Scelte di confine (prima puntata)
Diagnosi nefasta e prognosi di vita breve. Le terapie cosiddette «attive» salutano il paziente. Si varca la soglia del quotidiano e si entra in una terra di confine. Anticamera tra vita e morte. Diamo voce a chi, stringendo un patto con il tempo che segna i passi dell’uomo, sceglie di rendere meno doloroso il trapasso. Con il sostegno alla terminalità, dove meta ultima non è la guarigione bensì una morte dignitosa.
Siamo esseri a termine. Ma non facciamo che dimenticarcene. La «rimozione» non guarda in faccia nessuno, si estende a tutte le fasce sociali. Non è però un processo così immediato: esclude il non fare, alimenta l’azione, annulla il pensiero consapevole, annienta la profondità. Siamo specchio di una società in cui l’idea dell’uomo infallibile detiene una supremazia assoluta, sotto tutti gli aspetti, anche quello della salute.
La malattia va negata, la sofferenza taciuta, la morte cancellata. In questa prospettiva parlare di ferite, nel corpo e nello spirito, esige un cambio di paradigma.
Lo facciamo lasciando la parola a chi, per scelta, ha deciso di vivere quotidianamente con i malati terminali. Di essere taumaturgo del corpo e dell’anima per chi la «terminalità» non può più far finta che non esista.
cure … palliative?
«Il medico di cure palliative agisce laddove non ci sono più spazi per le terapie attive convenzionali e rivolge le sue cure a malati cosiddetti terminali, con un’aspettativa di vita minore o uguale a 120 giorni». Così racconta Piergiacomo Rubatto, 46 anni, medico presso la Fondazione per l’assistenza e la ricerca oncologica (Faro) di Torino. E sfata un equivoco semantico, secondo il quale l’attributo palliativo identifica un intervento superfluo. «Anticamente il sostantivo pallium indicava il mantello con cui i pellegrini si riparavano durante i loro viaggi presso i santuari, con l’intento di avvolgerli, proteggerli ed essere fonte di calore.
A questa idea iniziale si rifanno le cure palliative. Se non servono a guarire nel senso stretto del termine, servono a prendersi cura del paziente sino alla fine».
Ma in termini tecnici come ci si prende cura del paziente? «L’obiettivo è ridurre al massimo grado la sofferenza della persona malata, con un buon controllo dei sintomi. Alleviare dal dolore la persona permette non solo di intervenire sulla corporeità dell’individuo ma di restituirgli quella dignità umana, indispensabile per migliorare la qualità del tempo che gli rimane da vivere».
Se il controllo di una complessa sintomatologia alla fine della vita è importante, inscindibile da questo è l’approccio relazionale e umano che il «palliativista» non può non avere.
«Alla base del nostro lavoro c’è la consapevolezza di varcare l’uscio di case segnate dal dolore. L’attività tecnica del controllo dei sintomi si lega indissolubilmente al rapporto relazionale con il malato e con l’intera famiglia. Nell’assistenza domiciliare il ruolo della mini équipe (medico e infermiere) è quello di affrontare i sintomi fisici dei pazienti ed emotivi dei parenti, con un’autentica condivisione del malessere psicologico».
Da cosa nasce la sua scelta di lavorare con la terminalità? Ha iniziato dopo la laurea o è una decisione recente? «Sono specializzato in chirurgia e ho lavorato per 15 anni come chirurgo al San Giovanni Vecchio e all’ospedale Valdese di Torino. Con il passare degli anni ho iniziato ad avvertire una pungente insofferenza verso quella che si può definire la catena di “montaggio e smontaggio” della sala operatoria. Precisione, tecnicismo ma poca relazione umana. Dopo anni di lavoro mi sono riconvertito a quella che era la mia vera indole, il mio credo di quando ho iniziato gli studi: il rapporto diretto con il malato e i suoi disagi».
Da chirurgo a medico di cure palliative. Lasciando, se vogliamo peccare di cinismo, un titolo prestigioso per scegliere di accompagnare l’uomo alla fine dei suoi giorni. «In ospedale il malato è l’anello che ruota intorno al sistema. Nel percorso di cui stiamo parlando sono gli operatori a ruotare intorno al malato. L’uomo è immancabilmente al centro.
Non mi manca il prestigio del chirurgo. Sono nel posto dove volevo essere e quello che ritengo più fondamentale per il mio mestiere è essere credibile verso sé stessi e verso gli altri. La credibilità la leggi negli occhi dei tuoi pazienti e delle loro famiglie, condividendo quel pezzo di strada che porta al passo più importante delle nostre vite».
A casa o in hospice?
L’intervento di supporto alla terminalità attraverso le cure palliative può essere realizzato sia a domicilio che in hospice. Il dottor Alessandro Valle, 47 anni, cornordinatore del personale Faro, specialista in oncologia ed esperto in cure palliative, ci spiega: «La Fondazione Faro nasce a Torino nel 1983 per volontà di alcuni medici oncologi dell’ospedale San Giovanni Antica Sede. Dal 1989 avvia un programma di assistenza domiciliare medica e infermieristica, gratuita, ai malati oncologici in fase avanzata della malattia.
Nel 2001 apre al terzo piano dell’ospedale San Vito di Torino l’hospice con 14 stanze a un letto, con una poltrona per un familiare, per un totale di 10-20 posti. L’obiettivo è ricreare il più possibile un ambiente familiare, accogliente, che rispetti la dignità e l’integrità della persona.
Non esistono per questo orari precostituiti di visita e, per quanto possibile, si cercano di organizzare momenti comunitari di intrattenimento».
L’hospice ha veramente un aspetto tranquillizzante. Situato nel verde della collina torinese, gode di una vista che, in qualche modo, rinfranca lo spirito. Il suo interno è l’espressione della «misura d’uomo». L’ambiente non è impregnato di quel nauseabondo odore medicalizzato degli ospedali, è impossibile perdersi perché troppo piccolo e ogni stanza è caratterizzata da un’icona floreale. Dall’iris al girasole, in un tutt’uno con l’idea che nulla muore per sempre, che bellezza e purezza sopravvivono anche al più drammatico degli eventi.
I luoghi della palliazione spaziano dunque dal domicilio all’hospice. Cosa li distingue e caratterizza?
«Le cure palliative a domicilio non hanno ragione d’essere se la famiglia stessa non è in grado di integrare le attività assistenziali. La famiglia è il peo su cui si basa l’intera cura.
Peo di appoggio pratico, affettivo e psicologico. Si potrebbe definire un’azione congiunta di mini équipe con la famiglia. Coordinazione e dedizione assoluta di ambo le parti conducono a un accompagnamento armonico. Le famiglie che non possono garantire tale impegno si rivolgono all’hospice».
Sono persone sole, senza famiglia i degenti dell’hospice? «Assolutamente no. I malati cosiddetti “soli” sono sinceramente rari ma non tutte le famiglie, per quanto numerose possano essere, hanno possibilità di tempo e disponibilità emotiva per seguire l’evoluzione della malattia oncologica, in particolar modo in area metropolitana».
testa e cuore
Quale profilo professionale e umano è più consono all’operatore di cure palliative e su che criteri si basa la selezione del personale?
«Dopo anni di lavoro posso dire che il neolaureato o il medico con troppa esperienza non si confà al profilo giusto del candidato. Il primo perché non ha ancora acquisito una certa scioltezza nella professione e non ha gli strumenti giusti per trattare casi delicati.
Per contro, la troppa esperienza pecca a volte di rigidità mentale, di schemi prefissati e di poca flessibilità. Inoltre viene detto un no categorico a chi desidera collaborare con noi in attesa di altro nella propria vita: concorsi, master, etc. Su questo siamo tassativi, chi sceglie questa strada non può farlo per poco tempo e con leggerezza».
Quali allora i giusti ingredienti? «Motivazione, competenza e inclinazione alle relazioni umane. Senza questa triade non esiste il medico o l’infermiere di cure palliative. Per quanto concee il medico non viene richiesta una determinata specializzazione. Chi viene da noi a cercare lavoro si mette al servizio dell’umanità più fragile, più ferita. Deve farlo con testa, cuore, elasticità mentale e di tempo. L’orologio perde il suo significato, il tempo acquista valore in quanto le giuste parole servono a curare quello che la medicina non può più guarire. L’esperienza, poi, chiude il ciclo. Aiuta a trovare soluzioni, gesti e complicità anche nei momenti più disperati».
Ma in questo olimpo di umanità, ci sarà qualcuno che prova a sbarcare il lunario per convenienza e non per sincera attitudine. «Le persone che non dichiarano apertamente di voler far altro nella vita e si improvvisano medici o infermieri di cure palliative hanno vita breve.
Sono loro stessi a rendersi conto che se non si ha una forte motivazione è impossibile convivere quotidianamente con la morte. Inoltre i nostri operatori, una volta superato il colloquio, sono sottoposti a un periodo di formazione e tirocinio della durata di cinque settimane, complessive di 30 ore teoriche globali e un duro tirocinio articolato in quattro settimane presso il servizio domiciliare e una in hospice. Dopodiché devono superare un esame e altri sei mesi di prova.
Questo iter serve a palesare anche il più piccolo disagio e a scoprire il vero talento dal fasullo».
La gente che prende posizioni nette nella vita o che, come in questo caso, fa scelte forti spesso è unita da un sentire comune, da una sorta di appartenenza a una stessa filosofia di vita. Cosa distingue il file rouge degli operatori Faro? «Oserei dire un pizzico di follia, nel senso di essere un po’ anticonformisti, di non essere allineati, di privilegiare la ricerca del senso delle cose della vita, rispetto all’etichetta, al prestigio esteriore.
Ognuno di noi, per una ragione o per l’altra, ha fatto una scelta di rottura rispetto a ciò che era o faceva prima, abbandonando spesso luoghi di cura dove non esprimeva al meglio il proprio potenziale».
senza camice
Scelte alternative, dunque, come alternativo e controcorrente è lo stesso fatto di non nascondersi dietro il camice bianco, ma di essere sempre in borghese. Nel servizio domiciliare come in hospice.
Una prospettiva meno autorevole, più accessibile che rinuncia al «costume» come identificazione di uno status sociale, censurando così tutte quelle dinamiche che il camice stesso crea: divisione, rottura, freddezza. E, in fin dei conti, poca utilità.
Sono le parole di Raffaella Oria, 35 anni, da 10 anni infermiera Faro, a dipingere al meglio quanto le interrelazioni emotive non necessitino di travestimenti.
«Già nei quattro anni in cui lavoravo come infermiera presso il reparto di ginecologia oncologica del Sant’Anna di Torino, sentivo l’esigenza di fermarmi di fronte alla terminalità. Era come se una spinta intea, molto viscerale, qualcosa di somigliante al mio io più profondo, mi invitasse a spostare il paravento o ad aprire la porta di una stanza in cui stava avvenendo un decesso.
Volevo essere lì e far sentire la mia presenza fisica e mentale». Parole e aspetto di Raffaella Oria non tradiscono il suo potenziale umano. E non stupisce che lavorare con i malati terminali sia da 10 anni la sua missione.
Abbiamo avuto modo di seguirla da vicino, a domicilio, e ho sperimentato quell’energia carezzevole, femminile, fatta di un universo interiore che si muove a passi di danza, in una terra di passaggio. Dove di quella danza c’è un bisogno infinito. «L’esperienza domiciliare mi ha dato la possibilità di esprimere al meglio la mia inclinazione ai rapporti umani e di responsabilizzarmi professionalmente. Senza nessun camice, esponendomi in prima persona per quello che sono realmente. Posso dire che è stata la vita stessa e l’esperienza a formare la mia umanità più vera. Quella che, oggi, riesce a intervenire nei momenti più complessi, a cogliere un disagio psicologico della famiglia, a cercare il giusto conforto. Dieci anni fa non sarebbe stato lo stesso».
Le abbiamo visto fare un gesto di cura e di amore. Che non posso dimenticare. Era il commiato fisico ad un corpo ormai senza vita. La tenera ricomposizione di quest’ultimo. Forse non rientra più nella sua sfera di competenza, perché lo fa?
«Un corpo non è solo un oggetto esanime, bensì una vita intera. Fatta di tanti fotogrammi che compongono un ciclo di amore, di pensieri, di speranze. E, purtroppo, è un corpo ferito dall’abuso sanitario. Merita un ultimo saluto dignitoso, una carezza che possa estendersi dall’ultimo respiro in poi. Tecnicamente rimuovo gli eventuali dispositivi (medicazioni, cannule endovenose o catetere) e poi provvedo all’igiene del corpo e, se la famiglia lo desidera, alla vestizione. I tempi sono fondamentali.
Non esiste fretta ma una dolce fluidità. Un ultimo, lungo saluto che soffia ancora di vita».
Dopo tanto morire, ci sono dei momenti in cui si rischia il bu-out (dall’inglese bruciarsi: lento processo di logoramento che porta a non disceere la propria vita da quella delle persone a cui si bada)? Come comportarsi?
«Mi è capitato di avere nello stesso anno quattro casi di pazienti anagraficamente simili a me. Questo, alla lunga, sfocia in un meccanismo di immedesimazione e di grande fragilità. La soluzione? Chiedere ferie e farsi aiutare dai colleghi, snellire il carico di lavoro o prendere in cura pazienti di diversa fascia anagrafica».
Cosa le ha insegnato questo lavoro, cosa si porta dietro nel suo quotidiano?
«Mi ricorda, in ogni istante, di vivere sempre il momento. E di farlo nel miglior modo possibile, dando la priorità alle cose che veramente contano».
«ascensori dell’anima»
Ma se le cure palliative servono a prendersi cura fisicamente ed emotivamente del paziente e della famiglia, esiste da qualche parte una «palliazione» dell’anima?
Ne parliamo con Gianpaolo Paoletto, 41 anni, cappellano dell’ospedale Molinette (San Giovanni Battista di Torino) e assistente spirituale in hospice Faro.
«Il nostro tempo è caratterizzato dall’incapacità del non fare. È un tempo inscatolato in cui diventa fattore ansiogeno trovare uno spazio libero per la mente e per il cuore.
La profondità di noi stessi è ciò che più inquieta l’uomo moderno. Che anche di fronte alla morte continua a ricercare l’azione per far finta che nulla di trascendentale si stia verificando».
Quale potrebbe essere allora un accompagnamento spirituale per l’uomo che sta compiendo i suoi ultimi passi?
«Smettere di vivere la vita in una prospettiva orizzontale, prendere l’ascensore in salita e in discesa, per accedere a quei meandri interiori del nostro io assoluto, che mai come in quel momento dovremmo conoscere. Solo così è possibile una sorta di pacificazione, seppur estremamente difficile.
Non è compito dell’uomo di fede indottrinare il malato terminale ma è parte della sua missione aiutare a trovare delle risposte, a chiarire alcuni interrogativi sulla vita e sulla sofferenza. Questo lo si può fare solo se si fuoriesce da una rigidità mentale e si allarga la prospettiva della spiritualità. Essendo di conforto all’uomo, a prescindere dal credo personale».
In un film capolavoro del regista svedese Ingmar Bergman «Sussurri e grida», dove la tematica è l’agghiacciante terminalità della giovane protagonista, il colore rosso delinea propriamente questo tunnel verso l’interno dell’anima. E l’unica consolazione finale è il rapporto umano, quello sincero della donna con la governante, complice per esperienza personale di tale dolore.
È l’unica in grado di accompagnarla amorevolmente verso l’epilogo.
Questo viaggio verso l’anima può essere veramente facilitato da un’autentica relazione umana?
«Certamente. La relazione profonda tra due esseri si incontra esclusivamente nell’autenticità. E quando questo accade in prossimità della fine di una vita, assume un aspetto miracoloso.
Spesso incontro malati che vorrebbero sul serio prendere quest’ascensore verso la propria profondità ma sono gli stessi familiari a non consentirlo, occupandogli e occupandosi assurdamente il poco tempo che resta. Un ulteriore escamotage per nascondere le proprie paure».
Per Non perdere l’identità
Il timore di esprimere la propria fragilità, di ammettere di essere in scadenza ci toglie la leggerezza, ci rende responsabili di fronte a parole che mai avremmo pensato di poter pronunciare. Con un padre, un figlio, una moglie. E non sempre si trovano consolazioni anagrafiche, magari legate alla senilità, davanti alla notizia di una malattia incurabile.
A volte si incontrano famiglie con bambini o adolescenti a cui la malattia dei genitori segna profondamente un momento della loro esistenza, e non solo.
In questo senso il lavoro organico della mini équipe di cure palliative è pronto a richiedere, davanti a un particolare disagio emotivo all’interno di una famiglia, il supporto di uno psicologo.
«L’obiettivo del nostro lavoro è quello di aiutare il malato a trovare un punto emotivo di quiete, conducendolo al trapasso senza un’eccessiva disperazione.
L’approfondimento psicologico nei confronti del paziente o della famiglia aiuta a veicolare quelle che sono le effettive necessità, i bisogni inespressi della persona e a restituirgli il senso della propria storia». Così racconta Stefania Chiodino, 50 anni, cornordinatrice degli psicologi in Faro.
«La malattia sgretola, avvilisce e svilisce. Inizia scardinando l’autostima in termini fisici, esteriori, e poi si scava un percorso nelle pieghe più intee per colpire l’autentica identità della persona. Il nostro operato cerca, per quanto possibile, con la collaborazione dell’interessato, di riavvolgere quel nastro vitale e di agire sull’autostima del soggetto per aiutarlo a rivalorizzarsi e a riconoscersi».
Come avviene un cammino del genere? «Solo con una stretta relazione, il tempo e la fiducia reciproca. Un esempio: per un nostro paziente riconoscersi corrispondeva al piacere culinario. Per lui è stato un momento di autenticazione personale vedere come tutta la nostra équipe partecipasse alla preparazione del suo piatto preferito. Piccole cose di ogni giorno, semplici, ma che ridanno personalità a una vita».
La terminalità è una fase della vita sui generis, esula dalle condizioni psichiche ordinarie. Ci sono silenzi del malato a cui l’altro non sa come rapportarsi. Esistono chiavi di lettura e parole giuste per un commiato da una persona amata?
«Non ci sono strategie. L’esperienza mi ha insegnato che a volte quel silenzio che il parente legge come tormento è in realtà un’assenza. In un posto lontano, forse una vera terra di confine, dove l’uomo sente meno dolore.
Il nostro lavoro non è nel consigliare frasi d’effetto ma nel capire le necessità dell’altro e, se queste riguardano il commiato, favorie la realizzazione nel modo più sereno possibile».
Un intervento che si può definire circolare. «Direi di si. Lo chiamiamo “Progetto protezione famiglia” e agisce, preventivamente, rivolgendosi a famiglie fragili, ossia con bambini e adolescenti all’interno, patologie psichiatriche, marginalità sociali, etc. Accompagnandole con programmi di sostegno psico-sociale fin dalla diagnosi della malattia, seguiamo i malati terminali e offriamo un servizio di supporto al lutto per contrastare la solitudine e prevenire il lutto patologico».
Un numero limitato di volte
C’è una frase di Paul Bowles tratta dal libro «Il tè nel deserto» che esprime questa incapacità dell’essere umano a ricordarsi di essere parte di una parabola che, prima o poi, metterà la firma al fondo della pagina: «Poiché non sappiamo quando moriremo si è portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile, però tutto accade solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia, un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che, senza, neanche riuscireste a concepire la vostra vita. Forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno. Quante altre volte guarderete levarsi la luna, forse venti… eppure tutto sembra senza limite».
Gabriella Mancini