la parabola del «figliol prodigo» (20)
«25… Ed essendo appena giunto, si avvicinò alla casa, ascoltò musiche e danze; 26e avendo chiamato (a sé) uno dei servi, s’informava di cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello, quello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo» (trad. letterale).
Il figlio anziano della parabola, come abbiamo già visto, prefigura non solo «gli anziani», che con gli scribi e i sacerdoti costituiscono l’autorità istituzionale, rappresentata nel Sinedrio, ma anche il mondo «religioso» nel suo insieme che professa la religione del dovere e dell’adempimento.
Luca 15 si era aperto con la scena dell’avvicinamento dei «pubblicani e peccatori per ascoltarlo (= Gesù)», in contrapposizione a scribi e farisei che invece «mormoravano» (Lc 15,1.2), quasi di soppiatto, ma in modo che il mormorio fosse percepito. Il figlio anziano nella penna di Lc sviluppa un comportamento che riflette e rinnova il mormorio dei farisei, che sono emblema del perbenismo di facciata di ogni epoca, la cui regola d’oro è: avere la coscienza a posto con il minimo di disagio.
Sei verbi per un assente?
Per descrivere la personalità irrisolta del figlio «anziano», uomo religioso e pio, che entra in scena in modo bizzarro, l’evangelista nei vv. 25-26 usa sei verbi in sequenza, senza respiro: quattro verbi sono secondari (due participi e due imperfetti) e due verbi principali, cioè narrativi.
– «Era/si trovava nel campo» (verbo all’imperfetto che serve per dare al lettore una informazione supplementare, circostanziale che aiuti a inquadrare il personaggio): il figlio è sempre da un’altra parte, sempre altrove. Era assente nella prima parte, quando si consumò la tragedia del fratello, è assente anche nel momento del ritorno. È stato «in», ma mai «nella» casa. Da questo accenno ci rendiamo conto che la sua personalità è avvitata nella grettezza e isolamento. Nei momenti della vita, egli semplicemente non c’è. Se il fratello si è perso in «un paese lontano» (v. 13), egli, pur stando fisicamente vicino, è sempre stato smarrito «nel campo».
– «Ed essendo appena giunto» (participio presente medio, costruito secondo la sintassi ebraico-aramaica, che serve da introduzione ai due verbi principali che seguono): questa notizia conferma e rafforza, aggravandola, quella del verbo precedente, perché mette in evidenza stridente che il figlio resta sempre fuori e, come vedremo, sceglie di restare fuori.
– «Si avvicinò alla casa» (verbo narrativo di primo piano, come il seguente, che l’evangelista vuole mettere in evidenza). La notizia principale è questa: appena giunto, si avvicina, ma non si precipita, come farebbe qualsiasi persona normale. Avanza circospetto e dubbioso e ancora una volta resta sulla soglia, in forma anonima. Si avvicina soltanto, sospettoso e forse irritato.
– «Ascoltò musiche e danze» (verbo narrativo, come il precedente, sulla linea principale della narrazione che l’evangelista vuole mettere in evidenza). È la seconda notizia che l’autore vuole dare come importante. Ascoltare è entrare in relazione con il clima di festa che danze e musiche (lett. «sinfonia») fanno presagire. Per il figlio la festa è una novità assoluta, che non capisce: o il padre è impazzito o è successo qualcosa di straordinario. Il figlio anziano «ascolta» e si sente profondamente estraneo. L’osservazione dell’evangelista esprime bene il disorientamento di questo disadattato normale che non ammette né la festa per sé (v. puntata seguente) né tanto meno può accettare che altri facciano festa. Lui e solo lui è la misura del mondo che lo circonda.
– «E avendo chiamato (a sé) uno dei servi» (participio medio che serve da complemento al seguente imperfetto, anch’esso secondario): il figlio anziano è talmente sospettoso che va alla ricerca di un intermediario per non esporsi in prima persona. Non si butta in mezzo alla novità, ma resta ancorato alla «sua tradizione» di uomo diffidente e fiero avversario di ogni innovazione. Ha sempre bisogno di schermi, che per lui sono scuse: potrà sempre dire che lui non c’era e non sapeva. Il verbo «proskalèomai – io chiamo a me/faccio venire a me (avvicinare)» nel NT ricorre (sempre nella forma media) 29 volte, di cui 10 nelle opere di Luca (Lc 7,18; 15,26; 16,5; 18,16; At 2,39; 5,40; 6,2; 13,7; 23,17.18.23). Di norma si applica a Gesù che chiama i discepoli (Mt 10,1), il popolo (Mt 15,10), i bambini (Lc 18,16), ma anche ad altri personaggi (Mt 18,32; Mc 15,44, ecc.). L’espressione «uno dei servi» è forma indeterminativa ed esprime l’ansia e la fretta di sapere: egli chiama uno «qualsiasi» dei dipendenti. Al v. 22 il padre aveva chiamato «i servi» (gr.: doûloi) cioè quelli che facevano parte della famiglia abitualmente; ora il figlio anziano chiama «uno qualsiasi» (gr.: hena tôn pàidōn, che letteralmente significa «uno dei ragazzi»), forse uno che lavorava a giornata e quindi un estraneo.
– «S’informava di cosa fosse tutto questo» (imperfetto medio, serve per descrivere al lettore l’atteggiamento del figlio). Il verbo greco «pynthànomai» esprime l’idea dell’investigare, quasi spiare: se ne stava a indagare. Nel NT ricorre 12 volte (Mt 2,4; Lc 15,26: 18,36: Gv 4,52: 13,24: At 4,7; 10.18.29: 21,33: 23,19.20), di cui, come si vede, ben 8 in Lc. Si può dire che è un verbo proprio del terzo evangelista. Il verbo a sua volta è seguito da una interrogativa indiretta e significa «domandare/indagare con curiosità/chiedere con attenzione». Luca con un paio di verbi dipinge il quadro completo della personalità del figlio anziano: è curioso, ma senza esporsi a fare la domanda diretta: indaga, confabula per sapere perché, in caso di necessità, vuole essere sicuro di non rimetterci e avere sempre una via di fuga o una spiegazione pronta.
Essere fuori stando dentro
Luca è un narratore straordinario perché con poche parole mette il lettore sull’avviso che il nuovo personaggio non ha una chiara personalità ben stagliata e definita, ma è un individuo indistinto, quasi senza volto; un uomo che si aggira, non si presenta; che spia, non affronta. Il suo ingresso in scena fa da contrasto stridente con la presenza del fratello minore, che era presente anche quando era assente: la casa senza di lui era un mortorio. Ora invece, solo sentire la musica allarma così tanto il figlio, fariseo-anziano, che si avvicina circospetto e s’informa attraverso il servo, restando però sempre «fuori».
Essere fuori è tipico delle persone religiose che sono talmente piene di pratiche e doveri e obblighi da non accorgersi che nel loro cuore non c’è posto per Dio: praticano molto, ma amano poco o nulla e non si accorgono che Dio passa inutilmente accanto a loro, preoccupati come sono di «soddisfare i precetti» per tranquillizzare la propria coscienza. Dio per loro è solo un pretesto, essi adorano soltanto il loro narcisismo solipsistico: sono schiacciati dai doveri religiosi da non essere più abituati a sapere ricevere gratuitamente il senso liberante dell’atto religioso.
Don Primo Mazzolari nel 1934 pubblicò un commento alla parabola lucana dal titolo La più bella avventura e pur non essendo un esegeta, ma un uomo letteralmente posseduto dallo Spirito, seppe cogliere le sfumature e l’anima dei protagonisti. Mettendo a confronto i due fratelli scrive: «Tanto colui che rimane come colui che va, non ha capito l’amore del Padre: perciò le tenebre sono dentro e fuori. Anche la Casa ha resistenze opache. L’amore del Padre non è negato, ma sospettato… L’anti-chiesa può essere nella chiesa stessa: come l’anticristo può essere accantonato nel mio animo di credente e cristiano. Siamo tutti fuori e tutti dentro, perché ognuno, nella propria inadempienza, è mancante; come nella propria insufficienza, ha la possibilità di rientrare» (P. Mazzolari, La più bella avventura. Sulla traccia del «prodigo», Ed. Dehoniane 2001, pp. 40.43).
Si avvicinò alla casa, ascoltando musiche e danze
Il figlio anziano procede circospetto e non giunge libero e disinvolto, ma si limita ad avvicinarsi: ancora lontano, sente qualcosa di strano, un suono che aumenta mano a mano che si avvicina. Preoccupazione e curiosità alimentano il suo terrore. Dove c’è festa di solito c’è gioia e lui vive nella tristezza che è il vestito diuo della sua anima. S’insospettisce, diventa guardingo, comincia a domandarsi cosa stia succedendo; la preoccupazione e l’affanno lo prendono nell’anima e vuole vederci chiaro.
Emblema del «tipo» religioso osservante (fariseo) che si sente sempre in credito verso Dio e verso gli altri, di cui non ha alcuna stima, non ritorna a casa ma, «appena giunto», si avvicina come un ladro per origliare e pronto a giudicare e a condannare. Uomini di chiesa e laici clericali hanno la condanna facile, perché trasformano il vangelo in un codice penale per comminare pene a chi non è e non pensa come loro.
Egli sa che suo fratello è andato via e che in casa il padre vive in perenne lutto, piangendo il «figlio perduto» e domandandosi dove abbia potuto sbagliare nell’educarlo. Chiunque sarebbe corso immediatamente in casa a vedere di persona cosa stesse accadendo, ma «questo» figlio, no: lui non corre dentro casa, dal padre, ma comincia ad avere paura, perché ogni novità o variazione nel grigiore della sua giornata è un attentato all’ordine costituito.
È un uomo triste e lugubre che diffida di tutti e tutti considera inferiori a sé, perché solo lui è «il giusto». Probabilmente intuisce che possa essere tornato il fratello e va nel panico: non vuole ammetterlo nemmeno a se stesso, perché sarebbe il crollo di ogni suo sogno e cupidigia. Non pensa che la musica e le danze possano essere espressione di esplosione di vita e segno di felicità partecipata; al contrario, pensa che danza e musica siano segnali di tragedia, segni cupi di un imminente cataclisma, perché non annunciano nulla di buono.
La tragedia di quest’uomo è che, pur non essendosi mai allontanato da casa, non vi è mai entrato, perché ne è sempre rimasto «fuori», avendo paura di essere coinvolto in una rete di relazioni affettive a cui si sente estraneo. Deve chiamare un servo per sapere cosa accade (v. 26), quasi per mettere tra sé e l’evento un diaframma, uno schermo che al tempo stesso è riparo ed esclusione. Egli sente che tutto attorno gli è ostile e cerca una via di fuga, una forma di esorcismo, perché la novità della musica e danza gli sconvolge la vita.
Paradigma etico: Giuseppe e i suoi fratelli
Il versetto nella sua semplicità dice anche un altro elemento che spesso viene sottaciuto: nessuno ha avvertito il figlio «anziano» del ritorno del fratello. Egli era estraneo, «nel campo», e tale resta: nessuno si accorge della sua assenza, perché nessuno si è mai accorto della sua presenza. È tragica la figura di questo figlio che vive, come sapremo presto, nell’attesa della morte del padre per ereditare «la roba» e che è indiffe-rente sia quando c’è che quando non c’è.
Nel libro della Genesi (37,12-18) si narra che Giacobbe aveva i suoi figli «anziani» al pascolo in una regione lontana e, volendo avere notizie di loro e del gregge, mandò Giuseppe a cercare i fratelli: «Va’ a vedere come stanno i tuoi fratelli». Giuseppe, il fratello minore, si mette in viaggio verso i suoi fratelli e non conoscendo la strada, chiede a un passante: «Cerco i miei fratelli. Indicami dove si trovano a pascolare». Alla fine «Giuseppe andò in cerca dei suoi fratelli e li trovò a Dotan». I fratelli «maggiori», gelosi del fratello minore «lo videro da lontano e, prima che giungesse vicino a loro, complottarono di farlo morire».
Sappiamo come andò a finire: dopo non molti anni sarà Giuseppe, il figlio minore, che salverà la vita dei fratelli omicidi e di tutta la sua stirpe. Anche per lui valgono le parole del salmo che la liturgia pasquale applica al Cristo Messia: «La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo» (Sal 118/117,22).
Anche nella parabola lucana, avviene qualcosa di simile: il ritorno del figlio minore può essere l’occasione di salvezza per il fratello anziano, la svolta della sua vita e la riscoperta dell’amore di quel padre che egli non ha mai amato e da cui non si è mai lasciato amare. Il ritorno del fratello minore, al contrario, sancisce la sua condanna definitiva, perché egli non vuole un fratello e di conseguenza non vuole nemmeno un padre: «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).
Nella parabola lucana nulla può escludere la possibilità che il minore sia scappato da casa per le vessazioni del fratello «anziano», ma è facile dedurlo dalla reazione del maggiore che si stupisce della musica, e forse teme che il fratello sia davvero ritornato. Egli sperava di essersene liberato per sempre, mentre adesso rischia di ritrovarselo di nuovo, ma come è suo costume non vuole esporsi.
Ormai siamo certi che egli non si è mai informato del fratello e né mai ne ha parlato con il padre, che probabilmente ha trasformato la casa in luogo di lutto perenne, dove la vita scorreva anonima e greve, perché quella casa era vuota e muta senza il «figlio più giovane».
Il figlio «anziano» non ha partecipato al lutto e non intende partecipae ora la gioia: ha messo gli altri nel ghetto, alzando una siepe di egoismo ed esclusione, e considera gli altri come suoi nemici, padre compreso, con i quali non vuole sporcarsi. Chiamare il servo per conoscere gli avvenimenti, significa impedirsi di vivere gli stessi avvenimenti e condannarsi alla morte. Invece di sprofondarsi nel cuore della festa per diventae parte e fae parte agli altri, «chiamò un servo».
L’evangelista in questo modo mette in contrasto l’atteggiamento del padre con quello del figlio «anziano». Il padre si accorge del figlio giovane prima di vederlo e lo percepisce «quando ancora era lontano» (v. 20) e gli corre incontro, perdendo la sua stessa dignità. Il «figlio anziano» non solo è nel campo, cioè lontano da casa, ma nemmeno quando si avvicina alla casa riesce a «sentire» la presenza del fratello.
La musica e le danze avrebbero dovuto essere «il segno» da mettergli le ali ai piedi e farlo volare verso la pateità e la frateità compiute nell’abbraccio di padre e figlio; al contrario, lo escludono ancora di più e lo seppelliscono nel suo egoismo e nella sua avidità.
La frateità, Pasqua della pateità
Nella prima parte della parabola, tutto si gioca sulla pateità negata dal figlio minore, mentre il maggiore viene ricordato solo incidentalmente, perché «un uomo aveva due figli» (v. 11), tra i quali il padre «divise la sua vita» (v. 12). In seguito si parla solo del figlio «più giovane», mentre dell’altro si perdono le tracce. Forse per questo una lettura superficiale ce lo ha fatto apparire «simpatico», modello di figlio adulto e maturo, devoto al padre, a differenza del minore, degenere e traviato.
Scopriamo, invece, che la sua assenza non è motivata dalla sua fedeltà, ma dalla sua natura di figlio degenere nell’anima e traviato nel sentimento: egli è sempre assente, nonostante sia il «più anziano» e quindi l’erede designato, colui che fa le veci del padre. A una lettura attenta e meno frettolosa veniamo a conoscere la natura gretta e il volto accigliato di questo figlio, che figlio non è mai stato, perché vive nel rifiuto della frateità.
Il servo interpellato, con ogni probabilità, conosce bene questo figlio anziano e con la sua risposta cerca di creare il ponte verso il padre, offrendogliene l’opportunità: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello, quello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo» (v. 27), mettendo in luce lo stesso sentimento del padre, espresso al v. 24: il figlio morto e ritrovato.
Nelle parole del servo, però, c’è di più, perché anticipa le parole che lo stesso padre dirà più tardi, andando incontro anche a questo figlio «anziano» che si è perduto senza essersi mai allontanato: «Questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita» (v. 32). Il servo infatti non dice che è tornato il «figlio del padre», ma precisa «tuo fratello è qui» e aggiunge «tuo padre» ha deciso si ammazzare il vitello della festa.
Il servo gli annuncia la Pasqua di risurrezione che sta vivendo il padre e lo invita a risorgere anche lui, entrando a mangiare il vitello della festa. Il servo/estraneo sa quello che il figlio anziano non sa e non vuole sapere: «Che io non perda nulla di quanto egli (il Padre) mi ha dato» (Gv 6,39). Egli da uomo della tradizione religiosa, che recita le preghiere secondo il rituale, quello sicuro, pensa a salvare se stesso, non curandosi della salvezza del fratello, e non sa che questa è la sua condanna e il suo inferno, perché da soli ci si danna sicuramente, mentre ci si può salvare solo insieme.
Salvare vale più di ogni sacrificio
In questa circostanza straordinaria, il servo prova a riportare il figlio dentro la rete di relazioni affettive, stuzzicandolo a entrare nella dinamica della pateità, che diventa frateità condivisa: tuo fratello, tuo padre. È straordinario che il servo non gli dica che il padre ha reintegrato il fratello nella pienezza della sua identità di figlio, attraverso i segni esteriori (vestito, anello e sandali del v. 22), ma metta in evidenza l’aspetto religioso e sacrificale dell’avvenimento: il vitello grasso, riservato al sacrificio per il Signore.
Per il padre ricevere il figlio vivo ha la stessa valenza che stare davanti a Dio: ammazza il vitello grasso per il suo ritorno come se stesse compiendo il sacrificio di ringraziamento nel tempio di Gerusalemme. Per il padre credere è accogliere il figlio perduto. Il servo coglie questa grandezza smisurata e ne è partecipe così tanto che crede possibile smuovere il cuore di pietra del figlio anziano: «Tuo fratello è tornato e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello, quello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo» (v. 27).
A questa notizia il figlio «anziano»: «Si accese d’ira e non voleva entrare» (v. 28), svelando così la sua natura fratricida e la sua indole irrecuperabile; se è vero che il minore è scappato di casa, è altrettanto vero che il maggiore non vuole entrare; ma mentre il primo è tornato e sta dentro, l’anziano resta fuori perché non è mai entrato e tocca ancora una volta al padre uscire e andargli incontro, nel tentativo di recuperare anche questo figlio, che avrebbe dovuto essere un modello di esempio per la sua «anzianità». Di questo però ci occuperemo la prossima volta (continua – 20).
Paolo Farinella