Nel Mustang, sulle orme dei guerriglieri tibetani
Nella valle del Mustang, incastonata tra vette himalayane, c’è un Tibet etnico, risparmiato dall’occupazione cinese: indipendente o autonomo per secoli, nel 1950 il Nepal lo annesse al proprio regno, su richiesta dello stesso re del Mustang, prima che fosse l’Armata Rossa di Pechino a decretae la morte. Per due decenni la valle fu la base dei guerriglieri Khampa che, sostenuti e poi abbandonati dagli Usa, lottarono per l’indipendenza del Tibet, provocando più danni alla causa tibetana che all’esercito cinese.
Lo Monthang è una minuscola valle nepalese che si incunea per una sessantina di chilometri nell’altopiano tibetano. Come già successo per altre aree del loro impero coloniale, gli inglesi ne storpiarono la dizione in Mustang, nome con cui oggi viene comunemente identificata la regione.
Circondata da montagne alte più di 6 mila metri che ne garantivano la sicurezza, per almeno due decenni, tra la fine degli anni Cinquanta e il 1974, la valle del Mustang è stata la base del Chusi Gangdruk, l’esercito dei guerriglieri Khampa in lotta per mantenere l’indipendenza del Tibet invaso dalla Cina. Una lotta impari, ma che venne sostenuta dalla Cia, la quale offrì addestramento e armi alla guerriglia.
Fu Gyalo Thondup, fratello del Dalai Lama, a organizzare il collegamento tra i leaders Khampa e la Cia, celandone l’esistenza allo stesso leader spirituale tibetano. E fu ancora Gyalo Thondup che, nel campo profughi di Kalimpong, scelse il primo gruppo di tibetani per essere addestrati. La prima missione fu organizzata nell’ottobre 1957, quando Athar Norbu e Lhotse, vennero paracadutati a 100 km da Lhasa per incontrare il leader della resistenza Khampa, Gompo Tashi Andrugtsang.
A Leadville, nel Colorado, fu anche allestito un campo di addestramento attraverso il quale passarono circa trecento tibetani.
La grande differenza di ideali e di obiettivi che divideva il movimento tibetano dalla Cia è ben mostrata dalle parole di due protagonisti: l’ex guerrigliero Tenzin Tsultrim e l’ex agente Cia Sam Halpe. «Quando andammo in America nutrivamo grandi speranze – afferma Tenzin Tsultrim -. Pensavamo addirittura che gli americani ci avrebbero dato anche una bomba atomica».
A queste speranze controbatte Sam Halpe: «Lo scopo di organizzare un movimento di guerriglia in Tibet era esclusivamente fatto per tenere occupate le truppe cinesi. Non c’era assolutamente l’idea di portare il Tibet all’indipendenza».
Il primo gruppo di guerriglieri venne insediato nel Mustang nel 1960, sotto la guida di Baba Yeshe, un ex monaco buddista. L’anno dopo la Cia iniziò il rifoimento di armi e munizioni. Nel periodo di maggior fervore, il Chusi Gangdruk arrivò ad annoverare 2.100 uomini armati, accompagnati da altri 4 mila tra famigliari e rifugiati; un totale di 6 mila persone che andarono a raddoppiare la popolazione di una valle che, già in condizioni normali, faticava a produrre cibo a sufficienza per tutti. Accolti con benevolenza e solidarietà dagli abitanti di Lo Monthang, anch’essi di etnia tibetana, i Khampa punteggiarono la valle di campi militari. A Samar sorgeva uno degli accampamenti più grandi del Chusi Gangdruk.
Assieme a Pema, una donna il cui padre era stato assoldato a forza come portatore dai Khampa, salgo sino al luogo dove era stato allestito l’avamposto. «Da qui partiva il sentirnero che conduceva in Tibet» dice indicandomi col dito un leggero solco tracciato tra il pietrisco. «E là – continua portandomi in una grotta – c’era il quartier generale della guerriglia. A volte vedevo anche degli occidentali; seppi dopo che erano americani».
Il Congresso Usa stanziò 500 mila dollari all’anno per finanziare la rivolta, ricevendo in cambio documenti sottratti ai militari cinesi durante le incursioni. Fu grazie a uno di questi attacchi che la Casa Bianca ebbe la conferma dell’avvio della Rivoluzione culturale, del disastro causato dal «Grande balzo in avanti» e, cosa più importante, della crescente disaffezione di Mao verso Mosca.
Quando poi, all’inizio degli anni Settanta, Pechino e Washington cominciarono a riallacciare i rapporti, la Cia interruppe ogni ulteriore appoggio ai ribelli tibetani.
Senza più finanziamenti e consulenti, il Chusi Gangdruk si trasformò in una banda di predoni: ogni villaggio viveva nel terrore delle incursioni dei guerriglieri affamati. Neppure i monasteri vennero risparmiati: «Numerosi thangka e opere d’arte sono state trafugate per finanziare la guerriglia» mi dice l’abate del Jampa Lhakhang, il principale monastero di Lo Monthang.
Jigme Palbar Bista, Lo Gyelbu (re) della valle, afferma che «la guerriglia ha privato Lo Monthang di preziosi manufatti religiosi, ma ora stiamo cercando di riparare al danno con l’aiuto di studiosi e amici occidentali». Persino la sua biblioteca è stata saccheggiata di libri di scritture buddiste risalenti al 1425.
«La simpatia con cui avevamo accolto i Khampa si tramutò in odio e paura» mi dice Nyima Tsering, il padrone della locanda di Samar in cui alloggio. Lo stesso Dalai Lama afferma che «la guerriglia fu strumentalizzata dalla Cia, che abbandonò i Khampa nel periodo di maggior bisogno. È una triste pagina di storia per tutto il popolo tibetano. La rivolta armata ha causato molto più danno ai tibetani che ai cinesi».
Fu quindi con estremo sollievo degli abitanti che nel luglio 1974 la voce registrata del Dalai Lama, risuonò in tutte le basi del Chusi Gangdruk, invitando i militanti a deporre le armi. «Fu una delusione per tutti – ricorda a Dharamsala Hlasang Tsering, ex guerrigliero, poi divenuto presidente del Congresso dei giovani tibetani -. Potevamo accettare di essere abbandonati dalla Cia e dal mondo intero, ma non dal Dalai Lama. Furono molti che preferirono suicidarsi piuttosto che arrendersi». Altri decisero di trasgredire gli ordini del Dalai Lama, ma furono sterminati dall’esercito nepalese. I superstiti si rifugiarono in India, dove vivono tuttora nella consapevolezza che la loro lotta, biasimata e dimenticata da tutti, è stata inutile. E dannosa per lo stesso Tibet.
Piergiorgio Pescali