cuoca locali.
I bambini sono molto seri, ci stupiscono nelle loro divise con le camicie a quadretti viola e bianchi. Nelle loro espressioni si coglie anche la fierezza… e la dolcezza. Cantano per noi e noi, per fortuna, cantiamo per loro. I nostri ragazzi con un po’ di imbarazzo ma molto seriamente, improvvisano «Se sei felice…», «Ci son due coccodrilli…».
Invasione con le macchine fotografiche e distribuzione di lecca lecca: qualche bambino non sa come togliere la carta al proprio… Le maestre sono sbrigative, piuttosto brusche coi bambini.
Toiamo all’edificio della missione, dove padre Dario ci offre riso pilau e altre specialità locali.
A l pomeriggio bagno nelle acque dell’Oceano Indiano; poco sole, ma la linea di palme contro il cielo e la sabbia bianca sono bellissime. Il fondale vicino alla riva è sabbioso, sulla spiaggia si trovano grosse conchiglie e pezzi di corallo. Nuotiamo e passeggiamo.
P rima di tornare a casa ci fermiamo a visitare il mercato del pesce. Odori di pesce, di olio fritto, di spezie e di fogna si mescolano rendendo satura l’aria. Decine di rudimentali piastre arroventate dal carbone che brucia sfoano pesce dall’aspetto neanche male, ma che ci guardiamo bene dal comprare.
La fogna si getta in mare non molto lontano, e lì accanto un enorme polipo viene sbattuto sulla pietra per ammorbidie la carne. Dobbiamo guardare a vista le nostre ragazze, che suscitano l’attenzione dei maschi locali. Ci lasciamo prendere dalle bancarelle di conchiglie e giornielli locali.
Bancarelle anguste, sporco, buio, colore e odore e folla e vita brulicante… Poco più in là, si intravvedono le torri dell’Hotel Kilimangiaro.
Bagamoyo 3.4.08
Il porto degli schiavi
M i alzo alle sei del mattino per la messa in kiswahili. Concelebrazione di una dozzina di prelati, partecipazione di una quarantina di sacerdoti. Molte suore, che partecipano con il canto: bellissimo. C’è una linea melodica, decisa e dolce, accompagnata da una polifonia di voci che fanno bordone sui toni bassi.
D opo la colazione con i nostri automezzi ci rechiamo verso nord, diretti alla scuola superiore privata «Colleta Memorial School», dove ci accoglie il direttore della secondaria, Severino Kayanda, un giovane docente tanzaniano.
Portiamo il nostro materiale da cancelleria e incontriamo i ragazzi delle superiori, con i quali, in inglese, ci scambiamo domande e informazioni sulle caratteristiche delle reciproche scuole. Dopo un po’ «rompiamo le file»: ci uniamo ai ragazzi e parliamo a piccoli gruppi, facendo amicizia, ragazzi con ragazzi e docenti con docenti.
Rafiki (amico): accanto all’inglese che usiamo per parlare è bello usare qualche espressione in kiswahili.
Nell’edificio di fianco ci accolgono i ragazzi delle medie, in divisa verde, che ci cantano il benvenuto in inglese. Con una capacità di cornordinamento eccezionale, cantano e danzano facendo cerchi, sfilando in linee che si intrecciano e si scompongono. L’atmosfera si scalda sempre di più, anche i nostri ragazzi cantano e infine tutti si uniscono in un’unica grande danza, animata dal rullare dei tamburi.
U n po’ a malincuore li salutiamo e ci dirigiamo a nord, verso Bagamoyo, il porto reso tristemente famoso dalla tratta degli schiavi. «Bagamoyo» significa: qui lascio il mio cuore. Nel secolo xvii e xix la tratta degli schiavi, ad opera soprattutto dei mercanti arabi, ma anche dei portoghesi, olandesi, francesi e inglesi, si sviluppa in tutta l’Africa, affiancandosi al commercio tradizionale. Gli schiavi, razziati nelle regioni intee, spesso intorno alla zona dei grandi laghi, venivano trascinati in catene per un cammino di giorni e giorni, spesso di mesi, in mezzo a savane desertiche dove molti morivano per gli stenti e per la fame.
Rinchiusi nelle prigioni sotterranee di Bagamoyo, fatti «ingrassare», venivano ammassati in fragili imbarcazioni per raggiungere le piantagioni di chiodi di garofano, di canna da zucchero… Pare che dei 17 milioni di schiavi catturati, 15 milioni siano morti di stenti prima di arrivare alla destinazione finale.
A Bagamoyo visitiamo il piccolo ma interessante museo, dove sono ancora conservate le catene, alcune riproduzioni dell’epoca, dove sono ricostruiti i luoghi di origine e di destinazione degli schiavi.
Accanto al museo sorge la chiesa costruita dagli irlandesi, prima missione europea in Tanzania. In questa chiesa è stato conservato il corpo del missionario ed esploratore Livingstone, che tanto contribuì alla scoperta della geografia dell’Africa centrale, prima di essere trasportata nella cattedrale di Westminster.
V orremmo fare il bis nella spiaggia, visto che ieri ne siamo stati affascinati, ma la pioggia torrenziale ce lo impedisce. Solo Patrizia, professoressa di Torino, incurante del diluvio, si avventura in una nuotata solitaria.
Ci consoliamo mangiando in un ristorantino tipico sulla spiaggia, riparati da un solido e ampio tetto di foglie di banano. Aragosta, fritto misto, ugali (polenta di mais bianco) con lo spezzatino… tutto buono ed economico; è simpatica la compagnia dei proprietari – europei – che ci magnificano il Parco Ruaha.
La pioggia ostacola anche la visita al porto di Bagamoyo, da cui gli schiavi partivano lasciando definitivamente la loro terra.
R itoo in città nel momento del traffico. Siamo immobili in una situazione che è un eufemismo definire caotica.
Intasati dagli scarichi di mezzi vecchissimi, che emettono fumo nero, assistiamo ai sorpassi e inversioni di marcia più spericolati che io abbia mai visto. Sembra che ad ogni momento qualcuno stia per essere investito o che si verifichi un incidente… Folle di persone sotto la pioggia si accalcano a inseguire fantomatici mezzi pubblici, così sovraffollati che le porte non si chiudono. Rumore, folla, puzza da gas di scarico, manovre spericolate… Ci mettiamo un’infinità di tempo per arrivare a casa. Mi sembra che il traffico di Dar Es Salaam sia molto più pericoloso della fauna dei parchi.
Ubungo 4.4.08
Scuole a confronto
V isitiamo il quartiere di Ubungo, popoloso rione in zona quasi collinare, dove, ai lati di una strada a scorrimento veloce, si dipanano strade sterrate e sconquassate, ai lati delle quali si affollano una sopra l’altra casupole e botteghe di pochi metri quadri, dove si espongono mercanzie di ogni genere, in prevalenza vecchi oggetti provenienti probabilmente dall’Europa.
Alla missione della Consolata, che si sviluppa attorno a una povera ed enorme chiesa dalle vetrate colorate, padre Pietro Cravero ci racconta la storia di questo quartiere. Ubungo è un quartiere che è cresciuto con l’inurbamento che ha caratterizzato questi ultimi decenni in Tanzania. Nel 1973, quando sono arrivati i missionari, nel quartiere c’erano poche case sparse; ora il sobborgo, formato da sette villaggi, è sovraffollato e i missionari faticano a stare dietro alle persone.
Il quartiere ha la fama di essere una zona di «benestanti», un termine che ci sembra poco appropriato a queste casette e baracche appiccicate l’una all’altra… Il quartiere rispecchia la realtà della città, che è passata dai 500 mila abitanti di 15 anni fa ai 4 milioni attuali. Il quartiere e la città sono cresciuti vertiginosamente e selvaggiamente, senza infrastrutture adeguate. Basti pensare che la città non è dotata di una rete fognaria… Il quartiere è tagliato a metà dalla trafficatissima strada a scorrimento veloce, dove si verificano investimenti con una regolarità impressionante.
V isitiamo l’asilo della missione, dove vediamo bambini in ordine e locali puliti e decorosi. Padre Cravero ci accompagna a vedere la scuola elementare pubblica di Ubungo, dove egli è ben accolto, essendo stati all’asilo della missione molti dei ragazzini che studiano qui.
Su una collinetta di terra rossa, fradicia e scivolosa, sorgono alcune casupole lunghe e strette, buie e diroccate; all’interno di ciascuna di esse sono ospitate due/tre classi. Alle finestre, con le sbarre, si accalcano gli alunni che ci vedono passare. Le classi sono composte da sessanta/settanta bambini, alcuni dei quali sono seduti per terra perché i banchi non bastano. Gli scolari sono circa 2 mila. Le pareti sono sbrecciate, il pavimento di cemento ha diverse buche. Alcuni maestri correggono su un banco fuori dalle classi. Gli alunni vanno e vengono, alcuni sono nelle classi, molti altri fuori.
È molto difficile interagire. I nostri ragazzi sono bravi. Improvvisano con un gruppo di una cinquantina di bambini e fanno un grande girotondo, così, con chi c’è, senza troppi problemi. Ci vuole fantasia a creare una bella situazione in questo posto che stringe il cuore.
Dopo la scuola pubblica visitiamo la chiesa in costruzione. Padre Pietro ci presenta i muratori, due tanzaniani, che lavorano a piedi scalzi su una pavimentazione sconnessa, e ci spiega le difficoltà nell’acquisto del terreno, che è diventato molto caro in seguito all’inurbamento.
A pranzo ci rechiamo alla casa procura della Consolata di Dar Es Salaam. Ci accoglie padre Angelo Parola, responsabile della Procura, in Tanzania da circa 30 anni.
La Procura è un bell’edificio, arioso e confortevole, non lontano dall’Ambasciata americana di Dar Es Salaam, luogo dell’attentato talebano nel 1998. Alla Procura fanno riferimento i missionari che arrivano dall’Europa e partono per l’interno e quelli che dall’interno tornano per lasciare la Tanzania.
Qui possono trovare riposo ed ospitalità prima di affrontare il viaggio. I due volontari torinesi che lavorano qui (una coppia di pensionati) ci hanno preparato un buon pranzo che consumiamo all’aperto in un gazebo dal tetto di foglie di banano.
Al pomeriggio visitiamo il mercato Kariakoo, il più grande dell’Africa Orientale. Chi sperava di trovare qui le stoffe da regalare e i giornielli di ebano si è sbagliato: è un mercato enorme e affollatissimo, frequentato solo dai locali; non vediamo un turista. Le decine di piccolissime e stipate bancarelle espongono spezie sfuse, oggetti europei, verdura e frutta, in una situazione buia e soffocante. Venditori e acquirenti ci snobbano; sorge una violenta protesta per una foto a una donna velata… la situazione non ci pare molto raccomandabile.
Alcuni di noi preferiscono visitare le bancarelle estee al mercato, che espongono per lo più brutti oggetti occidentali. Un po’ più lontano però troviamo una donna masai che espone i suoi giornielli e soprattutto il negozio Urafiki che vende alle donne locali a basso prezzo le splendide stoffe tanzaniane. Toiamo al mercato dove ci aspettano i nostri automezzi, saltando sui sassi in mezzo alla piazza per superare l’enorme pozza che si è creata in seguito alla pioggia.
Breve sosta per visitare i templi indù di Kisutu Street, dove un indiano affabile ci fa togliere le scarpe e ci spiega tutte le caratteristiche degli dei indù, le cui raffigurazioni sono collocate nei tempietti a lato della grande spianata del tempio, dove giocano i bambini.
Morogoro 5.4.08
Ci si alza presto. Con un terzo pullmino si parte per Iringa, direzione ovest, circa 500 chilometri.
Facciamo sosta a Morogoro, ospiti per il pranzo al Seminario della Consolata. Frettolosi ed affamati, la prendiamo un po’ come «sosta pranzo», senza dedicarci troppo a conoscere i nostri ospiti… servirà più attenzione.
Proseguendo per Iringa attraversiamo il Mikumi Park. Non speriamo certo di vedere gli animali passando per la trafficata strada asfaltata; e invece, con nostra grande sorpresa, incontriamo le scimmie, poi una giraffa di fianco alla strada, poi gli elefanti, poi gli impala, e ancora giraffe ed elefanti… Continue soste concitate e fotografie ogni due chilometri.
Usciti dal parco, la strada continua a correre in un paesaggio di grande bellezza. Tramonto sobrio, ma incantevole per il gioco di luce tra le nuvole. Si attraversa la valle dei giganteschi baobab e infine ci si inerpica, attraverso la foresta, verso un passo dove la strada in salita fa fare parecchia fatica ai nostri poveri automezzi, e a noi che siamo intasati dall’odore del gas.
Arriviamo ad Iringa che è già buio. Ai lati della strada decine di persone, donne, bambini anche soli, camminano e camminano; probabilmente lasciano la campagna dove hanno lavorato in giornata per dirigersi alla cittadina.
Iringa 6.4.08
Momento di riflessione
Siamo a Iringa, ospiti del Ruaha University College, l’ostello per studentidell’università cattolica voluta dalla conferenza episcopale del Tanzania.
Alle sette siamo in chiesa per la messa. Chiesa grande e affollatissima; come dappertutto non c’è un bianco, se non padre Alex, che concelebra, e noi. Il canto è molto gradevole, nel coro una donna si esibisce con uno strano verso che assomiglia al richiamo di un uccello. L’organista non ha nulla da invidiare a quelli delle nostre chiese, anzi… Il coro si produce anche nel canto dell’Alleluja dal Messia di Haendel. Alla fine della messa veniamo chiamati sull’altare da padre Alex e presentati alla comunità, che applaude e canta di nuovo l’Alleluja. Siamo imbarazzati, ma anche contenti.
Prima di lasciare la chiesa ci salutano, tutti ci vogliono dare la mano… come al presidente o al papa. Di nuovo imbarazzo, ma anche piacere. Ci raggiungono le donne nei loro sgargianti vestiti della festa, per tentare una conversazione con noi; una mamma vuole che tocchi il suo bambino…!
Per la lunga strada centrale torniamo al nostro ostello. La condizione è decisamente migliore che a Dar Es Salaam; le case sono povere, ma non fatiscenti, le botteghe sono anguste, ma quasi dignitose, il traffico non è esasperante.
Dopo la colazione ci dedichiamo a uno dei nostri importanti, anche se non frequenti, momenti di riflessione.
Sono molti i temi che affrontiamo, continuando le conversazioni dei giorni precedenti. Li accenno.
La scuola: la nostra scuola, la loro scuola. La voglia di imparare, la motivazione. La selezione e il merito. Scuola statale e scuola privata (censo e merito). Scuola di massa, formazione della classe dirigente. Il problema dell’autorità e la disciplina.
I missionari: la gioia che viene dalla risurrezione e l’incontro con la gente. L’aiuto: perché l’aiuto non a tutti?
La visione utopica di alcuni ragazzi, la necessità di fare i conti con la realtà.
Il nostro coinvolgimento: l’empatia e l’emozione, la necessità di riflettere e di capire una realtà complessa.
Pausa libera. Una stanza delle ragazze è allagata, tutti al lavoro a salvare le valigie e ad asciugare il pavimento.
Dopo quasi un’ora siamo liberi di andare al mercato, dove troviamo tutto quello che cerchiamo e anche di più. Piccole ma gradevoli bancarelle ci offrono batik, oggetti di ebano, giornielli masai di ogni fattura, stoffe… Contrattiamo, vantandoci della nostra abilità nello spuntare il prezzo più basso.
Ngapi pesa? e how much? (quanto costa) sono i termini che usiamo di più.
Nel pomeriggio visitiamo il Centro giovanile della diocesi di Iringa, dove in una luminosa chiesa dalle vetrate gialle la messa è seguita da un gran numero di bambini. Poco distante, saliamo al Gangilonga Rock, la collina formata da un grande masso roccioso su cui Mkwawa, il capo dell’etnia wahehe, si recava a prendere consiglio dagli dei.
Padre Alex ci spiega che l’etnia dei wahehe ha resistito strenuamente all’occupazione tedesca, mostrando grande dignità e coraggio. I tedeschi hanno occupato il Tanganika nella seconda metà dell’Ottocento, patteggiando con i sultani di Zanzibar. L’occupazione tedesca è durata poco ed è passata senza lasciare grande traccia: al termine della prima guerra mondiale il Tanganika è passata sotto l’amministrazione inglese.
Nello stesso pomeriggio visitiamo una casa famiglia dell’Opera Giovanni xxiii, fondata da don Oreste Benzi. Marina è una ragazza giovane, pare che non sia ancora trentenne; insieme al marito, è responsabile della casa famiglia; è in Tanzania da tre anni. È arrivata qui per il servizio civile come «casco bianco», qui ha incontrato l’uomo che è ora suo marito e insieme hanno deciso di restare, non sanno per quanto tempo. Collaborano con loro altri «caschi bianchi», qui per il servizio civile.
La casa famiglia accoglie bambini e ragazzi che per diversi motivi non possono stare in famiglia. Ci sono bambini, anche piccolissimi, con disabilità, ma soprattutto bambini che sono rimasti senza genitori a causa dell’Aids. Marina ci spiega che in Tanzania la famiglia è allargata e molto cornoperativa; in questo momento storico, però, il flagello dell’Aids mette diverse famiglie nella condizione di non potersi occupare dei bambini propri e di quelli dei fratelli, dei parenti. Molta gente è malata e le famiglie sono decimate.
L’edificio che ospita la casa famiglia è molto modesto, situato in mezzo ad altri edifici; la casa però è ben curata, un piacevole cortile interno è abbellito da vasi di fiori, i lettini hanno le zanzariere…
L’attività della casa famiglia consiste principalmente nel dare una casa ai bambini e ai ragazzi in difficoltà, ma è anche il centro da cui partono altre iniziative: mense scolastiche, assistenza a bambini malnutriti, microcredito…
Spesso bisogna intervenire anche sul piano sanitario; è infatti difficile accedere ad adeguate cure per i bambini malati. L’attività si regge principalmente sull’aiuto di persone di buona volontà, che contribuiscono con le loro offerte a dar vita all’iniziativa.
I nostri ragazzi sono molto interessati all’attività dei «caschi bianchi» e si confrontano con questi, nella prospettiva e nel desiderio di diventarlo a loro volta.
Iringa 7.4.08
Lotta alla pandemia
O ggi in Tanzania è festa nazionale: «K arume day». Padre Angelo Dutto, che ci ospita al Ruaha University College, ci spiega che il paese celebra l’indipendenza dal sultanato di Oman. Karume è colui che ha conquistato l’indipendenza a Zanzibar.
In cerca dell’Allamano Centre di Iringa, facciamo una lunga passeggiata su una strada sterrata fra grandi eucalipti, campi coltivati a mais e girasole, casette piacevoli. C’è il sole, si sta bene; siamo lontani dal traffico e dall’affollamento di Dar Es Salaam. Parliamo fra di noi, si discute di modelli di sviluppo, di capitalismo e di socialismo…
All’Allamano Centre ci accolgono suor Michela, missionaria della Consolata in Tanzania da 32 anni, e Nicola, il medico che lavora al Centro.
Suor Michela ci racconta che il Centro è sorto nel 2001. Da un vecchio garage abbandonato i missionari hanno ricavato il primo nucleo dell’attuale edificio, sorto per fronteggiare l’emergenza Aids. È stato necessario in questi anni «inventarsi» tutto, poiché ci si è trovati impreparati di fronte all’avanzare del male; inadeguati o inesistenti gli interventi governativi, le organizzazioni di volontariato ed i missionari hanno dovuto costruire a partire da zero.
Si è capito subito che era necessario dare una risposta al singolo malato, ma anche alla sua famiglia. La risposta alla malattia non poteva che consistere in una serie concatenata di azioni di sensibilizzazione, prevenzione, sostegno al malato e alla sua famiglia. Con mezzi scarsi all’inizio, si è cominciata un’opera di assistenza sociale, che prevedeva la cura a domicilio ai malati terminali, l’informazione sulla trasmissione della malattia, il sostegno economico, perché il malato e la famiglia avessero di che nutrirsi, la rimotivazione del malato nei confronti della possibilità di una vita buona anche in presenza dell’Hiv.
Con il tempo l’intervento è diventato via via più mirato, con un’assistenza di tipo medico e infermieristico, che attualmente permette la diagnosi (nel Centro vi è un buon laboratorio e personale preparato), la terapia e la ricostruzione delle difese immunitarie.
I farmaci che qui vengono distribuiti sono offerti da case farmaceutiche americane. Accanto all’intervento di tipo medico continua l’intervento sociale sul malato e sulla sua famiglia.
Vediamo al lavoro Paola, una economista nipote di suor Michela che distribuisce alle persone sacchi di alimenti e tiene i contatti con gli organismi estei che foiscono aiuti.
Visitiamo la sala per la terapia di gruppo, nella quale i malati si confrontato sulle loro paure e sulle loro speranze, tentando di darsi una mano per ricominciare a sperare.
Parliamo dei modi in cui si contrae la malattia e si parla di prevenzione. Suor Michela ci spiega che il governo e l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) conducono una azione capillare finalizzata al family planning (fin dalla scuola primaria) e all’uso dei sistemi anticoncezionali.
Suor Michela ritiene che un’opera efficace possa aver luogo solo se si affronta il problema in modo non riduttivo e si educano le persone a vivere la sessualità in modo responsabile. Se si riesce a intervenire positivamente, il malato ha una discreta speranza di vita e si reinserisce nel suo tessuto sociale. Si assiste a una graduale presa di coscienza della natura della malattia e si supera pian piano l’atteggiamento fatalista, che fa pensare che l’Aids sia conseguenza di malefici e sortilegi.
Anche gli uomini, tradizionalmente più restii, iniziano a farsi curare e seguire i programmi di recupero. Molto utili risultano i gruppi di auto aiuto e la responsabilizzazione delle persone che cominciano a rendersi autonome e a collaborare alle attività del centro. Suor Michela, come gli altri missionari, ritiene che sia fondamentale supportare e indirizzare l’autonomia e la responsabilità locale.
Sono iscritte al centro 1.600 persone, di cui sono in terapia 730, selezionate in base ai parametri per la definizione della malattia. Seguire tutti è impossibile… I bambini seguiti dal Centro, supportati nelle famiglie, sono circa 3 mila, figli di malati, di cui 450 sono sieropositivi.
Gli aiuti che arrivano dall’Unicef e da altri enti sono utili, ma non sempre le cose che vengono mandate rispondono alle necessità… È inutile che arrivino migliaia di siringhe nel momento in cui non servono.
Il dottor Nicola ci spiega che le organizzazioni inteazionali di aiuto ai paesi del terzo mondo hanno una struttura complessa, che assorbe, per il funzionamento interno, circa l’80% dei fondi reperiti; meno del 20% sono i fondi che realmente arrivano alla gente a cui sono destinati.
A circa 20 km da Iringa, sulla strada per Mbeya, si trova il sito archeologico di Isimila. In una piccola conca di sabbia bianca si trovano due capanne a proteggere i reperti risalenti a circa 60 mila anni addietro. I resti fossili di alcuni animali, qui ritrovati, sono ora al museo di Dar Es Salaam, ma qui si vedono ancora utensili e armi di pietra usati da homo habilis: raschiatorni, asce, rudimentali martelli…
Con la guida proseguiamo a piedi per il sentirnerino nella savana e dopo circa un quarto d’ora arriviamo a una valle, dove bizzarre colonne di pietra rossa, alte fino a dieci metri, si susseguono a muraglie rosse frastagliate e a camini svettanti contro il cielo azzurro terso. Ci spostiamo in questo paesaggio fantasmagorico, camminando dentro un fiumicciatolo dalle acque bianche che solcano le costruzioni rocciose.
L asciata Isimila ci rechiamo a Tosamaganga, la prima missione della Consolata in Tanzania. Tosamaganga non è molto distante da Iringa, ma raggiungerla è un’impresa; il pullmino varca voragini aperte nella sterrata e attraversa corsi d’acqua che hanno invaso la strada… il tutto fra una vegetazione lussureggiante e dolcissime colline verdi, che si stendono a perdita d’occhio.
A Tosamaganga siamo colpiti dagli edifici della missione: fra grandi alberi di stelle di natale fioriti e alberi dai bellissimi fiori arancione, su una grande spianata si stendono gli edifici della missione e la grande chiesa, costruita nel 1935 sulle forme della cattedrale di Mogadiscio. Tutti gli edifici sono di mattoni rossi, molto grandi e ben tenuti.
I missionari sono quattro, e sono molto anziani. Padre Giovanni Giorda ha 81 anni e la pelle cotta dal sole. È qui dal 1952; è arrivato per nave da Venezia, passando per il canale di Suez. È rimasto 10 anni senza tornare in Italia. Ci parla della missione, del fatto che i missionari sono arrivati in Tanzania nella seconda metà del xix secolo; Tosamaganga è stata raggiunta dai benedettini della Baviera, ai tempi della dominazione tedesca, verso la fine del xix secolo. Nel 1919 gli inglesi favoriscono l’ingresso di missionari italiani che si stabiliscono a Tosamaganga.
Padre Giorda ci porta al cimitero, dove, accanto ai benedettini, sono sepolti decine di giovani missionari italiani, morti prima dei 30 anni soprattutto a causa della malaria. Con grande commozione troviamo la tomba di suor Adolfa Navoni, zia della prof. Gobbi dell’Agnesi di Milano. Anche questa missionaria è stata qui lunghissimi anni, e qui è morta. Flavia, allieva della prof. Gobbi, posa commossa sulla tomba alcuni fiori di campo, e tutti insieme recitiamo una preghiera.
Padre Giorda ci accompagna poi all’orfanotrofio di Tosamaganga, gestito da suore locali e da una volontaria italiana, Loredana, arrivata da una settimana e intenzionata a stare qui per un anno.
Ci sono bambini di diverse età. Ci colpisce il nido, dove bambini anche piccolissimi recano sul viso la paura e la sofferenza di una vita pesantemente segnata fin dal suo nascere. Nello stanzone dove si trovano i lettini dei bimbi più grandicelli, fra i due e i tre anni, c’è buio e puzzo… I lettini con le sbarre di ferro sono tantissimi, attaccati l’uno all’altro. Ci si stringe il cuore. I bambini ci tendono le mani: noi pensiamo che vogliano essere presi in braccio e li coccoliamo un po’. Fabia e Francesco non vorrebbero andarsene mai.
Padre Alex ci spiegherà poi che il tendere le mani è un saluto che indica rispetto, e non l’invito a prendere i bambini in braccio… Ma questo contatto è stato importante per noi e credo anche per questi piccolini, dai grandi occhi scuri imploranti e dal visino triste.
Giochiamo e cantiamo con i bimbi della matea. Ci dispiace non avere più a disposizione le caramelle o la cancelleria, che abbiamo lasciato a Dar, alla Procura, per non appesantire i bagagli.
Padre Alex ci spiega che questi orfani sono a tutti gli effetti figli adottivi delle suore e che ad esse lo stato chiede conto. Si possono aiutare con le adozioni a distanza. Per una adozione, padre Alex chiede 120 euro all’anno. Mi piacerebbe che la nostra scuola fosse capace di adottare alcuni bambini… magari uno per classe, perché no?
Alla sera, a Iringa, dopo la nostra solita cena a base di riso, pollo, verdura e spezzatino (tutto pulito e sano, la varietà talvolta lascia un po’ a desiderare, ma non ci lamentiamo certo, anzi tutti ci riteniamo dei privilegiati), facciamo un momento di riflessione, mettendo a tema la nostra capacità di incontrare chi è diverso da noi e di prenderci cura di chi è in difficoltà.
Incontriamo padre Gabriel, del Kenya, conoscente di padre Alex; padre Gabriel ha studiato in Inghilterra, è stato in Italia e parla bene la nostra lingua. Ha lavorato in Uganda e in Tanzania, a Sadani. A Iringa ha aperto una scuola secondaria. Ci spiega che la scuola secondaria dura quattro anni, dopo la quarta i ragazzi possono scegliere una specializzazione e perfezionarsi due anni prima di iscriversi all’Università.
Ci spiega che si studia anche filosofia, che è la filosofia occidentale. In Tanzania non c’è una tradizione filosofica, anche se c’è una saggezza popolare da recuperare. Il saggio, ci dice, «è colui che ha esperienza ed è capace di usare tale esperienza per cambiare la vita».
Parliamo anche dei modelli di sviluppo, di comunismo e capitalismo, della politica di Nyerere.
Padre Gabriel ci invita a visitare la sua scuola.
Parco Ruaha 8.4.08
Caccia grossa
Giornata safari (viaggio). Cielo terso e luminoso. Sistemati in 5 jeep percorriamo due ore di strada sterrata, da Iringa al Ruaha Park. Ci fermiamo all’ingresso del parco, sulle sponde del Grande Ruaha dalle acque limacciose; sulla sponda opposta vediamo spuntare dall’acqua un ippopotamo.
Ci addentriamo nel parco. Vediamo gli impala: colore e struttura simili a quelli di un nostro cerbiatto, si trovano isolati o riuniti in folti gruppi, di fianco alla sterrata, in mezzo alla strada. Fuggono veloci con una corsa elegante. Si mescolano alle zebre, di cui vediamo decine di esemplari, e alle grandi giraffe (twiga, in swahili), tranquille ai lati della strada, incuranti del nostro passaggio.
Il Ruaha attraversa il parco, formando grandi insenature e isolotti sabbiosi, dove si riposano ippopotami e giraffe. In alto volteggia un’aquila.
Lasciamo la pista che corre parallela al fiume, dal terreno paludoso e instabile, per spingerci all’interno del parco alla ricerca di elefanti (tembo), che nella stagione delle piogge si tengono lontani dal fiume. Ne vediamo qualcuno, meno di quelli che abbiamo incontrato al Mikumi.
Con una certa emozione ci troviamo sulle tracce del leone (simba); una carcassa di zebra giace abbandonata in una radura, dove l’erba calpestata racconta di uno scontro; nel folto dei cespugli, nascosti alla vista si scorgono appena i leoni; sono lì, a tre metri da noi.
Il parco è di una bellezza da paradiso terrestre; la pista corre fra distese di campanule bianche che si perdono nell’orizzonte del cielo blu solcato da ciuffi di nuvole bianche. Giganteschi baobab, con la corteccia rovinata dagli elefanti in cerca di acqua, offrono riparo agli animali nell’ora più calda. Acacie di ogni tipo, alberi del pane, e poi ancora fiori rossi, fiori viola, erba alta che si muove leggera al nostro passaggio… E sempre il grande fiume, ora vicino, ora lontano e palme e vegetazione lussureggiante.
V erso le tre del pomeriggio lasciamo il parco e raggiungiamo il lodge, il quale offre una terrazza che si affaccia sul parco, dalla quale vediamo un bellissimo arcobaleno. Il lodge è fresco e ospitale; ci viene servito un pranzo gradevole.
Cominciamo, però, ad essere preoccupati per una delle nostre jeep, quella del prof. Vincenzo di Catania e dei suoi ragazzi. Sulla jeep c’è anche Giuseppe di Torino. Telefoniamo all’ingresso del parco: l’automezzo è uscito dal parco. Tranquillizzati e un po’ dispiaciuti pensiamo che si siano diretti a Iringa senza fare sosta al lodge.
Verremo più tardi a sapere che il guidatore della jeep ha perso la strada del lodge e si è inoltrato nella foresta, dove la jeep ha sbandato e non ha tenuto la strada. Siamo assolutamente orgogliosi dei nostri eroi di Catania – e di Torino – che hanno saputo prendere in mano la situazione; il professore – di filosofia! – si è messo alla guida della jeep acciaccata e ha riportato tutti sani e salvi al lodge.
Grande apprensione, visita di controllo per escludere qualsiasi problema. Tutto è a posto, niente paura. Hakuna matata, non ci sono problemi.
Iringa 9.4.08
Consolazione e speranza
V isitiamo la Faraja House (casa della consolazione) di padre Franco Sordella, che accoglie bimbi di strada. Il complesso sorge su una vasta area, un quadrato di circa 2 km di lato, che i missionari della Consolata hanno acquistato nel 1997 con l’intento di costruire una fattoria. Di fatto, la scarsità di acqua e la difficoltà nello scavo dei pozzi ha indotto i missionari a ripiegare su un progetto diverso… Ma che progetto!
Il centro è costituito da un’abitazione che accoglie al momento 68 bambini senza famiglia; altri 21, affidati al centro, frequentano le scuole superiori e dimorano presso le scuole nel corso della settimana. Le richieste di accoglienza sono moltissime, ma la capienza non permette di accontentare tutti. Qui sono accolti solo i casi più disperati.
Inizialmente la situazione era molto difficile: i ragazzi abbandonati erano aggressivi, talvolta dediti alla droga o all’autolesionismo; ora le cose vanno molto meglio. I ragazzi, formati, sono capaci a loro volta di prestare aiuto ai nuovi arrivati. I ragazzi sono organizzati in squadre tendenzialmente autonome, dove i grandi accudiscono i piccoli.
Il centro è organizzato con grande efficienza e buoni mezzi, supportato da alcune comunità di volontari a Torino e a Savigliano. Oltre all’abitazione, modesta ma pulita, il centro ospita un asilo, una scuola elementare frequentata anche da bambini estei e soprattutto una scuola professionale; vi sono tre laboratori (uno di meccanica, uno di falegnameria e uno di calzoleria) dove i ragazzi che hanno terminato la scuola elementare e non si iscrivono alla secondaria possono, nel corso di tre anni, imparare un mestiere che li renderà autosufficienti.
Accanto ai laboratori, una cornoperativa organizza il lavoro dei ragazzi che hanno finito la scuola professionale e non sono ancora pronti per spendersi autonomamente sul mercato.
Laboratori e officine sono dotate di macchinari che i nostri colleghi esperti giudicano assolutamente idonei. I macchinari provengono dall’Italia e dall’Europa, donazione di associazioni di volontariato. Vi sono anche automezzi e macchine agricole.
Intoo alle abitazioni e alle officine, una vasta area coltivata e utilizzata per il pascolo (ci sono mucche, capre, pecore, maiali) permette alla comunità una quasi completa autosufficienza alimentare.
Esprimiamo a padre Sordella tutto il nostro apprezzamento per questa opera, che rivela grande capacità e spirito di organizzazione. Il padre ci esprime la sua preoccupazione: la sua salute e l’età non gli permetteranno di continuare per molti anni; anche con l’attenzione al passaggio delle consegne, c’è il rischio che si perda un po’ ciò che si è costruito…
A l pomeriggio abbiamo in programma la visita al Ruaha University College, guidati da padre Dutto. Mentre aspettiamo, come in ogni momento di pausa, ci precipitiamo al coloratissimo mercatino che sta a due passi dalla nostra abitazione, a far razzia di oggetti di ogni specie, di ebano, di stoffe, di giornielli… Ormai siamo conosciuti; i venditori, che sono soliti contrattare, hanno alzato i prezzi convinti che compreremo comunque.
All’università ci confrontiamo con una seconda classe della scuola di specializzazione per tecnici di laboratorio.
Le aule sono confortevoli, anche se non spaziose; i banchi di legno piccoli ma molto belli; gli studenti vestiti in modo sobrio ma elegante. Alcuni sono studenti giunti dalla scuola superiore, altri sono tecnici già in servizio, venuti qui per il perfezionamento: quando toeranno nei loro laboratori potranno chiedere uno stipendio molto più interessante.
Facciamo delle domande, e loro fanno domande a noi. Ci spiegano che nell’università (sussidiaria dell’università cattolica) ci sono corsi per tecnici di laboratorio, per legge, per comunicazioni e informatica. Questa è una università giovane, sorta da quattro anni. È una università privata, si pagano tasse molto alte, ma la qualità dell’insegnamento è molto buona. Alcuni studenti vengono sponsorizzati da enti, da laboratori presso cui già lavorano…
Gli insegnanti sono stimati e ben pagati. I migliori, al termine dei corsi universitari possono diventare a loro volta insegnanti. La paga media di un insegnante universitario è di circa 600 mila scellini tanzaniani, mentre la paga di un operaio è di circa 80 mila scellini tanzaniani.
Nel corso per tecnici di laboratorio si studiano chimica, fisiologia, ematologia, biologia molecolare, immunologia… Le lezioni si dovrebbero tenere in inglese, ma spesso si scivola verso il kiswahili.
C’è una certa selezione, arrivano al compimento degli studi circa i tre quarti degli studenti. Tutti gli esami sono statali.
Una volta finita l’università, la maggioranza degli studenti resta in Tanzania, dove è facile trovare in poco tempo un buon impiego. Solo una piccola minoranza ha intenzione di andare all’estero. Si stupiscono che per noi sia difficile trovare lavoro.
Terminata la visita alla classe, gli studenti nostri si recano in cortile con gli studenti dell’università, mentre i docenti sono ospitati da padre Dutto, che insegna biologia molecolare all’Università di Iringa, dopo essersi specializzato in tale materia negli Stati Uniti.
Ci confrontiamo sui programmi, parliamo dell’Hiv e dell’Aids. Padre Dutto ci fornisce una quantità di informazioni interessanti sui retrovirus, sul fatto che nel nostro organismo questi erano presenti già da prima che si differenziassero le razze. Dopo tutto, l’8% del nostro patrimonio genetico lo abbiamo acquistato inglobando retrovirus.
Parliamo anche di scuola laica e di scuola privata. Ci dice che nell’Università cattolica di Iringa non si chiede la religione per l’iscrizione: qui ci sono indifferentemente cristiani e musulmani… Non ci sono problemi di convivenza.
Padre Dutto, uomo di grande cultura, ci ricorda che la cultura è capace di far convivere e collaborare le diversità: è una bella lezione.
Concludiamo la nostra giornata, affollatissima, come del resto tutte le altre, con la visita al centro della Consolata di Iringa, sede centrale della Consolata in Tanzania. Gradevole incontro e gradevole rinfresco.
Rimaniamo affascinati dal bellissimo altare e dall’ambone nella cappella. L’altare, costituito da un enorme tronco di ebano, scolpito a bassorilievo con una rappresentazione, di eccezionale plasticità, della natività fra le generazioni passate e future.
Sull’ambone sono scolpiti episodi dell’Antico Testamento: Giona nel ventre della balena, il sacrificio di Isacco…
Alla sera, riflessione. Siamo stati colpiti dall’efficienza del centro di padre Sordella.
Ci interroghiamo sull’accoglienza da parte delle popolazioni locali verso i missionari. Padre Alex ci racconta i suoi sei anni tra i samburu nel nord del Kenya, i loro riti di matrimonio, il pascolo nomade, il consiglio dei saggi intorno al fuoco, le cerimonie per la promozione dei guerrieri e degli anziani.
Ci interroghiamo sul fatto che i missionari diventano anziani e cercano di «passare le consegne» ai locali, sul fatto che talvolta ci sono difficoltà dovute a culture e modi di essere differenti. Concordiamo sulla necessità di far crescere un popolo, aiutandolo, ma soprattutto dandogli gli strumenti per diventare autosufficiente.
Confrontiamo le realtà che abbiamo visto, così differenti: i bambini di strada che dormono nei tubi e quelli accolti nelle case famiglia e negli orfanotrofi… i malati di Aids e quelli che imparano a convivere con il virus Hiv e a sperare nella vita… gli sfaccendati seduti sui marciapiedi di Dar Es Salaam e i falegnami, meccanici, calzolai da padre Sordella…
Non si può dire: Africa e semplificare. Bisogna saper cogliere e raccontare le mille sfaccettature di una realtà complessa; bisogna avere spirito critico e capacità di cogliere i lati positivi. Ciò che abbiamo visto è povertà, ma anche desiderio di riscatto, stenti ma non bellicosità, malattia e speranza di guarigione, fatica e capacità di aiutare e condividere.
Mtuango 10.4.08
Una nuova famiglia
Oggi, ultimo giorno a Iringa, è in programma un viaggio di 2-3 ore (di andata e altrettante al ritorno) per raggiungere Makambako e Mtuango. Ci dirigiamo a sud-ovest, verso Mbeya; siamo a poche centinaia di chilometri dai grandi laghi.
La zona di Makambako è poverissima. Su una lurida strada si affacciano stente bancarelle e, in mezzo alle mosche, ci inseguono bambini scalzi che ci guardano come fossimo marziani, con un’espressione di presa in giro e di stupore… Probabilmente non hanno mai visto tanti bianchi insieme, dobbiamo sembrare loro parecchio strani.
I nostri ragazzi non si scoraggiano e riescono a conquistarsi la simpatia di questi piccoli sporchi e malvestiti, che prendono in braccio e fanno giocare. A Makambako salutiamo i padri della Consolata, che nel 2004 hanno festeggiato il cinquantesimo del loro insediamento in questa zona.
Dopo pochi chilometri siamo a Mtuango. Incontriamo padre Tarcisio Moreschi e Fausta, una insegnante pensionata che si trova qui da 14 anni; entrambi provengono, come padre Alex, dalla Valcamonica.
Fausta è contenta della nostra visita e ci ha preparato un pranzo di lusso. Su alcuni tavoli, abbelliti con fiori gialli e bianchi, sono serviti piatti buonissimi e bellissimi: antipasti con verdure grigliate, insalate di riso con condimenti locali, fiori di zucchine fritti, carne arrostita, pane scuro, caffè… Ci abbuffiamo.
Fausta regala a ciascuno di noi un cestino locale con un sacchetto di tè e fa amicizia con tutti ma in particolare con la prof. Anna Maria di Brindisi.
Dopo il pranzo e la visita alla chiesa, ci rechiamo a visitare il centro di accoglienza per bambini di strada. È un altro esempio di efficienza e organizzazione. Su un piazzale accogliente, sorgono alcune casette basse, ciascuna con il proprio orto, molto ben curato e pulito. Le casette sono state costruite dai volontari venuti dalla Valcamonica. Ciascuna ospita una piccola comunità autonoma, una «famiglia» formata da due «mamme» locali e da una decina di bambini. In ogni casa c’è il posto per dormire, un cortiletto, la cucina…
Lavorano qui due volontarie italiane, che supportano il lavoro delle «mamme». Fausta viene due o tre volte la settimana per controllare che tutto funzioni a dovere.
Vedo un bimbo che non avrà più di due mesi; piange in braccio a una bimba di dieci anni; si calma quando lo prendo in braccio: ha la pelle rovinata, un cappellino di lana e due occhi neri brillanti come stelle, enormi, che fanno quasi scomparire il resto del viso. Fausta ci spiega che la sua mamma è morta; lo si nutre con latte in polvere, ma presto passerà all’ugali… non c’è possibilità di fare altro. Lascio qui un pezzo del mio cuore.
Francesco riesce a comunicare con il maggior numero possibile di bambini. Come sempre, lascia una parte dei suoi soldi. Toerà a Catania senza nulla… tanto, i soldi si rifanno, dice. Ce ne fossero tanti, così.
Morogoro 11.4.08
Sulla via del ritorno
O re 6.30: abbiamo preso un altro pullmino; abbiamo caricato le valigie; siamo in partenza. Salutiamo padre Dutto, il docente di microbiologia molecolare, che ci ha ospitati con grande disponibilità e attenzione e ci ha offerto interessanti riflessioni sulla Tanzania.
È già chiaro; nonostante la stanchezza e il sonno siamo presi dalla bellezza dell’altipiano, dalle coltivazioni, dalle persone che vanno – e camminano, e camminano – dice il preside Vitale, di Brindisi. Risaliamo il passo, ripercorriamo la valle dei baobab e il parco Mikumi: ci fermiamo perché una famiglia di elefanti ci attraversa la strada.
V erso mezzogiorno siamo a Morogoro; finito il sole di Iringa, siamo di nuovo in mezzo alla grande pioggia. Con quattro jeep, messe a disposizione dal seminario, cerchiamo di raggiungere il villaggio masai; la sterrata che porta al villaggio si è trasformata nel letto di un fiume, scavato da profondi solchi, lunghi alcuni metri, che percorrono la strada e la rendono impraticabile.
Con mille precauzioni cerchiamo un passaggio; un autista locale, con l’aria di chi la sa lunga, pigia sull’acceleratore e incassa due ruote della nostra jeep in un fosso profondo. Scendiamo, colmiamo il fosso con rami tagliati al momento. Tutti più o meno collaboriamo sotto la pioggia (è una pioggia calda, che non ci invoglia nemmeno a prendere l’ombrello) e padre Alex riesce a tirar fuori la jeep.
Proseguiamo a piedi e nel giro di mezz’ora arriviamo al villaggio masai. Intoo a uno spazio circolare sono costruite con rami e fango cinque o sei capanne, alcune per le persone, altre per le galline e le capre. Bagnato dalla pioggia, scorre ovunque il letame e si aggirano le mosche.
Al villaggio ci sono solo le donne e le bambine. Gli uomini sono al pascolo con le mucche. Le donne sono estroverse e socievoli; una giovane è particolarmente loquace ed espansiva. Sono alte e slanciate; cantano e danzano per noi una nenia e ci chiedono soldi per costruire una tenda. Una anziana non vuole essere fotografata. Le bimbe sono coperte dal telo viola, uno solo, perché non sono sposate. Appesi sotto la pioggia ci sono altri teli. Le donne sposate sono addobbate con collane e bracciali. Nel lobo delle orecchie hanno un grande foro.
Sotto la pioggia, guidati da Obi, un bellissimo masai di 24 anni, slanciato e alto circa un metro e novanta, che studia al seminario, ritorniamo alle jeep. Camminiamo nell’erba fradicia, alta; mi sembra di non arrivare mai.
Al seminario parliamo con Obi e scopriamo che studia filosofia e che desidera specializzarsi in psicologia. Non avremmo mai pensato che un masai in Tanzania, oggi, potesse interessarsi alla filosofia e alla psicologia.
È una piacevole scoperta, discorriamo a lungo. Il prof. Sergio, di Torino, lo saluta come primo filosofo masai e lo esorta a valorizzare la cultura della sua gente.
Da Morogoro, dopo un interminabile viaggio, arriviamo a Dar Es Salaam e al traffico da incubo; siamo contenti di raggiungere il Tec, le nostre stanze decorose, la nostra mensa pulita.
Alla sera le ragazze (e qualche ragazzo) hanno ancora l’energia per sfoggiare i loro vestiti tanzaniani. Festeggeranno, sorvegliati da padre Alex e da qualche insegnante di buona volontà, mentre gli altri docenti si ritirano, sfiniti, nelle proprie stanze.
Dar es Salaam 12.4.08
E non finisce qui…
R iflessione e momento di silenzio alla chiesa del Tec. Poi facciamo le valigie. Ci dirigiamo verso l’aeroporto.
Salutiamo Baraha, il nostro grande Baraha, l’autista del pullmino che ci ha guidato indenni per queste tremende strade di Tanzania e per il traffico assurdo di Dar. Salutiamo l’aiutante, autista della jeep, il figlio quattordicenne di Baraha.
Ci imbarchiamo e partiamo alle 15.10, ora tanzaniana (in Italia sono le 14.10). Ci separano da Doha 3.816 km. Dall’alto fotografiamo la terraferma e Zanzibar, la lunga striscia bianca della costa e il verde dei fondali accanto a riva.
Riconosciamo la geografia di Zanzibar e di Pemba, individuiamo sulla terraferma, forse in Kenya, un grande fiume e un lago, non capiamo quali.
A sera, fotografiamo fra le nuvole un tramonto spettacolare.
Lunga sosta al modeissimo e impersonale aeroporto di Doha, fra negozi che assomigliano alla Rinascente, gente di ogni nazionalità e giovani arabi con il caffetano bianchissimo e la kefiah rossa e bianca in testa.
All’1.45 (ora locale) partiamo da Doha; arriviamo a Roma verso le 8.
Abbracci, saluti, qualche pianto, al ritiro bagagli.
Senza retorica, è stato faticoso ma bellissimo. Grazie a padre Alex e a tutti.
Che questo viaggio sia fecondo nel nostro futuro: che la conoscenza porti volontà di conoscere, di fare, di incontrare, di aiutare.
Aldina Beltrami