Avanti, c’è posto … (ma non per tutti)

Un paese in cammino verso la modeità

Toando in India a distanza di 10 anni non si può non notare i profondi cambiamenti avvenuti, soprattutto nelle grandi città. Industrializzazione e turismo creano sviluppo e ricchezza, ma non per tutti, specialmente nelle campagne, dove sembra che il tempo si sia fermato.

S orridente e impeccabile nella sua camicia bianca, il giovane Raj Koli ci accoglie all’arrivo in aeroporto e ci accompagna in auto attraverso una Mumbai che trovo molto cambiata dalla mia ultima visita: molti edifici modei, case restaurate, arterie sopraelevate e un notevole traffico di auto private.
È notte, ma per qualcuno il lavoro continua. Ragazze in motorino, avvolte in scialli, stanno ritornando a casa dal lavoro nei call centers. «Nessun problema, questa è una città tranquilla, sicura per le donne» assicura Raj. Allineati sui marciapiedi vedo figure dormienti avvolte in teli, prova che il benessere raggiunto dall’India non ha toccato tutti.
Costeggiando Mahim Bay noto che sono scomparse le capanne dei koli, gli antichi abitanti di Bombay. Chiedo a Raj se vi sia relazione con il suo cognome. «Certamente, mio padre e tutti i miei antenati erano pescatori e vivevano sul mare, sull’isola di Colaba – spiega Raj -. Da bambino ho imparato a pescare; poi sono andato a scuola e ho potuto frequentare il college». Qualche anno fa il governo ha ripulito le spiagge, fatto togliere le capanne e trasferito tutte le famiglie koli in abitazioni modee.
«Ho quasi 25 anni e i miei mi a-vrebbero trovato moglie, come da tradizione; ma voglio aspettare almeno i trenta e farmi prima una posizione» continua iI ragazzo, che mostra di avere idee chiare.
Ricordo la visita che feci 10 anni fa a Sassoon Docks, il porto peschereccio sull’estrema punta dell’isola di Colaba. All’alba le pescivendole, sedute su grandi cesti di giunco, aspettavano l’arrivo dei battelli, mentre le donne koli camminavano fiere sui moli, nei costumi tribali ricchi di colore e specchietti. Avevano il diritto di vivere sul mare che circonda Mumbai, ora abitano come Raj case dotate di acqua ed elettricità, ma raggiungibili in due ore di treno.
Il giorno dopo mi rendo conto che l’atmosfera è cambiata nella vecchia Bombay: una fiera d’arte contemporanea è aperta accanto al museo archeologico. Qui si possono vedere ragazze con il cellulare, che vestono in jeans e frequentano locali alla moda, tra i quali un paio di gelaterie italiane.
Amy, Rashna e Aban sono tre dame che incontro sulla soglia di casa, un condominio sul lungomare che conduce alla Gate of India. Le saluto, mi fermo a chiacchierare, poi chiedo: «Siete parsi?». Stupite, annuiscono e scoppiano a ridere quando rispondo alla loro curiosità, spiegando che la pelle chiara e il profilo del naso non potevano che essere parsi.
«Siamo 65 mila a Bombay, ma in questi giorni siamo molti di più: è stagione di matrimoni e riceviamo le visite della diaspora. Dall’America, dall’Australia, da ogni dove arrivano e si fermano presso amici e parenti». Nel quartiere vi sono alcuni dei 9 grandi complessi di appartamenti parsi esistenti a Mumbai, chiusi e controllati da una guardia. Vedove, anziani e famiglie vi abitano e si sentono protetti.
Questa metropoli cosmopolita mi affascina anche per la sua ricchezza culturale e la possibilità di venire a contatto con gente di diversa estrazione e cultura.

HYDERABAD
Partiamo dal moderno terminal nazionale con un aereo della Jettlite, una delle nuove compagnie indiane, diretti a sud, nel cuore del subcontinente. Sorvoliamo un territorio aspro e scuro, segnato da fratture drammatiche, dighe e laghi artificiali, oggi oggetto di polemiche e ripensamenti, a causa delle conseguenze negative sull’ambiente e sulle popolazioni.
Hyderabad è estesissima; su una superficie di 170 kmq gli abitanti sono saliti in pochi anni a 5 milioni. Nel centro congestionato dal traffico è difficile camminare: non vi sono marciapiedi e il nuovo tecnologico convive con la vecchia India di accattoni, mucche, carretti e moto.
La città si è ampliata a ovest, nei nuovi quartieri di Cyber City, dove sono sorti alti edifici avveniristici, tuttora circondati da cantieri e lembi di campagna in cui pascolano le pecore. Sui quotidiani si vedono pubblicità che ricordano l’America: qui come a Mumbai si offrono case di lusso con aria condizionata e campi da golf, nonostante l’allarme sul futuro incerto per quanto riguarda l’energia e l’acqua.

GULBARGA

L’autista che ci guida in questo viaggio verso lo stato del Kaataka si chiama Shankar, è indù e sovente si ferma per donare offerte ai templi. Robusto, dalla pelle scura e dall’in-glese incerto, mi parla con orgoglio della sua famiglia. La moglie è un’in-segnante che ha lasciato il lavoro per curare i due figli. «Voglio che i ragazzi abbiano una buona educazione e li ho iscritti in una scuola privata». Poi li chiama al cellulare e me li passa, per farmi sentire l’ottima pronuncia della lingua inglese.
A Gulbarga, una delle città del nostro itinerario, ricche di preziose architetture islamiche, non vi sono solo moschee, santuari e fortezze, ma anche ottime facoltà universitarie.
Ceniamo nella family room dell’albergo, riservata alle donne e alle famiglie. Un gruppo di studentesse di farmacia mi circonda con curiosità. Anitra e Prathisha vengono dal Kera-la e vivono in ostello con le compagne Sindhu e Prachi provenienti da Hyderabad. Tutte hanno intenzione di conseguire una specializzazione all’estero, magari in Australia o in Inghilterra. Sono ragazze forti e decise, indù e musulmane, ma non si nota differenza nel comportamento.

BIJAPUR
Bijapur è una città dalla storia interessante. Capitale di un grande regno indù, venne conquistata dai sultani di Delhi, che la arricchirono di monumenti straordinari. Tra palazzi modei, moschee ed edifici antichi in pietra scura, incontro anche una chiesa cristiana dedicata a tutti i santi, come testimonia la scritta: «All Saints Catholic Church».
Non lontano, in un viale alberato, sorge la piccola chiesa di sant’Anna, dove incontro alcuni gesuiti e giovani studenti universitari che si preparano al sacerdozio. Vengono quasi tutti dal Kerala, hanno un viso aperto e sorridente; oltre allo studio, sono impegnati su vari fronti: Arun lavora negli slums della città. Sono 90 quelli non riconosciuti dal governo, per cui sono privi di elettricità, ricevono rifoimenti d’acqua ogni 8 giorni.
A Bijapur e dintorni, mi spiega padre Teyol, vi sono cinque gesuiti impegnati in varie opere a beneficio dei più poveri: gestiscono una scuola che ospita 480 ragazzi degli slums, dal 1°all’8° grado; vicino all’o-spedale islamico hanno aperto il centro di cura per l’Hiv, che colpisce duramente la popolazione, anche a causa di carenze alimentari, mancanza di igiene e prevenzione. Diverse congregazioni di suore sono presenti nella provincia e, in particolare, a MudoI, città distante 80 km, dove si occupano di circa 4 mila disabili.
La sera sono invitata a cena nella casa dei gesuiti, che ospita anche 45 bimbi orfani. Dopo la cena a base di riso e curry e servita dagli stessi bambini a tuo, mi chiedono di intonare un canto del mio paese.

IL DECCAN
Per un breve tratto percorriamo la strada che collega Mumbai a Bangalore, dove il traffico è pesante, di soli camion. Proseguiamo su strade secondarie attraverso una campagna ben coltivata, dove la vita ha ritmi ancestrali. I contadini hanno steso il raccolto di sorgo e ceci sull’asfalto, perché vengano sgranati dalle ruote dei veicoli, per poi ripulirli dalla pula con i setacci e folate di vento. I carri sono trainati da buoi dalle lunga coa, dipinte in colore azzurro o rosso; lungo i fiumi e ai lavatorni le lavandaie usano le pietre come un tempo.
I siti archeologici che incontriamo in questo vasto altopiano sono numerosi e importanti per la storia del-l’arte indiana. Il triangolo d’oro, formato da Aiole, Badami e Pattadakal, conserva i preziosi templi di tre importanti fasi dell’architettura indù, dal v al ix secolo d.C. Numerose sono le classi scolastiche in visita, istituti d’arte e licei, provenienti da città molto lontane. Tutti amano farsi fotografare insieme a noi o fotografarci, chi possiede una fotocamera.
Hampi è un luogo magico. I resti di un antico regno indù sono sparsi in una vasta zona, attraversata da un fiume e punteggiata da grandi massi di granito. Monumenti, palazzi, templi, lunghi colonnati dei mercati sono sopravvissuti al tempo e alla distruzione portata dai sultani islamici. Restano anche le antiche canalizzazioni utilizzate per l’agricoltura, ma ridotte a oggetto archeologico, da quando è stata costruita una nuova diga, il cui vasto invaso ha provocato un’eorme quantità di zanzare che oggi infesta tutto il territorio.
A 25 km dal sito archeologico vi è un’acciaieria che assorbe grande quantità di energia e ha richiamato migliaia di persone, un tempo semplici contadini, per lavorare in questa industria. Fa parte della Jsw (Jindal South West), una compagnia che appartiene a uno dei magnati indiani, tra i primi nella lista dei ricchi della terra, come mi ha raccontato il vice direttore dell’acciaieria, signor Ugale, incontrato insieme alla sua famiglia in un ristorante dove ci eravamo fermati per il pranzo.

NAGA
«Mi chiamo Naga, come il serpente sacro, e dovrei avere 33 o 34 anni. Allora le nascite non venivano registrate – racconta la nostra guida mentre percorriamo l’area archeologica di Hampi -. Ho sofferto la fame da bambino; i miei erano molto poveri, della casta dei shudra, agricoltori. La mamma raccoglieva la legna in fascine, le caricava sul capo e andava a venderle, ma non sempre riusciva a comprare cibo per sfamarci».
Donne con fascine sulla testa se ne vedono ancora lungo le strade del Kaataka. Scalze, con anelli alle caviglie, vesti leggere dai colori vivi, il viso avvizzito dalla fatica e dal sole, a volte ricoperto dai monili tribali.
Da quando il sito archeologico di Hampi è stato dichiarato patrimonio dell’umanità, è aumentato il turismo culturale e Naga guadagna bene. «Ho studiato – continua Naga -. Sono entrato all’università con le quote riservate alle caste più basse. Dopo un anno di legge, ho conseguito il diploma di guida turistica e mi sono messo a lavorare. I miei mi hanno trovato una brava moglie che mi ha dato un bimbo, che ora ha 4 anni. L’abbiamo chiamato Ganesh, come l’elefantino figlio di Shiva, un nome che porta fortuna».
Naga vuole dare una buona educazione al figlio, che frequenta una scuola matea privata. Ora si sente forte e orgoglioso di mantenere tutta la famiglia, i nonni e perfino i due fratelli fannulloni, che non hanno voluto studiare.
Gli incontri con questi piccoli indiani, dalla pelle scura e gli occhi vivaci, ammirevoli per l’impegno e la determinazione, mi aiutano a capire il loro paese, che si sta evolvendo pur nelle contraddizioni di situazioni molto diverse.
Naga ha superato una doppia tragedia l’anno scorso. Dopo aver contribuito coi suoi risparmi alla dote di una nipote, figlia di quel perdigiorno del fratello maggiore, suo padre si è ammalato ed è rimasto paralizzato. La giovane moglie, costretta ai lavori pesanti di casa e di assistenza al nonno, ha perso la secondogenita, nata prematura.

GOA
II caldo, i colori, la polvere, il traffico, la povertà: l’India non lascia mai indifferente, quando si percorrono le sue strade in un viaggio che coinvolge profondamente anche l’anima.
Sono stanca di viaggiare in pullman. Lascio l’altipiano del Deccan con un comodo treno che da Hospet mi porta a Goa, attraverso la foresta tropicale, paragonata al bacino delle Amazzoni per ricchezza di biodiversità. La vista di tanto verde e cascate ricche d’acqua che scendono verso il Mar Arabico, è inusuale in India, paese profondamente segnato dal lavoro dell’uomo.
Goa è il più piccolo stato indiano (3 mila kmq), ma con il migliore tenore di vita per tutti i suoi abitanti, grazie alle miniere di ferro, le industrie di tecnologia avanzata, le buone scuole e, soprattutto, iI turismo. Sono diversi milioni i turisti occidentali che arrivano in inverno per godersi il sole e le splendide spiagge del piccolo stato indiano. È impressionante lo sviluppo dell’attività, dovuto alle esigenze di nuovi alberghi e alle richieste di seconde case da parte della nuova classe borghese indiana. Alcune zone sono già state rovinate dalla speculazione. Ma basta allontanarsi dalla costa per ritrovare il fascino delle antiche chiese, costruite nei secoli dai portoghesi.
Goa è una regione ricca di storia, che affonda le radici nel 3° secolo a.C., quando faceva parte dell’impero dei Maurya, per poi passare sotto il dominio dei regni indù dell’altipiano del Deccan. Nel 1312 fu occupata dal sultanato di Delhi; ma fu riconquistata nel 1370 dal re Harihara e per un secolo fece parte del grande impero indù di Vijayanagar, finché ricadde nuovamente sotto il dominio islamico, prima del sultano di Gulbarga, poi di quello di Bijapur, che ne fece la capitale del suo dominio. In fine Goa fu conquistata da Alfonso di Albuquerque (1510), che gettò le basi di quella che doveva diventare la splendida capitale della più importante colonia portoghese del subcontinente, centro di controllo per il traffico delle spezie che giungevano dall’Oriente e della diffusione della religione cristiana in tutto il continente asiatico.
La presenza portoghese durò per quattro secoli e mezzo. Quando infatti l’India si rese indipendente dal dominio inglese (1947), i portoghesi non vollero cedere la loro colonia e resistettero fino al 1961, quando furono cacciati dall’esercito indiano e Goa diventò (1987) il 25° stato della federazione indiana, il più piccolo e il più ricco.
Oggi, dell’inquieta storia dei secoli in cui indù e islamici alternarono su Goa il loro potere non rimane alcuna traccia; mentre abbondano gli edifici storici, cupole e campanili, che svettano tra gli alberi secolari che avvolgono la Vehla Goa.
Fa un certo effetto visitare la cattedrale, la chiesa di San Francesco, la basilica del Bom Jesus, dove i gesuiti custodiscono le spoglie di san Francesco Saverio, il grande missionario che portò il vangelo in Estremo Oriente. Rimango ancora più stupita nel vedere i numerosi drappelli di fedeli in preghiera, che a tutte le ore riempiono le cappelle ricche di decorazioni.

Il mio viaggio si conclude sul colle in cui sorge la piccola chiesa di Nostra Signora della Carità. Il sole sta tramontando nel Mar Arabico e lo sguardo spazia sulla densa foresta tropicale che nasconde case e mercati, segnata da fiumi e canali, percorsi da lunghe navi arrugginite, cariche di minerali. 

Di Claudia Caramanti

Claudia Caramanti