Chiesa cattolica in Myanmar
Charles Bo, arcivescovo di Yangon e presidente della Conferenza episcopale del Myanmar, è la figura più importante della chiesa cattolica birmana. Lo abbiamo incontrato a Pathein, città nella regione del delta dell’Ayerwaddy.
Arcivescovo, la vita dei birmani, dopo le manifestazioni del 2007, è cambiata?
In verità non ci sono stati molti cambiamenti: le manifestazioni hanno sicuramente lasciato il segno nel paese, ma il governo ha immediatamente «normalizzato» la situazione, fino ad affermare che tutto è tornato alla normalità e procede per il meglio. In realtà c’è stato uno screening attento su ogni monaco che si è riusciti a individuare dopo aver partecipato ai cortei: i più attivi e coinvolti sono stati imprigionati.
Mentre le manifestazioni erano al culmine, la Conferenza episcopale del Myanmar ha emesso un documento in cui si invitava i cattolici birmani a non partecipare alle manifestazioni. Mi scusi, ma non riesco a condividere l’idea di rimanere «fuori» in un contesto così importante. E, sentendo altri religiosi cattolici nel paese, anche loro sono rimasti spiazzati da tale documento.
La Conferenza episcopale ha invitato solo i preti e le suore a non scendere in strada aggregandosi ai cortei, lasciando ai singoli fedeli libertà di scelta. Il problema è che la chiesa cattolica in Myanmar è molto piccola e nel 1988, dopo aver appoggiato apertamente le proteste, ha subito enormi ripercussioni da parte del governo, faticando non poco a rimettersi in sesto. Per questo abbiamo chiesto ai nostri religiosi di unirsi alle preghiere.
Perché non avete invece chiesto l’immediato intervento della chiesa in Occidente e del Vaticano?
Il papa è intervenuto con un discorso trasmesso nei giorni più caldi delle dimostrazioni e le chiese di Hong Kong, Filippine e Thailandia hanno espresso duri giudizi nei confronti dei militari, appoggiando apertamente i manifestanti. Non si deve comunque dimenticare che le chiese cristiane sono state le uniche ad aver inviato un documento direttamente a Than Shwe affinché adottasse una soluzione pacifica e aprisse le porte al dialogo.
Ma nessun documento di condanna o di appoggio ai manifestanti è emerso dalla chiesa in Myanmar.
È vero, nessun documento ha condannato le repressioni e tantomeno ha espresso favore verso i monaci, ma occorre comprendere che la situazione della chiesa in Myanmar è assai differente da quella in cui si trovano altre chiese d’Oriente.
Ora siete in contatto con le comunità buddiste?
A livello privato. Ufficialmente non possiamo avere alcun contatto con loro, per i sospetti che creerebbe all’interno del governo. Sarebbe troppo pericoloso per loro e per noi.
Come giudica il ruolo dell’Onu e di Gambari nel processo di dialogo che ha con il governo?
Non siamo soddisfatti: l’Onu dovrebbe essere più incisiva. Ma come cristiani dobbiamo continuare ad avere speranza.
L’Spdc è un dinosauro anchilosato, che non mostra alcuna possibilità di smuoversi dalle sue posizioni. Solo la morte di Than Shwe potrebbe smuovere lo status quo?
Forse. La sua morte potrebbe cambiare qualcosa, ma altri tre o quattro generali sono subito pronti a rimpiazzarlo e nessuno sa quali siano esattamente le loro intenzioni.
Parliamo di remote eventualità: una partecipazione della Lega nazionale per la democrazia a un governo di coalizione potrebbe portare qualche cambiamento?
Lei parla di eventualità; io voglio parlare di realtà. E voglio anche essere chiaro: sono 60 anni che la Birmania si trova sotto dittatura militare. Non penso che, anche nel caso l’Lnd sia chiamato a condividere il potere con i militari, il sistema possa cambiare. È tutto troppo radicato. Radicato nell’animo delle persone. Di tutte le persone. Secondo me occorre rieducare, partendo dalle generazioni future, dalle scuole, dai più piccoli. Questo, come avrà capito, prenderà molto tempo. Inoltre ogni tipo di cambiamento nel paese dovrà essere graduale, non improvviso. Se i militari dessero tutto il potere all’Lnd e Aung San Suu Kyi, andremmo incontro a un periodo di enorme confusione. Questo lo ha capito anche Aung San Suu Kyi, che non vuole isolare i militari escludendoli dal potere. La sua politica, molto saggia, è quella che lo cedano gradualmente. I birmani non sono pronti per la democrazia. La nazione andrebbe contro al caos più totale se i militari dovessero cedere completamente il potere.
Ha parlato di tempo: quanto ci vorrà, secondo lei?
Dipende dai militari. Non meno di 3-4 anni per iniziare la transizione. Ma devono sentirsi pronti alla cogestione del potere e sono sicuro che non lo sono. Non lo vogliono. Almeno sino a quando Than Shwe e la sua fazione sarà al potere.
Con Khin Nyunt c’è stata la possibilità che il Myanmar imboccasse una via democratica: è stata Aung San Suu Kyi, allora, a rifiutare il dialogo?
Khin Nyunt è stato arrestato nel 2004 e non si è mai capito il motivo. Sono due le possibili giustificazioni: il dialogo iniziato con Aung San Suu Kyi, che Than Shwe non voleva neppure iniziare o un progetto ideato dallo stesso Khin Nyunt per acquisire il totale controllo dei militari. In entrambi i casi è stato Than Shwe a sventare i progetti e prendere il posto di Khin Nyunt. Ma, ripeto, nessuno, tranne i vertici militari oggi al potere, sa esattamente per quale motivo il generale sia stato arrestato.
Ha parlato di una chiesa piccola e impotente: c’è qualcosa che può fare per indirizzare il Myanmar verso la democratizzazione senza cadere nel caos più completo?
La chiesa cattolica è l’unica organizzazione in Myanmar che ha un reale e costante contatto con la comunità internazionale. Neppure i buddisti possono avere contatti così capillari e influenti. Per questo il governo cerca di ostacolare in ogni modo la chiesa cattolica. Anche Aung San Suu Kyi ha ammesso che in Myanmar i birmani non hanno alcun potere.
Chi, oltre ai militari, può decidere il futuro dei birmani?
La comunità internazionale. E in Myanmar la chiesa cattolica ha l’influenza necessaria per far sì che la comunità internazionale agisca nei modi più opportuni.
Per sua stessa ammissione l’Onu, massima rappresentante mondiale, non sta agendo in modo soddisfacente.
Non esiste solo l’Onu…
Se parla dell’Unione Europea, non sarei tanto ottimista: come rappresentante per discutere con il governo birmano ha scelto un italiano che, dicono i dissidenti birmani residenti all’estero, ha una conoscenza superficiale dei problemi e la politica da lui adottata è, a dir poco, vergognosamente inutile. Come se non esistesse.
Anche noi abbiamo la stessa impressione…
Rimangono gli Stati Uniti, ma la loro ostilità verso i militari non permette di aprire un dialogo con loro…
Esattamente! Questo è il punto! Premesso che la situazione in Myanmar cambierà solo dopo la morte dei quattro leaders militari, il problema principale che riscontriamo è che la comunità internazionale, e gli Usa in modo particolare, continuando a criticare la giunta, la spingono sempre più verso le braccia della Cina. Quindi ecco due chiavi che potrebbero utilizzare per riportare il paese al dialogo: per prima cosa l’Occidente deve cercare di influenzare la Cina, affinché induca i militari ad accettare i cambiamenti; seconda cosa, gli Usa devono smetterla di criticare violentemente il Myanmar e imporre l’embargo; dovrebbero, invece, cambiare atteggiamento ed essere più aperti con il Myanmar.
La chiesa cattolica in Myanmar ufficialmente si è pronunciata contro l’embargo: come mai?
Sì, ufficialmente abbiamo detto di essere contrari all’embargo; non solo per il Myanmar, ma per tutti i paesi. È vero che il boicottaggio colpisce i militari, ma colpisce ancora di più i birmani. I militari riusciranno sempre ad aggirare l’embargo e fare soldi. Sono i semplici cittadini a non poterlo fare.
Cosa fate allora in concreto per alleviare le sofferenze dei birmani?
Essendo pochi e con poca influenza all’interno della nazione, non pretendiamo di cambiare il paese. Nel nostro piccolo, però, cerchiamo di educare la società al fine di renderla pronta per la svolta democratica. Questo nostro lavoro a lungo termine, è capito appieno dai militari: per questo ci è vietato organizzare servizi sociali su larga scala in Myanmar.
Continuiamo a parlare di Usa: ufficialmente Washington critica violentemente la giunta, ma a Yangon ha costruito un’ambasciata immensa e ultramodea a pochi metri dalla casa di San Suu Kyi. A che gioco stanno giocando? È un monito verso la giunta affinché non faccia alcun male a Daw? Un modo di dire «attenzione, noi siamo qui che vegliamo e proteggiamo Aung San Suu Kyi»?
Non so quali siano le reali intenzioni degli Stati Uniti. Ufficialmente la nuova ambasciata è stata costruita in quel luogo, in quel modo, per ragioni di sicurezza. Non ho mai pensato che il fatto di averla costruita a fianco della casa di Aung San Suu Kyi potesse essere un monito alla giunta, ma in effetti sarebbe una mossa molto efficace e psicologicamente astuta.
Dagli Stati Uniti ai due giganti che schiacciano il Myanmar: Cina e India. Che influenza hanno questi due paesi sulla giunta birmana? Si parla quasi sempre solo della Cina, ma anche l’India fa la sua parte…
Oggi la giunta è sotto l’ombrello di protezione cinese. Il problema è che la Cina è una nazione in cui il governo è privo di una morale religiosa, quindi per raggiungere i suoi fini, cioè annettere il Myanmar come sua provincia per avere uno sbocco sull’Oceano Indiano, è pronta a fare qualsiasi cosa.
E l’India?
L’India non ha grandi interessi in Myanmar. È però vero che è il principale fornitore di armi ai militari.
Non sono molto d’accordo con lei sul ruolo marginale dell’India, ma passiamo a questioni intee: recentemente e in particolare dopo le manifestazioni di settembre e ottobre, in alcune zone del Myanmar sono scoppiate alcune bombe artigianali che hanno causato anche delle vittime. Si ha idea di chi avrebbe potuto essee l’ideatore e l’esecutore? L’opposizione intea avrebbe la possibilità di organizzare questi attentati?
Come ha evidenziato lei, sono tutti ordigni artigianali, di scarsa potenza e che chiunque, con un po’ di esperienza, potrebbe fabbricare in casa. Può essere che le bombe siano state messe da movimenti etnici, i quali avrebbero la capacità di organizzare simili attentati. Escluderei siano opera dell’Lnd. Ma c’è chi sospetta gli stessi militari, per avere la giustificazione di avviare nuove repressioni.
Aung San Suu Kyi: che opinione ha la gente della Lady?
È un’icona. È vero che non ha mai avuto esperienza di amministrazione del potere, ma la gente ha piena fiducia in lei.
Tale fiducia potrebbe essere un’arma a doppio taglio. Cosa accadrebbe se la Signora non si dimostrasse all’altezza delle aspettative e non riuscisse a mantenere le promesse fatte al suo popolo? Lei che l’ha incontrata più volte, che opinione si è fatto?
Mi ha sorpreso. Piacevolmente sorpreso. Ammiravo la sua minuta conoscenza della situazione politica e sociale del paese che non avrei mai creduto di incontrare in una donna che era stata per così lungo tempo agli arresti domiciliari. Inoltre, Aung San Suu Kyi è una persona molto religiosa e mi ha assicurato che, nel caso andasse al potere, garantirebbe completa libertà di fede. A differenza di lei, Than Shwe, quando parla di sviluppo, intende uno sviluppo militare. Non l’ho mai sentito parlare di sviluppo sociale, economico, educativo. Daw, invece, parla principalmente di questo. E mi fa ben sperare.
Quale è la parola di cui i militari hanno più paura?
Dialogo. Appena sentono tale parola si allarmano, in particolare questa giunta guidata da Than Shwe.
Un dialogo però è in corso con Aung San Suu Kyi.
A livelli molto bassi. Il militare incaricato a parlare con Aung San Suu Kyi non ha alcuna influenza sui vertici. Serve come specchietto delle allodole.
Piergiorgio Pescali