Vent’anni fa moriva mons. Leonidas Proaño, profeta dei popoli indigeni
La vita di Monsignor Proaño è la cronaca di un sogno, che diventa promessa e dovere: «Agli indigeni vorrei dare terra, educazione, autostima, cultura e religione». Un missionario che l’ha conosciuto negli ultimi anni della sua vita pennella alcuni tratti della sua figura nel contesto sociale e culturale dell’Ecuador che l’ha avuto vescovo e in particolare di quello indigeno
che l’ha eletto padre.
Per ricordare in modo appropriato e degno mons. Proaño, si dovrebbero raccogliere le voci del suo paese e della sua gente. Ancora oggi il segno da lui lasciato è oltremodo evidente, nonostante siano passati due decenni dal giorno della sua scomparsa e altri personaggi ne abbiano invaso e occupato il posto che gli apparteneva. La sua memoria rimane intatta; non c’è traccia di mito nei ricordi, ma nostalgia per questa persona importante e autorevole, che sapeva voler bene ai poveri ed era da essi amata.
Posso dire di averlo conosciuto da vicino per essere stato assieme a lui nei mesi introduttivi della mia presenza missionaria a Riobamba, quando mons. Proaño si era ritirato a vita privata e viveva a Santa Cruz, il centro dei raduni e degli incontri della diocesi. Sono stati due mesi preziosi, in cui ho potuto approfittare della sua esperienza.
Oggi, ho al mio attivo vent’anni di Ecuador, pienamente a contatto con il mondo degli indigeni; quegli stessi indigeni che continuano a riferirsi a mons. Proaño come loro vescovo, anche se in realtà a Riobamba si è ormai insediato da tempo un successore titolare, con altre direttive e differenti opzioni pastorali.
Per ricordare mons. Proaño bisognerebbe infine lasciare che l’Ecuador sveli la sua storia, dagli infiniti scenari e contraddizioni, rincorrendone gli eventi fino al punto in cui la terra tocca il cielo: sulle alte montagne della cordigliera dove vivono gli amici di «Taita Obispo» (papà vescovo), come nella lingua quichua gli si rivolgevano confidenzialmente i «suoi» indigeni.
La cultura coloniale
L’Ecuador è un paese multiculturale: in modo più o meno conflittuale vi coesistono la cultura meticcia e le culture delle nazioni indigene. La wipala, bandiera dei sette colori, simbolo dell’impero incaico dei «quattro orizzonti» (Tawantinsuyo) simbolizzava l’insieme di popoli integrati nello stato Inca, «liquidato» dalla conquista spagnola.
Il dominio coloniale provocò il cambiamento delle strutture sociali. La ridistribuzione della popolazione e delle ricchezze a favore dell’apparato coloniale causò la fine delle varie forme di arte urbana, espresse fino a quel momendo in oggetti di lusso per la corte e i templi. Furono distrutte le reti viarie, le irrigazioni e venne sconvolto il sistema tradizionale dei seminati. Immense estensioni di terra passarono nelle mani degli spagnoli e molte specie di piante e animali che per gli indigeni avevano un carattere sacro, furono fatte scomparire. Anche lo sviluppo delle tecnologie adeguate al medio ambiente ebbero termine. Gli indigeni si videro obbligati a consumare quello che non producevano e a produrre quello che non consumavano.
Tuttavia, nonostante la sottomissione e lo sfruttamento a cui erano soggetti, gli indigeni continuarono a essere legati alla terra e conservarono la coesione comunitaria. Terra e comunità continuano ancora oggi a essere i due baluardi con i quali gli indigeni difendono i propri valori culturali e comportamenti sociali.
Nell’epoca coloniale, che si prolungò per circa tre secoli, la classe dominante si espresse ideologicamente attraverso la religione. La chiesa gestì questo campo come patrimonio esclusivo e le gerarchie superiori erano integrate da elementi che provenivano dai settori dominanti.
Nella vita quotidiana di tutta la società si impose la rigidità dogmatica e a ogni cosa venne praticamente attribuito un significato religioso. Il modo di pensare e sentire, le tradizioni e i costumi, i divertimenti e le feste erano regolate dalla autorità ecclesiastica.
Oggi gli indigeni professano in maggioranza la fede cristiana; molti, però, conservano tracce e lineamenti culturali propri. Le loro credenze rivelano idee panteistiche e la morale sfugge i rigidi precetti cristiani, ma continua a conformarsi agli antichi precetti: non rubare, non mentire, non oziare.
Solamente con il diffondersi delle idee del liberalismo in Ecuador cominciò a formarsi una nuova cultura. I vincoli commerciali del paese con altre nazioni e lo sviluppo della borghesia mercantile promossero condizioni per il passaggio dalla cultura coloniale a una nuova, più modea e tollerante.
I cambiamenti socio-economico e le idee liberali, però, non apportarono benefici alle zone rurali. Gli indigeni continuarono a vivere e lavorare relegati nelle fattorie dei proprietari terrieri, da dove uscivano solo occasionalmente; soprattutto rimaneva negata loro ogni possibilità di esprimere le richieste e far valere il propri diritti. Emarginati dai vantaggi della vita urbana, esclusi dalla vita politica, disseminati lungo la cordigliera andina, si ribellavano all’oppressione solo mediante il reclamo delle terre.
In un paese dalle marcate contrapposizioni sociali come l’Ecuador, la cultura non è omogenea, ma essa include elementi comuni derivati dalla cultura popolare spagnola, ben radicati anche nelle piccole città della provincia. E quanto la cultura popolare spagnola venne ha contatto con le culture indigene, soprattutto nella cordigliera, è avvenuta una speci di simbiosi, un nuovo tipo di cultura articolata con elementi di origine distinta. Un esempio sono le feste popolari nelle zone rurali.
Da quando l’Ecuador si affermò come repubblica indipendente, nel 1830, lo stato si è sempre mostrato incapace di garantire l’uguaglianza etnica dei suoi abitanti, ma attento solamente a rispondere agli interessi di una incipiente nazione ispano-ecuadoriana; per cui lo stato non è riuscito, e nemmeno ha cercato, di captare e raccogliere le caratteristiche e necessità dei popoli indigeni. In questo modo si sanzionò legalmente l’opposizione che già esisteva tra la cultura degli oppressori e le culture conquistate e oppresse.
La cultura Proaño
A partire dalla metà del secolo scorso, in Ecuador ha cominciato a farsi strada ed affermarsi una nuova cultura, tenacemente promossa da mons. Proaño, vescovo di Riobamba, diventato subito una figura di contrasto e di rottura con la cultura dominante, punto di riferimento a cui gli opposti schieramenti si rivolgevano con venerazione o di avversione. Ciò che mons. Proaño diceva, insegnava e promuoveva per gli indigeni diventava parola sacra, da ricordare e attuare.
Quella del vescovo di Riobamba è diventata una forma culturale profondamente radicata e, oggi, nessuno può dialogare con il mondo indigeno senza tenee conto, senza avere una conoscenza previa del fattore umano, religioso e culturale identificato con la figura di mons. Proaño.
Anche per la chiesa stessa, per il suo approccio pastorale alla variegata realtà culturale del paese, in modo particolare al mondo indigeno, nulla fu più come prima. Il «metodo Proaño» (che molto si arricchì attingendo alla fonte delle grandi Conferenze episcopali di Medellín e Puebla) insegnò alla chiesa a diventare comunità di fede incarnata in un contesto particolare come quello rappresentato dal mondo indigeno.
«Ascoltare la parola di Dio e metterla in pratica». Questo imperativo che Proaño fece proprio per sé, ispirò anche un metodo pastorale molto vincolante, che obbligava coloro che lavoravano con lui ad andare a qualsiasi riunione «disarmati», cioè, disposti a vedere la realtà, possibilmente con gli occhi della gente che la vive e soffre, collaborando ad ampliare questa visione con una informazione teorica che aiuti a capire le cause e le conseguenze di tale realtà.
Poi, in un momento di riflessione più profonda, la realtà veniva passata al vaglio delle aspettative di Dio; il risultato pratico doveva dare vita a un’azione capace di scatenare un nuovo vedere, un nuovo giudicare e un nuovo attuare.
Vent’anni dopo
Oggi, insieme alla coscienza della dominazione subita, gli indigeni hanno maggior consapevolezza del valore della propria cultura. Ciò include anche il rapporto con la propria lingua, il quichua, in confronto con lo spagnolo, lingua ufficiale (e dominante) dello stato ecuadoriano.
Come idioma ufficiale lo spagnolo fu imposto fin dall’epoca coloniale. È la lingua che si usa nelle leggi, nelle istituzioni statali, nell’insegnamento, nei mezzi di comunicazione collettiva, in tutti gli ambiti e istanze della vita pubblica. Si usa anche nella letteratura e nelle pubblicazioni scientifiche e tecniche.
Le lingue dei popoli indigeni sono state invece relegate agli ambienti familiari e sono rimaste circoscritte a forme di comunicazione limitata. Uno sforzo significativo per avviare un sistema educativo bilingue è stato fatto. Purtroppo l’insegnamento della lingua propria è sempre rimasto facoltativo, l’organizzazione dei corsi è sempre stata fatta in modo approssimativo; altrettanto deficitaria è stata la disponibilità di insegnanti validi e materiale didattico adeguato.
Nelle culture e lingue si radicano l’essenza e il senso di identità storica degli indios. Ogni persona che prende coscienza politica della propria oppressione, sa che deve appoggiarsi sulla lingua e sulla cultura per poter affermare la propria personalità e dignità. Sotto questo punto di vista, la spinta data dall’azione di mons. Proaño è stata fondamentale.
Oggi, per la prima volta, si vedono indios in posti pubblici; fatto, questo, che distrugge la figura stereotipata dell’indigeno. Si nota un rinnovamento culturale che porta alla maturazione di nuovi paradigmi di rapporti sociali; la rinnovata presa di coscienza dà i suoi frutti anche a livello politico. La capacità degli indigeni di far fronte comune contro le ingiustizie del sistema si ripercuote sulla situazione culturale del paese intero. Le rivolte e i sollevamenti indigeni sono attività di forte intensità sociale, che hanno generato molti studi e tesi accademiche.
La convivenza tra le culture non è cosa facile da acquisire. Multiculturalità e interculturalità suppongono una posizione ideologica infestata da interessi politici ed economici; imposta questioni di identità, alterità, differenziazione, originalità, razzismo ecc. Tuttavia bisogna sempre tener presente che la pluralità di culture interagenti non comporta la rinuncia alle differenze, ma piuttosto la loro accettazione in una unità equilibrata e totalizzante. Non si tratta di rinunciare alla cultura propria, ma di rivendicare e accettare la permeabilità delle culture secondo un processo di coesistenza che faccia del bene a tutti.
Questo criterio, alla base della pedagogia elaborata da mons. Proaño, è oggi obbligatorio per chiunque voglia avvicinarsi alla pastorale indigena. Molte idee del vescovo sono state accettate e il metodo «vedere-giudicare-agire» è premessa obbligatoria per ogni programma pastorale. Anche la pastorale d’insieme è oramai ovvia e presente ovunque.
Certe persone hanno sviluppato in maniera impressionante il dono di comunicare con la gente: vengono subito capite e altrettanto rapidamente suscitano entusiasmo. Una di esse è stato mons. Proaño. Ancora oggi, basta nominarlo che all’indigeno si accende il cuore e diventa subito pronto a riattivare i ricordi.
Per quanto mi riguarda, invece, continuo a pensare che il vangelo non sia un’opera «chiusa», ma continui ad affermarsi nella storia come composizione permanente, grazie a testimonianze encomiabili e straordinarie; ma esistono anche versioni nuove basate su come il vangelo è stato creduto, amato e praticato. Sarebbe bello e opportuno si pubblicasse finalmente «Il vangelo di nostro Signor Gesù Cristo secondo Proaño, vescovo degli indios».
UNA VITA SPESA PER L’UOMO E LA COMUNITà
Leonidas Eduardo Proaño Villalba, nasce il 29 gennaio 1910 a San Antonio di Ibarra, nella provincia di Imbabura, nell’Ecuador settentrionale. È il figlio unico di Agustín e Zoila, una coppia di poveri, ma onesti lavoratori. La coscienza delle sue umili origini ne ispirerà l’approccio pastorale e il metodo pedagogico. Mons. Proaño, infatti, era solito ricordare continuamente le sue radici povere, accorgimento che gli permetteva di essere accettato dalle persone a cui si rivolgeva come uno di loro, povero tra i poveri.
Nel 1923 entra nel seminario minore della città natale. Vi rimane fino al 1930, quando inizia gli studi di filosofia e teologia presso il seminario maggiore «San José» della capitale Quito. Gli anni della formazione danno a Proaño il «gusto» per lo studio e l’apprendimento finalizzati all’impegno pastorale. Al tempo stesso il futuro vescovo matura la scelta evangelica, decisa e radicale, per i poveri e inizia a coltivare un profondo senso di disagio per la chiesa ecuadoriana del tempo, che giudica essere chiusa, conservatrice, ipocrita e troppo attaccata a potere e privilegi.
Nel 1936 viene ordinato prete e con il ministero sacerdotale inizia anche un più serio impegno a favore dei più poveri, contadini e indigeni soprattutto, schiacciati da un sistema feudale oppressivo che li riduce a veri e propri servi della gleba. È perciò con una certa sorpresa che il 18 marzo 1954 Proaño viene nominato vescovo della diocesi di Riobamba, nella provincia del Chimborazo.
Sono questi anni di fermento per la chiesa universale; gli anni della celebrazione del Concilio Vaticano II, che rafforzano la visione ecclesiale del giovane vescovo: l’immagine di una chiesa serva e non padrona, popolo in cammino e non staticamente arroccata sulle sue posizioni e privilegi, povera tra i poveri e non sodale dei poteri forti del paese.
Sono soprattutto gli indigeni, in assoluto la parte più disprezzata della popolazione, a godere dell’attenzione pastorale di mons. Proaño. Alcune iniziative – come la concessione di terre di proprietà della diocesi a una cornoperativa indigena e l’inizio di una pastorale di insieme che rafforzi il senso di comunità in una società altrimenti divisa in caste e animata da fortissimi pregiudizi razziali – lo rendono famoso e al tempo stesso gli accrescono la fama di prete scomodo che, insieme all’etichetta di comunista, si porterà dietro per tutto il resto della sua vita. Anche la creazione di Radio Erpe. (Escuelas radiofónicas populares de Ecuador) gli attira le ire delle classi «nobili» e potenti del paese, che scorgono intenti rivoluzionari nella volontà di Proaño e dei suoi collaboratori di coscientizzare gli indigeni attraverso programmi di alfabetizzazione bilingue (quichua e spagnolo), vita contadina e approfondimento della parola di Dio alla luce della realtà della gente e dei fatti quotidiani.
Gesù Cristo è per lui qualcuno con il quale arriva a stabilire una relazione personale: è il suo confidente e allo stesso tempo la sua forza. Come essere umano vive una ricerca incessante. Non si conforma con niente, non ristagna in quello che conosce, si lancia verso lo sconosciuto, mantiene uno spirito aperto a tutto quello che succede nella chiesa e nel mondo. Lo spirito di ricerca, sempre aperto all’ascolto lo rende umile, lo mette in una situazione di discepolo, prima che di maestro. In alcune occasioni dirà: «Sono un apprendista cristiano». L’avventura della ricerca lo anima a leggere con occhi sempre nuovi la parola di Dio, a scoprie la novità. La fedeltà alla ricerca è per lui fedeltà alla realtà sempre cambiante, sempre interpellante. Questo fino alla sua morte, avvenuta vent’anni fa, il 31 agosto 1988.
HA DETTO DI SE STESSO
«C redo nei poveri e negli oppressi. Credere nei poveri e oppressi è credere nei “semi del Verbo’’. Credo nelle loro grandi potenzialità, particolarmente nella capacità di ricevere il messaggio di salvezza, di capirlo, accoglierlo e metterlo in pratica. È vero che i poveri ci evangelizzano: per questo la Conferenza di Puebla parlò del «potenziale evangelizzatore dei poveri’’.
Credo nella chiesa dei poveri, perché Cristo si è fatto povero, nacque povero, crebbe in una famiglia povera, scelse i discepoli tra i poveri e fondò la sua chiesa nei poveri. Per tutto questo, allo stesso tempo che faccio la mia professione di fede nei poveri, oso prendere le parole vibranti di felicità di Cristo: Io ti benedico, Padre, perché hai tenuto nascoste queste cose ai savi e sapienti di questo mondo e le hai rivelate ai piccoli».
«T utta la mia vita è stata piena di lotte e conflitti. Penso di essere un uomo intransigente quando si tratta di difendere valori trascendentali non certamente speculativi, ma incarnati nell’esistenza umana. Sono stato intransigente nella difesa della verità perché ho sempre voluto che come uomini concreti fossimo dalla parte della verità. Sono stato intransigente nella difesa della giustizia perché sempre mi è piaciuto che come uomini praticassimo la giustizia. Quello di cui sono più grato ai miei genitori è l’educazione permanente nella libertà e verso la libertà. Sono stato intransigente nell’amore alla pace che ha come base la giustizia e l’amore; la pace che non è “una cosa che costa poco’’; la pace che si conquista con la lotta per eliminare ogni forma di oppressione e sfruttamento, di ingiustizia e discriminazione. Sono stato intransigente nella difesa dell’amore e dell’amicizia, perché ho voluto una grande autenticità nelle relazioni umane».
«P er tutta la vita ho lottato per la verità, per la vita, per la libertà, per la giustizia, valori del Regno di Dio. Questa lotta è stata molte volte bruciante. Se in quelle occasioni, ho offeso qualcuno con le mie parole e dichiarazioni, gli chiedo sinceramente perdono e, a mia volta, perdono di tutto cuore chi mi ha offeso. Sono nato povero, senza amarezza ho provato il sapore della sofferenza e delle incertezze della povertà. Divenuto sacerdote e poi vescovo, ho scelto la povertà e i poveri. Ho amato i poveri, in modo particolare gli indigeni. Come prova che ho amato la povertà, consegno il fatto di non aver accumulato beni per mio uso personale».
(Dall’autobiografia: Creo en el hombre y en la comunidad)
Giuseppe Ramponi