Sullo stato delle cose economiche
Il mondo vive nel mito della crescita, della globalizzazione, di un modello di sviluppo unico e immodificabile. Nel frattempo, la catastrofe ambientale è sotto gli occhi di tutti, la crisi alimentare si aggrava, la speculazione finanziaria domina l’economia. In questo bailamme, a vincere sono sempre i soliti. Ma lo diciamo sottovoce, perché – come pretende il «pensiero unico» – certe cose sarebbe meglio tacerle. A meno di non essere degli eretici…
La chiamano «scienza triste», ma in realtà questo è quasi un complimento. L’economia (almeno come la vediamo oggi) è l’applicazione della selezione darwiniana sulla società, in base alla quale vincono sempre i più forti e i più scaltri. È nell’economia finanziario-speculativa, che si mostra in tutta la sua portata l’amoralità del sistema.
Per capire il grande imbroglio della finanza speculativa, è sufficiente un esempio tra i molti disponibili. In tanti avranno sentito parlare delle «agenzie di rating», società private che analizzano la solidità finanziaria di imprese, banche, assicurazioni ma anche degli stati (Italia compresa). Le agenzie che dominano il mercato sono soltanto tre, tutte statunitensi: Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch.
I danni che producono le «pagelle» delle tre sorelle sono giganteschi. I loro «report» (con cui vengono motivati i voti: Aaa, C, D, e via simboleggiando) sono inappellabili e – addirittura – difficilmente criticabili (perché «il mercato non capirebbe»). Eppure, sono spessissimo inattendibili, anche perché viziati da svariati conflitti d’interesse (1).
Limitandoci alla stretta attualità, Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch sono le stesse agenzie che non hanno avvertito della bomba a tempo dei mutui subprime su cui tante banche hanno giocato (2), salvo poi scottarsi (e far pagare il danno ai clienti, ai risparmiatori o ai cittadini attraverso lo stato).
E che dire dell’altra crisi di questi mesi, quella alimentare? (3) La crisi del cibo non è determinata da una carestia, ma dal costo dei prodotti (in primis, riso, mais, grano, soia), diventato inaccessibile per centinaia di milioni di persone. Il problema è stato generato dall’applicazione all’agricoltura dei principi neoliberisti, specialmente nei paesi poveri. Qui si è persa la sovranità alimentare facendo chiudere i piccoli produttori locali e favorendo invece un’agricoltura estensiva votata all’esportazione. Se a ciò si aggiungono le politiche delle multinazionali delle granaglie (come la Cargill, General Mills, Adm, ecc.) e le onnipresenti speculazioni di borsa (attraverso i contratti denominati futures), il quadro spiega gli aumenti dei prezzi e le conseguenti «rivolte del pane» scoppiate in decine di paesi.
Questi sono soltanto alcuni esempi di un’economia che guarda al profitto di pochi, senza curarsi dei danni che produce. Il sistema si basa su alcuni elementi portanti – il mito della crescita e del libero mercato, le privatizzazioni, il pensiero unico neoliberista – attorno a cui ha costruito la propria filosofia esistenziale. È da questi stessi elementi che occorre partire per spiegare perché il sistema rischia l’implosione.
L’INDICIBILE IMBROGLIO DEL PIL
I disastri conseguenti ad una crescita inadeguata del «Prodotto interno lordo» (Pil) sono spiegati, con cadenza quotidiana, dai mezzi di comunicazione. Eppure, l’inadeguatezza del Pil come strumento per valutare un’economia e le condizioni di un paese è conosciuta da tempo.
Già nel 1968, un politico di primo piano diceva: «Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto interno lordo (Pil). Il Pil comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.
Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere. Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani».
A parlare così non era un rivoluzionario o un poeta (o tutti e due assieme), ma un politico di nome Robert (Bob) Kennedy (4). Egli fece questo discorso all’Università del Kansas il 18 marzo del 1968, due mesi prima di essere assassinato.
Per rimanere più vicini nel tempo e nello spazio (geografico), leggiamo quanto scrive Luca De Biase (5): «La retorica della crescita economica non cessa di farsi sentire a tutti i livelli della narrazione pubblica: la crescita del Pil va bene e il rallentamento della crescita va male. Il messaggio resta inalterato in ogni fase storica dal 1950 ad oggi. Quando finisce la spinta dell’industrializzazione, i media subentrano a spingere i consumi e a sostenere che l’aumento del Pil o la crescita della borsa sono le sole variabili che davvero contano. Peccato che il Pil misuri solo ciò che ha un prezzo. Gli economisti sono i primi a diffidae. La loro classica battuta secondo la quale “se sposi la tua donna di servizio fai scendere il Pil” resta indicativa. Si può vedere un collegamento diretto, senza troppo paradosso, tra le relazioni umane di qualità – che non sono regolate da uno scambio di moneta e la contabilità nazionale. Meno si nutre fiducia negli altri, più ci si affida agli avvocati per qualunque trattativa e più si fa crescere il Pil: ma non per questo si sta meglio. Più tempo si dedica a lavorare, più si guadagna e più si aumenta il Pil, anche a costo di avere meno tempo per gli amici: il bilancio della felicità non è necessariamente in attivo, anche se quello della moneta è in nero. La crescita del Pil, una volta superata la prima fase che porta a un benessere diffuso, innesca una sorta di spirale. Solo una retorica della crescita ben congegnata può far pensare che quella spirale vada giudicata complessivamente positiva».
Insomma, il Prodotto interno lordo non funziona, ma continuano a propagandarlo come un punto di riferimento assoluto. Lo stesso vale per il privato (meglio del pubblico, ci dicono), per le multinazionali (meglio degli stati), il sistema economico neoliberista (meglio di qualsiasi altro sistema, anche ipotetico).
PRIVATO È BELLO. O NO?
Fintantoché c’è il profitto, «privato è bello» (se poi sia anche realmente efficiente e giusto, è tutto un altro discorso). Se però il profitto scompare, allora l’intervento pubblico (cioè con i soldi di tutti i cittadini) è reclamato come indispensabile. Qualche esempio: i fondi pensione (privati) funzionano finché la borsa e l’economia finanziaria sono in salute, ma non sono mai sicuri come la previdenza gestita dallo stato; le cliniche private vanno benissimo finché le cure o le operazioni chirurgiche non sono troppo complesse e dunque troppo costose per la proprietà; le assicurazioni private assicurano chiunque sia in buona salute, chi di salute ne ha meno è meglio che si rivolga altrove; i voli low cost sono un ottimo investimento (privato), finché le compagnie aeree (private) ricevono contributi dagli aeroporti o dagli enti territoriali; e via esemplificando. Il «conflitto tra pubblico e privato» diventa ancora più evidente nell’economia illegale (in cui l’Italia eccelle): la costruzione abusiva di case, lo smaltimento illecito di rifiuti privati, il mancato rilascio di fatture e scontrini fiscali, la dichiarazione dei redditi falsa sono tutti eventi economici illeciti fatti a spese e a danno della collettività.
È una «dittatura del mercato» che agisce sempre e comunque per la convenienza di pochi e, per converso, a scapito della maggioranza. «Il parametro – ha scritto Frei Betto (6) – si sposta dal sociale all’individuale. Una società o un’istituzione è buona nella misura in cui io vengo beneficiato. Non importa se il mio beneficio si realizza a scapito di molti; con l’accumulazione di terre, la concentrazione di redditi».
«In nome della libera concorrenza – ha scritto ancora il teologo e scrittore brasiliano – si rinuncia al ruolo regolatore dello Stato e del diritto (…). Nella sfera sociale, vale l’inteazionalizzazione del mercato come meta fondamentale, senza che siano posti in discussione i suoi fini sociali e politici. Le forze del mercato passano così ad assumere il ruolo di istanze regolatrici dell’insieme della società. E il guadagno, da parte sua, assume il ruolo di mediatore all’interno dei rapporti sociali. Questa sottomissione della politica, del diritto e dell’etica agli interessi economici privati mina la possibilità di una convivenza globale fondata sui princìpi e sui valori».
«MA NON TI VERGOGNI?»
Ci sono alcuni paesi dell’America Latina (Venezuela e Bolivia su tutti), dove lo stato si è ripreso il controllo delle risorse del sottosuolo, sottraendole alle multinazionali (corporations) che fino a ieri ne avevano ricavato profitti enormi a discapito delle popolazioni locali. Ebbene, la maggioranza dei media mondiali (in primis, quelli dei paesi di appartenenza delle multinazionali ridimensionate) hanno gridato e gridano allo scandalo per la violazione del principio intangibile del «libero mercato».
Si sostiene che le multinazionali lavorino meglio degli stati che sono corrotti ed inefficienti. Dubitiamo fortemente del giudizio alla pari di Joel Bakan (7), un professore che il fenomeno lo ha studiato bene. Secondo Bakan, le multinazionali sono uno «strumento che serve solo a creare ricchezza, ed è uno strumento estremamente efficace, perché non ha nessun vincolo interno di ordine morale, etico o giuridico che limiti chi o cosa può sfruttare per arricchirsi e far arricchire i suoi proprietari. Il verbo “sfruttare”, secondo il dizionario, significa “utilizzare per i propri fini egoistici o per il profitto”. Nell’ultimo secolo e mezzo, la corporation si è conquistata il diritto di sfruttare gran parte delle risorse naturali del pianeta e quasi tutte le aree dell’attività umana».
Difendere e diffondere idee opposte o semplicemente diverse da quelle vendute dalla globalizzazione del pensiero unico è difficile, a volte impossibile. «Oggi – ha scritto Francesco Gesualdi (8) – non è ammesso pensarla in maniera diversa dalla logica dominante e chiunque osi utilizzare criteri di analisi e di proposta diversi da quelli mercantili è da eliminare, tramite la derisione o la repressione. Ma mai come oggi è emerso il fallimento di questo sistema e mai come oggi si è avvertito il bisogno di avere degli eretici. Delle persone, cioè, che sappiano leggere e interpretare le scelte che si stanno compiendo, mettendo bene a fuoco a chi giovano e quali conseguenze sociali ed ambientali comportano. Delle persone che sappiano smascherare i giochi e soprattutto che sappiano proporre altri modi di fare economia partendo da altre prospettive: la dignità, la serenità personale, la convivialità, la solidarietà, la sostenibilità, la pace, i diritti, l’uguaglianza. La strada è tracciata. Ora ognuno deve lavorare dentro di sé per diventare lui stesso un eretico e soprattutto per far passare le idee dal mondo dell’intelletto a quello dei fatti».
«QUESTA» COPERTA È CORTA
Come abbiamo cercato di spiegare, la situazione è grave e le prospettive non sono incoraggianti. «L’ottimismo di chi coltiva l’aspettativa di nuovi ritrovati della tecnica capaci di evitare l’abisso verso il quale viaggia la nostra civiltà – l’ottimismo di chi confida che “prima o poi si inventerà qualcosa” – non sembra ragionevole», ha scritto Juan-Ramón Capella (9).
Il problema è che «questa» coperta è corta. Lo spiega bene don Vinicio Albanesi (10): «Nel futuro che ci attende, i ricchi si assomiglieranno ovunque e sempre più nella loro sfacciata opulenza, mentre i poveri saranno livellati nel disprezzo, nell’abbandono e nella fame, a prescindere dal mondo a cui appartengono».
Se la coperta è corta, occorre cambiarla. Come splendidamente suggerisce ancora Francesco Gesualdi, pur non essendo un invitato di Porta a Porta né un editorialista del Corriere della Sera o de Il Sole 24-Ore: «La posizione di chi sta sul ponte di comando – scrive Gesualdi – è quella dello sviluppo. Imprenditori, intellettuali, economisti, giornalisti e dirigenti di partito, sostengono in coro che il nostro obiettivo deve essere più produzione, più commercio, più consumi, più velocità, più tecnologia, più competizione. È l’inno della crescita ritenuta la strada che conduce al benessere, al progresso, alla modeità. Concetti, dai mille significati, che andrebbero discussi di continuo. Invece li abbiamo trasformati in idoli indiscussi. Se un ingegnere si mettesse in testa di costruire un grattacielo sempre più alto senza tenere conto della friabilità del terreno, della velocità dei venti, della tenuta del cemento, verrebbe rinchiuso in un manicomio. Invece gli economisti progettano la crescita infinita, preparando la rovina dell’umanità, e vincono il Nobel».
«È urgente abbandonare l’economia della crescita per avviarci verso l’economia della sobrietà. Ma manchiamo di un modello di riferimento e oscilliamo fra due atteggiamenti contrapposti. Da una parte il semplicismo di chi afferma che basta tornare all’autoproduzione. Dall’altra il pessimismo di chi afferma che non ci sono modelli alternativi. La mia posizione è che l’economia del limite richiede cambiamenti su molti piani, ma non mi angoscio se non vedo tutto chiaro. Le soluzioni di dettaglio si trovano lungo il cammino. L’importante è iniziare a cambiare rotta con le idee chiare sugli obiettivi e su alcune piste principali».
«Ho chiaro che dobbiamo avviarci verso un sistema capace di coniugare sobrietà e garanzia dei diritti fondamentali per tutti. Le mie parole d’ordine sono meno mercato, meno competizione, meno globale, meno denaro; più pubblico, più cooperazione, più locale, più fai da te».
Soltanto un passaggio dall’«economia della crescita infinita» ad una «economia del limite e della sobrietà» potrà evitare l’implosione del sistema e tamponare il problema dei problemi, quella catastrofe ambientale di cui (quasi) tutti sono consapevoli.
Paolo Moiola