Sì al dialogo (purché sia serio)
Intervista al Dalai Lama
Lo abbiamo incontrato nella sua residenza in esilio a Dharamsala (India), durante la rivolta anticinese a Lhasa; nonostante la dura repressione, il Dalai Lama continua a credere nel dialogo con Pechino, per la creazione di un Tibet democratico e autonomo. Purché i negoziati siano seri.
T enzin Gyatso, conosciuto in tutto il mondo come il xiv Dalai Lama, incarnazione del Buddha della compassione Avalokitesvara, è, dal 1959, anno in cui fuggì in India, la figura chiave della lotta tibetana contro la Cina. Nel 1989 gli è stato conferito il premio Nobel per la Pace.
Iniziamo con una domanda ovvia, ma che suscita sempre perplessità: perché nel 1959 ha lasciato il Tibet?
Perché se fossi rimasto, i cinesi mi avrebbero preso in ostaggio e questo avrebbe potuto causare una sollevazione popolare.
Cosa ha dato l’esilio a lei e ai tibetani che l’hanno seguita?
La consapevolezza che la via del Buddha è l’unico insegnamento adatto per noi tibetani. Seguendo gli insegnamenti buddisti abbiamo riscoperto un nuovo vigore della vita. Sì, posso dire che l’esilio mi ha migliorato. Per questo posso ringraziare i cinesi.
Democrazia per il Tibet. Questo è quanto lei chiede per la sua terra. Nel passato i suoi predecessori non sono però stati dei campioni di democrazia.
Sì, è vero. È per questo che, una volta assicurata al Tibet l’autonomia, mi ritirerò perché la mia figura potrebbe essere d’ingombro a un cammino democratico. Personalmente, poi, sono vecchio e non voglio ricoprire alcuna carica pubblica. Diciamo che andrò in pensione, farò il Dalai Lama a tempo pieno, dedicandomi alla disciplina buddista.
Che obiettivo si pone come guida spirituale e politica dei tibetani?
Fermare il genocidio culturale in atto. Ma per fermarlo bisogna creare i presupposti per un dialogo con Pechino. Ho già detto più volte che non voglio l’indipendenza del Tibet, ma l’autonomia all’interno della nazione cinese.
Osservando le manifestazioni in atto in Europa, in America, in India e Nepal, i sostenitori della causa tibetana portano striscioni inneggianti all’indipendenza tibetana, non all’autonomia. Siamo sicuri che all’interno del suo governo tutti lottino per la stessa causa? Non possiamo dar torto alla Cina quando chiede una prova tangibile dell’unità di intenti nel suo governo.
Free Tibet non significa necessariamente Tibet indipendente. Significa solamente che vogliamo che la Cina interrompa la politica di aggressiva colonizzazione, accettando che i tibetani ricoprano posizioni di vera responsabilità all’interno del Tibet.
Già ora le ricoprono: Qiangba Pungcog, presidente della Regione autonoma tibetana è tibetano.
Tibetano, ma anche filocinese.
Allora dovreste essere più chiari e dire che non è questione di mettere figure tibetane all’interno del governo, ma figure ben specifiche, indicate da voi. È questo il punto di attrito.
Forse.
Altro punto di attrito riguarda i diversi concetti di cosa intendere per Tibet. Il «vostro» Tibet è un Tibet etnico, comprendente anche le regioni del Gansu, Sichuan, Qinghai e parte dello Yunnan. In pratica si tratterebbe di raddoppiare la superficie sulla quale volete applicare le vostre richieste.
Noi non possiamo dimenticare i 4 milioni di nostri fratelli tibetani che vivono al di fuori dai confini amministrativi del Tibet.
È quindi un dialogo tra sordi. E parlando di sordi non mi riferisco solo ai cinesi.
Noi abbiamo già eliminato dal nostro vocabolario la parola indipendenza. Ci siamo già mossi verso la loro richiesta.
Lei di sicuro. Ma non i manifestanti pro-Tibet, non gli attivisti del Congresso giovanile, non i reduci della guerriglia Khamdo. Un compromesso con la Cina e un suo ritorno a Lhasa non risolverebbe i problemi all’interno del Tibet e, soprattutto, aprirebbe crepe nel vostro movimento.
Cerchiamo però di trovare qualche soluzione.
È ottimista?
Sì. Il regime cinese deve cambiare. È solo questione di tempo. I cinesi stessi non vogliono più vivere isolati dal mondo. Cercano la democrazia. È un processo lento iniziato nel 1989 con Tienanmen.
Quale Tibet sogna?
Un Tibet all’interno di una Cina in cui è possibile vivere in un unico paese con due sistemi. È un approccio già usato con Hong Kong e ha funzionato. Perché non utilizzarlo anche con il Tibet?
Ancora una volta ripeto che il Tibet deve rimanere con la Cina. È nell’interesse stesso dei tibetani.
Perché il Tibet non è Hong Kong: cultura, tradizioni, lingua, storia sono differenti. Pechino non si fida dei tibetani. È un ricorso storico.
Ma per trovare una soluzione ognuno deve cedere qualcosa e al tempo stesso dobbiamo fidarci l’uno dell’altro. Un Tibet simile, inoltre, è già esistito tra il 1950 e il 1959, quando il presidente Mao sovrintendeva il processo di integrazione. È a quel Tibet che guardo.
Lei ha più volte detto che il prossimo Dalai Lama verrà scoperto fuori dalla Cina. In questo modo ha sfidato apertamente le autorità di Pechino perdendo un’altra occasione di dialogo.
La prossima reincarnazione, nel tempo in cui i tibetani sono costretti all’esilio, sarà per forza di cose trovata fuori dalla Cina.
Ci saranno quindi due figure religiose, così come lo è stato per il Panchem Lama? Un Dalai Lama a Lhasa eletto con il beneplacito di Pechino ed uno «ufficiale» a Dharmasala?
È molto probabile che sia così. Starà ai tibetani decidere a quale dei due tributare gli onori e la loro fede.
Lei ha parlato anche di genocidio culturale. Cosa intendeva dire?
Oramai a Lhasa la lingua più parlata è il cinese e così nelle altre città del Tibet. Nelle scuole, negli uffici pubblici il cinese è la lingua ufficiale. Inoltre molti monasteri sono stati chiusi, altri sono stati saccheggiati se non distrutti completamente. Questo intendo quando parlo di genocidio culturale.
La violenza è sempre da evitare? Ci sono dei casi in cui lei approva l’uso della violenza?
Sì, ci sono dei casi estremi in cui la violenza può essere un’arma utilizzabile, ma sempre con l’intento di salvaguardare la dignità dell’uomo. Per esempio durante le guerre mondiali o durante la guerra di Corea, quando, per garantire la democrazia e la pace nel mondo futuro, si sono combattute delle guerre. O per salvaguardare i principi del buddismo. Ma è molto pericoloso l’uso della violenza, anche quando la si utilizza con intenti positivi. Spesso la violenza genera altra violenza.
Molti tibetani giudicano la non violenza un’arma non più proponibile per raggiungere gli scopi prefissati dal suo governo.
Specialmente le giovani generazioni. Lo so, sono al corrente che molti mi giudicano troppo morbido, addirittura troppo filocinese. Ma cosa otterremmo con la violenza? Siamo un piccolo popolo, non possiamo contare su alcun aiuto esterno in caso ingaggiassimo una guerriglia con la Cina. La Cina è potente militarmente ed economicamente e ha rapporti diplomatici con tutto il mondo. Realisticamente parlando: quale paese romperebbe rapporti con la Cina per aiutare il piccolo popolo tibetano?
Nel 2007 durante la sua visita in Italia, il papa non l’ha ricevuta. È rimasto deluso?
I rapporti tra Vaticano e Cina sono molto delicati, per certi versi simili a quelli che abbiamo noi tibetani con il governo di Pechino. Ultimamente sembra che tra Pechino e il Vaticano sia ripreso il dialogo. In questo nuovo corso, un incontro con il Santo Padre avrebbe potuto creare delle difficoltà, quindi ho accettato di non interferire. Del resto avevo già incontrato Benedetto xvi nel 2006.
Lei si è dichiarato contrario al boicottaggio dei giochi olimpici. E anche qui la sua opinione è totalmente opposta con i movimenti pro-Tibet in Occidente, che invece lottano affinché vengano boicottate.
Ho detto che appoggio i giochi olimpici e spero che si svolgano tranquillamente. Se poi alcuni capi di stato non saranno presenti all’inaugurazione, questo sarà una loro scelta.
Il governo cinese l’ha invitata più volte ad andare a Pechino e a visitare Lhasa. Perché ha sempre declinato l’invito?
Cosa accadrebbe se andassi a Pechino e tornassi senza aver concluso alcun accordo? I tibetani si rivolterebbero e rischieremmo di infiammare di nuovo il Tibet con altre rivolte e altri dolori.
Associazione donne tibetane a Lhasa
Una leggenda tibetana narra che Jetsun Dolma, dea femminile consorte di Avalokitesvara, la divinità di cui il Dalai Lama è l’incarnazione umana, sarebbe nata da un fior di loto sbocciato dopo essere stato innaffiato da una lacrima del marito. Di lacrime, nel Tibet ne sono state versate tante nel corso della sua storia, e non sempre a causa degli stranieri, ma ultimamente il dolore del popolo si è fatto più lacerante. E con i mezzi di informazione imbavagliati, non è facile avere notizie da questo immenso altipiano. Eppure qualcosa riesce sempre a trapelare attraverso le fitte maglie della censura. Merito di quei tibetani che, a rischio della propria libertà, accettano di fare da tramite tra il loro mondo ingabbiato e il nostro.
Dolma, nome fittizio dietro a cui si cela la rappresentante a Lhasa del Movimento delle donne tibetane, è una di queste figure. Sfruttando abilmente la tradizione secondo cui le donne non si occupano di politica, di sera Dolma smette gli abiti dell’insegnante di scuola primaria e veste quelli di attivista in lotta per l’autonomia del suo paese. «Il governo controlla principalmente i tibetani di sesso maschile e questo ci permette di ottenere notizie senza destare troppi sospetti» spiega nella sua casa alla periferia della città.
È grazie a Dolma e a tibetane come lei che riusciamo a sapere quel che realmente sta accadendo in Tibet. Un incarico rischioso, certo, ma Dolma, assieme a poche altre sue compagne, continua a lavorare per la causa. «Mio marito è stato incarcerato ed è morto in un laogai (i campi di prigionia cinesi, nda). Da allora ho deciso di dedicare la mia vita per la liberazione del mio popolo».
Le lacrime del marito imprigionato, hanno fatto nascere in Dolma il fiore della speranza. Con questo fiore sfida pericolosamente il regime nel segno della non violenza che suo zio, monaco buddista al monastero di Sera, le ha impartito.
Intervista a miss Tibet 2007
Anche la bellezza serve alla causa
Il confronto che oppone Pechino al Dalai Lama non si limita allo scontro politico. La comunità tibetana in esilio in India, infatti, ogni anno elegge una Miss che, con disappunto della Cina, partecipa ufficialmente anche ai concorsi inteazionali. L’attuale Miss Tibet in carica è Tenzin Dolma, 22 anni, eletta lo scorso ottobre.
Che responsabilità ti ha dato portare la fascia di Miss Tibet 2007?
«Quella di rappresentare una terra che vuole rendersi libera e lotta per raggiungere tale fine. Voglio anche rappresentare tutte le donne tibetane, mostrare al mondo e alla nostra comunità che anche noi possiamo raggiungere traguardi inteazionali. Il mio titolo servirà a far sapere al mondo che il Tibet è un paese libero».
Sei nata in India e non hai mai conosciuto il Tibet. Ti senti più indiana o tibetana?
«È vero, sono nata in India, ma i miei nonni sono scappati dal Tibet e i miei genitori mi hanno insegnato a rispettare la nostra cultura. Mi sento tibetana al 100%. Se non lo fossi, non avrei partecipato al concorso».
Si può partecipare a un concorso anche per notorietà, per girare il mondo e non necessariamente per ideologia.
«Non per noi tibetani. Se si partecipa a Miss Tibet sappiamo che molte strade ci verranno precluse. A differenza di altre Miss, la fascia di Miss Tibet non porta fama o denaro».
Ritoeresti in Tibet se la Cina accogliesse le richieste del Dalai Lama e lui rientrasse a Lhasa?
«Immediatamente».
Oltre a un Tibet libero, cosa sogna Miss Tibet 2007?
«Vorrei vedere il paese dei miei nonni, l’Amdo. E naturalmente sposarmi e avere bambini liberi di andare nel loro paese».
E per te stessa?
«Vorrei diventare modella e girare il mondo».
Cosa ha detto il Dalai Lama del concorso? L’ha approvato?
«Certo! Sua Santità ha anche parlato direttamente alle finaliste. Ha suggerito di essere sempre umili e riservate, ma soprattutto di sentirsi sempre tibetane».
All’interno della comunità tibetana in molti, specialmente i monaci più tradizionalisti, hanno criticato il concorso.
«Sì, ma bisogna adeguarsi ai tempi. Se aiutare la causa tibetana significa passare anche attraverso strade non tradizionali nel senso stretto della parola, penso si debba percorrere anche quella strada. Io, però, non mi preoccupo delle critiche: a me è bastata l’approvazione di Sua Santità il Dalai Lama».
Piergiorgio Pescali