Il pane della crisi

Analisi della situazione (1)

Il libero mercato, l’ingegneria finanziaria, la speculazione: il sistema economico è alle corde. O forse sull’orlo del baratro. Ma a pagare non sono i colpevoli, ma le vittime, quelle stesse che un’abile campagna mediatica e politica avevano convinto a credere nell’infallibilità del sistema, l’unico possibile per il progresso e lo sviluppo.

Quando il Fondo monetario internazionale valuta in quasi 1.000 miliardi di dollari le perdite  finanziarie è chiaro che qualcosa, nell’economia mondiale, non va.
La crisi è stata scatenata al tracollo dei mutui subprime: si tratta di mutui per l’acquisto della casa concessi dalle banche statunitensi anche a chi non poteva permetterseli, ovvero con un rischio altissimo di sofferenza. Solo che poi le banche statunitensi hanno rivenduto i mutui subprime, e con essi il loro essere estremamente rischiosi, sui mercati inteazionali finanziari. Come era prevedibile, tantissime famiglie non sono state in grado di saldare i loro debiti, e questo si è tradotto in una crisi globale.
Crisi che oggi appare assai più dura di quanto si prevedesse solo qualche mese fa. Si tratta di enormi perdite che stanno travolgendo i conti di molte banche, compagnie d’assicurazione, fondi pensione (sì, quelli che dovrebbero garantirci la pensione), ma che sembrano destinate ad avere ripercussioni sull’intera economia planetaria, contribuendo a rimuovere le fragili paratie fra sistemi finanziari e sistemi produttivi.

I FALLIMENTI
DEL «LIBERO MERCATO»

Vediamo in che condizioni è l’economia mondiale. Gli Stati Uniti nella migliore delle ipotesi cresceranno solo dello 0,5% nel 2008, mentre, proprio a causa del rallentamento Usa, il mondo non dovrebbe andare oltre il 3,7%, a conferma dell’incapacità dei paesi emergenti di sostituire i mercati più tradizionali nel ruolo di traino dei consumi globali.
Gli artifici dell’ingegneria finanziaria – di cui i subprime sono ormai un paradigma – che avrebbero dovuto limitare il rischio, disperdendolo fra più soggetti, hanno mostrato gravi carenze e hanno seminato una profonda paura. Per evitare guai peggiori, le banche centrali si sono adoperate a più riprese al fine di fornire copiose iniezioni di liquidità agli operatori, correndo il pericolo però di scatenare spirali inflazionistiche (cioè di far alzare i prezzi) oltre a ripristinare forme di interventismo statale che costringono i contribuenti a pagare i costi dell’«azzardo morale» dei soggetti finanziari.
Tanto per fare degli esempi, la Commissione europea è stata obbligata a sottoporre ad attenta valutazione sia gli aiuti del governo britannico alla banca Northe Rock e i sussidi erogati dai Land a tre istituti creditizi regionali sia quelli indirizzati dalla Federal Reserve ai colossi come JP Morgan che operano anche in Europa.
Il rischio del costituirsi di situazioni di monopolio privato per effetto del sostegno pubblico è decisamente concreto e l’artificiosa alimentazione di tale monopolio trova le proprie paradossali motivazioni nella gravità delle conseguenze che derivano dagli «eccessi speculativi». Come dire, più il mercato è libero e senza regole, più serve l’intervento dello Stato per salvare i privati dalla bancarotta.
Ecco quindi un evidente paradosso: anziché evolvere secondo una linea qualsiasi, il mercato finanziario sembra crescere negando i suoi stessi presupposti, ovvero la totale deregolamentazione. La «mano invisibile» tanto in auge ha provocato tanti danni da costringere i legislatori a fare da curatori fallimentari. Eppure nessuno contesta che lo sviluppo economico può essere solo garantito  dalla libera concorrenza, che i modelli alternativi hanno dato risultati pessimi.
La centralità di un mercato totalmente deregolato come unica fonte non solo di benessere sociale, ma anche di diritto, e come motore della politica rispetto a modelli immancabilmente bollati come ideologici, antistorici o dirigisti, è un pregiudizio ormai talmente radicato da non venire nemmeno percepito come tale. Un dogma, sarebbe da dire.

LA SPECULAZIONE PASSA 
AI PRODOTTI ALIMENTARI

Toiamo a quello che accade all’economia mondiale. La mancanza di trasparenza nei bilanci, unita al diffuso deprezzamento di molta carta commerciale a causa dell’insicurezza dilagante fra le stesse istituzioni finanziarie, ha amplificato a dismisura danni inizialmente ritenuti circoscritti, tanto da indurre un sovvertimento radicale dei comportamenti persino delle istituzioni più ortodosse del «mercatismo».
Dominique Strauss-Kahn, alla testa del Fondo monetario internazionale (Fmi), ha auspicato la creazione di una «terza linea di difesa», rappresentata dall’impiego continuativo di risorse pubbliche, per proteggere le banche ed evitare la scomparsa della liquidità; nella stessa prospettiva Ben Beanke non solo ha consentito alla Fed di far accedere al proprio credito le banche d’investimento ma ha anche deciso di cedere i buoni del Tesoro in possesso della banca centrale Usa in cambio di titoli «spazzatura».
Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia, e il Financial Stability Forum, consapevoli della gravità della situazione, hanno steso severe raccomandazioni per gli operatori finanziari, invitandoli ad abbandonare la pratica dell’indebitamento selvaggio attraverso l’effetto moltiplicatore della leva. È chiaro quindi che l’asprezza della crisi in atto sta provocando avvertibili modifiche nella visione a lungo coltivata di un mercato finanziario in grado di generare ricchezza e di sanare le proprie contraddizioni «inventando» nuovi strumenti e coinvolgendo sempre nuovi soggetti.
Attenzione però, perché per uscire dalle difficoltà scatenate dal crollo dei rendimenti dei valori mobiliari stanno prendendo corpo alcune pratiche molto pericolose.
Se i titoli di settori fondamentali come i bancari, gli assicurativi e gli immobiliari registrano cadute vertiginose, milioni di investitori in giro per il pianeta tendono ad orientarsi verso altre destinazioni di maggiore resa. In tale ottica i contratti relativi alle commodities, cioè i prodotti alimentari, grazie a prezzi in costante ascesa per effetto delle previsioni di una domanda mondiale in marcato aumento, stanno diventando veri e propri beni rifugio al pari dell’oro, contribuendo in maniera decisiva all’esplosione dell’«agrinflazione», dell’impennata dei prezzi dei prodotti agricoli attraverso la loro finanziarizzazione. La crisi dei mutui innesca così la ricerca di impieghi remunerativi in ambiti molto delicati che si legano in modo diretto all’alimentazione primaria del pianeta.

2008: LE RIVOLTE 
PER IL PANE

Ecco perché ad Haiti le rivolte per l’impennata dei prezzi dei generi alimentari hanno condotto a violenti scontri con le forze dell’ordine: almeno cinque persone sono state uccise, altre decine sono rimaste ferite. In Egitto, dove gran parte della popolazione ha pranzo e cena assicurati grazie al prezzo calmierato del pane, la carenza di grano (probabilmente dirottato sul fiorente mercato nero) ha portato ad autentici assalti ai foi. Altre rivolte sono state segnalate in Marocco, Mauritania, Costa d’Avorio, Camerun, Senegal, Indonesia. Secondo alcune stime il prezzo internazionale del grano è più che raddoppiato in un anno, quello del riso è salito del 75%. Robert Zoellick, presidente della Banca mondiale, è arrivato a presentarsi davanti ai giornalisti con una pagnotta in mano, per invocare piani d’emergenza necessari a sfamare «cento milioni di persone – ha detto – che rischiano di essere spinte sotto la soglia di povertà».

I BIOCARBURANTI 
SONO UN CRIMINE?

Molti economisti sostengono che i prezzi degli alimentari difficilmente scenderanno in tempi brevi: a tenerli alti concorrono poi, oltre ai meccanismi speculativi, cause naturali (come le inondazioni che hanno limitato i raccolti) e la destinazione di ampie coltivazioni alla produzione di biocarburanti. Quest’ultimo elemento ha scatenato una serie di reazioni politiche stizzite, specie dopo che Jean Ziegler, relatore dell’Onu sull’alimentazione, ha detto di ritenere la produzione massiccia di carburanti dalle produzioni agricole «un crimine contro l’umanità».
Angela Merkel, premier tedesca, ha replicato che la vera causa dell’impennata dei prezzi è la repentina crescita dei consumi: «In India adesso la gente mangia due volte al giorno…». Dal Brasile il presidente Lula è stato molto netto: «Non accetto più questa contrapposizione fra biocombustibili e alimenti». Va detto che la Merkel ha parlato mentre inaugurava un impianto per ricavare combustibile dalle biomasse e che il Brasile sta puntando molto forte sui biocarburanti, ma intanto l’emergenza alimentare resta fuori dall’agenda politica internazionale. 

di Pietro Raitano e redazione di «Altraeconomia»

Pietro Raitano




Elogio dell’eresia (e degli eretici)

Sullo stato delle cose economiche

Il mondo vive nel mito della crescita, della globalizzazione, di un modello di sviluppo unico e immodificabile. Nel frattempo, la catastrofe ambientale è sotto gli occhi di tutti, la crisi alimentare si aggrava, la speculazione finanziaria domina l’economia. In questo bailamme, a vincere sono sempre i soliti. Ma lo diciamo sottovoce, perché – come pretende il «pensiero unico» – certe cose sarebbe meglio tacerle. A meno di non essere degli eretici…

La chiamano «scienza triste», ma in realtà questo è quasi un complimento. L’economia (almeno come la vediamo oggi) è l’applicazione della selezione darwiniana sulla società, in base alla quale vincono sempre i più forti e i più scaltri. È nell’economia finanziario-speculativa, che si mostra in tutta la sua portata l’amoralità del sistema.
Per capire il grande imbroglio della finanza speculativa, è sufficiente un esempio tra i molti disponibili. In tanti avranno sentito parlare delle «agenzie di rating», società private che analizzano la solidità finanziaria di imprese, banche, assicurazioni ma anche degli stati (Italia compresa). Le agenzie che dominano il mercato sono soltanto tre, tutte statunitensi: Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch.
I danni che producono le «pagelle» delle tre sorelle sono giganteschi. I loro «report» (con cui vengono motivati i voti: Aaa, C, D, e via simboleggiando) sono inappellabili e – addirittura – difficilmente criticabili (perché «il mercato non capirebbe»). Eppure, sono spessissimo inattendibili, anche perché viziati da svariati conflitti d’interesse (1).
Limitandoci alla stretta attualità, Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch sono le stesse agenzie che non hanno avvertito della bomba a tempo dei mutui subprime su cui tante banche hanno giocato (2), salvo poi scottarsi (e far pagare il danno ai clienti, ai risparmiatori o ai cittadini attraverso lo stato).
E che dire dell’altra crisi di questi mesi, quella alimentare? (3) La crisi del cibo non è determinata da una carestia, ma dal costo dei prodotti (in primis, riso, mais, grano, soia), diventato inaccessibile per centinaia di milioni di persone. Il problema è stato generato dall’applicazione all’agricoltura dei principi neoliberisti, specialmente nei paesi poveri. Qui si è persa la sovranità alimentare facendo chiudere i piccoli produttori locali e favorendo invece un’agricoltura estensiva votata all’esportazione. Se a ciò si aggiungono le politiche delle multinazionali delle granaglie (come la Cargill, General Mills, Adm, ecc.) e le onnipresenti speculazioni di borsa (attraverso i contratti denominati futures), il quadro spiega gli aumenti dei prezzi e le conseguenti «rivolte del pane» scoppiate in decine di paesi.
Questi sono soltanto alcuni esempi di un’economia che guarda al profitto di pochi, senza curarsi dei danni che produce. Il sistema si basa su alcuni elementi portanti – il mito della crescita e del libero mercato, le privatizzazioni, il pensiero unico neoliberista – attorno a cui ha costruito la propria filosofia esistenziale. È da questi stessi elementi che occorre partire per spiegare perché il sistema rischia l’implosione.

L’INDICIBILE IMBROGLIO DEL PIL

I disastri conseguenti ad una crescita inadeguata del «Prodotto interno lordo» (Pil) sono spiegati, con cadenza quotidiana, dai mezzi di comunicazione. Eppure, l’inadeguatezza del Pil come strumento per valutare un’economia e le condizioni di un paese è conosciuta da tempo.
Già nel 1968, un politico di primo piano diceva: «Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto interno lordo (Pil). Il Pil comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.
Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere. Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani».
A parlare così non era un rivoluzionario o un poeta (o tutti e due assieme), ma un politico di nome Robert (Bob) Kennedy (4).  Egli fece questo discorso all’Università del Kansas il 18 marzo del 1968, due mesi prima di essere assassinato.
Per rimanere più vicini nel tempo e nello spazio (geografico), leggiamo quanto scrive Luca De Biase (5): «La retorica della crescita economica non cessa di farsi sentire a tutti i livelli della narrazione pubblica: la crescita del Pil  va bene e il rallentamento della crescita va male. Il messaggio resta inalterato in ogni fase storica dal 1950 ad oggi. Quando finisce la spinta dell’industrializzazione, i media subentrano a spingere i consumi e a sostenere che l’aumento del Pil o la crescita della borsa sono le sole variabili che davvero contano. Peccato che il Pil misuri solo ciò che ha un prezzo. Gli economisti sono i primi a diffidae. La loro classica battuta secondo la quale “se sposi la tua donna di servizio fai scendere il Pil” resta indicativa. Si può vedere un collegamento diretto, senza troppo paradosso, tra le relazioni umane di qualità – che non sono regolate da uno scambio di moneta e la contabilità nazionale. Meno si nutre fiducia negli altri, più ci si affida agli avvocati per qualunque trattativa e più si fa crescere il Pil: ma non per questo si sta meglio. Più tempo si dedica a lavorare, più si guadagna e più si aumenta il Pil, anche a costo di avere meno tempo per gli amici: il bilancio della felicità non è necessariamente in attivo, anche se quello della moneta è in nero. La crescita del Pil, una volta superata la prima fase che porta a un benessere diffuso, innesca una sorta di spirale. Solo una retorica della crescita ben congegnata può far pensare che quella spirale vada giudicata complessivamente positiva».
Insomma, il Prodotto interno lordo non funziona, ma continuano a propagandarlo come un punto di riferimento assoluto. Lo stesso vale per il privato (meglio del pubblico, ci dicono), per le multinazionali (meglio degli stati), il sistema economico neoliberista (meglio di qualsiasi altro sistema, anche ipotetico).

PRIVATO È BELLO. O NO?

Fintantoché c’è il profitto, «privato è bello» (se poi sia anche realmente efficiente e giusto, è tutto un altro discorso). Se però il profitto scompare, allora l’intervento pubblico (cioè con i soldi di tutti i cittadini) è reclamato come indispensabile. Qualche esempio: i fondi pensione (privati) funzionano finché la borsa e l’economia finanziaria sono in salute, ma non sono mai sicuri come la previdenza gestita dallo stato; le cliniche private vanno benissimo finché le cure o le operazioni chirurgiche non sono troppo complesse e dunque troppo costose per la proprietà; le assicurazioni private assicurano chiunque sia in buona salute, chi di salute ne ha meno è meglio che si rivolga altrove; i voli low cost sono un ottimo investimento (privato), finché le compagnie aeree (private) ricevono contributi dagli aeroporti o dagli enti territoriali; e via esemplificando. Il «conflitto tra pubblico e privato» diventa ancora più evidente nell’economia illegale (in cui l’Italia eccelle): la costruzione abusiva di case, lo smaltimento illecito di rifiuti privati, il mancato rilascio di fatture e scontrini fiscali, la dichiarazione dei redditi falsa sono tutti eventi economici illeciti fatti a spese e a danno della collettività.
È una «dittatura del mercato» che agisce sempre e comunque per la convenienza di pochi e, per converso, a scapito della maggioranza. «Il parametro – ha scritto Frei Betto (6) – si sposta dal sociale all’individuale. Una società o un’istituzione è buona nella misura in cui io vengo beneficiato. Non importa se il mio beneficio si realizza a scapito di molti; con l’accumulazione di terre, la concentrazione di redditi».
«In nome della libera concorrenza – ha scritto ancora il teologo e scrittore brasiliano  – si rinuncia al ruolo regolatore dello Stato e del diritto (…). Nella sfera sociale, vale l’inteazionalizzazione del mercato come meta fondamentale, senza che siano posti in discussione i suoi fini sociali e politici. Le forze del mercato passano così ad assumere il ruolo di istanze regolatrici dell’insieme della società. E il guadagno, da parte sua, assume il ruolo di mediatore all’interno dei rapporti sociali. Questa sottomissione della politica, del diritto e dell’etica agli interessi economici privati mina la possibilità di una convivenza globale fondata sui princìpi e sui valori».

«MA NON TI VERGOGNI?»

Ci sono alcuni paesi dell’America Latina (Venezuela e Bolivia su tutti), dove lo stato si è ripreso il controllo delle risorse del sottosuolo, sottraendole alle multinazionali (corporations) che fino a ieri ne avevano ricavato profitti enormi a discapito delle popolazioni locali. Ebbene, la maggioranza dei media mondiali (in primis, quelli dei paesi di appartenenza delle multinazionali ridimensionate) hanno gridato e gridano allo scandalo per la violazione del principio intangibile del «libero mercato».
Si sostiene che le multinazionali lavorino meglio degli stati che sono corrotti ed inefficienti. Dubitiamo fortemente del giudizio alla pari di Joel Bakan (7), un professore che il fenomeno lo ha studiato bene.  Secondo Bakan, le multinazionali sono uno «strumento che serve solo a creare ricchezza, ed è uno strumento estremamente efficace, perché non ha nessun vincolo interno di ordine morale, etico o giuridico che limiti chi o cosa può sfruttare per arricchirsi e far arricchire i suoi proprietari. Il verbo “sfruttare”, secondo il dizionario, significa “utilizzare per i propri fini egoistici o per il profitto”.  Nell’ultimo secolo e mezzo, la corporation si è conquistata il diritto di sfruttare gran parte delle risorse naturali del pianeta e quasi tutte le aree dell’attività umana».
Difendere e diffondere idee opposte o semplicemente diverse da quelle vendute dalla globalizzazione del pensiero unico è difficile, a volte impossibile. «Oggi – ha scritto Francesco Gesualdi (8) – non è ammesso pensarla in maniera diversa dalla logica dominante e chiunque osi utilizzare criteri di analisi e di proposta diversi da quelli mercantili è da eliminare, tramite la derisione o la repressione. Ma mai come oggi è emerso il fallimento di questo sistema e mai come oggi si è avvertito il bisogno di avere degli eretici. Delle persone, cioè, che sappiano leggere e interpretare le scelte che si stanno compiendo, mettendo bene a fuoco a chi giovano e quali conseguenze sociali ed ambientali comportano. Delle persone che sappiano smascherare i giochi e soprattutto che sappiano proporre altri modi di fare economia partendo da altre prospettive: la dignità, la serenità personale, la convivialità, la solidarietà, la sostenibilità, la pace, i diritti, l’uguaglianza. La strada è tracciata. Ora ognuno deve lavorare dentro di sé per diventare lui stesso un eretico e soprattutto per far passare le idee dal mondo dell’intelletto a quello dei fatti».

«QUESTA» COPERTA È CORTA

Come abbiamo cercato di spiegare, la situazione è grave e le prospettive non sono incoraggianti. «L’ottimismo di chi coltiva l’aspettativa di nuovi ritrovati della tecnica capaci di evitare l’abisso verso il quale viaggia la nostra civiltà – l’ottimismo di chi confida che “prima o poi si inventerà qualcosa” – non sembra ragionevole», ha scritto Juan-Ramón Capella (9).
Il problema è che «questa» coperta è corta. Lo spiega bene don Vinicio Albanesi (10): «Nel futuro che ci attende, i ricchi si assomiglieranno ovunque e sempre più nella loro sfacciata opulenza, mentre i poveri saranno livellati nel disprezzo, nell’abbandono e nella fame, a prescindere dal mondo a cui appartengono».
Se la coperta è corta, occorre cambiarla. Come splendidamente suggerisce ancora Francesco Gesualdi, pur non essendo un invitato di Porta a Porta né un editorialista del Corriere della Sera o de Il Sole 24-Ore: «La posizione di chi sta sul ponte di comando – scrive Gesualdi – è quella dello sviluppo. Imprenditori, intellettuali, economisti, giornalisti e dirigenti di partito, sostengono in coro che il nostro  obiettivo deve essere più produzione, più commercio, più consumi, più velocità, più tecnologia, più competizione. È l’inno della crescita ritenuta la strada che conduce al benessere, al progresso, alla modeità. Concetti, dai mille significati, che andrebbero discussi di continuo. Invece li abbiamo trasformati in idoli indiscussi. Se un ingegnere si mettesse in testa di costruire un grattacielo sempre più alto senza tenere conto della friabilità del terreno, della velocità dei venti, della tenuta del cemento, verrebbe rinchiuso in un manicomio. Invece gli economisti progettano la crescita infinita, preparando la rovina dell’umanità, e vincono il Nobel».
«È urgente abbandonare l’economia della crescita per avviarci verso l’economia della sobrietà. Ma manchiamo di un modello di riferimento e oscilliamo fra due atteggiamenti contrapposti. Da una parte il semplicismo di chi afferma che basta tornare all’autoproduzione. Dall’altra il pessimismo di chi afferma che non ci sono modelli alternativi. La mia posizione è che l’economia del limite richiede cambiamenti su molti piani, ma non mi angoscio se non vedo tutto chiaro. Le soluzioni di dettaglio si trovano lungo il cammino. L’importante è iniziare a cambiare rotta con le idee chiare sugli obiettivi e su alcune piste principali».
«Ho chiaro che dobbiamo avviarci verso un sistema capace di coniugare sobrietà e garanzia dei diritti fondamentali per tutti. Le mie parole d’ordine sono meno mercato, meno competizione, meno globale, meno denaro; più pubblico, più cooperazione, più locale, più fai da te».
Soltanto un passaggio dall’«economia della crescita infinita» ad una «economia del limite e della sobrietà» potrà evitare l’implosione del sistema e tamponare il problema dei problemi, quella catastrofe ambientale di cui (quasi) tutti sono consapevoli. 

di Paolo Moiola

Paolo Moiola




«Mamma bianca»

Beata Maria Caterina Troiani (1813-1887)

Orfana a 6 anni, monaca a 17, missionaria in Egitto a 46, Caterina Troiani fu definita da Giovanni Paolo ii
«missionaria in clausura, contemplativa in missione». Per la sua carità verso tutte le vittime di sfruttamento, emarginazione e schiavitù, in cui vedeva il volto di «Cristo crocifisso», la chiamavano «mamma bianca» cattolici, ortodossi, musulmani.

Nata il 19 gennaio 1813, a Giuliano di Roma (Frosinone), terza dei quattro figli di Tommaso Troiani e Teresa Panici, Costanza, questo il suo nome di battesimo, a sei anni fu travolta da una tragedia familiare: la madre morta, il padre in prigione per uxoricidio, i fratelli affidati a una zia matea e collocati in differenti istituzioni (vedi riquadro).
Costanza fu messa nel Conservatorio della Carità a Ferentino, un collegio femminile gestito da religiose di diritto diocesano, le Oblate clarisse, popolarmente chiamate «monachelle», per distinguerle dalle omonime claustrali presenti nel paese.

NUOVA FAMIGLIA

La vita al Conservatorio era povera e austera, ritmata dalle attività scolastiche, apprendimento di lavori femminili, iniziazione alla preghiera e alla vita cristiana: la piccola Costanza, intelligente e sensibile, carattere molto vivace, vi si sentiva a proprio agio. Anzi, vi trovò la sua nuova famiglia, composta da sei suore, alcune collegiali sue coetanee e un’anziana maestra pensionante, tanto che, quando alcuni parenti le proposero di ritornare nella società, non ne volle sapere, felice di restare nel suo convento, affascinata dal fervore spirituale che vi si respirava.
Era un’atmosfera permeata, naturalmente, dalla spiritualità francescana, alla quale si aggiungeva la contemplazione dell’umanità sofferente del Cristo. Questa devozione era propagata da due ordini religiosi, fiorenti nel Centro Italia di quegli anni: i passionisti e i missionari del Preziosissimo Sangue, fondati da san Gaspare del Bufalo.
I primi erano di casa al Conservatorio come confessori e direttori spirituali. Il secondo, don Gaspare, nel 1824 percorse palmo palmo la diocesi di Ferentino, predicando le missioni in tutte le parrocchie e gli esercizi spirituali a tutti i religiosi e religiose. Le monachelle furono tanto infiammate nello spirito di penitenza, riparazione e partecipazione alle sofferenze di Cristo, da tradurre la devozione in forme esteriori al limite del parossismo.
È in tale clima di fervore che Costanza, a sedici anni, l’8 dicembre 1829 vestì l’abito delle monachelle, con il nome di suor Maria Caterina di santa Rosa da Viterbo, e l’anno seguente pronunciò i voti religiosi, felice di diventare «sposa dell’Amore Crocifisso per noi». Contemplazione della passione di Cristo, conformità allo «Sposo Crocifisso, nudo e abbandonato sulla croce», ricerca appassionata della volontà di Dio… erano le linee guida del suo cammino spirituale.
Voleva «essere l’ultima nella casa di Dio», ma fin dal noviziato il vescovo le affidò l’insegnamento alle alunne estee e, dopo la professione religiosa fu scelta come segretaria della madre superiora, soprattutto di suor Aloisia Castelli.
Costei, già novizia al Conservatorio nel 1819, ne era uscita per le sue aspirazioni claustrali. Rientrata nel 1823 ed eletta superiora nel 1931, brigò per 10 anni per trasformare il Conservatorio in monastero di clausura. E poiché i vescovi di Ferentino si opponevano, fu deciso di rivolgersi direttamente alle Congregazioni e prelati romani competenti.
Suor Caterina fu incaricata di raccogliere i documenti relativi la storia dell’istituto, redigere memoriali e petizioni e per due volte accompagnò la superiora a Roma, muovendo mari e monti, finché nel 1842 papa Pio ix firmò il decreto che approvava le nuove costituzioni: il Conservatorio veniva dichiarato Monastero, alle monache venivano concesse tutte le indulgenze di cui godevano le clarisse. In realtà, però, la comunità restava sotto la giurisdizione del vescovo e le monache continuavano a fare scuola.
Ma per suor Aloisia fu un successo: riconfermata nella sua carica, poteva finalmente essere chiamata badessa. Suor Caterina, eletta «camerlenga», fu incaricata di curare archivio e biblioteca e redigere la cronaca del monastero dalle origini (1803) fino al 1857. In più, rispolverando un talento paterno e presi i contatti con un medico locale, avviò la spezieria, occupandosi con passione nella confezione di medicinali omeopatici.

UNA GRAZIA SPECIALISSIMA

Ma l’evento più sconvolgente nella storia di suor Caterina fu la venuta al Conservatorio, nel 1935, del passionista Domenico Barberi, in partenza per una missione in Inghilterra, dove i tempi sembravano propizi per il ritorno di tutti i cristiani nell’ovile di Pietro: re Giorgio iv aveva restituito ai cattolici inglesi tutti i diritti civili e il Movimento di Oxford propugna il ritorno del clero anglicano alla chiesa cattolica; già si registravano le prime conversioni. Padre Barberi impegnava vari monasteri del Lazio in una crociata di preghiere e sacrifici per la sua missione.
Le parole del passionista rimasero indelebili nell’animo di suor Caterina, come si legge nella biografia del Barberi: «A quella predica essa si sentì venir meno, uscì di chiesa, si ritirò in cella, dove l’assalì un pianto dirotto e un alto singhiozzo che richiamò le sorelle stupite. “Non potei – essa dice – né mangiare, né dormire, e non avrei fatto altro che ruggire come un leone ferito”».
Sempre alla ricerca della volontà di Dio, suor Caterina sentì tale esperienza come una chiamata speciale. «Nel 1835 il Signore mi fece intendere volere da me una cosa alla sua maggior gloria e per la salvezza delle anime – scriverà più tardi -. L’opera alla maggior gloria di Dio era la conversione dei popoli oltre mare».
Chiusa in un istituto claustrale, come poteva lavorare per «la salvezza dei popoli oltre mare»? Suor Caterina provò una crisi di identità: forse avrebbe dovuto cambiare istituto. Ma il confessore, lo stesso Barberi, le disse di restare al suo posto e aspettare che il Signore le avesse indicato come fare. Nel 1844, lo stesso passionista promise di costruire un monastero vicino a Londra; suor Caterina intensificò preghiere e digiuni; ma il progetto non decollava, finché tramontò del tutto con la morte del Barberi (1849).
Un altro spiraglio per le sue speranze missionarie sembrava aprirsi nel 1855, quando un suo cugino, mons. Bovieri, la mise in contatto con una marchesa parigina, Paolina Nicolay, la quale voleva recarsi a Gerusalemme per aprirvi un piccolo ospizio per i poveri e chiudervi i suoi giorni. Iniziò un lungo carteggio e Paolina venne a Ferentino per presentare il suo progetto; ma quando pretese di portare con sé solo suor Caterina, il sogno andò in fumo.

RISCATTO DELLE MORETTE

Alla fine del 1855 si apriva intanto un nuovo orizzonte: il confessore del monastero, padre Giuseppe Modena, che si recava regolarmente a predicare in Egitto, riportò alla comunità che il vicario apostolico, mons. Perpetuo Guasco, desiderava avere delle suore italiane e francescane per l’educazione cristiana della gioventù. Furono subito avviate le necessarie procedure con la congregazione di Propaganda fide per avere l’autorizzazione di aprire una missione in Egitto, con il vicario apostolico per stabilire le condizioni di lavoro, con il vescovo di Ferentino per avere il permesso di lasciare il monastero; furono contattate varie persone e istituzioni per raccogliere i fondi necessari con cui comperare la casa e sostenere l’opera. Mons. Guasco, infatti, aveva detto chiaro che non aveva un soldo: finanze e personale erano a carico del monastero di Ferentino.
Il 4 settembre 1859, un drappello di sei suore, accompagnate da padre Modena e guidate dalla badessa in persona, nel frattempo convertita dalla stretta clausura alla missione, salpava da Civitavecchia. Suor Caterina era nel numero: all’età di 46 anni, poteva finalmente realizzare il sogno coltivato per 24 anni: «Convertire i popoli oltre mare».
Allo scalo di Malta, giunse la notizia della morte del vicario. Era il caso di continuare il viaggio? Suor Caterina rincuorò il piccolo gruppo: «Non ci siamo messe in cammino per corrispondere al desiderio di un prelato, ma alla chiamata di Dio».
Giunsero al Cairo il 14 settembre, festa dell’Esaltazione della croce, e si stabilirono nella casa comperata a Clot Bey, nel Cairo Nuovo. Il 1° ottobre fu loro affida un’orfanella egiziana: nasceva così l’educandato per orfane cristiane e musulmane e veniva avviata la scuola per alunne intee ed estee di ogni nazionalità, condizione sociale e religione, con particolare preferenza alle più povere.
L’accoglienza della nuova scuola fu piuttosto fredda: essendo le suore tutte italiane, «poco gradimento s’incontrava da coloro che erano abituati a trattare col gusto francese» scriverà suor Caterina. Ma, superato il primo anno e visti i risultati, la scuola si guadagnò fama e prestigio, tanto che lo stesso viceré, Ismail Pascià, nel 1863, volle conoscere le suore e, dichiarando di «essere loro padre», chiese di esporgli le loro necessità. «Abbiamo bisogno di pane e casa» rispose suor Caterina. E il pascià promise che «a tutto avrebbe pensato e provveduto». E cominciò a fornire una certa quantità di grano, diede il terreno per ingrandire la seconda casa già aperta nel Cairo Vecchio, vicino alla grotta che, secondo la tradizione, sarebbe stato il luogo di rifugio della Sacra famiglia.
La prima opera che fece sentire suor Caterina veramente missionaria fu la fondazione della «Vigna di san Giuseppe», destinata all’accoglienza e istruzione delle «morette», le fanciulle nere liberate dalla schiavitù; una iniziativa suggerita e sostenuta anche finanziariamente da un prete milanese, don Biagio Verri, impegnato nell’Opera del riscatto.
Per sopperire alla scarsità di personale, fu aperto anche un noviziato nella casa di Clot Bey, che divenne un attivissimo centro di istruzione,  evangelizzazione e, soprattutto, di carità verso i poveri e sofferenti.
Aperta come scuola, la casa nel Cairo Vecchio fu trasformata in orfanotrofio per raccogliere le fanciulle minorate di ogni nazionalità e religione, rifiutate dagli altri istituti.

NUOVA FONDAZIONE

Il 1863 e 1864 furono anni di crescita e benedizioni, seppur condite da difficoltà di vario genere. Una malattia, forse un ictus, aveva colpito la badessa, suor Aloisia, menomando le sue condizioni fisiche e mentali. Il nuovo vicario, mons. Vuicic, le affiancò suor Caterina come superiora locale, spaccando in due la piccola comunità. Poi, il vicario cambiò le costituzioni, non ritenendo adatte quelle portate dall’Italia. Tale cambiamento, le aperture del noviziato e della seconda casa, decise senza le dovute autorizzazioni del vescovo di Ferentino e della casa madre, rovinarono i rapporti con il monastero di provenienza, che ordinò alle missionarie di tornare in Italia. 
Ormai impegnata anima e corpo nell’attività apostolica, suor Caterina decise di continuare la sua missione, convinta che quella era la volontà di Dio. E si diede da fare per uscire dall’incresciosa situazione, invischiata in un groviglio di competenze giuridiche. In quanto monache, avevano giurato sul vangelo totale dipendenza dal monastero e vescovo di Ferentino; come francescane ricevevano ordini dal ministro generale dei frati minori; come missionarie dovevano obbedienza al vicario apostolico d’Egitto.
Dopo vari contatti e accordi tra le autorità competenti, suor Caterina si recò a Roma e a Ferentino, per risolvere il problema nel modo più pacifico possibile. Nel luglio del 1868 fu sanzionato il distacco dal monastero di origine e l’erezione dell’Istituto delle missionarie francescane d’Egitto, sotto la giurisdizione di Propaganda fide e sotto la patea e vigile cura del vicario apostolico. 
Toata al Cairo, Caterina fu accolta festosamente come fondatrice della missione e della nuova famiglia religiosa, anche se padre Modena si credeva il vero fondatore e mons. Vuicic voleva fare della nuova istituzione una sua creatura. Nel capitolo del 1869, suor Caterina fu eletta superiora, carica che ricoprì fino alla morte.
Lo strappo dalla famiglia religiosa, in cui era vissuta fin dall’infanzia, fu per Caterina un autentico Getzemani; ma anche in questo sacrificio vide realizzarsi una nuova dimensione dell’«opera a grande gloria di Dio: la conversione dei popoli oltre mare».

CROCI E DELIZIE

Grazie al nuovo assetto canonico, suor Caterina si sentiva più libera nella sua azione missionaria. Le vocazioni affluivano in gran numero, permettendo di estendere le opere già esistenti e avviae di nuove: nel 1879, oltre le due case al Cairo, le missionarie francescane avevano aperto altre cinque opere in varie parti dell’Egitto. Per sostenerle ricorreva alla questua francescana presso amici, istituzioni ecclesiastiche, autorità civili, come l’imperatore Francesco Giuseppe d’Austria, ai potenti della zona, anche musulmani, come il vice re del Cairo e il sultano di Costantinopoli.
Fiore all’occhiello del cuore materno di suor Caterina fu soprattutto l’Opera dei trovatelli, per raccogliere i bimbi abbandonati. Le stesse suore andavano a cercarli a dorso d’asino; altri venivano lasciati davanti alla porta delle loro case. Spesso i neonati arrivavano in fin di vita ed erano subito battezzati e spediti in Paradiso. Per quelli in buona salute veniva trovata una balia e, una volta cresciuti, erano sistemati presso famiglie che potessero assicurare loro un futuro dignitoso. 
«Il fine primario che ci condusse in Egitto fu di faticare onde guadagnare anime a Dio» ricordava suor Caterina quando qualche consorella si sentiva stanca o sfiduciata. Ma le fatiche più gravose non erano quelle fisiche, ma le difficoltà, opposizioni, complicazioni provenienti dall’esterno, in campo civile e religioso.
Già i rapporti con mons. Vuicic, per esempio, non erano stati sempre idilliaci: tra l’altro, aveva deviato a un istituto di suore francesi una grossa somma che suor Caterina aveva ottenuto per le sue opere dall’imperatore d’Austria. Altrettanto tesi, almeno inizialmente, erano i rapporti con il successore, mons. Ciurcia, per le calunnie che gli venivano riportate.
«Oggigiorno in qualsiasi modo si agisca sempre si incontrano critiche – scriveva suor caterina -. Tutte queste cose non le dicono i secolari, ma i religiosi». Tra i religiosi c’erano soprattutto i cappellani. Padre Giuseppe Modena, per esempio, aveva diviso la comunità: allontanato dal Cairo per ordine di mons. Vuicic, sparlava e scriveva contro le suore, ritenendole colpevoli del suo allontanamento.
Il suo successore faceva di peggio: con i suoi ordini e consigli «allontanava dall’osservanza delle costituzioni» si lamentava la madre in una lettera indirizzata al ministro generale dei francescani; per cui lo pregava di mandare «uno zelante confessore… uno secondo il cuore di Dio».

ESODO E RITORNO

Nel 1882, mentre madre Caterina stava programmando tre nuove fondazioni, il nazionalismo arabo provocò varie ribellioni contro l’ingerenza straniera nel paese. E quando le navi inglesi e francesi bombardarono Alessandria, la rivolta si trasformò in autentica caccia allo straniero.
Il console italiano chiese alle suore del Cairo di prepararsi a partire, poiché non era più in grado di assicurare la loro incolumità. Dopo aver sistemato qualche bambina presso famiglie amiche, la fondatrice, le suore e varie bambine lasciarono Il Cairo. Salirono su un treno merci e, dopo mille paure, si imbarcano alla volta di Gerusalemme, Marsiglia, Napoli. Sul battello esse non avevano neppure di che ristorarsi. Per incoraggiare le sue suore, la madre diceva loro con dolcezza: «A Gesù crocifisso, venne rifiutata una goccia d’acqua. Vorreste che a noi ci fosse accordato tutto quel che desideriamo?».
Toata la calma (in pochi mesi le truppe inglesi avevano occupato l’Egitto militarmente), madre Caterina mandò al Cairo tre suore in avanscoperta e, visto che tutto era rimasto intatto, organizzò il ritorno delle altre. Da ultima arrivò anche lei. «Piangeva di contentezza nel vedersi intorno giubilanti e festose tutte le sue figlie». Soprattutto le morette erano felici di riabbracciare la loro «mamma bianca».
Nel 1883, fu aperta una scuola ad Alessandria, in un quartiere di povera gente, specie italiani e maltesi. Fu l’opera più grande costruita da madre Caterina, che divenne un centro propulsore per tutte le opere caritative della città.
Quello stesso anno, nel mese di aprile si celebrò il secondo capitolo dell’Istituto e madre Caterina fu riconfermata all’unanimità. Tutti se ne rallegrarono, ma non lei, che accettò l’incarico piangendo, seppur con «perfetta rassegnazione alla santissima divina volontà». Ma le lacrime non erano finite: nel mese di luglio il colera le strappò due giovani suore, due grandi promesse per l’Istituto. Alla fine di ottobre moriva don Biagio Verri e la «Vigna di san Giuseppe» dovette chiudere i battenti.

TRAMONTO

Nel 1886 fu celebrata una consulta, a tre anni dal capitolo generale, per fare il punto della situazione. Il consuntivo era più che positivo. A 27 anni dall’arrivo al Cairo, l’Istituto contava sette case in Egitto, due in Italia, una a Gerusalemme e una stava per aprirsi a Malta; ben 102 suore avevano fatto la professione come missionarie francescane; 1.574 morette erano state riscattate; incalcolabile il numero di alunne formate nelle varie scuole, di orfani e trovatelli cui era stato assicurato un futuro dignitoso; innumerevoli i poveri che a vario titolo avevano ricevuto amore e assistenza.
Il 10 aprile 1887, la sera di pasqua, madre Caterina fu costretta a mettersi a letto: il suo organismo era sfinito. Il 6 maggio, dopo aver ricevuto un’ultima volta l’eucaristia, piegò placidamente il capo e rese lo spirito. Aveva 74 anni. Il giorno seguente, i funerali si trasformarono in trionfo. Erano presenti le autorità civili egiziane, diplomatici e governanti europei in alta uniforme; la gente comune, soprattutto, cristiani e musulmani era accorsa a render l’ultimo omaggio alla loro «madre bianca».
La voce del popolo ne riconobbe la santità in vita e in morte, finché Giovanni Paolo ii la dichiarò beata il 14 aprile 1985.

Ben presto le Missionarie francescane d’Egitto, prima congregazione missionaria femminile italiana, si sparsero in altre nazioni e continenti; per questo hanno cambiato la loro denominazione di origine: dal 1950 si chiamano Francescane missionarie del Cuore Immacolato di Maria.
Oggi circa 700 figlie della beata Caterina Troiani continuano l’opera di evangelizzazione e promozione umana in 88 case, sparse in Europa, Asia, Africa, Nord e Sud America, seguendo l’ideale della fondatrice: missionarie in contemplazione, contemplative in missione. 

Di Benedetto Bellesi

SENZA FAMIGLIA

L’unico riferimento di Caterina Troiani alla sua famiglia è in una lettera del 1881, quando apprese la notizia della morte del fratello don Francesco. «Lo raccomando alle sue preghiere – scriveva a don Verri -. Egli era l’unico mio fratello di padre e madre; ne ho altri di altra madre e stesso padre… anche questi raccomando alle sue orazioni».
Il padre si chiamava Tommaso, sposato nel 1805 con Teresa Panici. «Speziale» di professione, ma instabile per indole, Tommaso aveva dilapidato il patrimonio paterno e offriva i suoi servigi al migliore offerente. Proprio per ragioni di lavoro, all’inizio del 1816, si trasferì con la moglie e i quattro figli da Giuliano di Roma al paese limitrofo di Santo Stefano. Qui s’invaghì di un’altra donna. La relazione gli procurò anche qualche giorno di prigione; ne uscì con la promessa di emendarsi.
Ma fu inutile: una notte del giugno 1819 la moglie Teresa lo sorprese in fragrante e «ne ricevé delle briscole», come narrano le cronache del tempo. Da quel momento Tommaso decise di disfarsi della moglie. Alla fine dello stesso mese Teresa era nella tomba per un probabile avvelenamento.
Processato e condannato all’ergastolo per uxoricidio premeditato, Tommaso fu scarcerato dopo 12 anni per buona condotta. Tornato in libertà, non trovò nessuno ad aspettarlo. Dei quattro figli, tornati a Giuliano e affidati alla zia matea, due erano morti tre anni dopo la scomparsa della madre; Costanza era diventata suora con il nome di Caterina; Francesco era in seminario, dove sarà ordinato prete nel 1836.
Vivendo da buon cristiano, il Troiani cercò di rifarsi una vita e a 60 anni, nel 1842, si risposò; ebbe altri quattro figli, che lascerà in tenera età nel 1853, colpito da ictus cerebrale.

Benedetto Bellesi




«AMATEVI GLI UNI GLI ALTRI  CON AFFETTO FRATERNO»

la parabola del «figliol prodigo» (20)

«25… Ed essendo appena giunto, si avvicinò alla casa, ascoltò musiche e danze; 26e avendo chiamato (a sé) uno dei servi, s’informava di cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello, quello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo» (trad. letterale).

Il figlio anziano della parabola, come abbiamo già visto, prefigura non solo «gli anziani», che con gli scribi e i sacerdoti costituiscono l’autorità istituzionale, rappresentata nel Sinedrio, ma anche il mondo «religioso» nel suo insieme che professa la religione del dovere e dell’adempimento.
Luca 15 si era aperto con la scena dell’avvicinamento dei «pubblicani e peccatori per ascoltarlo (= Gesù)», in contrapposizione a scribi e farisei che invece «mormoravano» (Lc 15,1.2), quasi di soppiatto, ma in modo che il mormorio fosse percepito. Il figlio anziano nella penna di Lc sviluppa un comportamento che riflette e rinnova il mormorio dei farisei, che sono emblema del perbenismo di facciata di ogni epoca, la cui regola d’oro è: avere la coscienza a posto con il minimo di disagio.

Sei verbi per un assente?
Per descrivere la personalità irrisolta del figlio «anziano», uomo religioso e pio, che entra in scena in modo bizzarro, l’evangelista nei vv. 25-26 usa sei verbi in sequenza, senza respiro: quattro verbi sono secondari (due participi e due imperfetti) e due verbi principali, cioè narrativi.
– «Era/si trovava nel campo» (verbo all’imperfetto che serve per dare al lettore una informazione supplementare, circostanziale che aiuti a inquadrare il personaggio): il figlio è sempre da un’altra parte, sempre altrove. Era assente nella prima parte, quando si consumò la tragedia del fratello, è assente anche nel momento del ritorno. È stato «in», ma mai «nella» casa. Da questo accenno ci rendiamo conto che la sua personalità è avvitata nella grettezza e isolamento. Nei momenti della vita, egli semplicemente non c’è. Se il fratello si è perso in «un paese lontano» (v. 13), egli, pur stando fisicamente vicino, è sempre stato smarrito «nel campo». 
– «Ed essendo appena giunto» (participio presente medio, costruito secondo la sintassi ebraico-aramaica, che serve da introduzione ai due verbi principali che seguono): questa notizia conferma e rafforza, aggravandola, quella del verbo precedente, perché mette in evidenza stridente che il figlio resta sempre fuori e, come vedremo, sceglie di restare fuori.
– «Si avvicinò alla casa» (verbo narrativo di primo piano, come il seguente, che l’evangelista vuole mettere in evidenza). La notizia principale è questa: appena giunto, si avvicina, ma non si precipita, come farebbe qualsiasi persona normale. Avanza circospetto e dubbioso e ancora una volta resta sulla soglia, in forma anonima. Si avvicina soltanto, sospettoso e forse irritato.
– «Ascoltò musiche e danze» (verbo narrativo, come il precedente, sulla linea principale della narrazione che l’evangelista vuole mettere in evidenza). È la seconda notizia che l’autore vuole dare come importante. Ascoltare è entrare in relazione con il clima di festa che danze e musiche (lett. «sinfonia») fanno presagire. Per il figlio la festa è una novità assoluta, che non capisce: o il padre è impazzito o è successo qualcosa di straordinario. Il figlio anziano «ascolta» e si sente profondamente estraneo. L’osservazione dell’evangelista esprime bene il disorientamento di questo disadattato normale che non ammette né la festa per sé (v. puntata seguente) né tanto meno può accettare che altri facciano festa. Lui e solo lui è la misura del mondo che lo circonda.
– «E avendo chiamato (a sé) uno dei servi» (participio medio che serve da complemento al seguente imperfetto, anch’esso secondario): il figlio anziano è talmente sospettoso che va alla ricerca di un intermediario per non esporsi in prima persona. Non si butta in mezzo alla novità, ma resta ancorato alla «sua tradizione» di uomo diffidente e fiero avversario di ogni innovazione. Ha sempre bisogno di schermi, che per lui sono scuse: potrà sempre dire che lui non c’era e non sapeva. Il verbo «proskalèomai – io chiamo a me/faccio venire a me (avvicinare)» nel NT ricorre (sempre nella forma media) 29 volte, di cui 10 nelle opere di Luca (Lc 7,18; 15,26; 16,5; 18,16; At 2,39; 5,40; 6,2; 13,7; 23,17.18.23). Di norma si applica a Gesù che chiama i discepoli (Mt 10,1), il popolo (Mt 15,10), i bambini (Lc 18,16), ma anche ad altri personaggi (Mt 18,32; Mc 15,44, ecc.). L’espressione «uno dei servi» è forma indeterminativa ed esprime l’ansia e la fretta di sapere: egli chiama uno «qualsiasi» dei dipendenti. Al v. 22 il padre aveva chiamato «i servi» (gr.: doûloi) cioè quelli che facevano parte della famiglia abitualmente; ora il figlio anziano chiama «uno qualsiasi» (gr.: hena tôn pàidōn, che letteralmente significa «uno dei ragazzi»), forse uno che lavorava a giornata e quindi un estraneo.
– «S’informava di cosa fosse tutto questo» (imperfetto medio, serve per descrivere al lettore l’atteggiamento del figlio). Il verbo greco «pynthànomai» esprime l’idea dell’investigare, quasi spiare: se ne stava a indagare. Nel NT ricorre 12 volte (Mt 2,4; Lc 15,26: 18,36: Gv 4,52: 13,24: At 4,7; 10.18.29: 21,33: 23,19.20), di cui, come si vede, ben 8 in Lc. Si può dire che è un verbo proprio del terzo evangelista. Il verbo a sua volta è seguito da una interrogativa indiretta e significa «domandare/indagare con curiosità/chiedere con attenzione». Luca con un paio di verbi dipinge il quadro completo della personalità del figlio anziano: è curioso, ma senza esporsi a fare la domanda diretta: indaga, confabula per sapere perché, in caso di necessità, vuole essere sicuro di non rimetterci e avere sempre una via di fuga o una spiegazione pronta.

Essere fuori stando dentro
Luca è un narratore straordinario perché con poche parole mette il lettore sull’avviso che il nuovo personaggio non ha una chiara personalità ben stagliata e definita, ma è un individuo indistinto, quasi senza volto; un uomo che si aggira, non si presenta; che spia, non affronta. Il suo ingresso in scena fa da contrasto stridente con la presenza del fratello minore, che era presente anche quando era assente: la casa senza di lui era un mortorio. Ora invece, solo sentire la musica allarma così tanto il figlio, fariseo-anziano, che si avvicina circospetto e s’informa attraverso il servo, restando però sempre «fuori».
Essere fuori è tipico delle persone religiose che sono talmente piene di pratiche e doveri e obblighi da non accorgersi che nel loro cuore non c’è posto per Dio: praticano molto, ma amano poco o nulla e non si accorgono che Dio passa inutilmente accanto a loro, preoccupati come sono di «soddisfare i precetti» per tranquillizzare la propria coscienza. Dio per loro è solo un pretesto, essi adorano soltanto il loro narcisismo solipsistico: sono schiacciati dai doveri religiosi da non essere più abituati a sapere ricevere gratuitamente il senso liberante dell’atto religioso.
Don Primo Mazzolari nel 1934 pubblicò un commento alla parabola lucana dal titolo La più bella avventura e pur non essendo un esegeta, ma un uomo letteralmente posseduto dallo Spirito, seppe cogliere le sfumature e l’anima dei protagonisti. Mettendo a confronto i due fratelli scrive: «Tanto colui che rimane come colui che va, non ha capito l’amore del Padre: perciò le tenebre sono dentro e fuori. Anche la Casa ha resistenze opache. L’amore del Padre non è negato, ma sospettato… L’anti-chiesa può essere nella chiesa stessa: come l’anticristo può essere accantonato nel mio animo di credente e cristiano. Siamo tutti fuori e tutti dentro, perché ognuno, nella propria inadempienza, è mancante; come nella propria insufficienza, ha la possibilità di rientrare» (P. Mazzolari, La più bella avventura. Sulla traccia del «prodigo», Ed. Dehoniane 2001, pp. 40.43).

Si avvicinò alla casa, ascoltando musiche e danze
Il figlio anziano procede circospetto e non giunge libero e disinvolto, ma si limita ad avvicinarsi: ancora lontano, sente qualcosa di strano, un suono che aumenta mano a mano che si avvicina. Preoccupazione e curiosità alimentano il suo terrore. Dove c’è festa di solito c’è gioia e lui vive nella tristezza che è il vestito diuo della sua anima. S’insospettisce, diventa guardingo, comincia a domandarsi cosa stia succedendo; la preoccupazione e l’affanno lo prendono nell’anima e vuole vederci chiaro.
Emblema del «tipo» religioso osservante (fariseo) che si sente sempre in credito verso Dio e verso gli altri, di cui non ha alcuna stima, non ritorna a casa ma, «appena giunto», si avvicina come un ladro per origliare e pronto a giudicare e a condannare. Uomini di chiesa e laici clericali hanno la condanna facile, perché trasformano il vangelo in un codice penale per comminare pene a chi non è e non pensa come loro.
Egli sa che suo fratello è andato via e che in casa il padre vive in perenne lutto, piangendo il «figlio perduto» e domandandosi dove abbia potuto sbagliare nell’educarlo. Chiunque sarebbe corso immediatamente in casa a vedere di persona cosa stesse accadendo, ma «questo» figlio, no: lui non corre dentro casa, dal padre, ma comincia ad avere paura, perché ogni novità o variazione nel grigiore della sua giornata è un attentato all’ordine costituito.
È un uomo triste e lugubre che diffida di tutti e tutti considera inferiori a sé, perché solo lui è «il giusto». Probabilmente intuisce che possa essere tornato il fratello e va nel panico: non vuole ammetterlo nemmeno a se stesso, perché sarebbe il crollo di ogni suo sogno e cupidigia. Non pensa che la musica e le danze possano essere espressione di esplosione di vita e segno di felicità partecipata; al contrario, pensa che danza e musica siano segnali di tragedia, segni cupi di un imminente cataclisma, perché non annunciano nulla di buono.
La tragedia di quest’uomo è che, pur non essendosi mai allontanato da casa, non vi è mai entrato, perché ne è sempre rimasto «fuori», avendo paura di essere coinvolto in una rete di relazioni affettive a cui si sente estraneo. Deve chiamare un servo per sapere cosa accade (v. 26), quasi per mettere tra sé e l’evento un diaframma, uno schermo che al tempo stesso è riparo ed esclusione. Egli sente che tutto attorno gli è ostile e cerca una via di fuga, una forma di esorcismo, perché la novità della musica e danza gli sconvolge la vita.

Paradigma etico: Giuseppe e i suoi fratelli
Il versetto nella sua semplicità dice anche un altro elemento che spesso viene sottaciuto: nessuno ha avvertito il figlio «anziano» del ritorno del fratello. Egli era estraneo, «nel campo», e tale resta: nessuno si accorge della sua assenza, perché nessuno si è mai accorto della sua presenza. È tragica la figura di questo figlio che vive, come sapremo presto, nell’attesa della morte del padre per ereditare «la roba» e che è indiffe-rente sia quando c’è che quando non c’è.
Nel libro della Genesi (37,12-18) si narra che Giacobbe aveva i suoi figli «anziani» al pascolo in una regione lontana e, volendo avere notizie di loro e del gregge, mandò Giuseppe a cercare i fratelli: «Va’ a vedere come stanno i tuoi fratelli». Giuseppe, il fratello minore, si mette in viaggio verso i suoi fratelli e non conoscendo la strada, chiede a un passante: «Cerco i miei fratelli. Indicami dove si trovano a pascolare». Alla fine «Giuseppe andò in cerca dei suoi fratelli e li trovò a Dotan». I fratelli «maggiori», gelosi del fratello minore «lo videro da lontano e, prima che giungesse vicino a loro, complottarono di farlo morire».
Sappiamo come andò a finire: dopo non molti anni sarà Giuseppe, il figlio minore, che salverà la vita dei fratelli omicidi e di tutta la sua stirpe. Anche per lui valgono le parole del salmo che la liturgia pasquale applica al Cristo Messia: «La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo» (Sal 118/117,22).
Anche nella parabola lucana, avviene qualcosa di simile: il ritorno del figlio minore può essere l’occasione di salvezza per il fratello anziano, la svolta della sua vita e la riscoperta dell’amore di quel padre che egli non ha mai amato e da cui non si è mai lasciato amare. Il ritorno del fratello minore, al contrario, sancisce la sua condanna definitiva, perché egli non vuole un fratello e di conseguenza non vuole nemmeno un padre: «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).
Nella parabola lucana nulla può escludere la possibilità che il minore sia scappato da casa per le vessazioni del fratello «anziano», ma è facile dedurlo dalla reazione del maggiore che si stupisce della musica, e forse teme che il fratello sia davvero ritornato. Egli sperava di essersene liberato per sempre, mentre adesso rischia di ritrovarselo di nuovo, ma come è suo costume non vuole esporsi.
Ormai siamo certi che egli non si è mai informato del fratello e né mai ne ha parlato con il padre, che probabilmente ha trasformato la casa in luogo di lutto perenne, dove la vita scorreva anonima e greve, perché quella casa era vuota e muta senza il «figlio più giovane».
Il figlio «anziano» non ha partecipato al lutto e non intende partecipae ora la gioia: ha messo gli altri nel ghetto, alzando una siepe di egoismo ed esclusione, e considera gli altri come suoi nemici, padre compreso, con i quali non vuole sporcarsi. Chiamare il servo per conoscere gli avvenimenti, significa impedirsi di vivere gli stessi avvenimenti e condannarsi alla morte. Invece di sprofondarsi nel cuore della festa per diventae parte e fae parte agli altri, «chiamò un servo».
L’evangelista in questo modo mette in contrasto l’atteggiamento del padre con quello del figlio «anziano». Il padre si accorge del figlio giovane prima di vederlo e lo percepisce «quando ancora era lontano» (v. 20) e gli corre incontro, perdendo la sua stessa dignità. Il «figlio anziano» non solo è nel campo, cioè lontano da casa, ma nemmeno quando si avvicina alla casa riesce a «sentire» la presenza del fratello.
La musica e le danze avrebbero dovuto essere «il segno» da mettergli le ali ai piedi e farlo volare verso la pateità e la frateità compiute nell’abbraccio di padre e figlio; al contrario, lo escludono ancora di più e lo seppelliscono nel suo egoismo e nella sua avidità.

La frateità, Pasqua della pateità
Nella prima parte della parabola, tutto si gioca sulla pateità negata dal figlio minore, mentre il maggiore viene ricordato solo incidentalmente, perché «un uomo aveva due figli» (v. 11), tra i quali il padre «divise la sua vita» (v. 12). In seguito si parla solo del figlio «più giovane», mentre dell’altro si perdono le tracce. Forse per questo una lettura superficiale ce lo ha fatto apparire «simpatico», modello di figlio adulto e maturo, devoto al padre, a differenza del minore, degenere e traviato.
Scopriamo, invece, che la sua assenza non è motivata dalla sua fedeltà, ma dalla sua natura di figlio degenere nell’anima e traviato nel sentimento: egli è sempre assente, nonostante sia il «più anziano» e quindi l’erede designato, colui che fa le veci del padre. A una lettura attenta e meno frettolosa veniamo a conoscere la natura gretta e il volto accigliato di questo figlio, che figlio non è mai stato, perché vive nel rifiuto della frateità.
Il servo interpellato, con ogni probabilità, conosce bene questo figlio anziano e con la sua risposta cerca di creare il ponte verso il padre, offrendogliene l’opportunità: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello, quello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo» (v. 27), mettendo in luce lo stesso sentimento del padre, espresso al v. 24: il figlio morto e ritrovato.
Nelle parole del servo, però, c’è di più, perché anticipa le parole che lo stesso padre dirà più tardi, andando incontro anche a questo figlio «anziano» che si è perduto senza essersi mai allontanato: «Questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita» (v. 32). Il servo infatti non dice che è tornato il «figlio del padre», ma precisa «tuo fratello è qui» e aggiunge «tuo padre» ha deciso si ammazzare il vitello della festa.
Il servo gli annuncia la Pasqua di risurrezione che sta vivendo il padre e lo invita a risorgere anche lui, entrando a mangiare il vitello della festa. Il servo/estraneo sa quello che il figlio anziano non sa e non vuole sapere: «Che io non perda nulla di quanto egli (il Padre) mi ha dato» (Gv 6,39). Egli da uomo della tradizione religiosa, che recita le preghiere secondo il rituale, quello sicuro, pensa a salvare se stesso, non curandosi della salvezza del fratello, e non sa che questa è la sua condanna e il suo inferno, perché da soli ci si danna sicuramente, mentre ci si può salvare solo insieme.

Salvare vale più di ogni sacrificio
In questa circostanza straordinaria, il servo prova a riportare il figlio dentro la rete di relazioni affettive, stuzzicandolo a entrare nella dinamica della pateità, che diventa frateità condivisa: tuo fratello, tuo padre. È straordinario che il servo non gli dica che il padre ha reintegrato il fratello nella pienezza della sua identità di figlio, attraverso i segni esteriori (vestito, anello e sandali del v. 22), ma metta in evidenza l’aspetto religioso e sacrificale dell’avvenimento: il vitello grasso, riservato al sacrificio per il Signore.
Per il padre ricevere il figlio vivo ha la stessa valenza che stare davanti a Dio: ammazza il vitello grasso per il suo ritorno come se stesse compiendo il sacrificio di ringraziamento nel tempio di Gerusalemme. Per il padre credere è accogliere il figlio perduto. Il servo coglie questa grandezza smisurata e ne è partecipe così tanto che crede possibile smuovere il cuore di pietra del figlio anziano: «Tuo fratello è tornato e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello, quello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo» (v. 27).
A questa notizia il figlio «anziano»: «Si accese d’ira e non voleva entrare» (v. 28), svelando così la sua natura fratricida e la sua indole irrecuperabile; se è vero che il minore è scappato di casa, è altrettanto vero che il maggiore non vuole entrare; ma mentre il primo è tornato e sta dentro, l’anziano resta fuori perché non è mai entrato e tocca ancora una volta al padre uscire e andargli incontro, nel tentativo di recuperare anche questo figlio, che avrebbe dovuto essere un modello di esempio per la sua «anzianità». Di questo però ci occuperemo la prossima volta                              (continua – 20).

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Rinascere … si può

Remolino compie 20 anni

In 20 anni di vita, la parrocchia di Remolino ha lanciato la sfida alla guerriglia e narcotraffico, proponendo alternative legali alla coltivazione della coca. Le comunità disseminate nella foresta amazzonica stanno maturando una nuova coscienza, ma il cammino è ancora lungo.
Anche quest’anno si è realizzato il «mistero pasquale», cioè, il passaggio dalla situazione di «passione» alla speranza di una esistenza più umana e dignitosa.

Mi trovavo nell’ufficio parrocchiale, situato a ridosso della chiesa, quando sentii dei bambini gridare; mi diressi verso la chiesa per vedere che cosa stesse succedendo e mi trovai di fronte tre fratellini: un bambino di 5 anni e due bambine di 7 e 9 anni. Stavano facendo un gioco che piace a tutti i bambini: gridare per sentire l’eco della voce riflessa dalle pareti della chiesa.
Mi avvicinai e, prendendo per mano il più piccino, li invitai a entrare in chiesa, li accompagnai vicino all’altare, di fronte al tabeacolo, alla presenza di Gesù nell’eucaristia.
«Dove ci troviamo?» domandai loro. «Nella chiesa» risposero in coro. «E chi c’è qui in chiesa?» continuai. «C’è Gesù!» esclamarono insieme. «E dov’è Gesù?» insistetti. «Lì» risposero senza esitazione, indicando il crocifisso appeso al centro del presbiterio.
Non volli «rovinare» la loro risposta, che mi parve la più naturale, per una popolazione che soffre oppressioni e ingiustizie. Li invitai a pregare insieme a me. Fecero il segno della croce con molta devozione e tutti insieme recitammo il Padre nostro.
L’emozione è forte e, grazie a questi bambini, mi rendo conto come questo popolo ha dentro di sé sete di Dio e di spiritualità, anche se molte volte si lascia trasportare da una religiosità popolare ricca di superstizione che lo rende cieco.
20 ANNI DI SFIDE
L’episodio che ho voluto ricordare fa parte del programma pastorale del nostro vicariato di San Vicente per il 2008: celebriamo infatti l’«anno dell’eucaristia», ispirandoci al testo dei discepoli di Emmaus: «E lo riconosciamo allo spezzare del pane». Per celebrare tale evento con iniziative concrete, ci siamo trovati con un gruppo di persone, che non oso chiamare «consiglio parrocchiale»: la nostra comunità non è ancora una parrocchia ben definita, anche se ha compiuto 20 anni di vita.
Giuridicamente, infatti, l’istituzione della parrocchia di Remolino e la nomina del primo parroco portano le date rispettivamente dell’1e 2 gennaio del 1988. Alla fine dello stesso anno padre Giacinto Franzoi si stabiliva definitivamente come fondatore e parroco della parrocchia di Sant’Isidoro Lavoratore in Remolino del Caguán.
Già da una decina di anni, salvo un breve periodo trascorso in Italia impegnato nell’animazione missionaria, padre Giacinto si recava periodicamente in questa remota zona, che apparteneva alla parrocchia di Cartagena del Chairá, per prendersi cura dei contadini che migravano nella foresta amazzonica in cerca di sopravvivenza.
Il nuovo parroco arrivava nel piccolo paese senza avere un piede a terra: per anni è vissuto in un bugigattolo in affitto e celebrato la messa nell’arena destinata alle lotte dei polli. Ma le sfide più grandi erano date dal clima di conflitto causato dalla presenza della guerriglia e dal boom della coltivazione della coca.
Fin dai primi mesi padre Giacinto ha dovuto difendere la gente di questo territorio durante il primo attacco armato da parte dell’esercito nazionale, che considerava gli abitanti di questo paese tutti guerriglieri. Il suo intervento presso il comandante riuscì a far liberare molti contadini, incarcerati per la semplice colpa di vivere in questo territorio.
Immediatamente padre Franzoi si preoccupò di liberare i suoi parrocchiani da un’altra schiavitù: quella della coltivazione della coca e conseguente narcotraffico. E lanciò la famosa campagna «No alla coca, sì al cacao», partendo da Milano, al tempo del cardinal Martini, e estendendola con notevole successo in tutta l’Italia. Con gli aiuti raccolti padre Giacinto poté attuare una serie di proposte alternative: coltivazioni di cacao e caucciù, allevamento del bestiame, piantagioni di frutta amazzonica, cornoperative di vario genere, fabbrica di cioccolato Chocaguan e altri derivati dalla trasformazione del cacao…
A tali iniziative se ne aggiunsero altre di carattere formativo a favore dei contadini della zona, senza trascurare le necessarie strutture parrocchiali: costruzione della casa per i missionari, una bellissima chiesa ottagonale, un efficiente oratorio per tutte le attività ricreative e formative per la comunità di Remolino e di quelle dei 40 villaggi sparsi nel territorio parrocchiale.
Poi vennero progetti speciali, come l’acquedotto con acqua potabile e il centro di formazione e studio per accogliere i giovani dei villaggi più lontani che vogliono continuare a studiare nella scuola superiore statale del paese.
Poche righe per riassumere 20 anni di impegno missionario, ma sufficienti per descrivere come questa missione, sperduta nella foresta amazzonica, ha acquistato una propria identità di parrocchia e di comunità cristiana. Merito certamente dell’indefesso lavoro di padre Giacinto e degli altri missionari che lo hanno coadiuvato, tra cui padre Giuseppe Cravero che ha speso otto anni in questa missione; senza dimenticare i tanti laici e laiche passati da qui. Tra tutti ricordiamo il signor Paolo Vianello di Bolzano: a Remolino ha fatto i primi passi nella collaborazione missionaria, per poi continuare in altre località del vicariato di San Vicente.
La parrocchia oggi
Attualmente la parrocchia di Remolino è ricca di personale, se confrontata con gli anni passati. C’è naturalmente padre Giacinto, che, con i suoi 30 anni di esperienza nella regione del Caguán, è il nostro punto di riferimento, sempre pronto a orientarci nelle nostre iniziative.
Negli ultimi anni sono arrivate a Remolino tre Hermanas de la Paz (suore della pace), una congregazione nata in Colombia nel 1950, negli anni in cui scoppiava l’ondata di violenza che insanguina ancora il paese. Sono suore che hanno desiderato essere presenti in questo territorio di missione, totalmente nuovo per loro, ma che rispondono al loro carisma: le tre sorelle, infatti, sono specializzate nella creazione di gruppi impegnati nella costruzione della pace interiore, familiare e comunitaria, mediante l’educazione scolastica e il lavoro pastorale.
Dallo scorso ottobre è con noi Beatriz Sierra, una missionaria laica colombiana che si occupa della parte amministrativa della parrocchia, segue vari progetti in corso, è impegnata nella pastorale caritativa e, al tempo stesso dà una mano nella catechesi, specialmente nel preparare i bambini alla prima comunione.
Tutti insieme formiamo l’équipe pastorale; ma cerchiamo di coinvolgere più persone possibili. Per questo organizziamo incontri aperti a tutti coloro che vogliono partecipare e cerchiamo di creare gruppi e comitati che si occupano di settori specifici della vita della comunità.
Per meglio vivere e celebrare l’anno dell’eucaristia siamo riusciti a creare un nuovo gruppo che si dedica all’animazione della liturgia domenicale. Ogni venerdì ci raduniamo e riflettiamo sulla parola di Dio della domenica seguente e, con il metodo della lectio divina, prepariamo la celebrazione del giorno del Signore.
Settimana Santa
Un consolante risultato del nostro lavoro è stata la partecipazione della gente di Remolino alle celebrazioni della settimana santa, soprattutto il venerdì santo, dove tutti, ma proprio tutti, hanno collaborato attivamente alla preparazione della via crucis. È stato un evento alquanto speciale, anche perché, per la prima volta da quando sono in Colombia, la celebrazione è avvenuta sotto una pioggia torrenziale, dall’inizio alla fine. Ma la gente ha accolto tutto questo come un sacrificio da offrire al Signore per i peccati propri e del mondo.
Alla stessa sera, secondo la tradizione locale, la gente si è radunata di nuovo in chiesa per riflettere sulle cosiddette «ultime 7 parole di Gesù». Riflessioni preparate da alcune persone del paese, che hanno incarnato la passione di Cristo nella cruda realtà colombiana e di Remolino. Per ben due ore, senza il minimo segno di stanchezza, la gente ha vissuto questo forte momento della liturgia, proseguendo poi nell’adorazione della croce, in cui hanno visto rispecchiate le proprie sofferenze.
La settimana santa è il periodo dell’anno più sentito nella tradizione religiosa della popolazione colombiana. E poiché è impossibile essere presenti lo stesso giorno nelle 40 comunità della parrocchia, anche quest’anno, 15 giorni prima di pasqua, ho iniziato la visita ad alcuni villaggi, soprattutto quelli più popolosi, per celebrare la settimana santa e il triduo pasquale.
Uno dei villaggi era ancora scioccato dagli scontri, avvenuti pochi giorni prima del mio arrivo, tra l’esercito nazionale e un gruppo di guerriglieri. Ma anche qui siamo riusciti a coinvolgere la comunità, usando la metodologia latino-americana della «comunione e partecipazione». Si inizia con qualche gioco per mettere la gente a proprio agio. All’inizio non tutti si mostrano interessati e attivi; ma poi giovani, adulti, uomini e donne partecipano gradualmente per creare un clima di festa e di frateità. A questo punto formiamo tre gruppi, ognuno dei quali è chiamato a riflettere su un giorno del triduo pasquale: meditazione sulle letture bibliche, ricerca del messaggio più profondo e attuale, sua applicazione concreta nella vita di tutti i giorni, attraverso la conversione negli atteggiamenti e nei sentimenti più profondi del proprio cuore. Il lavoro di gruppo culmina con la scelta dei canti e la ricerca del «segno» che identifichi la giornata specifica del triduo. Ogni gruppo scrive su un cartellone i punti fondamentali della riflessione, che viene condivisa con tutta la comunità.
Dopo questo momento di «catechesi attiva», inizia la celebrazione, in cui ogni gruppo anima una parte della liturgia: il momento penitenziale è affidato a coloro che hanno preparato il venerdì santo; l’offertorio a quelli che hanno riflettuto sul significato del giovedì santo; dopo la Comunione il gruppo del sabato santo invita i partecipanti a imitare Maria Magdalena, l’altra Maria e i discepoli, cioè, annunciare con la vita l’incontro giornioso con il Cristo crocifisso e risorto e i fratelli. La celebrazione, infatti, che dura più di tre ore, è caratterizzato da un clima di gioia, vissuta con semplicità tra fratelli e sorelle,  con semplicità, espressione concreta del vero «clima pasquale».
USCITO DALLA GUERRIGLIA
Il significato della pasqua di risurrezione l’ho visto realizzato pochi minuti dopo la fine della celebrazione, in quello stesso villaggio. Un giovane con un berretto sportivo in testa, il poncho sulla spalla sinistra e la frusta per controllare il bestiame nella destra, mi si avvicina e comincia a parlarmi sottovoce, guardandosi attorno con aria circospetta. Capisco che si tratta di una cosa delicata e lo invito a uscire dal salone, per evitare occhi e orecchie indiscrete.
Comincia dicendomi il suo nome, che non riporto per la sua sicurezza personale. È nervoso. Comincia a parlare con mezze frasi, rendendomi difficile la ricostruzione della sua storia. Finalmente capisco che è uscito dalla guerriglia e mi chiede di aiutarlo a recuperare i documenti del suo stato civile.
«Non so quando sono nato – comincia a raccontare con più calma -. Avevo forse 7 anni quando ho dovuto lasciare la mia casa; oggi penso di avee 21. Da bambino mi piaceva giocare con le armi; quando mia mamma mi portava a messa, io scappavo per andare a giocare».  Mentre nomina la madre, il suo volto si fa più triste. «Mio fratello maggiore mi ha portato nella guerriglia – continua a raccontare -. È stato ferito in uno scontro armato ed è rimasto invalido. Un altro fratello è stato punito, cioè ucciso dagli stessi guerriglieri».
Le disgrazie capitate ai suoi fratelli hanno provocato in lui una forte crisi esistenziale circa il suo futuro personale e le motivazioni della guerriglia, e ideali dei guerriglieri. «Con loro la vita è durissima – continua a confidarsi -. Tutto è programmato e pianificato: ci sono tempi stabiliti anche per andare al bagno e chi sbaglia o disobbedisce è punito duramente. Quando sono entrato nel gruppo guerrigliero ero molto motivato; credevo nella loro ideologia politica: raggiungere il potere a ogni costo, perché questo è il solo modo per raggiungere in Colombia certi cambiamenti, come una vera riforma agraria… Padre, non so nemmeno se sono battezzato: con mia mamma ho imparato il Padre nostro… Ma tra i guerriglieri non si pratica alcuna religione; anzi, si predica che la chiesa è il nemico “numero uno”. Io, però ho sempre sentito dentro di me il bisogno di ricorrere a Qualcuno… E quando nei pacchetti di biscotti trovavo le immagini di santi e relative preghiere, le conservavo avvolte in pellicole di nailon e tutti i giorni invocavo la loro protezione. Tutte le volte che partecipavo a uno scontro con l’esercito pregavo perché tutto finisse al più presto, per potere uscire da una situazione che non sentivo più mia.
Sono stato 12 anni nella guerra e la mia salute ora è molto fragile, ho dolori in ogni parte del corpo. Dopo molte insistenze, ho ottenuto il permesso di uscire dalle file della guerriglia; ora posso vivere come un contadino qualsiasi di questo territorio. Vivo in questo villaggio, ma lavoro in varie fattorie e con il denaro che ricevo sto cercando di comprarmi una fattoria nella foresta, pagandola a rate. Mi dicono di piantare coca, ma non desidero mettermi in questo nuovo circolo. Ora vivo anche con una giovane di 26 anni, anche lei è scappata dalla guerriglia, che ho preso sotto la mia protezione: sono riuscito a parlare con i guerriglieri del suo gruppo che me l’hanno affidata.
Padre, mi aiuti a rintracciare mia madre: dovrebbe avere circa 50 anni e penso che viva ancora nel mio villaggio d’origine, in un’altra regione della Colombia…».

È questa una delle tante storie di vita quotidiana in Colombia e nella mia parrocchia. In questo momento stiamo vivendo una pace apparente: non basta far tacere le armi; bisogna recuperare tanti cuori afflitti e ricucire rotture che ogni guerra lascia attorno a sé.
«Cristo, nostra pace!» abbiamo proclamato e invocato nel tempo pasquale. L’esperienza di questi mesi mi convince sempre più che è possibile incontrare il Cristo risorto anche nelle situazioni più difficili e complesse e che, come missionari, è nostro compito principale farlo risorgere nel posto in cui viviamo, attraverso la fede e la speranza.
Lo sto scoprendo proprio in mezzo a questa popolazione, che è ancora attirata dal miraggio della coca, soldi facili, vita dissipata; ma al tempo stesso è in cerca di una via di uscita, attraverso le coltivazioni alternative, come quelle del cacao e caucciù, l’allevamento del bestiame e altre iniziative legali che stiamo promuovendo. 

Di Angelo Casadei

Angelo Casadei




L’EREDE

Intervista a don Marino Basso, rettore del Santuario della Consolata di Torino

Prete «da cortile», come si definisce egli stesso, don Marino guida ormai da qualche anno il cuore spirituale della città di Torino. In occasione della festa del 20 giugno lo abbiamo incontrato e gli abbiamo rivolto qualche domanda. Ci ha parlato di Maria, ma anche di una città che, seppur in rapido cambiamento, continua ad aprire il suo cuore alla Madre di Dio.

Alcuni dicono che nel volto somigli un po’ all’uomo che più di ogni altro ha legato il suo nome al santuario, essendone stato il rettore per ben 46 anni: il beato Giuseppe Allamano.  Ma le similitudini non si fermano qui. Don Marino è nato a Chieri, nell’aria dell’Allamano e dei grandi santi castelnuovesi. «L’aria mi ha fatto bene, ma la strada è ancora lunga…» dice ridendo.
Parecchia polvere mangiata negli oratori di periferia e della cintura torinese come vice curato: la pastorale nel sangue. Poi, un’altra comune esperienza con il santo predecessore: dal 1992 al 1997 è rettore del seminario maggiore. Un’esperienza che don Marino definisce «bellissima», al servizio di più di 70 studenti di teologia. Infine, dopo un’altra breve parentesi pastorale, arriva la «mazzata». «Nel 2001, all’età di 45 anni, sono stato nominato rettore del convitto e pro-rettore del santuario della Consolata. L’incarico a pieno titolo l’ho ricevuto il 2 febbraio 2006. Per uno che veniva dal lavoro sul campo, negli oratori, il cambio è stato grande. Mi sono dovuto abituare».
L’incontro con don Marino  si svolge in una saletta del convitto: «Luoghi frequentati dall’Allamano», mi ricorda. Gli chiediamo:

La gente continua anche oggi ad essere affezionata alla Consolata e al suo santuario?
Nel giugno 2004, durante la meditazione della novena, il cardinale  disse che il santuario della Consolata era «il cuore spirituale della diocesi». Il santuario è sempre visitato, abitato da qualcuno che viene a trovare la Consolata nella calma e nel silenzio. Le cappelle laterali permettono di raccogliersi nella libertà più personale e trovare l’intimità per incontrare la madre di Dio.
In questo silenzio della Consolata, che si avverte quando si entra nel santuario, c’è tutta l’attenzione ministeriale di Maria. Sembra che rimanga nel quadro invece, nel silenzio, si apre all’accoglienza e all’ascolto. Frutti di quest’attitudine sono la consolazione, la pace, la calma interiore, il grande dono di sentirsi visitati, anche nelle sofferenze più profonde, dalla Madre di Dio.
La chiesa sempre aperta permette un servizio a tempo pieno, anche nell’ora del pranzo, di cui la gente approfitta per venire a pregare o semplicemente a rimanere in silenzio. È certamente il luogo nel quale la gente viene in una situazione di felicità o in un momento di grande sofferenza e alla Consolata apre il cuore. Ciò che la Consolata raccoglie tutti i giorni, solo lei lo sa, di bello e di brutto, io faccio solo un po’ da segretario. Ciò che lei opera ogni giorno è racchiuso nel segreto della relazione che lei opera ogni giorno con chi a lei si affida.

Avvertite anche voi il senso di stanchezza spirituale che sembra avvolgere le nostre comunità di fede?
Più che di senso di stanchezza parlerei di calo matematico, quello sì innegabile. Si tratta di una diminuzione che noi avvertiamo soprattutto nel numero di persone che si avvicinano al sacramento della riconciliazione, che resta il servizio peculiare che offriamo qui alla Consolata. Al calo numerico cerchiamo di sopperire con la qualità, che è rimasta invariata, frutto anche di un continuo lavoro di preparazione e aggioamento. La gente, comunque, continua a venire perché sa che alla Consolata c’è sempre qualcuno pronto ad ascoltarla e ad offrire il perdono di Dio. E non sono solo torinesi, ma arrivano anche dalla Val d’Aosta, dalla Val di Susa, dalla diocesi di Ivrea. Giusto per dare due cifre: il santuario accoglie, per difetto, 1 milione e150 mila persone all’anno. Questa cifra corrisponde al conteggio che abbiamo fatto nell’anno 2006 con il contapersone sulle porte. In un anno passa praticamente la città di Torino.

Quante persone gestiscono di fatto tutte le attività del santuario?
Siamo in un momento di «bassa marea». Eravamo più di venti preti nel 2001, oggi siamo in sei ad occuparci direttamente dei servizi al santuario. Il cardinal Poletto ci ha confermato, che nel corso del 2008 alcuni preti lasceranno il loro ministero pastorale e verranno qui a darci una mano e spero tanto che la Consolata lo aiuti in questo proposito. Chi lavora al santuario passa almeno tra le 4 e le 6 ore al giorno in confessionale. Ora io sono fermamente convinto che questo tipo di ministero richieda necessariamente del riposo per poter offrire un servizio qualificato come quello che la Consolata è chiamata a rendere alla diocesi di Torino e anche alle diocesi vicine. Per essere buoni confessori bisogna prima di tutto essere degli uomini riposati. Essere riposati permette di poter pregare di più, formarsi adeguatamente e  servire meglio. Si rischia altrimenti di non avere la necessaria calma per ascoltare chi si rivolge a noi e si corre il rischio di diventare insofferenti. Le persone percepiscono immediatamente se siamo distratti, nervosi, stanchi. In questo modo, un servizio già reso carente dalla mancanza di personale rischia di allontanare la gente invece di avvicinarla. Questo è uno dei pochi luoghi in diocesi dove l’ascolto è sempre garantito, ed occorre darlo al massimo.

Chi sono, oggi, i visitatori tipo del santuario della Consolata?
Tantissime persone. È difficile anche solo immaginare quante generazioni sono passate per la porta del santuario nella sua storia millenaria. Eppure, resta un profondo legame filiale della gente con la Madre di Dio. In questo santuario c’è una tradizione così radicata di affetto sincero e manifesto nei confronti della Madonna, al punto che anche i non credenti ci vengono. Ci viene chi magari sta percorrendo un cammino di fede o chi ha qualche cruccio. In qualsiasi momento del giorno possono arrivare il giurista, l’avvocato, l’imprenditore di fabbrica, il primario dell’ospedale, il docente universitario, insieme al popolo, alla gente più comune senza titoli onorifici o accademici. Tutti con il bisogno di sentire come la mateità di Maria diventi avvolgente, avvolgente come l’abbraccio della madre al figlio, come si vede nella tela.
Questo vale anche per i cristiani che arrivano da più lontano, per i tanti migranti che, pur portando da casa le loro tradizioni e devozioni, hanno anche adottato la Patrona di Torino. La Consolata, ha un ministero che travalica le etnie; tutti, davanti a lei, si sentono mateamente amati.  La Vergine ci apre a una realtà che supera la diocesi, le etnie, le nazioni. Oserei dire che supera anche le religioni. Un esempio? Abbiamo mamme musulmane che portano i bambini a vedere la Consolata. Nella sura 19 del Corano, infatti, si parla della madre del profeta, di Gesù. C’è una grande venerazione per Maria e le mamme accompagnano volentieri i bambini a vederla; si fermano all’ingresso, indicando il quadro della Madre di Dio. Tempo fa abbiamo fatto una prova stampando immaginette della Consolata con l’«Ave Maria» scritta in arabo. Per rispetto di chi vive la fede islamica, avevamo omesso il termine «Madre di Dio», sostituendolo con «Madre di Gesù» e tentando così di venire incontro a una diversa sensibilità religiosa, senza rinunciare alla verità, ma mitigandola per poter dare  un annuncio anche a chi farebbe fatica a riceverlo in un linguaggio così dogmatico. Le immagini si sono esaurite molto velocemente.

Che cosa offre di specifico, oggi, il santuario della Consolata a chi lo visita?
Quando nel 2001 il cardinal Poletto ha ridisegnato la realtà del  santuario per renderla al passo con i tempi e le necessità della diocesi, è stato molto chiaro sui servizi che si serebbe aspettato dalla Consolata: celebrazioni liturgiche esemplari, possibilità costante di accedere al sacramento della riconciliazione e alla direzione spirituale, formazione dei confessori, enfasi sulla spiritualità mariana. A tutto ciò ha aggiunto un quinto punto che rappresenta per noi una novità e che ci qualifica ulteriormente: il cammino di accompagnamento dei «ricomincianti». Si tratta di un insieme di percorsi di riavvicinamento alla fede per coloro che ricominciano a credere. Abbiamo iniziato cinque anni fa aiutando più di 100 persone attraverso questo particolare ministero.  A questo servizio collabora anche suor Raffaella, missionaria della Consolata;  credo infatti che chi in qualche modo ha il carisma del primo annuncio possa aiutarci a formare queste persone per i quali la fede è una riscoperta totale. Non facciamo nessuna pubblicità, le persone si passano loro la voce da uno all’altro.
Oltre a tutto ciò il santuario non ha iniziative specifiche, per esempio nei confronti del mondo giovanile: tutti quelli che chiedono di poter fare un cammino vengono accompagnati, anche giovani, ovviamente. Desideriamo però che loro stiano il più possibile nelle loro parrocchie di provenienza; il santuario è una clinica un po’ particolare, specializzata per le «malattie spirituali», quelle malattie di cui uno si rende conto e che hanno bisogno di un momento di accompagnamento. Poi, basta. Il santuario può essere definito come un luogo senza frontiera, quella frontiera che invece ha la parrocchia. Dal santuario si può entrare ed uscire senza che nessuno ti chieda di dove sei o dove vai.
Dal suo osservatorio un po’ speciale, dovendo chiedere alla Consolata una grazia per la Torino di oggi, che cosa penserebbe? Che ferita o che progetto metterebbe nelle sue mani?
Dal nostro piccolo osservatorio abbiamo una percezione che sembra essere paradossale se letta nel contesto della vita di oggi. Viviamo infatti nel tempo che tutti dicono essere della comunicazione, il tempo dei telefonini… A quest’enfasi sulla comunicazione – e quindi sulla relazione, corrisponde invece una malattia profonda, radicata, a volte senza speranza che è la solitudine. Anche  solitudine da Dio, ci si sente abbandonati da  lui proprio per l’incapacità di una strutturazione positiva nell’ambito della fede. C’è poi l’esperienza della solitudine nelle relazioni umane. Relazioni ferite, saltate, interrotte, frantumate, a volte frutto di un abbandono. Gli anziani continuano a dire che i figli li hanno abbandonati, hanno preso la loro vita e si sono dimenticati di loro; i giovani dicono che nessuno si prende cura di loro. A metà della loro vita, alcuni quarantenni continuano a dire che sono talmente scissi tra il lavoro e la famiglia, da vivere interiormente delle grandi lacerazioni, create proprio da questa solitudine. C’è certamente anche il problema della solitudine di chi è immigrato. Noi raccogliamo grandi sofferenze, e anche grandi confidenze  da chi giunge e dice: «Nella mia terra… quando io ero…». Si coglie una grande fatica nell’inserimento di queste persone. Non dico che la città non sia accogliente, ma forse non ha strumenti per accogliere tutti, per creare ponti nelle solitudini.
La Consolata vuole incontrare le solitudini e non soltanto per consolarle, ma per costruire. La vera consolazione sta nell’aiutare a fare i primi, piccoli passi per riprendere i cammini interrotti, per riguadagnare coraggio interiore e anche per ridare speranza. Se c’è un frutto della consolazione è proprio la speranza di non sentirti perduto. Penso che l’Allamano avrebbe accolto questa inquietudine del cuore dell’uomo e avrebbe fatto certamente miracoli, come sapeva fare lui. La Consolata gli avrebbe suggerito qualcosa, così come continua a suggerire, nella storia, la medicina giusta per quest’infermità del cuore dell’uomo. Per l’uomo di oggi è importante sapere che alla Consolata c’è sempre qualcuno che ti accoglie, che ti ascolta: prima di tutto la Consolata stessa, e poi i preti che lavorano con lei al santuario.

Come rettore del santuario è l’erede dell’Allamano. Che cosa invidia di più al suo predecessore?
Aver avuto il Camisassa… questo non è un giudizio sui miei collaboratori, per la carità. In realtà, qui con me ho dei grandi Camisassa. Il guaio è che io non sono l’Allamano, e quindi loro fanno più fatica del Camisassa a capire che cosa vorrei fare. Il rapporto fra l’Allamano e il Camisassa, quello stile, ecco il punto a cui dovremmo tendere come comunità. Il vostro fondatore è riuscito a concretizzare l’intuizione donatagli dalla Consolata perché il Camisassa è stato capace di essere il tessitore del sogno missionario dell’Allamano. La loro frateità, il loro progettare e lavorare insieme, il loro volersi bene sono i punti che ci ispirano nel nostro vivere e costruire insieme. E devo dire che ci stiamo riuscendo. Il primo miracolo che la Consolata fa tutti i giorni al santuario è che tra noi preti ci si voglia bene.  Si lavora bene, ci si aiuta,  si è sereni, giorniosi… si è contenti di essere alla Consolata. Questo è il dono più grande che la Madonna può fare ogni giorno a noi, che in fondo siamo preti di parrocchia, di oratorio, ma felici di essere alla Consolata. 

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Cari missionari

Fame e sete
di buoni esempi

Cari missionari,
innanzitutto un grandissimo grazie per l’articolo uscito su Missioni Consolata nel mese di febbraio, a favore dell’operato, lungo e silenzioso, di fratel Giuseppe Argese. Sì, sto leggendo e rileggendo queste intense righe e mi pare di averlo fisicamente vicino questo personaggio (mai visto e che non conosco davvero). Vorrei parlare direttamente con lui… ringraziarlo, abbracciarlo, incoraggiarlo…
Iddio vi benedica tutti! Vi voglio tanto bene! Poche e semplici parole, ma col cuore. Delle notizie, cattive cattive, è piena l’aria e il mondo intero. Richiediamo un po’ di cose buone. Edificanti. Che riempiono lo spirito. Dei buoni esempi di persone generose, allegre (anche silenziose). In questo mondo pieno di cattiverie (non si sa da che parte stare, né per chi votare…) abbiamo veramente un bisogno (urgente) di fame e sete di giustizia. Cerchiamola (anche con il lanteino) tra i missionari veri, tra i volontari, tra i giovani, che nel buio della notte si incontrano con «gli ultimi» poveri e sbandati. Tutto è sempre per la gloria di Dio e l’edificazione del popolo di Dio.
Non è vero che tanti fanno il bene per farsi vedere. Costa fare il bene. E poi, il dovere del buon esempio dove lo mettiamo? È più facile criticare chi fa il bene, anziché tirarsi su le maniche e dare una mano sudando per il prossimo.
Tanti si propongono in questi giorni in televisione, vestiti sempre a festa (e con i gemelli dorati ai polsini delle camicie bianche). Ma, viva Dio, e questi sono gli esempi di chi ci dovrebbe governare? Chiacchiere e basta. I fatti sono tutta un’altra cosa.
Abbraccio tutti frateamente in Cristo Gesù.
Cherubina Lorusso
Milano

Siamo pienamente d’accordo: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri; se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni» (Paolo VI).

Biocombustibile…
no grazie!

Cari missionari,
mi sento perfettamente in sintonia con quanto scritto da padre Giuseppe Svanera missionario a Marialabaja (Colombia) nell’articolo «E lo chiamano… progresso» (M.C. n. 2/08 p. 73). L’utilizzo della terra (specie quella dei paesi della fascia tropicale) per un’agricoltura finalizzata alla produzione di combustibili è un gravissimo errore.
So bene che qualcuno, per esempio il presidente del Brasile Lula, cerca di rassicurare gli ecologisti, ripetendo che «neppure un metro quadrato di selva sarà sacrificato per il bioetanolo»; ma io dubito, come anche padre Giuseppe dubita, che le cose andranno così: quante migliaia di kmq sono state cancellate per far posto, specie nei paesi del Sud-Est Asiatico, alla monocoltura della palma da olio!
In ogni caso, anche se Lula avesse ragione e per la produzione di biofuel dovessero essere usate solo aree già degradate, io dico che sarebbe un grosso sbaglio, perché quelle stesse aree potrebbero essere rinaturate, riforestate, affidate a cornoperative inserite nella rete del commercio equo e solidale. È ciò che avviene, per esempio, in alcune zone dell’Ecuador con il «Progetto Otonga», avviato da padre Giovanni Onore, missionario e docente all’Università cattolica di Quito; come avviene in alcune parti del Mato Grosso brasiliano coi progetti di padre Angelo Panza, sostenuti anche dalla Conferenza episcopale italiana grazie ai fondi dell’8 per mille.
Fa bene padre Giuseppe a dire che questo non è né può essere chiamato progresso: progresso è lotta contro la fame e la miseria, non consolidamento delle strutture di peccato che generano fame e miseria. Pertanto le popolazioni del Sud del mondo sono state accusate di distruggere le grandi giungle e svuotare gli scrigni della biodiversità (e così contribuire anche all’effetto serra e cambiamento climatico) per procurarsi legna da ardere: «Fanno così – dicevano in molti – perché non hanno tecnologia, né fonti di calore e di energia simili a quelle adoperate dai paesi sviluppati; quando ne disporranno, la pressione sulle foreste diminuirà».
Ebbene, oggi quelle stesse persone che ieri facevano questo discorso, per certi versi anche giusto, che cosa propongono? Propongono il ricino, canna da zucchero, girasole e palma da olio, perché, sostengono, «così ridurremo la dipendenza dal petrolio e faremo diminuire le emissioni nocive».
Ci vuole una bella faccia tosta. Innanzitutto non è vero che, aumentando la superficie adibita alla produzione di biocombustibili, diminuisce la dipendenza dal petrolio: forse diminuirà la percentuale, ma per farla diminuire in valore assoluto occorre ben altro, a cominciare dalla volontà politica.
Finora l’unico risultato certo di tale corsa al biocombustibile è stato l’aumento del prezzo del pane, pasta, carne, latte e suoi derivati, altri generi di prima necessità…
Guardiamo in faccia la realtà: le tecnologie non inquinanti o poco inquinanti ci sono, ma stentano a decollare; a volte si ha l’impressione che tale difficoltà sia inversamente proporzionale alla loro capacità inquinante. Prendiamo ad esempio le automobili: se non inquinano più faticano a essere collocate sul mercato. Il caso più eclatante è forse quello dell’auto ad aria compressa, la cui «produzione in serie è imminente», perché «tutto è pronto». Le stesse cose si dicevano otto anni fa, anche la rubrica scientifica Superquark se ne occupò: ma sulle nostre strade le auto ad aria compressa nessuno le ha viste, mentre si vedono e fanno presto a essere progettati, realizzati, testati, venduti i costosi, inquinantissimi e ingombrantissimi Suv (si veda Missioni Consolata di febbraio 2008). Negli ultimi otto anni sono aumentati di numero: in Italia prima del 2000 arrivavano a malapena a 100 mila, oggi sono più di mezzo milione.
Io penso che dobbiamo entrare nell’ordine di idee che, oltre certi limiti, le tecnologie non possono sostituirsi alle nostre mani, piedi, occhi, cervello: non possono essere le tecnologie a scegliere per noi. Le lampade fluorescenti sono una gran bella cosa, ma non riusciranno a farci risparmiare il famoso 80% se le terremo accese anche di giorno. I termovalizzatori, se fatti con un certo criterio, saranno anche utili; ma perché continuiamo a sottovalutare i benefici della raccolta differenziata? Per esempio, perché diamo per scontato che, nel ricliclaggio della plastica, Napoli non potrà mai raggiungere il 70% di Treviso e Treviso non potrà mai raggiungere il 90% di Stoccolma?
No cari politici «moderati» e cari industriali e confindustriali! La dipendenza dal petrolio non la supereremo né con gli etanolodotti della brasiliana Petrobras, né con gli inceneritori dell’Impreglio, tanto meno con la costruzione di centrali nucleari. La supereremo, invece, quando avremo capito che per i gran premi di Formula uno e di Motomondiale non possiamo continuare a sprecare migliaia di tonnellate di carburante e migliaia di kilowatt di luce (da quest’anno su certi circuiti si corre di notte, non di giorno).
La supereremo quando, ripensando a un passato neanche troppo lontano, riconosceremo che il calcio non era meno bello e meno seguito quando le partite (comprese le finali di Coppa dei campioni e Coppa del mondo) si disputavano di pomeriggio, senza bisogno dei riflettori.
La supereremo, cari ex vetero e neodemocristiani, che stravedete per una nuova stagione nucleare in Italia, quando accetteremo la rinuncia a certi viaggi aerei, certi yacht, certe crociere, nuovo Suv, ultimo modello di cellulare non come un’involuzione e regresso, ma come inizio di un cammino verso la vera civiltà dell’amore: amore a Dio Padre e Creatore, ai figli di Dio e nostri fratelli, verso la creazione di Dio, quella vicina e quella lontana, quella dei ricchi e quella dei poveri…
Francesco Rondina
Fano (PU)

Le «porcate» e … la «porcata»

S pettabile Redazione, ho letto le lezioni sui mensili della rivista Missioni Consolata riguardanti il Figliol prodigo, apprendendo che il peccato più grosso è quello dei «peccatori presuntuosi». Infatti, in quel trafiletto si dice che «incaponirsi a chiedere perdono o pensare di non essere perdonati può costituire un grave peccato, perché Dio… ha già perdonato prima ancora di averglielo richiesto» e ancora «peccare non è una cosa facile… perché esso è il rifiuto di Gesù Cristo come criterio di vita» e così via di questo passo.
Poi leggo su un quotidiano di giovedì 3 aprile 2008 che il biblista che ha risvegliato in me l’analisi del peccato, e mi ha liberato di tanti preconcetti sul peccato, riportandomi nella coscienza l’amore di Dio verso l’uomo, cade in un grossolano errore, scagliandosi contro una persona o addirittura contro la linea del centro destra con le parole: «I cristiani sono avvertiti in tempo, perché dopo non basterà una confessione a lavare la colpa della complicità che diventa anche apologia del fascismo, un cristiano che vota questi figuri non può in buona coscienza partecipare all’eucaristia e ricevere l’assoluzione in confessione, perché diventa complice in solido», e avanti con questo passo, facendo diventare cecchini di Gesù Berlusconi, Moratti, Fini, Casini, Bossi.
Dica Lei se non ci sono contraddizioni tra i commenti alla parabola nel primo capoverso della presente e questo modo di condannare una certa linea politica, dimenticando nel contempo di criticare l’altra linea politica, dove sono presenti i propagandisti e propugnatori agguerriti dell’aborto, dell’eutanasia e di tutte le altre «porcate» degli estremisti di sinistra, invogliando gli elettori a votare per quella lista.
Non è un grave e grossolano errore da una parte predicare l’Amore assoluto, e dall’altra parte predicare l’Odio assoluto?
Se vuole, mi dia una risposta sulla rivista che lei dirige, altrimenti cestini la presente, ovviamente io ne trarrò le mie deduzioni. Mi perdoni per il tempo che ho rubato e la ringrazio sin d’ora per la decisione che vorrà liberamente scegliere.
Giancarlo Macchi,
San Macario (VA)

Egregio sig. Macchi, siamo stati indecisi se pubblicare o meno la sua lettera, perché non ci piacciono le polemiche. Rispondiamo serenamente e telegraficamente, nella speranza che sia disposto e aperto alla verità.
1. Don Paolo Farinella, apprezzatissimo per la sua rubrica biblica pubblicata da più di due anni su Missioni Consolata, ha espresso critiche forti anche verso la sinistra e il governo Prodi; ma lei non le ha lette, perché non sono funzionali all’ideologia del suo giornale che non le ha mai pubblicate, per le ovvie ragioni che lei può capire.
2. La «porcata» di cui parla (termine forgiato dallo stesso autore della legge elettorale che lei conosce…) è più a monte: per due volte i cittadini italiani non hanno potuto scegliere i loro rappresentanti, ma sono stati costretti a votare quelli scelti dai capipartito. Nel suo partito vi sono circa 25 candidati condannati per vari reati, e tutti eletti, probabilmente per metterli al sicuro riparo dell’immunità parlamentare.
3. Don Farinella non «predica» l’«odio assoluto» in contraddizione con «l’amore assoluto», perché si tratta di due piani diversi e comunque non riguarda la singola persona, ma ciò che essa rappresenta, specialmente se offre una prospettiva di vita e assume atteggiamenti ideologici. Anche il gesuita padre Bartolomeo Sorge (vedi i suoi editoriali in Aggioamenti Sociali) usa la categoria del «berlusconismo» per descrivere l’ideologia dominante e dichiararla incompatibile con la fede cristiana. Questo non significa «odiare», ma «disceere». 
4. Per tornare alla parabola del Figliol prodigo, sull’«amore assoluto del Padre» non ci sono dubbi.  Ma fino a quando il figlio rimaneva a pascolare i porci, l’amore del padre c’era, ma era inutilizzato e il figlio non poteva gustare il perdono preventivo del Padre, né fare festa e mangiare il vitello grasso. Allo stesso modo, finché i mafiosi, i corrotti e corruttori… continueranno a strumentalizzare la religione, i valori cristiani, la famiglia cristiana… e a vivere da corrotti, anche contro l’amore del Padre, è meglio per loro che non si accostino all’eucaristia. Darebbero solo scandalo.
La Redazione




Paraguay, il vescovo che diventò presidente

Ancora una volta la fantasia latinoamericana sorprende l’opinione pubblica internazionale: a fare notizia l’affermazione di un vescovo cattolico a presidente della Repubblica del Paraguay. Nell’Ottocento era la più florida e prospera nazione sudamericana; ma venne praticamente annichilita dalle trame coloniali della potenza imperiale del tempo: l’Inghilterra, allo scopo di impadronirsi delle sue ricchezze e, al tempo stesso, controllare l’intera area regionale da una posizione strategica. Da paese indipendente e autonomo, con una buona produzione industriale, costruita senza prestiti capestro dalla City di Londra, alla fine di un lungo e sanguinoso conflitto, si ritrovò con la popolazione dimezzata e il territorio ridotto a meno della metà: i vincitori (Argentina e Brasile) si appropriarono di vaste aree produttive, provocandone così un collasso umano ed economico.
Negli anni Trenta del secolo scorso, un’altra guerra, con la Bolivia, costò al Paraguay oltre 50 mila vite umane; guerra orchestrata dalle multinazionali del petrolio, Standard Oil e Shell, che si contendevano i territori del Gran Chaco, ritenuti ricchi di giacimenti petroliferi.
Stremato, l’economia a pezzi, il Paraguay attraversò una lunga, difficile fase, con diversi colpi di stato, finché nel 1954, un’alleanza politica tra esercito e Partido Colorado, portò il generale Alfredo Stroessner al governo del paese. Da allora il Partido Colorado, come una piovra, si è infilato in ogni fessura della vita pubblica e sociale. Con l’appoggio degli Usa e la politica della dottrina della sicurezza nazionale, Stroessner avviò un regime dittatoriale, sopprimendo tutte le libertà civili e democratiche e applicando il terrorismo di stato, con omicidi, sparizioni, imprigionamenti senza processo e torture. Negli anni Settanta, quando in tutta l’America Latina si installarono regimi autoritari, il Paraguay collaborò con le giunte militari per esportare il suo modello in ogni angolo dello stesso continente.
Dopo la seconda guerra mondiale il Paraguay diventò un rifugio per parecchi gerarchi nazisti; vi trovò asilo anche il dittatore Somoza del Nicaragua, quando fu cacciato dal Movimento sandinista. Autoritarismo e connivenza con il peggio dei regimi militari, con la regia del Partido Colorado, trasformarono il Paraguay in un paese dall’economia fasulla, dove però il riciclaggio del denaro sporco proveniente dal narcotraffico, commercio delle armi e loschi affari delle mafie inteazionali, generarono una situazione sempre più insostenibile.

Con il rovesciamento di Stroessner, per mano del consuocero Andrès Rodriguez, capo dell’esercito, iniziò una lenta ma costante evoluzione nella politica del Paraguay che, pur con rovesciamenti di fronte e aspri confronti tra diversi protagonisti politici provenienti dalle stesse fila del Partido Colorado e dell’esercito, ha condotto il paese a vivere la stessa transizione verso la democrazia avviata dalle altre nazioni latinoamericane. Tale processo, alimentato da ampi settori della chiesa cattolica e dalle forze più vive della società, ha avuto nel vescovo emerito di San Pedro, mons. Feando Lugo, la figura di spicco nella quale sono confluite le attese e speranze di una democrazia vera e un futuro migliore di gran parte del popolo paraguayano. Con la costituzione dell’Alleanza patriottica per il cambiamento (Apc), interprete politica della voglia di rinnovamento della società del Paraguay, di cui Lugo è stato riconosciuto leader indiscusso, queste attese hanno avuto una risposta piena e definitiva domenica 20 aprile, quando ha vinto le elezioni, aprendo un capitolo nuovo nella storia del paese.
Mons. Lugo, che per iniziare questa esperienza, per certi versi inedita e affascinante, era stato sospeso a divinis dalla Santa Sede, potrà finalmente avviare la riforma agraria e mettere ordine nella corruzione dilagante in ampi settori della società. Oltre che sui cittadini che l’hanno votato, potrà contare su gran parte della chiesa paraguayana (compresa la maggioranza dei vescovi, tranne uno dell’Opus Dei) e su tutte quelle persone desiderose di vivere in un paese normale, finalmente liberato dalla morsa del Partito-padrone che ne ha tarpato le ali per mezzo secolo. Se per avviare questo processo c’era bisogno di una originale figura, come un vescovo cattolico da prestare alla politica, sarà solo il tempo a dire se un evento così inedito sarà per il Paraguay davvero provvidenziale.

Di Mario Bandera

Mario Bandera