Roraima: continua la lotta per la terra
Dopo 30 anni di lotta gli indios di Roraima ottengono legalmente la loro terra. Ma i potenti locali non ci stanno. Così, a furia di ricorsi (e di pressioni), costringono la più alta Corte federale a rivedere il decreto. Intanto continuano le violenze, nella totale impunità. E il parlamento brasiliano sta per approvare la legge sullo sfruttamento minerario delle aree indigene. Dove si celano giacimenti di minerali che sconvolgeranno i mercati mondiali. Primo fra tutti quello dell’uranio.
Aprile 2005, dopo tre decenni di lotta degli indios, il presidente Ignacio Lula da Silva, firma il decreto di «omologazione» dell’area indigena nell’estremo Nord dello stato di Roraima (e del paese).
Zona di savana, di circa 17.400 chilometri quadrati, vi abitano oltre 16.000 indios di cinque gruppi principali: Macuxi, Wapichana, Taurepang, Patamona e Ingarikò. La società civile, come il Consiglio indigeno di Roraima (Cir), e gli stessi missionari della Consolata, che vi lavorano dagli anni ’50, avevano spinto, alcuni anni prima, l’allora candidato presidente a fare dell’omologazione una delle sue promesse elettorali. Ma Lula, solo durante il secondo mandato riesce a fare un colpo di mano e ad apporre la fatidica firma. Forti gruppi di potere locali, ma anche nazionali, sono contrari a questa operazione. Romero Jucà, senatore di Roraima, è rappresentante del governo al senato. Ha dichiarato di essere contro la politica indigena di Lula.
Con l’omologazione scatta anche il decreto di espulsione di tutti quelli che abitano o sfruttano la terra in zona indigena. Lo stato ha previsto un indennizzo per chi è costretto ad andarsene. Così la polizia federale inizia a mandare via i contadini e fazendeiros non indigeni.
Questo non piace ai possieros, alcune famiglie (6 per l’esattezza) che «possiedono» o meglio sfruttano la terra dentro l’area indigena.
«Sono famiglie potenti che coltivano riso nell’area indigena Raposa Serra do Sol. Alcuni in buona fede altri meno. Oriundi del sud del Brasile, discendenti di giapponesi, italiani. Si sono integrati nel potere e si sono fatti un capitale in questa terra di confine» racconta fratel Carlo Zacquini, missionario della Consolata originario di Varallo Sesia (Vc), dal 1965 a Roraima a fianco degli indios.
«Gli invasori si sono organizzati e hanno formato bande e fatto azioni anche terroristiche. Chi entrava nell’area era minacciato di sequestro». Nel 2004 furono sequestrati pure tre missionari, mentre nel settembre del 2005 fu incendiata la scuola di Surumù. «E questo nella totale impunità, nessuno è mai stato punito. È una legge a favore dei ricchi, hanno in mano gli avvocati migliori, addirittura quelli del governo dello stato sono messi a disposizione» racconta Zacquini.
L’ultimo attacco sanguinoso è del 5 maggio scorso. Un gruppo di indios della comunità Barro stava costruendo delle case in una zona espropriata. I posseiros li hanno fatti sloggiare attaccandoli con bombe molotov. Dieci sono stati i feriti. I responsabili sono stati in prigione pochi giorni e subito liberati.
Un balzo indietro
Ad aprile di quest’anno la svolta. Il Tribunale supremo federale del Brasile accoglie uno dei numerosi ricorsi contro la terra indigena Raposa Serra do Sol che, dal 2005, sono presentati dai potenti dello stato di Roraima (dei 30 ricorsi uno è depositato dal governo dello stato). L’omologazione così com’è oggi è definita «continua» ovvero delimita un territorio nella sua integrità, a eccezione del municipio di Uramutã, dalla caserma del sesto plotone e da alcune strade principali. I fazendeiros propongono una nuova demarcazione «discontinua» o a macchia di leopardo, in modo che molte aree restino sotto il loro controllo. Così l’alta corte brasiliana dovrà decidere sulla costituzionalità o meno dell’omologazione.
«Se il Tribunale supremo darà loro ragione si rischia di minare un diritto acquisito dagli indios e sancito dalla costituzione del 1988. Si creerebbe un pericoloso precedente, per cui tutte le altre aree indigene potrebbero essere rimesse in discussione». La posta in gioco, soprattutto in termini di diritti degli indigeni è dunque elevatissima, ricorda Zacquini.
Proprio per presentare questo dramma a inizio luglio una delegazione di indios di Roraima, composta da Jacir de Sousa (macuxi) del Cir e Pierlangela Nascimiento de Cunha (wapichana), ha visitato alcuni paesi europei, tra i quali l’Italia. Il 2 luglio sono stati ricevuti da Benedetto XVI, che ha dichiarato: «Faremo tutto il possibile per aiutarvi a proteggere le vostre terre». La Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb) si è già pronunciata apertamente a favore della questione indigena, e così tutti i livelli della chiesa cattolica del Brasile.
Il contesto: qualcosa cambia
«In questi ultimi anni, c’è qualcosa al di fuori dalla normalità, anche del particolare contesto di Roraima» racconta il missionario. «C’è una grande campagna per screditare tutte le attività delle persone e delle entità che lavorano per la causa indigena. In modo nuovo, più accanito, cattivo, con calunnie e divulgazione di false notizie». Anche Abin (Agenzia brasiliana di intelligence), il servizio informazioni del governo federale, divulga notizie false in ambienti calcolati affinché non possano essere contestate. Mi ha sconvolto perché ero convinto che Lula avesse cambiato qualcosa all’interno di questo organo. Portano avanti una guerra di informazione».
Oltre a questo, è stato difficile portare alla luce la realtà di corruzione presente nelle istituzioni che si occupano di sanità indigena. Dopo anni di denunce alcuni dei personaggi coinvolti in queste truffe sono stati arrestati, ma subito rilasciati e sono rientrati nello stesso organo.
Il numero dei progetti di legge tendenti a togliere alcuni privilegi degli indigeni sono aumentati anche con il governo Lula, denuncia fratel Carlo.
«Viviamo inoltre manifestazioni frequenti di autorità, anche militari, contrastanti con le affermazioni e misure pratiche del governo di Lula. Ultimo gravissimo fatto: i generali hanno dato appoggio pubblico a manifestazioni anti indios nella caserma di Boa Vista».
Alcuni militari, in pubblico, hanno detto: «in Brasile chi comanda è Lula, ma in Amazzonia siamo noi». Purtroppo in Raposa Serra do Sol sembra una cosa vera. Il governo federale potrebbe influire di più sulla politica locale di Roraima che è marcatamente anti indigenista.
Divisioni e propaganda
Molti indios, pagati o stipendiati dai posseiros, si schierano contro l’area indigena. La propaganda afferma che sono «la maggior parte degli indios di Roraima». Assolutamente falso, secondo i missionari.
Gli argomenti citati dagli invasori sono sempre gli stessi: pericolo per la frontiera (con il Venezuela e la Guyana, ma non ci sono mai stati problemi) e l’impossibilità di avere un reale sviluppo per lo stato senza sfruttare questa terra.
«Roraima ha una superficie quasi vasta come l’Italia, ma vi abitano 400.000 persone, non vedo come l’area indigena sia così necessaria allo sviluppo» commenta Zacquini.
Hanno creato associazioni miste, bianchi – indios, che danno appoggio agli invasori. Sono una minoranza ma hanno molto spazio sulla stampa.
Dall’altra parte la società civile indigena e chi la appoggia, in lotta per la terra e i diritti dei nativi di queste terre. Il Cir, l’Associazione dei professori indigeni di Roraima, Associazione dei popoli indigeni, l’Organizzazione delle donne indigene, Associazione terra di São Marcos. Solo per citae alcuni.
Oltre al riso, l’uranio
Un’altra questione molto importante sta scuotendo il mondo degli indios e di quelli che vi stanno attorno, di Roraima e tutto il bacino amazzonico: lo sfruttamento minerario dei territori indigeni.
La Costituzione non riconosce agli indios il sottosuolo, che è dello stato federale. Ma piuttosto la superficie della terra, sulla quale possono vivere e avolgere le loro attività tradizionali. Manca però una legge ordinaria che metta in applicazione la Costituzione.
Le aree indigene sono ricchissime di minerali anche molto pregiati: oro, diamanti, tantalio, niobio, terre rare, cassiterite e uranio (vedi anche box). Strategici per l’energia e per l’industria ad elevata tecnologia. «Ve ne sono quantità enormi, che sconvolgerebbero i mercati mondiali» ricorda fratel Carlo. «Il Brasile possiede la quasi totalità delle riserve conosciute di niobio del mondo, la maggior parte localizzate nell’alto Rio Negro, in Amazzonia, in un’area trasformata in riserva naturale in seguito a pressioni degli ambientalisti inteazionali» scriveva, nel febbraio 1999, Alerta en rede, agenzia brasiliana on line. In quell’epoca infatti furono rese pubbliche le riserve minerarie (e parte dei giacimenti di uranio) dell’area di Pitinga, già sfruttate dagli inizi degli anni ’80.
È attualmente al vaglio della camera la «Legge per lo sfruttamento minerario delle terre indigene», che è già passata al senato, dove è stata promossa proprio da Romero Jucà.
La legge definisce un insieme di regole per poter accedere alle ricchezze del sottosuolo anche nelle aree protette. Con il «permesso» degli indios. In questo caso l’impresa sfruttatrice dovrà pagare delle royalitis. «La mancanza di una legge sugli indios, implica che le imprese firmino con individi e non con i rappresentanti dei popoli» ricorda padre Silvano Sabatini, «questo cavillo giuridico renderà molto più facile lo sfruttamento». «È ovvio che c’è una lobby spaventosa per questa legge. Vediamo già pressioni sugli indigeni per avere poi i permessi» ricorda Zacquini.
Ed è già iniziata la propaganda per convincere gli indios che grazie ai soldi delle concessioni potranno avere scuole, strutture sanitarie, ecc. «Tutte cose che il governo ha il dovere di fornire, al di là delle royalitis minerarie».
Biodiversità
Senza contare che la presenza di indios è anche garanzia di preservazione della foresta amazzonica e della sua biodiversità. Lo prova il fatto che in alcuni stati brasiliani, dall’analisi della copertura vegetale si scopre che questa è ancora presente solo dove ci sono terre indigene . Una delle conseguenze dell’invasione delle terre degli indios sono infatti i disboscamenti massicci.
L’omologazione delle aree (come nel caso di Raposa) fornisce una copertura legale perfetta, ma in pratica gli invasori ci sono sempre stati, fanno quello che vogliono e di solito restano totalmente impunti (come i numerosi cercatori d’oro in area yanomami).
«Il ruolo dei missionari non è parlare al posto degli indios, ma appoggiarli affinché abbiano condizioni reali di difesa, sappiano farsi rispettare, capiscano l’importanza di queste cose. Questo significa favorie l’accesso all’educazione e all’informazione necessaria per giudicare se è un vantaggio o no una certa legge. Ad esempio quella sull’estrazione mineraria. Dare loro gli strumenti necessari affinché possano fare valutazioni serie e non siano ingannati».
VERSO CATRIMANI
Siamo partiti da Ajaranì 1, caricando la barca, facendo l’ultima colazione in questa palafitta di legno che ci aveva ospitato per due giorni. Lasciamo quell’odore di pesce e di farinha che era la base dei nostri pasti, pronti per partire su questo fiume instabile sapendo che dopo 5 ore incontreremo la zona più difficile dove ci sono delle rapide. Uno yanomami siede sulla punta della barca per guardare se sotto il pelo dell’acqua incontriamo degli alberi caduti o delle pietre. Io viaggio in uno stato di stupore, senza fermarmi dal guardare questa natura selvaggia: uccelli di tutti i tipi che scappano al rumore del motore, qualche scimmia che si muove sugli alberi più alti.
Mi sembra di vivere dentro ad un documentario, pensando di essere sperduto in questo punto lontano da tutto quello che la nostra società è riuscita a «toccare». È emozionante vivere questo viaggio pensando di aprire un nuovo cammino per arrivare a Catrimani. L’ultima volta la strada è stata percorsa nel 2000, pian piano la foresta l’ha inghiottita e i numerosi ponti sono caduti. La missione è ora accessibile solo attraverso un piccolo aereo per 5 persone.
Per arrivare ad Ajaranì 2 percorriamo a piedi questi ultimi sette km che ci separano dalla maloca dove pensiamo di chiedere ospitalità. L’umidità, gli insetti si fanno sentire. Bisogna passare sopra o sotto gli alberi caduti, uscire dal tracciato perché le piante sono più fitte che nella foresta. Quando ci avviciniamo alla maloca i primi a circondarci e a darci il benvenuto sono i bambini, le donne immersi nella loro vita: che vita! Tutto si svolge dentro ed intorno a questa grande casa comunitaria: vicino alle amache c’è sempre il fuoco acceso, qualcuno prepara la farina, altri arrivano dagli orti portando banane o frutti che ancora non conosco.
Il bambino più piccolo è ancorato con una corda alla schiena della mamma. Più tardi giungono gli uomini dalla caccia, dalla pesca, con i loro archi, frecce e qualche preda nelle borse fatte di erba intrecciata.
Mi siedo su una panca a osservare, facendo un salto nel passato, dimenticando tutte le mie convinzioni. In quel momento ho gli occhi del bambino che guarda senza sapere niente.
Il mattino dopo padre Laurindo parte con la bici per percorrere da solo gli ultimi 40 km e andare a prendere il trattore. Jenesio è già partito con un gruppo di yanomami per pulire il tratto di strada che porta fino al fiume. Io mi ritrovo da solo. Si avvicina qualche bambino e senza fare grandi giochi rimaniamo lì, cercando di trovare un contatto con i gesti, sorrisi… Poi non sapendo cosa fare improvviso una piccola lezione di matematica che prende la dimensione di un gioco.
Il primo giorno non riesco a mangiare niente guardando la pentola in cui abbiamo preparato il riso il giorno prima. Sul nostro cibo girano liberamente scarafaggi e altri insetti. Mi trovo già davanti al mio primo limite e guardandomi capisco che per me è difficile. Reagisco accettando di mangiare come loro. All’inizio chiudo un po’ gli occhi e la gola sembra non volersi aprire, poi inizio a sentirmi tranquillo e con la voglia di vivere pienamente quello che mi circonda…
Nove giorni dopo arriviamo insieme a Catrimani, base centrale, un’isola in questa foresta dove le costruzioni dei missionari che arrivarono qui 40 anni fa, sembrano un grand hotel. In realtà sono case di legno, ma ci sono stanze, bagno, doccia, una cucina, un po’ di pulizia, erba tagliata. Dopo questi giorni dove ogni metro di cammino nella foresta era da «conquistare», cucinare su dei pezzi di legno, lavarsi in una pozza di acqua.
Mi sono fatto molte domande osservando questo popolo: vita semplice, legata a quello che la natura gli offre. Ma una profondità nel loro vivere, dove il loro essere religioso è il loro stesso stile di vita. Percepisco questo enorme distacco culturale e di valori che ci separa e mi chiedo dove è il punto di unione, chi ha la verità…
un periodo della sua vita al servizio degli indios.
Un progetto culturale
Come missionari della Consolata la nostra presenza a Roraima si caratterizza per l’attività tra gli indios. Quello che è stato fatto da decine di noi in passato,ha portato a questa situazione, diversa da quando sono arrivato, quando nessun indio si riconosceva tale. Adesso sono fieri di esserlo. Ancora oggi, però, quando i giovani vanno in città fanno tutto per occultare la loro origine indigena e non essere discriminati.
Nel passato abbiamo fatto molte attività tra i non indios, le nostre forze sono state messe al servizio delle città e degli invasori stessi, e questo ha permesso che si arrivasse a una situazione ancora di grande discriminazione e preconcetto che vorremmo debellare.
Il modo migliore che abbiamo trovato è mettere a disposizione di tutte le persone di buona volontà un ambiente a Boa Vista che dia accesso ai dati e documenti. Questo per sapere cosa vuol dire per uno stato come Roraima avere la fortuna di essere ancora abitato da molti popoli indigeni. Non solo in termini di folklore o turismo, ma anche in economici. Sono popolazioni che contribuiscono all’economia e all’immagine dello stato e potrebbero fare molto di più se le loro peculiarità fossero riconosciute, rispettate, messe in evidenza. Di questo Brasile di cui si sentono profondamente figli.
Si tratterà di un Centro culturale indigeno che permetterebbe di fare attività per far conoscere meglio le popolazioni e la loro cultura. Valorizzare la storia, le lingue, le tradizioni, la ricchezza di questi popoli.
Vogliamo contribuire a cambiare il modo di pensare dei bianchi, contrari ai diritti degli indios. Allo stesso tempo dare agli indios un centro di riflessione e studio per guardare al futuro con sguardo sul passato, con orgoglio, senza vergognarsi dei loro avi.
Non sarà un museo, gli indigeni non sono storia passata, ma di oggi e domani con le loro particolarità a beneficio di tutto lo stato. Ogni volta che muore uno di questi anziani stiamo perdendo un capitale enorme non solo culturale ma anche economico e sociale.
La nostra società mostra i limiti della cultura acquisita nell’ultimo secolo. Credo che faremmo bene a fare un’analisi, guardando a queste altre società, che sono ancora di oggi e hanno cose che possono farci riflettere e farci cambiare per proseguire verso un futuro più umano.
Marco Bello