Nuova Russia, vecchie abitudini
La Russia negli anni di zar Putin
Cos’è diventata la Russia negli anni di Vladimir Putin? Un’analisi accurata che spazia dalla politica all’economia fino alle libertà fondamentali, che…
Da anni durante i miei soggiorni moscoviti sono ospite di una coppia di amici che hanno la fortuna di abitare in una posizione invidiabile. Abitano in pieno centro, su uno dei lungofiumi, al penultimo piano di uno degli edifici più alti del quartiere: davanti alle finestre del salotto si stende mezza città.
Per anni il panorama che si presentava ai miei occhi è rimasto, visita dopo visita, pressoché invariato. Ogni tanto compariva qualche piccolo cambiamento, che però non modificava di molto il quadro d’insieme. Verso la fine degli anni ‘90, invece, questo quadro s’è messo in movimento, prima lentamente, poi con sempre maggior dinamismo. Adesso, ogni volta che too, corro a vedere che cosa è cambiato.
Si è cominciato con la palazzina costruita su parte del bel prato antistante alla casa, un pezzo di terreno lasciato libero, anche perché declina verso il fiume ed è a rischio smottamento. Poi, sulla riva opposta, nella piazza davanti alla facciata neoclassica della stazione ferroviaria, sono comparsi una brutta fontana e una costruzione cilindrica: un bar-ristorante, dicono. In seguito, uno sgraziato centro commerciale ha occupato tutta l’area sul fianco della stazione, dove un tempo c’era un ampio spiazzo con aiuole e panchine.
Se si alza lo sguardo oltre la linea dei primi edifici, là, dove un tempo c’era il cielo, si stanno affastellando torri gigantesche, da cui partono potenti fasci di luce, che, come fari, illuminano la notte di Mosca.
Recentemente, sulla sommità del centro commerciale è stato eretto un maxi schermo, che giorno e notte proietta immagini di auto in corsa e coppe di champagne. Ti tiene buona compagnia, come se in camera avessi un televisore sempre acceso.
Dal 2000 la Russia ha vissuto un periodo di costante crescita economica e Mosca è, naturalmente, la città dove più evidenti sono i segni di questi anni fortunati: è in cima alle classifiche mondiali per concentrazione di Mercedes e di milionari.
Il 2000 è anche il primo anno della presidenza di Vladimir Putin, cui si attribuisce il merito di aver tirato fuori il paese dalle secche dell’era El’cyn, di avee favorito la ripresa economica, di avergli ridato stabilità e fiducia nel futuro.
Il turista in visita a Mosca non potrà non trovarsi d’accordo con un tale giudizio e, forse, non gli parrà così strano che i russi abbiano per la terza volta riconfermato la fiducia verso quest’uomo, votando in massa alle presidenziali di marzo il candidato da lui voluto. Lo avrebbero sicuramente rieletto per altri quattro anni, se solo si fosse presentato di nuovo. Si è, addirittura, formato il movimento «Per Putin», a sostegno di una sua candidatura; ma la costituzione russa non consente un terzo mandato consecutivo, e in questo è stata rispettata.
Come stupirsi di un tale consenso, se il PIL cresce di un 7% annuo, i salari reali dal 2000 sono aumentati di quattro volte e mezzo, c’è stato un aumento della produttività e dei consumi, il rublo si è rinforzato e l’inflazione è diminuita.
Senz’altro ci sono molte più persone che stanno meglio adesso che otto anni fa. Il ceto medio è cresciuto e ha preso d’assalto le località turistiche in tutta Europa. La Russia è tornata a far sentire il proprio peso tra le nazioni. Eppure…
I conti non tornano
I dati macroeconomici, si sa, non bastano a descrivere la realtà di un paese. Se si prendono in considerazione altri aspetti della vita in Russia, il quadro appena descritto apparirà diverso e mostrerà evidenti segni di un profondo malessere. Uno dei più preoccupanti è il calo demografico. Questo fenomeno si è manifestato all’inizio degli anni ‘90, quindi molto prima dell’arrivo di Putin, ma i suoi otto anni non hanno portato variazioni di tendenza.
Con una densità di 8 abitanti per kmq, la Russia è uno dei paesi più vuoti al mondo; un’ulteriore perdita di popolazione potrebbe mettere a repentaglio intere regioni, in particolare la Siberia orientale, dove è più accentuata la tendenza allo spopolamento. Oltre agli evidenti problemi di sicurezza che ne conseguirebbero, il fenomeno in sé non è certo indice di buona salute.
La natalità in Russia era calata già ai tempi dell’Urss come conseguenza di diversi fattori: l’attacco ideologico alla istituzione della famiglia, la liberalizzazione di aborto e divorzio, scarsezza di alloggi, lavoro femminile, equiparato a quello maschile. Con la fine del sistema sovietico a ciò si sono aggiunte le aumentate difficoltà economiche e il peggioramento del sistema scolastico.
Tuttavia, quello che più impressiona oggi non è tanto la bassa natalità, quanto l’alta mortalità. In questi ultimi anni si è addirittura avuto un leggero incremento delle nascite, ma, ai fini demografici, questo dato è reso nullo da un maggiore incremento delle morti. L’aspettativa di vita per gli uomini è scesa in Russia a 58 anni: 20 anni sotto la media europea.
Alta mortalità è indice di bassa qualità della vita. È vero che in questi anni, grazie al buon andamento economico è circolata più ricchezza ed è diminuita la percentuale di persone che vivono sotto la soglia della povertà, ma è anche vero che la differenza tra ricchi e poveri si è accentuata e che lo stato non ha investito in servizi per i cittadini il denaro arrivato nelle sue casse.
Se si eccettuano i grandi centri urbani, le infrastrutture in Russia sono rimaste quelle dei tempi sovietici. Così, si muore sulle strade, insufficienti e maltenute; si muore perché il sistema sanitario è antiquato e non garantisce un’adeguata assistenza; si muore perché nei posti di lavoro, nelle abitazioni, nelle strutture pubbliche mancano i più elementari sistemi di sicurezza; si muore per le malattie contratte nei luoghi di detenzione, malsani e sovraffollati; si continua a morire per mano di criminali, che rimangono impuniti nella stragrande maggioranza dei casi.
Povertà, precarietà del vivere, mancanza di prospettive sono tra i motivi che spiegano l’accresciuto consumo di alcolici, una delle principali cause di morte, e un numero di suicidi tra i più alti nel mondo.
È difficile capire come mai un paese dove 140 milioni di persone si dividono un territorio di 17 milioni di kmq, tra i più ricchi al mondo di risorse naturali, non riesca a garantire a tutti i suoi abitanti un’esistenza almeno dignitosa. Forse, la ragione è in parte da ricercare proprio in questa abbondanza, che ha formato il carattere dei russi, abituati a non calcolare, a non risparmiare nell’uso di risorse apparentemente illimitate.
Ciò si è tradotto, nei secoli, in trascuratezza, poca razionalità nel gestire il bene comune, tendenza allo spreco. Proprio per questo sugli amministratori ricade una grossa responsabilità, e il primo e più responsabile di loro è il presidente, che ha creato di sé un’immagine di politico razionale ed efficiente e che ha concentrato nelle proprie mani un enorme potere. Basterebbe un esempio a mettere in dubbio l’oculatezza della sua gestione del paese: dopo la de facto rinazionalizzazione del settore energetico da lui perseguita, con le riserve che ha, la Russia non riesce a soddisfare il fabbisogno interno di gas.
Economia: il ritorno dello Stato padrone
È noto che l’attuale prosperità della Russia si fonda innanzitutto sulle materie prime. Le risorse del sottosuolo, metalli e idrocarburi, costituiscono circa l’80% delle esportazioni russe ed è la crescita dei loro prezzi che ha dato il maggior contributo al boom economico di questi anni.
Nonostante le eccezionali condizioni del mercato internazionale, il settore petrolifero russo è in piena crisi. Fino al 2003 la produzione di greggio cresceva di un 8-9% annuo; ma dal 2004 questo indice si è andato riducendo. Nel 2007 è stato solo del 2,5% e nel primo trimestre di quest’anno si è addirittura registrato un declino.
In campo economico il primo mandato di Putin è giudicato in modo positivo: furono approvate la riforma fiscale, che semplifica e riduce il sistema di tassazione, la riforma del bilancio, che introduce maggiore chiarezza e realismo nelle spese dello stato, fu finalmente consentito il libero mercato della terra.
A metà del 2003, però, ci fu il primo segnale di un cambiamento nella politica economica del presidente: la compagnia petrolifera privata Yukos fu messa sotto indagine dalla magistratura e qualche mese dopo fu arrestato il suo proprietario, Mikhail Khodorkovskij. Il caso Yukos ha dato il via a un’azione concordata di magistratura, guardia di finanza e governo, volta a riportare in mani statali il comparto energetico, in buona parte privatizzato ai tempi di El’cyn.
Il secondo mandato di Putin ha visto lo stato riprendersi un ruolo primario nell’economia del paese. Non solo nel caso di gas e petrolio, ma anche in altri importanti settori economici lo stato è intervenuto in maniera crescente, con acquisizioni che hanno ricondotto molte grandi imprese sotto il suo controllo; imprese, al cui vertice Putin ha posto le stesse persone che aveva chiamato a svolgere ruoli importanti nella propria amministrazione, o nel governo: ex compagni di università, ex colleghi di lavoro, collaboratori di vecchia data, tra cui Dmitrij Medvedev, che, prima di essere eletto presidente della Russia, era contemporaneamente vice primo ministro e direttore di Gasprom.
In poco tempo il rapporto tra capitale dello stato e capitale privato nella borsa russa si è invertito: se qualche anno fa il primo ne deteneva il 24% e il secondo il 50%, adesso le percentuali sono, rispettivamente, del 40% e del 33%. È ovvio che un simile capovolgimento non è stato in alcun modo volontario e non è potuto avvenire senza gravi violazioni del diritto di proprietà. Inoltre, ha avuto come conseguenza una diminuzione di efficienza del sistema economico. Vari analisti fanno presente che l’attuale crescita economica in Russia è inferiore alle potenzialità del paese. Altre repubbliche ex sovietiche stanno crescendo altrettanto, se non di più, senza avere le risorse di cui dispone la Russia. L’Ucraina è una di queste.
Sono anni che, nelle nostre conversazioni, Andrej, un mio conoscente di Mosca indica nell’abbondanza di gas e petrolio il guaio della Russia; non vede l’ora che siano sostituiti da altre fonti di energia e profetizza che ciò avverrà molto prima di quanto si creda. Sulle prime, simile posizione potrebbe suonare antipatriottica, ma non lo è. Per capirlo, basterebbe il suo racconto, di ritorno da un viaggio a Kiev: «La città in questi anni ha cambiato faccia, non meno di Mosca. Eppure gli ucraini non hanno una goccia di petrolio. La prosperità se la guadagnano col lavoro e non vendendo idrocarburi».
Il fatto di non avere a disposizione una ricchezza già pronta, le materie prime, costringe un popolo a mettere in campo iniziativa e ingegno per costruire il proprio benessere. Dall’altra parte, un governo che non possa far conto sui facili proventi ricavati dalla loro vendita è costretto a cercare l’attiva collaborazione dei cittadini. Questi due fattori combinati insieme favoriscono l’instaurarsi di un regime di libertà. «Quando sono uscito dalla stazione di Kiev, la prima cosa che ho visto è la parola “Libertà”, scritta in caratteri cubitali su un cartellone» ricordava Andrej, senza nascondere la sua ammirazione.
I media sotto controllo
«Libertà» non è una parola di moda in Russia: non la usano i governanti, non aleggia nelle aule del parlamento e, ciò che più conta, non è neppure sulla bocca dei comuni cittadini; altrimenti negli ultimi otto anni tante cose non sarebbero potute avvenire. Com’è successo con quello economico, questi otto anni hanno visto il progressivo accentramento del potere politico nelle mani del presidente e di un’élite a lui personalmente legata. Si è cominciato col ridurre l’autonomia delle regioni, sia istituendo ispettori presidenziali, col compito di controllare l’operato delle amministrazioni locali, sia tagliando loro le risorse economiche. Si è, poi, passati a modificare i criteri di scelta dei governatori regionali, non più eletti dai cittadini, ma nominati dal presidente. In tal modo Putin si è, di fatto, assicurato il controllo del Consiglio federale, la camera alta del parlamento, dove siedono i rappresentanti regionali, designati dai governatori.
L’altra camera, la Duma, è stata progressivamente occupata da deputati di partiti, apparentemente diversi e in competizione, ma, di fatto, tutti governativi e tutti creati dal Cremlino per attirare diverse tipologie di elettori. La vera opposizione è stata emarginata per mezzo di ostacoli burocratici, cavilli legali, campagne di diffamazione, una magistratura compiacente e limitazioni nell’accesso ai mass media.
Ai tempi di El’cyn era diventato interessante guardare la televisione. Dopo il lungo periodo sovietico, quando il partito comunista controllava i mass media con pugno di ferro, i russi avevano finalmente cominciato a sentire il gusto della libera informazione. Caduto il monopolio statale, comparvero numerosi quotidiani e riviste indipendenti, ma la vera rivoluzione avvenne grazie alla TV, che arrivava in tutte le case. Sui canali privati, finalmente consentiti, trovavano spazio le più diverse posizioni: si parlava di tutto, si criticava, si discuteva, si denunciava. Molto seguiti erano alcuni programmi di satira politica, un genere del tutto nuovo per il pubblico russo.
Le cose cominciarono a cambiare subito dopo l’arrivo di Putin, ma fu la tragedia del Kursk a dare una brusca accelerata al processo di restaurazione. Nell’agosto del 2000, 118 marinai rimasero intrappolati nel sottomarino atomico Kursk, in avaria sul fondo del Mare di Barents. Forse si sarebbe potuto salvarli, se l’emergenza fosse stata affrontata in modo tempestivo dalle autorità. Non fu così e Putin vide la propria popolarità cadere nei sondaggi.
Da quel momento si fece sistematico l’attacco alle emittenti private e, già da settembre, furono posti i fondamenti legislativi di una «dottrina nazionale dell’informazione», che doveva da allora in avanti rispondere anche a criteri di patriottismo.
Nei mesi e anni successivi, mentre il panorama fuori dalla finestra si andava trasformando, quello sulla TV in salotto diventava sempre più monotono. I canali televisivi erano nuovamente controllati. Dovunque ti spostavi trovavi immancabilmente la faccia del presidente: Putin che visita una fabbrica, che incontra un gruppo di cittadini, che ammaestra i suoi ministri o li chiama a rapporto, che riceve un capo di stato straniero, e via dicendo.
Da quando, poi, la definizione di attività estremistica è stata estesa a comprendere la diffamazione di pubblico ufficiale e l’umiliazione dell’orgoglio nazionale, criticare l’operato delle autorità è diventato ancora più rischioso. La nuova legge è stata usata per tacitare giornalisti, ong, gruppi di cittadini troppo intraprendenti. Ad esempio, di estremismo sono stati di recente accusati i parenti delle vittime di Beslan.
Si ricorderà il tragico episodio della scuola di Beslan, dove nel settembre 2004 una quarantina di terroristi tenne in ostaggio per alcuni giorni un migliaio tra bambini, insegnanti e genitori. Più di 300 di loro furono uccisi nel corso di un raid lanciato dalle truppe d’assalto russe per liberarli. Da subito furono sollevati dubbi su come tutta l’operazione era stata condotta. Si costituì un comitato di cittadini che in questi anni ha condotto un’inchiesta indipendente sul massacro, da cui sono emersi elementi che proverebbero il comportamento irresponsabile delle autorità. Il tentativo di renderli pubblici e di ottenere giustizia ha, però, portato all’incriminazione per attività estremistica.
Con un’informazione controllata e filtrata i russi hanno smesso di sapere cosa avviene realmente nel paese. Sarà anche per questo che hanno cominciato a sentirsi più sicuri. All’inizio della sua presidenza Putin si era prefisso di dare maggiore sicurezza e stabilità al paese, due beni preziosi, per i quali i russi sono disposti a rinunciare a una fetta delle proprie libertà. Quell’obiettivo è stato effettivamente raggiunto?
Più corruzione meno sicurezza
Alla fine dello scorso anno, mentre mi trovavo nella sala periodici della centralissima Biblioteca statale di Mosca, si avvertì una detonazione che ne fece tremare la grande vetrata. Si seppe poi che si era trattato di un piccolo ordigno, lasciato in un centro commerciale adiacente al Cremlino, che, fortunatamente, non aveva fatto vittime. Al momento mi stupii per la naturalezza con cui avevo accettato l’idea che fosse scoppiata una bomba. Da qualche anno penso spesso a quest’eventualità durante i miei soggiorni a Mosca, soprattutto quando scendo nel metrò, o mi trovo in un luogo affollato.
Non è solo la capitale russa ad avere problemi di sicurezza. Nel 2004 quando comunicai che ero in partenza per il Dagestan, vidi il mio interlocutore impallidire, perché, mi disse, quella repubblica caucasica è diventata più pericolosa anche della Cecenia: attentati e rapimenti erano quasi quotidiani. E lo sono tuttora.
Gli otto anni di Putin sono costellati di assassini su commissione, attentati e attacchi terroristici, che hanno prodotto un alto numero di vittime e le cui responsabilità e connivenze rimangono ancora in buona parte da chiarire: omicidi di politici e giornalisti, bombe in metrò, su autobus, treni, aerei, centri commerciali. I due episodi più noti sono quelli del teatro Nord-Ost di Mosca e della scuola di Beslan. Ne hanno parlato giornali e TV di tutto il mondo, ma notizie di molti altri fatti meno sensazionali faticano ad arrivare. Il Caucaso continua a essere potenzialmente esplosivo e vi si muore quotidianamente.
Sicurezza e corruzione sono due cose inversamente proporzionali. Per indice di corruzione la Russia in questi ultimi anni è passata dal 126° al 143° posto su 180 paesi. Molti fatti che avvengono nel paese si giustificano solo con la corruttibilità dei pubblici ufficiali. Non è mai stato chiarito, ad esempio, come sia stato possibile per terroristi ben noti alle autorità russe attraversare indisturbati tutto il paese, dal Caucaso a Mosca, e infilarsi nel teatro Nord-Ost con un arsenale d’armi e munizioni.
Pochi giorni dopo la tragedia di Beslan, quando tutta la Russia era sotto shock e le misure di sicurezza rafforzate, un conoscente mi raccontò un fatto appena capitatogli. Quel pomeriggio lui e i suoi colleghi dovevano fare delle riprese alla fiera dell’editoria a Mosca. Siccome erano parecchio in ritardo, per evitare di perder tempo al posto di controllo avevano allungato qualche rublo al poliziotto, che li aveva lasciati passare senza ispezionare il loro furgone. Ripensandoci a freddo, però, il mio conoscente non era più tanto contento di una così buona riuscita. «Il furgone avrebbe potuto essere pieno di armi!» mi diceva costeato.
«La Russia ai russi»
In un primo tempo era corsa la voce, poi smentita, che tra i terroristi di Beslan ci fossero, oltre ai ceceni, molti stranieri provenienti da diversi paesi islamici. I russi hanno la tendenza a cercare fuori di sé la causa dei propri mali: un tempo erano i nemici del popolo, i capitalisti, l’Occidente, a congiurare contro il regime sovietico; adesso sono i rappresentanti di etnie diverse a rendere difficile la vita nel paese. Così, i terroristi sono tutti ceceni o arabi, i mafiosi sono tutti caucasici o centroasiatici, i criminali pure.
Novaja Gazeta, il giornale per cui lavorava Anna Politkovskaja, una delle poche testate indipendenti rimaste, ha recentemente pubblicato un’inchiesta curiosamente intitolata «55%» (N° 15, 3-5 marzo 2008). È la percentuale di chi dichiara di approvare lo slogan: «La Russia ai russi». Purtroppo non si tratta solo di parole, come risulta dalle statistiche pubblicate dal giornale. Sempre più frequenti si sono fatte le uccisioni di cittadini stranieri da parte di gruppi neonazisti o di bande organizzate. Nel 2007 si è a conoscenza di 543 aggressioni per motivi xenofobi, di cui 57 mortali. Questi numeri sono in rapida crescita. Nel 2006 i casi registrati furono rispettivamente 376 e 44, nel 2004 furono 147 e 34. Mosca e San Pietroburgo stanno di gran lunga in cima alle classifiche.
Oggetto della violenza di questi gruppi non sono i «bianchi», vale a dire europei, bensì i «neri», chjoye, i rappresentanti delle etnie caucasiche e centroasiatiche. Dal Caucaso e dall’Asia Centrale provengono i lavoratori stagionali, che arrivano in Russia a svolgere i lavori più umili e duri, quelli per cui la domanda è molto superiore all’offerta. È una soluzione che accontenta tutti, perché la Russia, con i suoi problemi demografici, ha urgente bisogno di forza lavoro, mentre nel sud dell’ex Urss la disoccupazione è cronica. Si tratta di una forza lavoro spesso sottopagata e bistrattata, soprattutto, ma non solo, nel caso dei lavoratori senza un permesso di soggiorno. Nei confronti di questi gruppi etnici gli attacchi xenofobi sono diventati così frequenti da spingere i rappresentanti delle loro comunità in Russia e, in taluni casi, le autorità in patria, a intervenire presso il governo di Mosca.
L’odio razziale non si esprime solamente verso una certa categoria di cittadini stranieri, ma anche verso gli stessi cittadini della federazione, etnicamente non russi. Per gli aggressori fa poca differenza che uno abbia in tasca un regolare passaporto russo. Il crescere di sentimenti nazionalisti e apertamente xenofobi è segno di una società non in pace con se stessa, che ha bisogno di trovare un capro espiatorio per giustificare il proprio malessere.
A noi italiani può capitare di essere scambiati per caucasici e, quindi, di subire le aggressioni verbali solitamente destinate a loro. Un giorno, a una fermata d’autobus, mi si avvicinò un signore che stava mangiando dei lupini. La mia faccia non deve essergli piaciuta, perché cominciò subito una filippica contro chi, come me, invece di starsene a casa propria, veniva a occupare lo spazio degli altri. Io non gli svelai l’equivoco in cui era incorso, ma, poiché gli risposi pacatamente, anche l’uomo moderò il proprio tono e, di lì a qualche minuto, mi offrì addirittura una parte dei suoi lupini.
In una persona possono convivere i sentimenti più diversi; l’importante è fare sì che prevalga la sua parte migliore. Anche in questo caso la responsabilità dei governanti è grande: con le loro parole e azioni essi possono eccitare, o, al contrario, sopire il nazionalismo latente nelle persone. L’accento posto dalla presidenza Putin sull’orgoglio nazionale non sembra andare in quest’ultima direzione.
Zar buono,
ministri cattivi
Per tracciare un bilancio più equilibrato dell’era Putin, oltre ad argomenti economici, come la crescita del PIL, boom delle costruzioni, aumento dei consumi, non sarebbe male tener presente anche gli aspetti di cui si è sopra parlato: l’accresciuto controllo dello stato sull’economia e mezzi d’informazione, la perdita di autonomia delle amministrazioni locali, la concentrazione di potere nelle mani del presidente e degli uomini della sua amministrazione, la polarizzazione della società in buoni e cattivi, nostri e vostri. «I nostri», così, appunto, si chiama il movimento dei giovani putiniani. Per chi ha conosciuto la Russia sovietica tutto ciò ha un suono stranamente familiare.
Sono sicura che quando toerò la prossima volta dai miei amici di Mosca troverò qualcosa di nuovo all’orizzonte della loro finestra. La Russia va avanti e sceglie il proprio futuro. Per quante previsioni, analisi, o critiche noi possiamo esprimere, esso è in mano ai russi ed è giusto che sia così. Putin non avrebbe potuto cambiare così radicalmente l’assetto economico e politico del paese senza il consenso, tacito o manifesto, dei russi: essi sono contenti per il ritrovato orgoglio nazionale, perché si parla nuovamente di grandezza del loro paese; sono contenti di avere un presidente forte e un governo stabile, anche a prezzo di non avere un’opposizione in parlamento; sono contenti che lo stato si sia ripreso il controllo delle risorse naturali. Azioni come quella contro Khodorkovskij trovano il sostegno della gente, che non ama gli oligarchi arricchitisi con le privatizzazioni.
Il ceto medio è quello che ha più beneficiato degli anni di Putin; grazie al considerevole aumento degli stipendi è aumentato il suo potere d’acquisto e, di conseguenza, il suo senso di sicurezza rispetto al futuro. La sua maggiore autonomia economica non si è, però, tradotta in maggiore autonomia nelle scelte politiche. Alle scorse elezioni parlamentari il ceto medio ha votato per il 60% in favore di Russia unita, il partito del presidente.
Non che i russi abbiano smesso di lamentarsi dei disservizi, burocrazia, carovita e tante altre difficoltà che affliggono la loro esistenza quotidiana. Ma le lamentele, chissà perché, non vengono indirizzate al presidente, bensì ai ministri inetti o ai funzionari rapaci e corrotti. È sorprendente il risultato di un sondaggio che attribuiva a Putin un indice di gradimento del 70%, mentre quello del suo governo si fermava al 30%.
A questo punto, torna alla mente uno dei miti più persistenti di tutta la storia russa, in cui il contadino, oppresso da tributi e obblighi di ogni genere, trovava una sorta di conforto: il mito dello zar buono e dei cattivi ministri.
Bianca Maria Balestra