Analisi della situazione (2)
Il mondo è in mano alle multinazionali? A guardare alle cifre parrebbe proprio di sì. Intanto, però, gli stati con più liquidità entrano nell’economia mondiale usando gli strumenti (ambigui) del sistema finanziario che già tanti danni ha prodotto e continua a produrre.
All’inizio di questo millennio 51 fra le prime 100 economie mondiali sono multinazionali, e solo 49 stati. Sommando tra loro i prodotti interni lordi di tutti gli stati esistenti ad eccezione dei 9 più importanti (Italia compresa, almeno per ora) si ottiene una cifra inferiore al valore aggregato delle vendite annuali delle prime 200 società del mondo.
Il fatturato di Wal Mart, il colosso dei supermercati Usa, supera da solo il Pil di 161 stati nel mondo. I fatturati di Daimler Chrysler, General Motors e Ford sono superiori al prodotto interno lordo, rispettivamente, di Norvegia, Danimarca e Sudafrica. Non sorprende nemmeno più sapere che la capitalizzazione della Borsa cinese abbia superato il Pil del paese.
Ecco i padroni del mondo: le corporations vanno considerate i veri protagonisti della scena economica contemporanea. Dominano in molti casi le entità statuali ai cui ordinamenti sarebbero in teoria assoggettate, e riflettono la divisione del mondo tra ricchi e poveri: il 93% delle prime 200 società al mondo appartiene infatti solo a 7 paesi.
I grandi gruppi inteazionali sono un sistema di scambio parallelo, in grado di porsi al di fuori o al di sopra, sia del mercato che della legge.
POSSEDERE È POTERE
Possedere è potere. A livello mondiale le imprese si contano a milioni, per la maggior parte di piccole dimensioni, spesso possedute da privati più o meno facoltosi. In Italia stessa, il 98% del tessuto imprenditoriale è costituito da piccole e medie imprese che in termini di fatturato non superano i 50 milioni di euro all’anno mentre da un punto di vista occupazionale non vanno oltre i 250 addetti. Ma sul brulicare di tante formichuzze si stende l’ombra di pochi formiconi con corpi mastodontici.
Secondo gli ultimi dati, le multinazionali sono 78.000 e controllano 780.000 società disseminate in tutto il globo per un totale di circa 73 milioni di dipendenti. Da un punto di vista produttivo contribuiscono solo al 10% del prodotto lordo mondiale, ma controllano il 60% dei flussi commerciali mondiali. Quanto ai profitti, le prime 500 da sole, nel 2006 hanno incassato 1.529 miliardi di dollari, pari al 3% del prodotto lordo mondiale.
A seconda dell’attività svolta, dietro ad ogni multinazionale ci sono palazzi, mezzi di trasporto, macchinari, fabbriche, magazzini, miniere, campi. Mezzi di produzione che costituiscono il loro capitale. Fra le imprese industriali, quella con capitale più elevato è Toyota con 276 miliardi di dollari. In Italia la più grande è Telecom con 118 miliardi seguita dall’Eni con 116 miliardi di dollari. Molto più in là viene la Fiat con 76 miliardi di dollari e Finmeccanica con 31 miliardi di dollari. Delle quattro imprese nominate, l’unica saldamente in mano ad una famiglia è la Fiat, dove gli Agnelli continuano a detenere il 30% del capitale. Ma il secondo azionista è una banca: Unicredito Italiano, con una quota del 5,2%. Il terzo azionista è di nuovo una banca, la Barclays Global Investors, una banca d’investimento che non interviene a nome proprio ma di clienti che le hanno affidato dei soldi da investire. Il quarto azionista è Fmr, un fondo comune di investimento che raccoglie denaro tramite il versamento di tante piccole quote.
Per quanto diverse per struttura e funzioni, Unicredito, Barclays e Fmr hanno in comune di non essere persone fisiche, ma istituzioni finanziarie che gestiscono capitale collettivo ottenuto in affidamento da migliaia, se non milioni di persone. L’emergere di colossi che gestiscono capitale collettivo, rastrellato in nome delle più varie funzioni, forse è la vera novità degli ultimi cinquanta anni. Strategie collettiviste in ambito capitalista si confondono con strategie capitaliste in ambito collettivista a dimostrare che il potere usa le ideologie come stendardi al vento per avvolgere i popoli e insalamarli.
A livello mondiale, le strutture di investimento che raccolgono la maggior quantità di capitale collettivo sono le banche d’investimento, i fondi comuni, le assicurazioni, ma anche i fondi pensione. Il che fa capire come la decisione, attuata anche in Italia, di demolire la previdenza pubblica risponda anche alla logica di fare un regalo alle banche e alle assicurazioni che gestiscono i fondi pensione e confondere i lavoratori.
In base ad uno studio realizzato in Inghilterra nel luglio 2007, è emerso che solo il 13% delle azioni quotate alla borsa di Londra, un valore di 2.700 miliardi di euro ripartito fra 1.139 società, appartiene a individui in carne ed ossa. Il resto è posseduto da istituzioni. Più precisamente 41% da non meglio identificati investitori esteri, 15% assicurazioni, 13% fondi pensione, 10% fondi di investimento, 4% fiduciarie, 3% banche, 1% istituzioni caritatevoli.
CONTROLLATE E
CONTROLLANTI
In Italia, l’istituzione finanziaria più potente è Assicurazioni Generali. Nata come società assicuratrice, oggi è anche banca, fondo pensione e intermediario finanziario. Nel 2006 ha fatturato 102 miliardi di dollari ed ha realizzato profitti per 3 miliardi di dollari, collocandosi al secondo posto fra le imprese italiane (dopo Eni), al terzo posto nella graduatoria mondiale delle assicurazioni sulla vita (dopo Ing e Axa) e al 30° posto nella graduatoria mondiale di tutte le multinazionali. Il suo principale azionista è Mediobanca con una quota del 15,6%.
Altri proprietari di rilievo sono Unicredito, Banca d’Italia, Banca Intesa San Paolo con quote fra il 2 e il 5%. Nel complesso i sette maggiori azionisti detengono il 34% del capitale, mentre il restante 66% è definito flottante, ossia ampiamente frantumato e passato frequentemente di mano. Generali a sua volta possiede oltre il 51% di numerose società assicuratrici e bancarie sia italiane che estere (Ina, Toro, Alleanza, Banca Generali, Banca del Gottardo) e detiene quote di minoranza in una miriade di società italiane ed estere, fra cui il Gruppo editoriale l’Espresso, Capitalia, Bnl, Lottomatica, Telecom. Incredibile, ma vero, Generali possiede anche il 2% di Mediobanca, suo principale azionista e il 7,5 di Intesa San Paolo, altro azionista di rilievo. In conclusione controllate e controllanti si possiedono a vicenda in un groviglio inestricabile che forma una gigantesca cupola di comando dei principali gangli produttivi e finanziari del Paese.
Eni, prima impresa italiana, sfugge alle scalate degli investitori istituzionali (così si chiamano le grandi istituzioni finanziarie) perché la sua quota di maggioranza è saldamente in mano allo Stato. Il ruolo dello Stato nella proprietà aziendale ha subito altee vicende nel corso della storia ed è cambiato di continuo in base dell’andamento degli interessi economici che poi determinano le correnti politiche. Nel secolo scorso, quando il sistema uscì con le ossa rotte dalla crisi del ventinove, in tutta Europa gli stati vennero implorati di acquistare quote importanti di società ridotte al lastrico assieme alle banche che le possedevano. In Italia nacque l’IRI, un fondo pubblico che si ritrovò proprietario di imprese che andavano dai panettoni ai pelati, dalle armi alle automobili. Poi, a metà degli anni, Ottanta il vento cambiò. In base al pensiero liberista lo Stato non doveva avere più ruolo in economia e non solo doveva disfarsi di ogni proprietà industriale, ma doveva abbandonare perfino i servizi pubblici come la sanità e l’istruzione. La vendita di Alitalia rappresenta uno degli ultimi atti del processo di sganciamento dello Stato italiano dalle partecipazioni industriali. Ciò non di meno continua ad essere il principale azionista di Eni, Finmeccanica, Fincantieri e al momento non si intravedono segnali che abbia intenzione di sbarazzarsi di loro.
IL RITORNO
DELLO STATO AZIONISTA
A dire il vero si ha la sensazione che un nuovo vento stia per spirare perché, in vari paesi del mondo, lo stato si sta di nuovo imponendo come azionista importante.
Sta succedendo in Norvegia, Singapore, Kuwait, ma anche Russia e Cina. I governi di questi paesi si ritrovano fra le mani delle fortune accumulate per le ragioni più varie. Emirati Arabi, Kuwait, Arabia Saudita, Russia, grazie ai proventi del gas e del petrolio, la Norvegia grazie ad un fondo pensione pubblico, la Cina grazie alle riserve di valuta straniera accumulate tramite l’enorme avanzo commerciale. Nell’insieme tali fondi, definiti fondi sovrani, ammontano a 2.000 miliardi di dollari, un valore ancora modesto, ma suscitano grande preoccupazione non solo perché crescono rapidamente (entro il 2012 potrebbero raggiungere i 12.000 miliardi di dollari), ma soprattutto perché nessuno vede di buon occhio che le proprie industrie nazionali, specie quelle strategiche, possano finire sotto il controllo di uno stato straniero.
Ad esempio, è del dicembre 2007 la notizia che il 10% della banca americana Morgan Stanley è stato comprato dal fondo sovrano cinese China Investment Corporation. Cinque miliardi di dollari che lo stato cinese ha preferito utilizzare per un’operazione di potere piuttosto che per migliorare le condizioni di vita della propria gente.
Pietro Raitano