In cerca di futuro
Svolta alle elezioni, aspettando il ballottaggio
Uno splendido paese. Un tempo granaio dell’Africa, quando era retto da un regime di apartheid. Ora, gestito da una dittatura, è in caduta libera. Le ultime elezioni hanno ancora scatenato la repressione. Ma fanno intravedere un possibile cambiamento. Però il presidente Mugabe è troppo attaccato al potere (che detiene da oltre 28 anni). Così sta trascinando il suo popolo nel baratro.
Il sogno si è trasformato in un incubo. Il primo era quello di un paese africano nel quale convivevano bianchi e neri, con un’economia florida in grado di esportare derrate agricole e una classe politica lungimirante e in grado di creare infrastrutture eccellenti, un sistema scolastico di primo livello e un sistema sanitario quasi europeo.
L’incubo è uno stato in cui i bianchi sono quasi tutti scappati all’estero, l’economia è al tracollo, il sistema politico da democrazia si è trasformato in dittatura (o forse sarebbe meglio dire tirannia) di un anziano leader attaccato al potere come un mollusco alla roccia. Il sogno è quello che ha vissuto lo Zimbabwe negli anni Ottanta e Novanta. L’incubo è quello che, sempre lo Zimbabwe, sta vivendo da otto anni a questa parte.
«Quando arrivai ad Harare – ricorda un volontario italiano che da anni vive nel paese – avevo alle spalle un’esperienza in Uganda, durante la sanguinosissima guerra civile, e un’altra in Etiopia, nel corso del conflitto che portò alla caduta di Menghistu. Erano gli anni Novanta e lo Zimbabwe mi sembrava un paradiso. Un Paese africano in cui tutto funzionava. Poi, dopo i primi anni felici, è iniziato il tracollo.
Ora stiamo vivendo una crisi tremenda dalla quale non credo riusciremo a risollevarci».
La genesi della crisi
Se la crisi si è manifestata all’inizio degli anni Duemila, le radici sono più profonde. Tutto è iniziato nel 1979 con gli accordi di Lancaster House grazie ai quali la Rhodesia diventava Zimbabwe e finiva un regime di apartheid instaurato dalla minoranza bianca nel 1964.
Negli accordi era prevista la cessione del potere ai neri, ma non la cessione delle terre (le più fertili) possedute dai bianchi. I grandi proprietari di origine europea decisero quindi di non lasciare il paese, ma di continuare a coltivare le loro tenute.
Nel 1990, una legge intervenne per obbligare i bianchi, qualora avessero deciso di cedere le loro terre, a offrirle innanzitutto al governo di Harare. Grazie a questa legge lo stato zimbabwiano riuscì a entrare in possesso di 500 mila ettari di terra fertile. Queste tenute, se fossero state ben distribuite, avrebbero potuto dare lavoro e benessere a migliaia di neri. Nei fatti però vennero cedute solo ai gerarchi del partito e ai militari che non le coltivavano.
Ciò però non impedì che l’economia marciasse a buoni livelli, grazie alla produzione delle tenute dei bianchi che, oltre a dare lavoro a 350 mila contadini (in gran parte neri), davano impulso a tutta l’economia nazionale. Da queste tenute arrivavano il 50% di tutte le esportazioni, il 65% del cibo necessario al paese e alimentavano il 60% dell’attività industriale zimbabwiana.
Come si affossa un paese
Nel 2000, la svolta. Robert Mugabe, al governo dal 1979, sente il suo potere vacillare. Indice un referendum che, modificando la costituzione, intende rafforzare i suoi poteri. La consultazione viene bocciata e Mugabe incolpa i bianchi della sconfitta. Inizia così una campagna di espropri delle loro tenute.
Una campagna portata avanti con violenza. Alcuni white farmers vengono uccisi. «In realtà – osserva un altro volontario -, la violenza non si diresse solo contro i bianchi, ma anche contro gli oppositori neri. Non esistono statistiche ufficiali, ma i morti per causa politica nel 2000 e 2001 furono centinaia, soprattutto tra i neri».
Le terre espropriate non vengono più coltivate. La produzione agricola crolla. Il paese da esportatore di derrate alimentari diventa importatore. I coltivatori bianchi fuggono all’estero. La povertà si accentua, soprattutto nelle zone rurali. Si diffonde il «mercato nero» e le speculazioni. «La gente è allo stremo – spiegano i volontari – non c’è lavoro, non c’è da mangiare. Oggi lo Zimbabwe è retto da un’oligarchia di famiglie legate a Robert Mugabe che gestiscono il “mercato nero” facendo impennare l’inflazione e impoverendo la povera gente. L’inflazione è salita a livelli record: si parla del 160 mila % su base annua».
Anche il sistema sanitario è allo stremo. Con l’aggravarsi della crisi economica, la situazione è degenerata. Mancano gli strumenti di lavoro nei reparti di chirurgia. Aumentano i parti a rischio per la carenza di personale ostetrico. Stanno chiudendo anche i pochi centri d’eccellenza.
Negli ultimi dieci anni l’aspettativa di vita è scesa da 61 a 37 anni per gli uomini e a 34 per le donne. «La vita – spiega un sacerdote – è diventata intollerabile per la maggioranza della gente. Per questo motivo sta crescendo velocemente il malcontento».
Elezioni: il sorpasso
Questo malcontento si è trasformato in un voto a favore del partito di opposizione, il Movimento per il Cambiamento Democratico (Mdc), alle elezioni del 29 marzo scorso. «Ormai è chiaro – spiega un giornalista sudafricano – che il presidente Robert Mugabe ha perso. Il dramma è che non vuole rassegnarsi a lasciare il potere. Così ha imposto alla commissione elettorale di non pubblicare i risultati delle elezioni presidenziali e ha forzato la stessa commissione a ordinare il riconteggio delle schede elettorali delle legislative in 23 collegi. Nel frattempo, in silenzio, ha ordinato a un gruppo di ufficiali dell’esercito di organizzare bande allo scopo di terrorizzare la popolazione rurale, che ha votato contro di lui alle elezioni.
Quello che più urta Mugabe è che province rurali che tradizionalmente lo sostenevano, questa volta abbiano appoggiato l’opposizione dell’Mdc».
I risultati dello scrutinio sono stati resi pubblici dalla Commissione elettorale solo il 2 maggio e danno all’Mdc una storica vittoria (47,9% dei voti), mentre il partito di Mugabe si attesta sul 43,2% e Simba Makoni (ex ministro) ha avuto l’8,3%. Secondo l’Mdc, Tsvangirai avrebbe invece ottenuto oltre il 50%, aggiudicandosi la presidenza al primo tuo, ma molte son le denunce di brogli.
Lo Zanu-Pf (Zimbabwe african national union – Patriotic front), il partito di governo al potere dall’indipendenza, ha inoltre, per la prima volta perso la maggioranza in parlamento nel quale l’Mdc conquista 109 seggi su 210 (mentre lo Zanu-Pf ne avrebbe 93 e 12 restano da assegnare).
Entrambi i partiti, intanto, hanno contestato i risultati del voto legislativo davanti al tribunale elettorale in metà delle circoscrizioni.
L’oppositore storico (sempre al sicuro in Sudafrica) accetterà di correre per il ballottaggio solo «se ci saranno le condizioni». Il clima di «violenze, torture e saccheggi», secondo la Sadc (Comunità per lo sviluppo dell’Africa australe), renderebbe difficile, se non impossibile, un’ulteriore consultazione. Si è anche parlato di possibile «soluzione negoziata», ma finalmente il secondo tuo è tato fissato il 27 giugno prossimo.
Sempre l’Mdc denucia l’ondata di repressione, dichirando l’uccisione di 30 dei propri militanti dopo le elezioni del 29 marzo. Il sindacato degli agricoltori denuncia invece 40.000 sfollati in zona rurale.
Arroccato al potere
Purtroppo non si vede come Mugabe possa lasciare il potere. Il presidente gode ancora di forti appoggi all’estero. Il suo sponsor più importante è il presidente sudafricano Thabo Mbeki che lo ha sempre appoggiato in nome di una mal riposta solidarietà «rivoluzionaria».
Lo Zanu-Pf, , l’Anc (African national congress di Mandela e Mbeki) hanno a lungo combattuto insieme contro l’apartheid. «Ai tempi la loro è stata una lotta sacrosanta – spiegano alcuni osservatori -. Ma oggi in nome di quegli antichi legami non si può giustificare e sostenere una dittatura feroce come quella di Mugabe. In Zimbabwe stanno morendo migliaia di persone per fame. Ciò non è compreso neppure in Europa.
Molti pensano che Mugabe sia quel rivoluzionario che aveva combattuto l’apartheid. Anche alcuni giornali italiani lo appoggiano. A chi vive qui sembra incredibile».
«Non credo che i neri potranno governare la Rhodesia, almeno per i prossimi mille anni». Ian Smith non poteva essere più chiaro sul suo programma politico. La supremazia bianca andava difesa a tutti i costi. E la difese a tutti i costi anche contro la Gran Bretagna che lui considerava la patria di riferimento.
Nata nel 1898 e diventata colonia britannica nel 1923, la Rhodesia del Sud si differenziò rispetto alla Rhodesia settentrionale (gli attuali Zambia e Malawi) per il forte potere economico della piccola minoranza bianca (circa 250 mila persone contro una popolazione nera di 5 milioni). Un potere che i bianchi (quasi tutti di origine britannica) non vollero lasciare neanche quando nel 1964 il Malawi e lo Zambia diventarono indipendenti e anche la Rhodesia meridionale era in procinto di diventarlo.
Fu Ian Smith (1919-2007) a evitare l’indipendenza e la presa di potere da parte della maggioranza africana. Con un discorso divenuto celebre come «Dichiarazione unilaterale di indipendenza», Smith proclamò la Rhodesia meridionale indipendente dalla Gran Bretagna e le cambiò il nome in Rhodesia. Nel nuovo Stato vigeva un rigido apartheid e ciò gli procurò l’isolamento internazionale (attenuato solo dall’appoggio del Sudafrica allora governato anch’esso da un regime segregazionista). Ian Smith fu l’incarnazione vivente di quella Rhodesia bianca, anglosassone e razzista. Figlio di farmer di origine britannica, aveva combattuto durante la seconda guerra mondiale nella Royal air Force (Raf). Venne abbattuto due volte: una nel deserto del Sahara e l’altra in Liguria, dove per mesi combatté con i partigiani italiani.
Dopo la guerra, si diede all’attività politica, diventando prima ministro e poi premier. Il suo governo dovette affrontare la durissima guerriglia combattuta dalle formazioni marxiste dello Zanu, guidata da Robert Mugabe, e dello Zapu, di Joshua Nkomo. La guerra civile cessò con gli Accordi di Lancaster House, nei quali il governo bianco cedeva il potere alla maggioranza nera. Ian Smith continuò a sedere in Parlamento fino al 1987.
Poi si dedicò alla sua tenuta agricola. A chi gli chiedeva un parere sulla situazione economica e politica dello Zimbabwe lui rispondeva che quando aveva lasciato la guida del paese, l’economia era solida e i neri comunque godevano di un buon livello di assistenza sociale. «Questo è quanto fecero i rhodesiani – disse poco prima di morire -. Mi piacerebbe sapere perché non ce ne viene dato atto». Forse è vero, l’economia era florida. Certo questo non giustificava l’apartheid.
Lo chiamano il Lech Walesa di Harare. E, infatti, come il leader polacco di Solidaosc, anche Morgan Tsvangirai proviene dal sindacato e, con il sindacato, ha combattuto le sue prime battaglie contro il potere politico. Ma le similitudini non fermano qui. Tsvangirai ha la stessa determinazione del leader polacco e la stessa volontà di non fermarsi davanti alla violenza e alla prepotenza del regime.
Tsvangirai è nato nel 1952 nel distretto di Gutu in quella che allora si chiamava Rhodesia meridionale. Figlio di un carpentiere, nel 1974 è costretto ad abbandonare gli studi per andare a lavorare in una miniera di nichel. La dura vita come minatore lo portano a impegnarsi nel Congresso dei sindacati dello Zimbabwe (Zctu), la più grande confederazione sindacale del Paese, fino a diventae il segretario generale nel 1989. Alla guida del sindacato, entra in rotta di collisione con il governo e rompe la tradizionale alleanza tra Zctu e Zanu-Pf (il partito unico al potere dal 1980). Da quel momento per lui la vita diventa un inferno. I pretoriani governativi lo minacciano, distruggono le sedi della sua organizzazione e picchiano lui e i suoi collaboratori. Tsvangirai però non si ferma e nel 1999 fonda il Movimento per il cambiamento democratico (Mdc) destinato ben presto a diventare il più grande partito d’opposizione del Paese. Promette una transizione senza violenze e un rilancio dell’economia nazionale, distrutta da un decennio di malgoverno. Si candida alle elezioni parlamentari del 2000 e a quelle presidenziali del 2002, perdendole entrambe. Ma il sospetto è che, dietro alla doppia vittoria di Mugabe e dello Zanu-Pf, ci siano stati enormi brogli e manipolazioni. Viene più volte arrestato con accuse diverse.
Nel 2007, dopo l’ennesimo arresto con un’imputazione fasulla, viene pesantemente torturato dalle forze speciali di Mugabe. Il cameraman zimbabwiano, che riprende la faccia tumefatta di Tsvangirai all’uscita dalla prigione, viene ucciso, probabilmente da sicari del regime. Il leader dell’Mdc è benvisto dai diplomatici americani e europei (soprattutto quelli britannici). Ma è riuscito a trovare sostegno anche in Sudafrica. Non quello di Thabo Mbeki che continua ad aiutare Robert Mugabe, ma quello di Jacob Zuma, il neo leader dell’Anc. Zuma, come Tsvangirai, ha un’esperienza sindacale e, come lui, appartiene alla generazione di leader che non hanno partecipato alle lotte anticoloniali. Forse proprio questa nuova alleanza favorirà il cambiamento in Zimbabwe.
Tesfaie Gebremariam