Dacci oggi il nostro barile quotidiano

La maledizione dell’«oro nero»

Sul pianeta Terra stiamo consumando più petrolio di quanto riusciamo a produe. E la tendenza è in forte aumento, perché Cina e India crescono rapidamente. Tutti gli stati cercano di garantirsi «riserve strategiche» per il futuro. L’Africa è l’ultima frontiera. Le sue potenzialità su nuovi giacimenti sono ancora elevate. Ma perché l’oro nero ha portato solo corruzione, guerre civili, povertà? E mai migliori condizioni di vita dei popoli africani? Se si riuscisse a bloccare la fuga delle rendite petrolifere non occorrerebbe più l’aiuto allo sviluppo. E l’Africa ci guarderebbe da eguali.

«L’Africa è all’alba di un nuovo boom petrolifero: il golfo di Guinea è diventato il nuovo terreno di gioco delle compagnie del petrolio. Queste prevedono di investirci tra i 30 e i 40 miliardi di dollari in dieci anni». Così il giornalista francese Xavier Harel, esperto di questioni africane e di petrolio, descrive il processo in corso nel suo libro – inchiesta Afrique, pillage à huis clos (Africa, saccheggio a porte chiuse). Processo  in forte accelerazione a causa della vertiginosa crescita dei prezzi del greggio sul mercato mondiale.
Il continente detiene tra l’8 e il 10% delle riserve mondiali del prezioso olio, contando tra 80 e 100 miliardi di barili di riserve già verificate. Dati confermati  dalle statistiche della British Petroleum (gigante inglese dell’energia), che segnala 117 miliardi di barili.
La zona più ricca è il Golfo di Guinea, dove  Nigeria, Angola, Guinea Equatoriale, Congo Brazzaville, Gabon e Camerun (nell’ordine) sono i maggiori produttori del continente. Ad eccezione del Sudan, grande produttore in Africa dell’Est (vedi box).

Sempre più in basso

Con la «paura» energetica, il prezzo del greggio è passato dai 70 dollari al barile del 2007 ai 135 di metà 2008 (vedi box). È diventato redditizio fare investimenti per perlustrazioni petrolifere là dove un tempo non lo era, o ancora, sfruttare il petrolio «non convenzionale», carissimo da estrarre.
Anche il miglioramento delle tecnologie ha permesso la ricerca su fondali marini fino (e oltre) i 3.000 metri di profondità. Si è passati dall’offshore (dall’inglese «costiero»), definito fino a 500 metri di profondità, all’«offshore profondo» (500 – 1.500 metri). Mentre ora si va verso l’«offshore ultra profondo» (1.500 – 3.000 metri).  Allo stesso modo si sta cercando petrolio in profondità anche nel deserto in Mali, Niger (dove un giacimento è stato trovato) e in Kenya, paesi che non ne hanno mai prodotto. In effetti, rispetto a quanto succede in altre zone del mondo, le mappe petrolifere dell’Africa si stanno ancora disegnando e c’è molto spazio per la scoperta di nuovi giacimenti. Quindi grandi e piccole compagnie (le cosiddette majors), sono tutte a caccia di permessi di «prospezione», anche in paesi ancora vergini.
Per questo motivo Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e infine anche la Cina, considerano oggi «strategico» il continente africano, che fino a 5-10 anni fa era trascurato. Interessa in particolare il Golfo di Guinea, dove vi moltiplicano gli investimenti.
Gli Usa consumano, ogni giorno, un quarto della produzione mondiale di greggio, oggi stimata a 87 milioni di barili quotidiani. Dai 19,5 milioni di barili inghiottiti ogni giorno passeranno a 25,5 milioni nel 2020. Allo stesso tempo la produzione nazionale scenderà da 8,5 a 7 milioni di barili. Già a partire dalla prima amministrazione Bush (2001) il petrolio diventa una priorità strategica per gli Usa, essendo sinonimo di indipendenza energetica.
La Cina ha un’economia in crescita di quasi il 10% annuo. Dal 2005 è il secondo consumatore mondiale di petrolio e il suo bisogno arriverà al 20% di quello prodotto sul pianeta nel 2010. Con la sua popolazione di un miliardo e 400 milioni di abitanti, il cui tenore di vita è in aumento, ha sempre più bisogno di energia. La sicurezza di riserve di petrolio a medio e lungo termine è dunque fondamentale. Obbligatorio buttarsi a capofitto nella ricerca di nuovi giacimenti e nello sfruttamento di quelli conosciuti nel continente, trascurato dal punto energetico fino a pochi anni fa.
Uno dei problemi dell’Africa sub sahariana è che non possiede le tecnologie e le possibilità di investimenti necessari per sfruttare i propri giacimenti di petrolio. Questo impone agli stati africani l’avvalersi di compagnie europee e statunitensi (e ultimamente cinesi). Fin qui nulla di così grave. Il problema è che grazie a personaggi senza scrupoli di varia nazionalità, dirigenti della majors, banchieri, intermediari, politici occidentali, venditori di armi e, non ultimi, i capi di stato africani, scatta il meccanismo del saccheggio o «evaporazione» dei soldi «pubblici» del petrolio africano. Saccheggio che assume dimensioni impensabili.

Quanto pesa sulle economie africane

I giacimenti africani sono (o potrebbero essere) generatori di un’enorme ricchezza per i rispettivi paesi. Le cifre in gioco fanno impallidire quelle dell’aiuto versate ogni anno dai paesi occidentali allo scopo di «sviluppare» l’Africa. Una stima dell’Unione africana parla di 148 miliardi di dollari che annualmente «lasciano» illegalmente l’Africa, per essere depositati su banche europee o nei paradisi fiscali. Illegalmente, perché si tratta di fondi pubblici, che dovrebbero essere acquisiti dal Tesoro.
Questa cifra approssimata per difetto va confrontata con 25 miliardi di dollari ricevuti ogni anno come aiuti dai paesi africani. Le élite di questi paesi avrebbero su conti privati esteri tra i 700 e gli 800 miliardi di dollari di denaro pubblico. Conti spesso protetti e alimentati in modo non «tracciabile». Xavier Harel sostiene che: «La fuga di capitali è uno dei principali ostacoli al decollo dell’Africa».
In Nigeria le entrate dell’oro nero costituiscono il 98% di tutte le ricette in valuta e in Angola il 90%.
Facendo le proiezioni sulle produzioni dei giacimenti già sfruttati (escludendo quindi le future scoperte) di sette paesi dell’Africa dell’Ovest (Nigeria, Angola, Congo, Guinea Equatoriale, Gabon, Ciad e Camerun), il Pfc Energy, ufficio studi statunitense, ha valutato le somme generate dal petrolio tra il 2002 e il 2019 intorno ai 183 miliardi di dollari, che vanno dai 110 miliardi per la Nigeria ai 2 miliardi per il Ciad. Piccola precisazione: i conti sono fatti con un costo del barile a 22,50 dollari!

Povertà, guerre civili e instabilità politica

Ma cosa portano, nella realtà, le rendite petrolifere in Africa? A sud del Sahara il petrolio sembra fare rima con povertà, corruzione, instabilità politica e guerre civili.
Con una certa sorpresa scopriamo che i paesi africani produttori di petrolio sono agli ultimi posti della classifica rispetto all’Indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite. Nigeria e Angola, i maggiori produttori del continente, figurano addirittura tra gli ultimi della classe, nella zona definita a «basso sviluppo umano» (158.ma la prima e 162.ma la seconda). La Guinea Equatoriale occupa il 127° posto (grazie al basso peso demografico), il Congo il 139°, mentre il Camerun è 144° e il Sudan 147°, fino al Ciad al 170° posto su 177 paesi classificati. Nessuno si salva.
Un altro aspetto devastante è che questi paesi hanno tutti un enorme debito estero. Questo è dovuto al fatto che i vari capi di stato hanno chiesto sempre maggiori prestiti alle istituzioni inteazionali, garantendo con le riserve petrolifere dei loro paesi.
Non lascia ombra di dubbio il rapporto d’informazione della commissione Affari esteri del parlamento francese su «Il ruolo delle compagnie petrolifere nella politica internazionale e il suo impatto sociale e ambientale», citato da Harel nel suo libro. «In Africa, la manna petrolifera non ha aiutato lo sviluppo, i capi di stato l’hanno utilizzata per comprare armi in Angola e in Congo – Brazzaville, in Gabon, in Camerun, in Nigeria. Non si riesce a scoprire dove sia andata la rendita dovuta al petrolio, perché il debito aumenta, le popolazioni sono impoverite e le infrastrutture sono in uno stato deplorevole. Mantenere al potere delle dittature, corruzione, violenza larvata, attentati ai diritti umani e all’ambiente; questo è il bilancio, poco glorioso, dello sfruttamento petrolifero in tutta l’Africa».
L’Angola che – dicono gli esperti – avrebbe superato la Nigeria come produzione nel mese di aprile, è uno dei paesi più corrotti del mondo (secondo la classifica annuale dell’Ong Trasparency Inteational occupa il 147mo posto su 179), ha le infrastrutture ai minimi termini e le condizioni di vita dei suoi abitanti sono a livelli bassissimi (speranza di vita a 42 anni, mortalità infantile entro i 5 anni di 260 su 1.000 nati vivi, tre bambini su dieci sotto i 5 anni malnutriti, ecc.). Ma sempre l’Angola mostra negli ultimi anni una crescita economica record: 18,6% nel 2006, con proiezioni della Banca mondiale al 25%!
Racconta Harel a MC: «È un paese che ha il reddito petrolifero che è completamente esploso. Era a 1 milione di barili tre anni fa. In Angola c’è un boom economico non indifferente. Non che i soldi siano ben gestiti. Ce ne sono tantissimi, che potrebbe essere come un paese del Golfo (Persico, ndr), invece non esistono ricadute sulla popolazione. È un Brasile in peggio. Una piccola élite immensamente ricca e gli altri nelle bidonville a perdita d’occhio».
Senza contare che con i soldi del petrolio José Eduardo dos Santos e Jonas Savimbi, i due rivali della guerra civile, hanno pagato armi per tre decenni.
Molte altre sono le guerre civili alimentate dai soldi del petrolio: in Repubblica del Congo, Sudan, Ciad. E ancora l’instabilità politica generata in Nigeria, Guinea Equatoriale.

Corruzione? Sì grazie

«Le compagnie hanno bisogno di rinnovare le loro riserve, ovvero scoprire nuovi giacimenti e metterli in produzione. Per questo devono lavorare in un certo numero di stati, e ottenere i permessi. Normalmente ci sono delle aste, ma bisogna dire che spesso non funziona così, e che se si vuole essere “ben piazzati” occorre “accordarsi” con il regime del paese». Ci ricorda Xavier Harel. Da qui mazzette colossali, fondi occulti versati su conti svizzeri o nei paradisi fiscali, con triangolazioni tali da far perdere ogni traccia.
Ma non basta. La fuga di capitale pubblico si realizza anche dotandosi di compagnie di intermediazione. In Congo ad esempio Denis Gokana, un alto dirigente della Snpc (Società nazionale del petrolio del Congo, impresa di stato per la commercializzazione del petrolio), vendendo a prezzi ribassati a una società d’intermediazione (di cui è il principale azionista), la quale poi rivende il greggio a prezzi di mercato, riesce a incassare una commissione di 3,3 milioni di dollari per carico. Il meccanismo è stato ripetuto almeno per 45 carichi. E tutto con la benedizione del presidente Denis Sassou Nguessu, che di Gokana è padrino e creatore.
Senza contare i famosi «carichi fantasma» intere navi cisterna che lasciano il porto di Pointe Noire, sfuggendo a ogni contabilità ufficiale, per essere spartiti tra pochi eletti.

Di sangue e di petrolio

Un altro caso scuola sono i soldi rubati allo stato nigeriano dal dittatore Sani Abacha. Alla sua morte nel 1998 il nuovo governo indaga e tenta di recuperare il denaro pubblico. Il sanguinario Abacha ritirava i soldi in contanti dalla banca centrale della Nigeria, per poi versarli su altri conti nazionali o in società offshore (società basate nei paradisi fiscali, dove per legge, non è possibile risalire ai nomi degli azionisti).
In seguito i soldi transitavano verso conti in Svizzera, Gran Bretagna, Lussemburgo, Francia, Bahamas a nome di sua moglie, suo figlio o un suo consigliere della sicurezza. La stima è di 3 – 4 miliardi di dollari rubati tra il 1993 e il ’98 di cui 2,2 sono stati rintracciati e in parte restituiti allo stato nigeriano.  L’aspetto buffo è che i soldi recuperati non risultano generati da rendite petrolifere, per un paese dove il petrolio rappresenta il 98% delle esportazioni. «Il sistema messo in piedi dalle compagnie petrolifere è talmente ben rodato, che è diventato impossibile tracciare le mance o altre commissioni accordate dalle compagnie ai regimi indelicati» dichiara Enrico Monfrini, avvocato svizzero incaricato dalla Nigeria di recuperare il soldi presi da Abacha. E la Cina? «È il principio dello scambio: i cinesi costruiscono strade, dighe, aeroporti, contro concessioni di esplorazione e sfruttamento petrolifero – ricorda Xavier Harel -. Non sono più trasparenti che europei e nordamericani, usano le stesse pratiche.  Ancora più opache, perché quando si fa del baratto si possono ancora di più falsare i prezzi, valorizzando i barili di petrolio come si vuole. Costruisco una diga per 1 milione di barili. Se li valorizzano a 50 dollari al barile, poi ne versano 10 su un conto in Svizzera, nessuno riuscirà a verificarlo. Le manipolazioni sono ancora peggiori, perché le possibilità di controllo sono più deboli». 
I cinesi sono affamati di riserve energetiche e per questo pagano molto di più delle grandi compagnie come ExxonMobil e Total (MC, dicembre 2007).  E questa concorrenza favorisce i capi di stato e facilita la corruzione.

Deboli segnali di cambiamento

In Ciad la Banca mondiale (Bm) ha cercato di fare un esperimento interessante. Scoperto il petrolio occorreva costruire le infrastrutture e anche un oleodotto di 1.070 km che attraversasse tutto il Camerun fino al Golfo di Guinea. La Bm è stata chiamata in causa dalle compagnie petrolifere come garante (e finanziatore). Ha imposto al Ciad che l’85% dei redditi da petrolio fossero destinati a cinque settori prioritari per il paese: salute, educazione, sviluppo rurale, infrastrutture, acqua; il 5% fosse investito nella regione di estrazione (Doba, nel sud del paese) e il 10% depositato su un conto «per le generazioni future».  Un collegio di sorveglianza è incaricato di verificare la buona gestione di queste risorse. Ma la crisi intea (vedi MC aprile 2008) e i difficili rapporti con il Sudan, hanno spinto il presidente Idriss Deby a dirottare parte delle rendite petrolifere nell’acquisto di armi, allo scopo di «garantire la sicurezza dello stato». Non tutto è perduto, occorre tenere il meccanismo sotto controllo.
Un altro tentativo per ridurre il saccheggio è stata l’«Iniziativa per la trasparenza dell’industria estrattiva» (Eiti), un’idea lanciata da Tony Blair al G8 di Johannesburg nel 2002. Vorrebbe rendere trasparenti i pagamenti delle compagnie petrolifere ai paesi in cui esse estraggono, con l’obiettivo finale di ridurre il livello di corruzione. Molti stati vi antepongono la questione di «confidenzialità» sugli affari.
Il meccanismo consiste nell’avere un auditor indipendente che certifica tutti i versamenti delle compagnie al governo del paese di estrazione. Questi dati sarebbero pubblicati e confrontandoli con il bilancio dello stato, un qualunque cittadino potrebbe facilmente identificare i casi di appropriamento illecito.
Nel 2003 sette paesi aderirono all’Eiti, ma nessuno ha ancora pubblicato i dati.  Xavier Harel la definisce: «Una falsa buona idea che permette al G8 di affermare che si occupa del problema, mantenendo però lo status quo». «Non credo molto nell’iniziativa Eiti – ci racconta il giornalista –  perché funziona su base volontaria. In cinque anni non ha permesso di produrre statistiche affidabili sulle rendite petrolifere dei paesi produttori. Con l’eccezione dell’Azerbaigian».
I paesi aderiscono all’iniziativa, ma poi non pubblicano i dati, non c’è un avanzamento. A maggior ragione con l’impennata dei prezzi del barile, e quindi dei possibili guadagni, anche illeciti, nei prossimi anni.

Spunta la società civile

«L’importante è che c’è una pressione sempre maggiore della società civile, che inizia a portare qualche frutto». Xavier Harel si riferisce alla campagna internazionale «Pagate quello che pubblicate» lanciata da un centinaio di Ong, prima fra tutte la britannica Global Witness.
La campagna punta a obbligare le compagnie estrattive basate in Europa e Stati Uniti (petrolio e minerali) a pubblicare quanto versano agli stati produttori. Global Witness ha pubblicato interessanti e approfonditi rapporti sui legami tra petrolio, corruzione, povertà e conflitti in diversi paesi africani. 
Una piccola modifica giuridica nei paesi di origine delle majors, porterebbe enormi benefici alle popolazioni dei paesi esportatori. «C’è una recente proposta di legge al congresso americano (il parlamento Usa, ndr) che vorrebbe costringere tutte le compagnie estrattive, comprese quelle del petrolio, a rendere pubblici i dati sui soldi versati a paesi esteri superiori a 100.000 dollari. È il primo vero risultato del lobbing della società civile. Un primo passo enorme se si realizzasse».
Diventando legge negli Usa, le compagnie americane, per non essere svantaggiate rispetto alle colleghe europee, farebbero in modo che fosse integrata come convenzione all’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico).  È quanto è successo per la legge anticorruzione. In questo modo diventerebbe valida per tutte le compagnie occidentali.
Non è una proposta del governo ma del congresso. Il senatore che l’ha presentata dice che ci vorranno magari anni per farla passare.
«È comunque un fatto che la gente inizia a prendere coscienza del problema dell’opacità di queste transazioni e di tutte le conseguenze. La pressione della società civile e dei media fa poco a poco andare avanti le cose».
Secondo Joseph Stiglitz, economista premio Nobel, già alto funzionario della Banca mondiale: «I paesi industrializzati possono aiutare a garantire la trasparenza con una semplice misura: autorizzare le deduzioni fiscali solo per le royalities e gli altri pagamenti ai governi stranieri se la compagnia rivela totalmente quello che ha pagato e il volume delle risorse naturali estratte».
Stiglitz scrive nel suo ultimo libro La Globalizzazione che funziona: «Quello di cui questi paesi (ricchi in materie prime, ndr) hanno bisogno, non è un sostegno finanziario esterno maggiore, ma essere aiutati per ottenere il massimo valore dalle loro risorse e per spendere bene i soldi ricevuti».
Se il reddito delle materie prime che l’Africa esporta, delle quali il petrolio è in assoluto quella che rende di più, andasse sui conti degli stati e non su quelli senza nome nei paradisi fiscali, se questo denaro fosse reinvestito per sviluppare l’economia dei paesi produttori, migliorae le infrastrutture, la salute, l’educazione, i paesi africani avrebbero abbastanza risorse senza dover chiedere aiuti pubblici ai paesi industrializzati, che sono gli stessi a fare man bassa delle loro risorse naturali. 

Di Marco Bello


L’impennata del prezzo del petrolio

CARO BARILE, MA QUANTO MI COSTI

In pochi mesi il prezzo del barile di petrolio (unità di misura pari a 159 litri) è schizzato da 70 dollari a 135 (nel momento in cui scriviamo). E ce ne accorgiamo subito quando andiamo a fare il pieno di carburante. Ma l’aumento incide su tutti i trasporti e quindi sui generi trasportati. Il prezzo del barile trascina quindi con sé il costo di tutto quello che consumiamo nel quotidiano.
Ma si tratta del prezzo reale del greggio? Quali sono i meccanismi che hanno portato a questa crescita improvvisa? Ce lo spiega Xavier Harel, giornalista esperto in questioni petrolifere e africane.

«L’aumento del costo del petrolio è il risultato di una domanda che cresce molto rapidamente da parte dei paesi emergenti, soprattutto Cina e India, ma anche Medio Oriente e paesi del Golfo. Crescita combinata con una produzione che ha difficoltà a seguire. Questo crea una forte tensione tra la domanda e l’offerta su tutta la filiera petrolifera.
Ci sono 1,4 miliardi di cinesi con 16 automobili ogni 1.000 abitanti (quando negli Usa si parla di 812 e in Italia di 588). Ma il loro livello di vita è in aumento, si compreranno la macchina e inizieranno a consumare carburante. Quando si parla del 20% della popolazione mondiale, l’impatto sul consumo di petrolio è considerevole.
Alla fine degli anni ‘90 i paesi Opec (Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) avevano una capacità di produzione non utilizzata dell’ordine di 10-12 milioni di barili al giorno. Questo vuol dire avere impianti pronti e funzionanti che aprendo un po’ di più il rubinetto potevano aggiungere sul mercato queste quantità. Oggi se gli stessi paesi decidono di aprire si aggiungono solo 2-3 milioni di barili al giorno. Si dice che il mercato è in “fuga”.

Secondo problema: le grandi compagnie petrolifere private producono solo il 15% del greggio e i paesi produttori non hanno necessariamente voglia di investire nella produzione.
Recentemente c’è stata una dichiarazione del re dell’Arabia Saudita Abdoullah il quale non vuole mettere in produzione nuovi giacimenti, perché li vuole conservare per le generazioni future.
La domanda mondiale è di circa 87 milioni di barili al giorno, e l’Arabia (che ha le più grandi riserve del mondo) ne produce 11 milioni e non vuole mettee di supplementari. Subito dopo viene la Russia, con quasi 9 milioni, ma la sua produzione sta diminuendo. Poi il Messico che è un grande esportatore, ma la sua produzione diminuisce molto rapidamente. In Venezuela la produzione stagna.
Per i più grossi produttori, i grandi giacimenti stanno andando verso l’esaurimento e la diminuzione di produzione è rapida. Questo crea un’inquietudine sul mercato, per i prossimi 2, 3, 5 anni.

Questione di riserve? Non è solo una questione di riserve, ma anche di estrazione. Si sta cercando del petrolio “non convenzionale”, come le sabbie bituminose (Canada) e petrolio extra pesante (Venezuela). L’estrazione è estremamente cara, ma oggi è diventata redditizia.
Se si considerano le riserve del petrolio extra pesante il maggior produttore al mondo diventa il Venezuela.
I giacimenti sono colossali. Ma la questione è metterli in produzione. E i paesi ricchi di petrolio non convenzionale decidono di gestire loro le proprie ricchezze. Ad esempio il Venezuela non investe massicciamente nell’estrazione ma preferisce tenere il petrolio per il futuro.

C’è anche della speculazione che è la punta dell’iceberg. Il petrolio viene venduto in anticipo. Gli industriali acquistano i diritti di avere petrolio a 5 anni (ma anche a tre mesi). Il padrone di una raffineria ha bisogno di essere sicuro che gli consegneranno petrolio in modo continuo, per poter produrre la benzina. Quindi acquista sul mercato un diritto che garantisce che in un mese gli daranno del petrolio a 130 dollari. Ma può anche acquistare un diritto a 5 anni. Oggi si sta vendendo il petrolio del 2016. In questo caso c’è speculazione nel senso che esistono fondi di investimento che fanno delle scom­messe, ma alla fine si arriva a un contratto d’acquisto di petrolio fisico.
La speculazione può funzionare un momento, può amplificare il prezzo. Ma se il petrolio è così caro oggi è perché c’è un vero problema».

(a cura di Marco Bello)

PAESI (SUB SAHARIANI) PRODUTTORI

Quattordici paesi produttori di cui 10 esportatori. Ecco i principali.

Nigeria – Capacità di produzione media 2,5-2,6 milioni di barili al giorno nel 2005, primo produttore africano sesto esportatore mondiale. È  sceso a 1,8 milioni di barili al giorno nel 2006 a causa delle violenze nel delta (vedi MC febbraio 2007). Il 98% delle sue entrate sono dovute al petrolio. Più della metà è prodotto da Shell. Il petrolio del delta del fiume Niger è di ottima
qualità.

Angola – Produzione media circa 2 milioni di barili al giorno. La metà è estratto dalla Cina. Sta vivendo un vero boom economico con crescite del Pil intorno al 20%. Ma i soldi vanno in infrastrutture e nelle tasche di pochissimi. La gente è sempre più povera.

Guinea Equatoriale – Produzione si avvicina ai 400.000 barili al giorno, in forte crescita negli ultimi anni. Sfruttamento totale da parte di compagnie statunitensi, ma ora stanno entrando i cinesi. La famiglia del presidente Teodoro Obiang Nguema gestisce tutta la ricchezza del petrolio.

Sudan – Verso i 500.000 barili al giorno. Primo fornitore della Cina.

Repubblica del Congo (Congo Brazzaville) – 260.000 barili al giorno. Nuovi giacimenti di petrolio «non convenzionale» del tipo sabbie bituminose scoperti da Eni (2008) che ne ottiene la concessione.

Gabon – Produzione di circa 250.000 barili al giorno. La produzione in decrescita per esaurimento riserve. Primo paese sfruttato in Africa dalla fine degli anni ’50.

Camerun – Produzione di circa 63.000 barili, in stallo e verso la diminuzione.

Costa d’Avorio – Produzione di 50.000 barili al giorno va verso i 100.000 e le rendite del petrolio hanno già superato quelle di cacao e caffè. Sfruttata da compagnie statunitensi, nell’assenza di trasparenza totale.

Ciad – Produzione di 160.000 barili al giorno.

Mauritania – Giacimenti in via di sfruttamento.

Sao Tomé e principe – Scoperti giacimenti, subito sopo il colpo di stato (2003). Non ancora sfruttati.

Senegal – Riserve provate.

Niger – Giacimento trovato nel 2005.

Uganda – Giacimento trovato.

Praticamente in tutti i paesi africani si stanno facendo ricerche di greggio.

Qualche dato su cui riflettere

Consumi

Domanda mondiale
di petrolio
87 milioni
di barili al giorno

Consumo medio
giornaliero Usa
(il più alto del mondo)
 20 milioni
di barili, in crescita

Consumo medio
giornaliero Cina 
circa 17 milioni,
è in forte crescita

Produttori

Arabia Saudita è il primo produttore mondiale
(petrolio convenzionale)
11 milioni
di barili pompati ogni giorno

La Russia è il secondo con
9 milioni
di barili

L’Africa produce oggi circa
9,9 milioni
di barili al giorno
 (di cui 4,7 in Africa Occidentale,
Elevabile a 6 milioni
al giorno con
investimenti adeguati)

Le riserve provate dell’Africa sono
da 80 a 100 miliardi
di barili
(10% delle riserve
mondiali),
ma molto resta da scoprire

Marco Bello

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