Ai confini (2a)
Il lutto, la perdita di una parte della propria esistenza. Occorre rielaborare, ma anche riorganizzarsi. E per questo può essere necessario un appoggio sociale. Come i gruppi di mutuo aiuto. E per gli immigrati ci sono pure altre difficoltà. La necessità di adattarsi, senza però perdere la propria cultura.
Tema doloroso, quello della morte. Imbarazzante, pungente, difficile da affrontare. La perdita di una persona cara è l’abbandono di un pezzo di vita, di pochi o tanti fotogrammi che hanno composto il nastro di un’esistenza. Morte e lutto sono trasversali a tutte le etnie, a tutte le culture e gli strati sociali. E se la ferita è tanto profonda per il cittadino italiano, quali e quante risposte trova l’immigrato in un contesto di alterità? Lontano dalla propria rete familiare e dal medesimo tessuto sociale. Ne abbiamo indagato alcuni aspetti, nell’anno del dialogo interculturale.
La ricerca profonda
Lutto deriva dal latino lugere, ossia piangere. È un concetto che si lega indissolubilmente alla sofferenza e al momento delle lacrime. Certo è che, in primis, il lutto scardina e scompagina il nostro esistere. È uno schiaffo in pieno giorno, una caduta dall’alto, un male dentro che non trova conforto. Soprattutto dalla perdita fisica della persona cara. Perché, in realtà, qualsiasi separazione a cui l’essere umano è sottoposto nel corso della propria esistenza è un lutto. Un evento che implica uno stravolgimento e rende imperativo l’accettare che una parte della vita si è conclusa ma che rimane intatta nella memoria e in fondo al cuore.
È il momento della ricerca del senso, di un’evoluzione più profonda, di un «ritrovarsi» in maniera autentica.
Ma cosa accade dentro la scatola umana quando si affronta tale esperienza? «Il lutto, sia esso relativo alla morte fisica di una persona, oppure a una separazione tra viventi o anche una migrazione da un contesto geografico e sociale verso un altro, necessita di tempo per essere elaborato» sono le parole di Désirée Boschetti, 34 anni, psicologa psicoterapeuta. «L’elaborazione è un percorso emotivo attraverso il quale la persona non dimentica quanto è accaduto ma trova la forza per guardare avanti, in un certo qual modo è la sofferenza a venire elaborata, cessando di essere invasiva e distruttiva e mantenendo inalterato il ricordo».
Il tempo diventa protagonista di un processo umano complesso e tortuoso: quello dell’elaborazione. L’orologio non si ferma, ore e minuti proseguono la loro corsa. Come avviene l’elaborazione di una sofferenza così inspiegabile? «Alcune fasi psicologiche sono ricorrenti davanti a un evento luttuoso. Si passa dallo shock iniziale, alla rabbia, alla depressione e alla tristezza, fino a giungere a una sana riorganizzazione della vita stessa. Ri-progettare l’esistenza alla luce del fatto che «l’altro» non c’è più, ri-organizzare spazi fisici e sociali. Ma come sempre questa è la prassi antologica, poi ogni lutto è a sé. Nel peggiore delle ipotesi può capitare che si faccia fatica ad uscire dalla fase depressiva, bloccando e rendendo così patologico il percorso di elaborazione. Questo accade spesso quando la relazione tra le persone era di tipo simbiotico e pertanto non si perde solo l’altra persona ma una parte centrale della propria identità».
Scollamento dalla verità
«Sotto la sabbia» è un film di François Ozon che, con delicatezza, restituisce allo spettatore il dramma di una moglie, che alla scomparsa in mare del marito mette in moto una scissione tra mondo reale e mondo immaginario, negando la morte anche davanti alla realtà finale.
È il dramma della separazione improvvisa, della sparizione che non offre neanche la possibilità di un ultimo commiato. «Quando la negazione è così rigida si ha uno scollamento netto dalla verità dei fatti che tende a diventare patologico. Quando parliamo di “elaborazione” tutto è soggettivo. Entrano in gioco le differenti personalità, il rapporto con il defunto, il tipo di decesso, se improvviso o “atteso”, altri lutti recenti in famiglia e soprattutto se era una relazione pacifica o conflittuale. In questo caso, quando non è più possibile ricucire i conflitti e permangono “sospesi” verbali e affettivi, tutto si complica».
Per non passare dal dolore della perdita al dramma della non accettazione e all’incapacità di ricominciare a vivere, esiste un antidoto che si possa iniziare a prendere da «viventi»? «Sicuramente più sincera e autentica è la relazione tra le persone, meno il tema della morte diventa tabù e più diventa semplice salutarsi. Per quanto possibile è dunque fondamentale cercare di esteare i disagi e i conflitti, esprimerli e trovare insieme delle soluzioni. E soprattutto non nascondere “segreti significativi”, taciuti importanti della propria vita, che possano venire alla luce dopo il decesso della persona e che possano danneggiare l’altro, mettendo alla prova l’autostima e obbligandolo a ridefinire un passato che ormai trova impregnato di finzione».
Gruppi di mutuo aiuto
In una società centrata sull’individuo e sull’individualismo non si sente la necessità di ritualizzare il lutto, di risocializzarlo? Quanto siamo cambiati e quanto si è modificata socialmente e storicamente l’esperienza del lutto?
Marina Sozzi, docente di tanatologia (parte della psicologia che studia l’elaborazione del lutto) presso l’Università di Torino e Direttrice scientifica della Fondazione Fabretti, ci spiega: «In Occidente, fino agli inizi del Novecento, la morte di una persona si costituiva come evento sociale e pubblico. In diverse zone dell’Europa meridionale, in particolar modo in quelle rurali, esistono ancor oggi diversi rituali che coinvolgono gran parte della comunità. Queste modalità permettono di “addomesticare” la morte.
È invece peculiare della nostra epoca modea evitare il disagio emotivo che causa il morire. Respingere e dissimulare la morte comporta però un alto prezzo da pagare. La sofferenza interiore per la perdita e la solitudine che l’accompagna incrementa le sindromi depressive e la difficoltà a ritornare a una vita normale».
Sembrerebbe quasi che parlare di morte sia diventato osceno e che la tristezza non possa essere manifesta. La privatizzazione del lutto, dunque, l’ha reso un evento troppo psicologizzato e poco sociale. Esistono rimedi o progetti per riconsiderarlo a livello comunitario e far sì che la gente si senta meno sola?
«La Fondazione Fabretti di Torino ha recentemente aperto un servizio di supporto al lutto totalmente gratuito che comprende uno sportello in città, gestito da uno psicologo esperto in materia, alcuni gruppi di mutuo aiuto, una campagna informativa presso i cittadini, la formazione dei medici di base e la collaborazione con la curia e con le molteplici associazioni di volontariato. Questo dovrebbe creare una rete di solidarietà estendibile a macchia d’olio, una specie di comunità protettiva per arginare stati di solitudine».
Nello specifico come si differenzierà lo sportello dai gruppi di mutuo aiuto e come sensibilizzerete gli operatori sanitari?
«Lo sportello si traduce in un centro di ascolto in cui è lo psicologo a valutare quali strade consigliare all’utente. I gruppi di mutuo aiuto, che nei paesi anglosassoni esistono già da diversi anni, si basano sulla formazione di gruppi che “condividono” il medesimo disagio. Il mutuo aiuto inizia con l’auto aiuto, ossia nel momento in cui la persona riconosce l’esistenza di un problema e si attiva per risolverlo.
L’esperienza di condivisione giova a esprimere i propri sentimenti, a riflettere sulle proprie modalità di comportamento, ad aumentare le capacità individuali nel far fronte ai problemi, sia psicologici sia pratici. Ma anche a incrementare la stima di sé e a facilitare la nascita di nuove relazioni sociali e di una migliore qualità della vita. A supportare il gruppo ci sarà un esperto, non per tecnicizzare ma per pilotare le dinamiche emotive.
La sensibilizzazione e la formazione presso i medici di base faciliterà invece la possibilità di dar valore a una relazione umana medico-paziente in modo tale che l’operatore sanitario individui campanelli d’allarme importanti nelle persone in lutto e sappia indirizzarli verso il nostro servizio.
Si cercherà inoltre di coinvolgere la curia affinché si creino nuove figure di assistenti spirituali, meno attenti all’orologio ma più aperti al dialogo e pronti a ridare speranza nella vita».
Immigrazione e lutto ovvero: adattarsi
Un’operazione capillare, dunque, per sanare ferite ma anche per ricordare al mondo che senza la condivisione è impossibile sconfiggere il malessere.
Ma cosa succede quando l’unica esperienza inevitabile della vita avviene durante la migrazione? Ne parliamo con Javier Gonzáles Diez, dottorando di ricerca in Scienze Antropologiche presso l’Università degli Studi di Torino, studioso di religione e immigrazione, oltre che assegnatario di differenti borse di studio sul tema tanatologico, sia presso il Centro Piemontese di Studi Africani che presso il Centro interculturale della Città di Torino.
«Indubbiamente le domande di senso, in questo caso, aumentano di intensità. Oltre a chiedersi il perché della morte, ci si chiede anche perché si muore altrove. In un altrove dove diventa ancor più complicato “normalizzare” la situazione funebre.
La lacerazione della morte necessita infatti di una sorta di spiegazione e questo può accadere solo con gli appositi rituali funebri. L’esperienza migratoria richiede un surplus di risposte sia esistenziali che antropologiche. La stessa migrazione è di per sé un trauma del quale a volte non si incontrano giustificazioni e trovare la morte in una parentesi simile lo è ancor di più».
A volte si banalizza pensando che le concezioni funebri degli immigrati vengano importate in misura identica in un contesto di alterità, senza considerare la difficoltà o l’impossibilità ad attuarle. E, ancor più sovente, non è una questione di cui interessarsi. «La popolazione autoctona tende a dar per scontato alcune usanze funebri senza considerare che sono il frutto di un percorso storico e culturale basato sul cristianesimo. Il migrante deve invece trovare una soluzione in base alla propria religione, dovendosi dunque adattare al contesto in cui vive. Incontrando pure degli ostacoli che possono essere di tipo legislativo o pratico.
I musulmani, ad esempio, per quanto riguarda il primo caso hanno l’esigenza religiosa di essere seppelliti entro 24 ore dal decesso ma secondo la nostra legislazione occorre attendere 2 o 3 giorni. Questo è un chiaro intoppo legislativo.
Dal punto di vista pratico un rituale fondamentale per accompagnare l’anima durante il trapasso è il lavaggio del corpo che prevede però uno spazio apposito (negli ospedali ad esempio) con una fonte di acqua pura, ossia utilizzata solo per quella evenienza. Questo è un limite che potrebbe essere superato da una maggiore sensibilizzazione e dalla buona volontà delle istituzioni, dando così il giusto rispetto che meritano i rituali delle culture “altre”. In tal senso sono in corso progetti pionieristici nel Nord Italia ma è prematuro parlarne».
Ma limitazioni di vario genere e prepotenti gap culturali non provocano nell’ immigrato sensi di colpa a livello religioso e la necessità di doversi giustificare con sè stessi e con la famiglia rimasta nel paese d’origine? «Se consideriamo che i musulmani, per religione, dovrebbero essere inumati nella sola terra senza bara, è chiaro che siamo davanti a un adattamento forzato. A cui devono rispondere legittimando la scelta imposta, come quella della bara, e aggirando per quanto possibile la situazione. Magari scegliendo la bara più sottile e quindi più a contatto con la terra. È un po’ come se la nostra società guardasse dalla finestra la capacità di adattarsi da parte degli immigrati.
In questo senso c’è ancora molta strada da fare. Basterebbero minime modifiche nelle legislazioni, ma soprattutto maggiore informazione, attraverso convegni e dibattiti, per poter ridefinire il concetto di comunità multietnica».
Il lutto, nel suo stravolgente dirompere, può dar vita a delle nuove forme di aggregazione? «Sì, a volte sono proprio le difficoltà pratiche legate al rimpatrio della salma e alla burocrazia a esso relativa a mettere in comunicazione mondi che nei propri paesi d’origine erano agli antipodi. Si creano così nuovi spazi sociali, nuove reti comunitarie. Dal dolore non fuoriesce sempre solo depressione e isolamento. Attoo al credo religioso, alla solidarietà e al bisogno comune si possono formare nuovi gruppi con personali identità».
Una permanenza transitoria
Il significato del rimpatrio ci offre l’idea di quanto l’immigrato consideri il suo vivere «altrove» ossia nel nostro «qui» una permanenza transitoria, ben distinta dal concetto di eternità che può essere vissuta solo nel proprio paese d’origine.
Un ritorno alla terra, in comunione con i propri avi. Il senso della famiglia, delle amicizie e delle tradizioni che la lontananza non può spezzare. «Il desiderio di portare a casa il defunto è prioritario per noi rumeni. C’è un senso di appartenenza alla propria comunità e alle proprie radici molto forte. Soprattutto in ambito rurale, tutta la collettività partecipa al rituale funerario che assume così connotati festivi. Il funerale non deve essere consumato in fretta.
Qui (in Italia, ndr), il tenore di vita è più alto ma si è perso il senso delle tradizioni più profonde. La “fretta” è diventata una costante della vita e ha cancellato l’importanza del sapersi assaporare il momento. Un passaggio doloroso, come quello di una morte, ha bisogno di sospendere la corsa. Di riflettere, di organizzarsi, di compatire insieme».
Sono le parole di Rodica Manciu, mediatrice culturale rumena presso l’Ospedale infantile Regina Margherita di Torino. «Da noi la veglia funebre dura tre giorni, durante i quali la vita è sospesa. Tutta la comunità accorre a casa dello scomparso, che non rimane mai solo.
Al defunto viene lasciata una candela tra le mani, che possa illuminargli la strada verso l’aldilà. Si mangia qualcosa, si beve, si canta e soprattutto si parla. È un dialogo diretto sulla vita, sulla morte e sulla naturalezza che tutto ciò deve avere. La paura viene esorcizzata attraverso un’autentica ritualità partecipativa».
Queste parole chiariscono l’esigenza di riportare alla terra natia il defunto. Ma i costi sono elevati e la burocrazia infinita.
Come e chi interviene a favore degli immigrati in tale situazione? Ne parliamo con Ranà Nahas, mediatrice culturale musulmana dell’associazione Alma Mater di Torino: «Le pratiche sono lunghe, il rapporto con le Istituzioni non sempre fluido. Attoo all’imam si forma la nostra comunità religiosa, che solitamente lavora insieme per arginare gli ostacoli. Quando l’esigenza è quella di rimpatriare la salma vengono richiesti degli aiuti finanziari durante la preghiera quotidiana. Solitamente c’è molta solidarietà.
Se il defunto viene sepolto in Italia (recentemente è stato creato uno spazio apposito per i musulmani nel Cimitero Parco, di Torino Sud), invece, si segue l’iter di presentare la documentazione al Comune che, in caso di indigenza, procura la bara e gli oamenti funerari.
Il cammino è ancora in salita. Sarebbe auspicabile che l’informazione fosse estesa anche alla comunità italiana, affinché ci fosse un sentire comune che creasse una rete sociale sensibile più estesa e compatta in questi momenti».
Riconoscere le culture ma senza stereotipi
Come trasformare il nostro pensiero affinché si possa considerare «multietnica» la società in cui viviamo? Ci dice ancora Javier Gonzales: «La concezione in voga è quella del “pacchetto culturale”, ma nessuna cultura va impacchettata. All’interno di un’etnia ci sono gli individui e sono loro, differenti gli uni dagli altri per mentalità e vissuto personale, a fare delle scelte. Si rischia sempre di toccare le estremità di un discorso: da un lato appiattire tutto, negando che ci siano differenze. Dall’altro estremizzare creando solo stereotipi culturali. L’ideale sarebbe riconoscere le diversità, senza applicare delle etichette, altrimenti si ricade nella società segregazionista che tanto assomiglia al modello di apartheid.
Le soluzioni non arrivano mai dall’alto, attraverso scelte autoritarie o politiche, le decisioni vanno condivise attraverso il dialogo, rendendo le persone parti attive nella negoziazione delle scelte. Questo è il modello della vera società multiculturale che profuma di elasticità mentale, informazione e soprattutto della capacità di ascoltare».
Gabriella Mancini