Acqua alla gola (scempio e follia)
L’acqua un bene vitale in grave pericolo (prima puntata: la situazione italiana)
Un tempo, nelle acque del Po, il principale fiume italiano, era possibile la balneazione. Altri tempi. Oggi il fiume soffre di ogni sorta di inquinamento. E così gli altri corsi d’acqua, i laghi, i mari. Ipossia, anossia, eutrofizzazione: un disastro provocato dalle attività umane, mai adeguatamente regolamentate, mai interessate a salvaguardare i beni della collettività. Il conto è salato, anzi salatissimo. Forse impagabile.
Siamo abituati a fare giri in bicicletta sulle piste ciclabili torinesi, tra cui quelle che costeggiano i fiumi principali della nostra città, il Po ed il suo affluente, la Dora Riparia. Durante questi giri, ci è capitato di osservare varie situazioni di degrado, che interessano i due corsi d’acqua. Ciò che più ci ha lasciati allibiti è stata la scoperta di cospicui sversamenti di cromo esavalente nelle acque della Dora, provenienti dalla tristemente famosa Thyssen
Krupp e dalle Ferriere Fiat, di cui abbiamo già parlato (MC, luglio 2008).
Non basta: a livello della costruzione del nuovo passante ferroviario di Torino, nel punto in cui esso passerà sotto la Dora, attualmente si possono vedere vere e proprie montagne di «smarino», che poggiano per buona parte sulla «tombatura» del fiume (la Dora per quasi un chilometro è coperta da una soletta di cemento, che fungeva da base di una parte delle Ferriere) e su di loro passano camion, che continuano a versare materiale in grande quantità, mentre il letto del fiume è stato ridotto ad un terzo della sua ampiezza, sotto il ponte adiacente, per consentire gli scavi sotto il letto del fiume stesso.
Viaggiando invece in riva al Po, abbiamo osservato per mesi la realizzazione di una pista ciclabile sull’argine del fiume; per costruire questa pista sono stati riversati, direttamente nel fiume, macerie provenienti da cantieri edili e cemento, che sono andati ad occupare circa tre metri dell’ampiezza del letto del fiume.
Osservazioni del genere ci fanno chiedere in quali condizioni siano i corsi d’acqua nel nostro paese. In generale, quali sono le condizioni delle acque dolci, comprese quelle di falda, in Italia? E nel resto del mondo? In questa prima puntata della nostra rubrica prenderemo in considerazione la situazione italiana.
Poveri fiumi italiani
Il Po, il maggiore dei nostri fiumi (652 chilometri), percorre una delle aree più densamente popolate ed industrializzate del bacino del Mediterraneo: la pianura Padana, dove vivono circa 20 milioni di persone nonché 12 milioni tra bovini e suini d’allevamento, più diversi milioni di polli. Dalle abitazioni, dalle industrie e dagli allevamenti di bestiame viene immessa nel Po una quantità di rifiuti organici pari a quella di una popolazione di circa 119 milioni. Il fiume inoltre bagna quattro delle regioni più produttive d’Italia, cioè il Piemonte, la Lombardia, l’Emilia-Romagna ed il Veneto, regioni dove si trova circa il 50% dell’industria nazionale con una produzione annua di circa 25 milioni di tonnellate di rifiuti industriali, la maggior parte dei quali raggiunge l’Adriatico.
Un’analisi delle acque del Po, lungo tutto il suo percorso, eseguita da Legambiente nel 2005, ha rivelato che solo a Crissolo, in prossimità della sorgente, l’inquinamento è irrilevante, cioè di classe 1 (le classi d’inquinamento vanno da 1 a 5 e sono rispettivamente: 1 – non inquinato, 2 – lievemente inquinato, 3 – inquinato, 4 – molto inquinato, 5 – gravemente inquinato). Procedendo verso valle, già a 50 Km dalla sorgente, cioè a Saluzzo, l’inquinamento è di classe 3. Nel tratto lombardo le cose peggiorano ed in provincia di Piacenza è stato rilevato un inquinamento di classe 4. Solo nel tratto da Guastalla (RE) al delta è stato rilevato un inquinamento di classe 2, ma questo esito potrebbe essere stato falsato dalle condizioni atmosferiche, caratterizzate da piogge intense, che hanno aumentato la portata del fiume, prima delle analisi. Probabilmente con una portata normale, i risultati sarebbero stati peggiori.
Secondo un rapporto dell’Istituto Ambiente Italia di maggio 2006, tra i grandi fiumi italiani solo l’Adige mantiene una qualità delle acque buona o sufficiente, mentre le condizioni del Po, del Tevere e dell’Ao sono critiche. Gli obiettivi di qualità chimica e biologica posti per il 2016 sono oggi assolti solo da un terzo dei bacini idrici italiani, ma anche quelli posti per il 2008 sono pienamente rispettati solo in Trentino Alto Adige, Liguria e Valle d’Aosta, mentre le situazioni peggiori si hanno complessivamente in Emilia, Lazio, Lombardia, Marche e Campania. Nelle regioni meridionali, il sistema di monitoraggio è ampiamente insufficiente, infatti su 620 punti di campionamento, solo il 15% si trova nelle regioni meridionali e mancano del tutto i dati relativi alla Puglia ed alla Calabria.
Invece il Piemonte e la Valle d’Aosta rappresentano da sole il 23% dei dati nazionali. I dati si basano sull’indice SECA (introdotto dal Dlgs 152/99 sulla tutela delle acque), che integra i risultati delle analisi chimico-fisiche e microbiologiche (LIM) con i dati di qualità biologica dell’Indice Biotico Esteso (IBE), un parametro chiave per definire la qualità delle acque, che si basa sull’analisi della struttura della comunità d’invertebrati, che popola il letto dei fiumi. Secondo il Dlgs 152/99 entro il 2016 ogni corso d’acqua superficiale dovrà raggiungere lo stato di qualità ambientale «buono», per cui, entro il 2008, esso dovrà presentare almeno i requisiti dello stato di qualità ambientale «sufficiente».
Sempre secondo l’analisi di Legambiente, il 21% dei fiumi italiani risulta inquinato in modo da non raggiungere la sufficienza e ciò si verifica specialmente in Emilia-Romagna, Toscana, Lazio, Sicilia e Sardegna.
Come ti inquino un fiume, un lago, un mare
Che tipo di sostanze inquina i nostri fiumi? Possiamo innanzitutto dire che le sostanze inquinanti provengono dai settori civile, agro-zootecnico ed industriale. I principali inquinanti del settore civile sono le sostanze organiche biodegradabili. Il settore agro-zootecnico inquina con sostanze fertilizzanti, fitosanitari e pesticidi. L’industria invece emette sostanze organiche alogenate e metalli pesanti come mercurio, arsenico, cromo, cadmio e piombo. Oltre a queste sostanze, da ripetute analisi, effettuate nel Polesine sulle più comuni specie di pesci presenti nel Po, sono state rilevate quantità preoccupanti di diossina e di policlorobifenili (PCB), che rendono impossibile la pesca sul fiume, anche se purtroppo qualcuno comunque continua a pescare ed a mangiare questo tipo di pesci, correndo seri rischi, dato l’elevato potere cancerogeno della diossina e dei PCB.
Per quanto riguarda le sostanze biodegradabili organiche provenienti dal settore civile e da quello agro-zootecnico, la diretta conseguenza è il progressivo impoverimento di ossigeno delle acque, causato dai batteri, che assimilano e poi decompongono il materiale organico, consumando ossigeno in questa loro attività. Ciò determina un’ipossia, se non addirittura un’anossia delle acque, che progressivamente porta alla morte di ogni forma di vita presente e questo vale soprattutto per le acque marine, che ricevono dai fiumi l’enorme carico di sostanze organiche biodegradabili, in essi riversate. Inoltre i fertilizzanti agricoli riversano nelle acque dei fiumi enormi quantità di derivati dell’azoto e del fosforo, cioè sostanze nutrienti, che una volta raggiunto il mare favoriscono il fenomeno dell’eutrofizzazione, cioè l’abnorme crescita di alghe. Quando queste ultime muoiono, precipitano sul fondo marino e vengono degradate dai microrganismi esattamente come i liquami, accentuando così l’impoverimento d’ossigeno delle acque, con conseguente moria di pesci e perdita della biodiversità.
I problemi dell’impoverimento d’ossigeno delle acque e quello dell’eutrofizzazione stanno interessando allo stesso modo anche i principali laghi italiani. Il problema dell’inquinamento dei nostri fiumi e del Po in particolare è sorto dopo gli anni Sessanta, in concomitanza con l’espansione delle grandi città e degli impianti industriali, nonché con l’instaurarsi di un tipo di agricoltura e di allevamento intensivi. Prima di allora nelle acque del Po era possibile la balneazione. Ora è proibito fare il bagno, perché il rischio di malattie è estremamente elevato. Una curiosità: tra le malattie, che si possono contrarre facendo il bagno nei nostri fiumi, c’è la leptospirosi, malattia mortale per l’uomo, trasmessa dall’urina dei topi e dei ratti, che infestano le rive dei fiumi e più in generale le nostre città.
Stati Uniti: i diritti… degli inquinatori
I problemi legati all’inquinamento, di fiumi e laghi italiani sono presenti negli altri paesi industrializzati o in via di sviluppo, alla stessa maniera, se non peggio.
Vandana Shiva, nel suo Le guerre dell’acqua, riferisce il caso del fiume Cuyahoga a Cleveland, Ohio, Stati Uniti, che serviva da discarica per le industrie del luogo e che nel 1969 era così contaminato dai prodotti chimici, che prese fuoco.
Negli Stati Uniti, nel 1972 venne approvato il Clean Water Act, il quale stabiliva che nessuno può inquinare l’acqua e che tutti hanno diritto all’acqua pulita. Tale legge si poneva l’obiettivo di riportare entro il 1983 le acque dei fiumi in condizioni idonee per la pesca e per il nuoto. Purtroppo nel 1977, a seguito delle pressioni degli industriali, anziché puntare alla regolamentazione degli scarichi, si passò a considerare lo standard della qualità dell’acqua. Tale standard è stabilito dal governo, però, relativamente ad un’area designata e ciò in relazione all’acquisizione dei permessi di scarico o Tdp (Tradable Discharge Permits), da parte delle aziende, cioè una compravendita dei diritti d’inquinamento. In pratica, in tal modo, il governo passa da protettore del diritto all’acqua per tutti i cittadini, a quello di sostenitore dei diritti degli inquinatori. Tra l’altro, la quantità d’acqua necessaria per la fabbricazione di molti prodotti a livello industriale è impressionante e molto superiore a quella, che si consumerebbe fabbricando a mano lo stesso tipo e lo stesso quantitativo di prodotti. La lavorazione della pasta di legno per la produzione industriale della carta determina un consumo d’acqua tra i 270.000 e gli 855.000 litri per tonnellata di carta. La sbiancatura del cotone consuma dai 216.000 ai 324.000 litri d’acqua per tonnellata di cotone prodotto. Anche la modea industria informatica contribuisce in modo pesante all’inquinamento dell’acqua. Basta pensare al fatto che un singolo wafer di silicio da 6 pollici (cioè la piastra, su cui sono stampati i circuiti integrati e da cui si ottengono i chip che rappresentano, ad esempio, la memoria del computer, che stiamo usando, o quella di un telefono cellulare) richiede per la sua fabbricazione circa 10.237 litri d’acqua deionizzata, oltre a 90 metri cubi di gas generici, a 0,6 metri cubi di gas tossici, a 900 grammi di prodotti chimici ed a 285 kilowattore di energia elettrica. Se poi pensiamo al fatto che lo stabilimento Intel di Rio Rancho nel New Messico, di wafer di silicio ne produce 5.000 alla settimana…
Cina: un disastro dietro l’altro
Dall’altra parte del mondo, in Cina, dove è in corso una rivoluzione industriale senza precedenti, la situazione dei grandi fiumi, che bagnano il paese e dei loro affluenti, nonché dei laghi è, a dir poco, agghiacciante. Si calcola che siano inquinati il 90% dei fiumi e dei laghi cinesi, specialmente al nord, con oltre il 70% delle acque dei fiumi Giallo o Huang He (il più lungo dei fiumi cinesi, che va dall’altopiano del Tibet al golfo di Bo Hai, nel Mare Cinese orientale, dopo 5.460 Km), dello Huai e del Hai, nonché dei loro affluenti e che le loro acque siano troppo inquinate per l’uso umano.
I dati ufficiali dicono che oltre 320 milioni di contadini cinesi non hanno accesso all’acqua potabile e che circa 190 milioni bevono acqua sicuramente inquinata. Inoltre l’acqua inquinata dei fiumi viene usata per irrigare i campi, i cui prodotti vengono poi commercializzati ed esportati (ad esempio le mele Fuji, che troviamo nei nostri supermercati). Anche molti prodotti ittici provengono da zone altamente inquinate.
Tutto questo si sta traducendo in una strage silenziosa tra gli abitanti di molti villaggi, situati lungo le coste dei fiumi cinesi. Emblematico è il caso di un villaggio, Xiaojiadian, che si trova lungo le rive di un affluente del fiume Giallo, a 250 Km dal delta. Si tratta di un villaggio di circa 1.300 persone, dove negli ultimi cinque anni sono morte 70 persone, per cancro allo stomaco od all’esofago. Nei villaggi vicini, nello stesso periodo, sono morte altre 1.000 persone, per cause analoghe. A monte di questi villaggi, negli ultimi 20 anni sono sorte numerose concerie, cartiere ed industrie. In questa zona, l’incidenza del cancro all’esofago supera di 25 volte la media nazionale, al punto che il distretto di Dongping viene considerato la capitale mondiale del cancro, dagli oncologi che studiano questi casi. Peraltro, un rapporto del 2007 del ministero della Salute cinese imputava all’inquinamento atmosferico e delle acque un allarmante incremento dell’incidenza di tumori in tutta la Cina, in particolare del 19% nelle aree urbane e del 23% nelle aree rurali.
I problemi legati all’inquinamento vanno ad aggiungersi ad altri altrettanto gravi, che interessano questi fiumi ed in particolare il fiume Giallo, le cui acque vengono captate in enorme quantità: il 65% per l’agricoltura ed il resto dall’industria e dalle città in rapido sviluppo. Il risultato è che il fiume, già sottoposto a lunghi periodi di siccità, che sempre più caratterizzano la Cina, soprattutto nella sua parte settentrionale, pur essendo stato in passato responsabile di inondazioni catastrofiche, attualmente stenta a raggiungere il suo delta, essendo la sua portata ridotta ad un decimo di quella originale, ed in effetti, negli anni Novanta, per qualche tempo, non lo ha raggiunto affatto. Ciò comporta una concentrazione di sostanze tossiche, riversate nelle sue acque ed una grave ripercussione sia per quanto riguarda l’approvvigionamento idrico di moltissime città, sia per la produzione di cereali, la cui diminuzione inciderà pesantemente sul mercato cerealicolo mondiale. La crisi idrica cinese è sicuramente cominciata con l’instaurarsi di un clima più secco e caldo, che sta interessando l’intera regione, con un aumento del processo di desertificazione (basti pensare che sono già scomparsi 3.000 su 4.077 laghi nella provincia del Quinghai). Nei mesi estivi, le piogge sono così scarse, che il governo cinese ha attuato un programma di «inseminazione» delle nubi, consistente nel bombardare queste ultime, nell’area sovrastante la sorgente del fiume Giallo, con cristalli di ioduro d’argento, per aumentare il tasso d’umidità e stimolare le precipitazioni. La situazione di questo fiume, già resa precaria dal clima, che ne ha ridotto la portata, per effetto della riduzione del 7% all’anno dei ghiacciai, che lo alimentano, è resa ancora più difficile dalla presenza di 20 grandi dighe, che ne frammentano il percorso ed aggravano il problema della siccità.
Nel frattempo, il riscaldamento globale…
Come sappiamo il problema della siccità è una delle conseguenze del progressivo rialzo termico (vedi il riquadro di pagina 54), che sta interessando il nostro pianeta, grazie all’effetto serra causato dall’immissione nell’atmosfera di gas quali l’anidride carbonica, il metano, l’ossido di azoto ed i clorofluorocarburi, dispersi in miliardi di tonnellate annue sin dagli inizi della rivoluzione industriale.
In particolare, l’anidride carbonica (CO2), da sola, è responsabile del 50% dell’aumento della temperatura. Fonti primarie di questo gas sono i combustibili fossili (petrolio, benzina, carbone) e la deforestazione, soprattutto l’abbattimento delle foreste pluviali. Il metano (CH4), che è responsabile per il 18% del rialzo termico, è in aumento ed è rilasciato da batteri presenti in zone acquitrinose, come paludi, torbiere e risaie, ma è anche presente nell’apparato digerente dei ruminanti, come i bovini; la sua molecola ha un’incidenza sul riscaldamento terrestre 20 volte superiore a quella dell’anidride carbonica. L’ossido di azoto (N2O) aumenta nell’atmosfera dello 0,8% all’anno e con ogni probabilità è rilasciato dai fertilizzanti agricoli; la sua molecola, ai fini dell’effetto serra, ha una potenza 200 volte superiore a quella dell’anidride carbonica.
I clorofluorocarburi (CFC), oltre a distruggere la fascia dell’ozono atmosferico, hanno un notevole ruolo per l’effetto serra, poiché contribuiscono tra il 17% ed il 24%, ma soprattutto la loro molecola ha un effetto 20.000 volte maggiore di quello dell’anidride carbonica. I CFC sono usati negli impianti di condizionamento e nei refrigeratori, nonché nelle materie plastiche espanse, negli aerosol e nei solventi.
Se l’emissione di questi gas continuerà con il ritmo attuale (teniamo presente che le automobili sono tra le principali responsabili di queste emissioni), si calcola che la temperatura media della superficie terrestre aumenterà di un grado entro il 2030 e di tre gradi, entro la fine del secolo e questa sarà la prima volta che la terra si troverà ad affrontare un simile rialzo termico in così pochi anni, considerando che dall’ultima era glaciale la temperatura media è salita di 4-5 gradi in 10.000 anni. Peraltro il progressivo inaridimento, che già colpisce parecchie regioni della Terra, non sarà ubiquitario, dal momento che l’innalzamento della temperatura porterà ad un aumento dell’evaporazione acquea degli oceani, accelerando il ciclo dell’acqua. Sono piuttosto prevedibili situazioni sempre più estreme, con territori maggiormente colpiti da siccità ed altri da alluvioni, per l’estensione delle precipitazioni, conseguente all’aumento dell’umidità media in certe zone. Le temperature più alte porteranno ad una più rapida evaporazione acquea dalla terraferma e quindi il suolo si seccherà più velocemente. Già ora molti fiumi, come appunto il fiume Giallo, presentano una consistente riduzione della loro portata. Questa situazione sta già interessando anche l’Italia.
L’Italia s’inaridisce
Secondo i dati della Protezione civile l’Italia sta diventando in parte arida. Il problema viene inoltre aggravato dalle captazioni d’acqua a fini produttivi e ad uso civile. In particolare per l’agricoltura vengono captati 20 miliardi di metri cubi d’acqua all’anno, cioè il 49% di tutta l’acqua disponibile (nel resto d’Europa, il consumo per uso agricolo rappresenta il 30%), mentre l’industria ne consuma il 21% e per gli usi civili se ne capta il 19%.
L’enorme quantitativo d’acqua usato in agricoltura è strettamente correlato alla necessità di foraggio per gli allevamenti intensivi di bovini e di suini, oltre naturalmente alle colture per uso alimentare umano.
Un ulteriore problema, che sicuramente in Italia non incentiva al risparmio dell’acqua in agricoltura e nell’industria è il suo costo, che è in media di 52 centesimi di euro al metro cubo per uso civile, mentre per uso agricolo o industriale costa cento volte di meno. Inoltre, in certi casi i reali consumi per uso agricolo non sono nemmeno fatturati, oppure viene fatto un forfait. È chiaro che finché non ci sarà corrispondenza tra il costo ed il consumo reale dell’acqua, saranno pochi gli agricoltori che limiteranno le irrigazioni.
Ci sono poi le aziende imbottigliatrici di acque minerali (cfr. il Dossier di MC del giugno 2006) , che, pagando l’acqua ad una cifra irrisoria (meno di un centesimo di euro al metro cubo), realizzano guadagni esponenziali (al supermercato un metro cubo d’acqua minerale vale mediamente 516 euro). Infine, lo spreco d’acqua dovuto ai singoli individui, ma anche alle perdite nelle condotte, che si lasciano dietro il 42% dell’acqua captata, che non giungerà a destinazione (con la punta massima del 70% a Cosenza).
(Fine prima puntata – continua)
Riscaldamento globale ed informazione
Colpi di sole
La mancanza di responsabilità verso le problematiche ambientali è conosciuta. Soprattutto in Italia. Eppure esistono giornalisti che, minimizzando o addirittura negando i problemi, incentivano l’illusione che le attività umane non siano dannose per la terra e per il futuro di tutti.
L’Amazzonia è sempre presa come esempio di disastro ambientale inarrestabile. Ma – purtroppo – non c’è soltanto il polmone del mondo in pericolo. Secondo un recente libro fotografico1 dell’agenzia Onu per l’ambiente (United Nations Environment Programme, Unep), negli ultimi 30 anni l’Africa ha subito mutamenti devastanti: ghiacciai che scompaiono (ad iniziare dal Kilimangiaro in Tanzania), deforestazione selvaggia, biodiversità a rischio. Ma occorre andare lontani per vedere i disastri prodotti dal riscaldamento climatico (global warming): il Trentino, terra di montagne innevate (almeno fino a qualche anno fa) e boschi, da anni vede i propri ghiacciai (sono 83) assottigliarsi (uno per tutti, l’Adamello, il più esteso delle Alpi italiane). A tal punto che la provincia di Trento ha messo in campo iniziative di studio e ricerca per affrontare il problema2.
Scetticismo contro precauzione – Nel 1992, al Summit di Rio, si formalizzò il «principio di precauzione» per le questioni ambientali. Quel principio è stato clamorosamente disatteso, come dimostra l’affossamento del Protocollo di Kyoto (1997), che pure è molto timido nel fissare limiti alle emissioni di gas serra (anidride carbonica e metano, in primis). Nel frattempo, nei 15 anni trascorsi da Rio, la situazione ambientale si è notevolmente aggravata e gli studi scientifici hanno dato conferme alle ipotesi iniziali. «Catastrofismo ed esagerazioni», qualcuno nega l’evidenza stessa. Come giustamente sostiene Mario Tozzi, «lo scetticismo è il sale della scienza». Ma, secondo il ricercatore e giornalista scientifico, la stragrande maggioranza degli scienziati «dice la stessa cosa, cioè che il clima sta cambiando e che al 90% è colpa nostra».
La situazione secondo i rapporti Onu – Nel suo quarto rapporto (2007)3, il Comitato internazionale sul cambiamento climatico (Ipcc) afferma che «il riscaldamento del sistema climatico è inequivocabile, come evidenziano gli aumenti riscontrati della media mondiale della temperatura dell’aria e dell’oceano, il disgelo generalizzato di nevi e ghiacciai e l’aumento della media mondiale del livello del mare». Secondo il rapporto redatto dai 2.500 scienziati dell’Ipcc, le cause sono da ricercare nella concentrazione di gas serra che sono aumentati notevolmente a causa delle attività umane a partire dal 1750, ma in maniera particolare negli ultimi 50 anni.
Ma non è tutto qui. I mutamenti climatici, infatti, esasperano le ingiustizie tra ricchi e poveri, tra Nord e Sud del mondo, come ha evidenziato l’ultimo rapporto del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp): le conseguenze dei cambi climatici – siccità, inondazioni, eventi meternorologici estremi, migrazioni forzate – colpiscono tutti, ma i più deboli in particolare. «Sono i più poveri – si legge nel rapporto4 -, che non hanno contribuito e continuano a non contribuire in misura significativa alle emissioni di gas serra, a essere i più vulnerabili».
Il fantomatico «complotto» ambientalista – Nonostante la netta maggioranza degli scienziati concordi sul riscaldamento globale e sulle cause che lo determinano, ci sono giornalisti e divulgatori che negano il problema e così facendo producono disinformazione molto dannosa, considerando lo scarso spirito di responsabilità che politici, amministratori e cittadini hanno nei confronti dei problemi ambientali. In Italia, paese noto per la scarsissima vocazione ambientalista, stanno percorrendo questa strada due giornalisti del quotidiano Avvenire, Riccardo Cascioli e Antonio Gasperi, che sull’argomento hanno sfornato ben tre libri (citati a piè di pagina), tutti incentrati sulla negazione del riscaldamento globale e – udite, udite – su un presunto «complotto ambientalista», ordito da Onu, Ipcc, No-global ed associazioni. Le ardite tesi ed argomentazioni di Cascioli e Gasperi sono scientificamente smontate in un recente libro di Stefano Caserini (vedi piè pagina), professore al Politecnico di Milano, che nella premessa scrive: «Alla base del negazionismo italiano ci sono ragioni forse più di ordine psicologico e sociologico, la volontà di difendere l’attuale modello di sviluppo senza metterlo in discussione o la ricerca della visibilità che dà il cantare fuori dal coro; oppure, semplicemente, la pigrizia. “L’uomo non c’entra” è una tesi comoda, evita le grane delle politiche ambientali; obiettivo raggiunto anche dalle successive evoluzioni del pensiero negazionista: “ridurre le emissioni costa troppo” e “il riscaldamento globale fa bene”».
Gli irresponsabili difensori dello status quo – Di norma, in un mondo dominato dal «pensiero unico», sarebbe auspicabile e benvenuta una partecipazione critica alle scelte che influiscono sulla vita delle persone. Come ben sappiamo, ciò non avviene. Ironia della sorte (o mero prodotto dell’insipienza umana), il pensiero unico viene a mancare proprio dove invece servirebbe.
Sembrava che le problematiche ambientali potessero spingere gli stati ad unire le energie per affrontare questioni di enorme portata. In tutta evidenza, dal protocollo di Kyoto fino all’ultima riunione (luglio 2008) del G8 a Hokkaido, in Giappone, non è così. C’è sempre qualche presidente (di uno stato o di una multinazionale) che preferisce difendere lo status quo. E c’è sempre qualcuno pronto a scrivere che quel presidente ha ragione e che quegli scienziati raccontano «balle» (sì, è proprio questo il termine utilizzato).
Roberto Topino e Rosanna Novara