Milanesi con occhi a mandorla

Milano: quattro passi in «chinatown»

Lo storico «quartiere Sarpi», ormai conosciuto come «Chinatown» per la massiccia presenza di cinesi, è stato un esempio di convivenza multietnica, fino al 12 aprile 2007, quando è diventato teatro di scontro con la polizia. Varie associazioni lavorano per eliminare tensioni e pregiudizi; ma l’integrazione è ancora lontana: mentre i vecchi meneghini rimasti nel quartiere non hanno problemi, i giovani milanesi hanno paura di «contaminarsi».

Milano, una mattina d’inizio primavera. «Ve la dico io la soluzione ai problemi del quartiere: facciamo imparare ai nostri giovani il cinese e tutto si sistema». Nessuno si aspettava l’intervento di Luisa, sciura milanese 85enne, che con il suo trolley, come tutte le mattine da decenni, stava facendo ritorno a casa dal mercato rionale.
Alle parole di Luisa seguì un lungo momento di silenzio, interrotto dalla stessa donna: «Io, in quello che oggi voi chiamate Chinatown, ci sono nata e sto bene oggi come stavo bene allora». E i problemi, la viabilità spesso interrotta dalle merci scaricate dai grossisti, gli scontri che il 12 aprile di un anno fa hanno portato alla ribalta gli screzi tra la comunità cinese e i residenti italiani? «Niente di così esagerato come l’ha presentato la maggior parte dei mass media. Se a volte non si va d’accordo è perché non ci si capisce – replica l’effervescente signora -, per questo, oltre a dire a loro di imparare l’italiano, anche noi dovremmo imparare il cinese».
Magari fosse tutto qui. Il gruppetto di cinesi e italiani che, prima sbigottiti poi sorridenti, ascoltano le parole di Luisa, sa bene che di questi tempi le cose non sono così facili, anche se di strada ne è stata fatta e, poco alla volta, le cose nel quartiere stanno cambiando.

Il quartiere storico milanese tra la zona della Moscova, ovvero pieno centro, e il Cimitero monumentale, ha mutato volto in una mezza dozzina di anni, non di più. Quella che sembrava una piccola presenza, la comunità cinese, con i propri ristoranti, qualche parrucchiere e sparuti bazar di articoli vari, si è estesa in brevissimo tempo a macchia d’olio, rivoluzionando l’aspetto di decine di vie, comprese quelle più grosse, come via Bramante e la «famosa» via Paolo Sarpi. Ovvero, quella della rivolta, durata un pomeriggio, dei cinesi contro i vigili che sistemavano multe come fossero noccioline sui cruscotti dei furgoni di carico-scarico.
La vecchia Milano qui non esiste più, e l’appellativo Chinatown è più che corretto: 9 negozi su 10 e altrettante facce dei passanti provengono dal paese degli occhi a mandorla.
E l’integrazione a che punto è? «Per capire come stanno veramente le cose, bisogna andarci, a Chinatown» dice chi ci ha a che fare. Abbiamo seguito il consiglio. E il privilegio è stato quello di andarci guidati da un cinese, uno che quelle «nuove» vie le conosce bene: il nostro Caronte si chiama Zhang Xin, ha 29 anni ed è arrivato in Italia, da Shangai a Milano, quattro anni fa. Parla bene la lingua (anche se ammette di avere faticato parecchio), ha terminato gli studi e oggi di mestiere fa il fotografo professionista, la prima delle sue due passioni. «La seconda è il far cadere le barriere – esordisce strizzando l’occhio -. Proprio per questa ragione con altri ragazzi come me ho creato l’Associazione studenti cinesi di Milano».
Xin (è il suo nome, che in Cina segue il cognome) ha un buon ricordo del suo paese, ma vuole rimanere in Italia perché, oltre a piacergli e offrirgli sbocchi professionali, vuole essere utile ai suoi connazionali. Come? «Costruendo ponti di conoscenza reciproca». Per questo ha fondato l’associazione, di cui è presidente, e ha accettato di buon grado di accompagnarci per le vie della Chinatown milanese. Con lui, tre giovani «colleghi»: Lu Xiumin, ragazza 27enne che sta studiando design all’università, Liu Geng e Lu Xiao, 29 e 26 anni, studiosi di automazione al Politecnico.

Che il microviaggio si preannunci interessante lo si capisce dal primo incontro, quasi casuale, del gruppo: è un giornalista cinese, redattore di Europa China News, bisettimanale nato nel 2001 e voce autorevole della comunità del sol levante in Italia. Con lui un veloce scambio di battute, di più non può, deve chiedere il permesso al direttore che oggi non c’è.
Questioni di gerarchia, ma qualcosa si sente di dire: «La situazione è molto meno tesa rispetto a qualche mese fa; forse a breve si arriverà a un accordo per la questione delle merci dei grossisti». Sì, perché la gran parte dei problemi nasce da loro, quella miriade di negozi all’ingrosso che popola i marciapiedi delle strette vie di Chinatown, e che obbliga furgoni di ogni dimensione a fermarsi in mezzo alla via bloccando il passaggio di tutti gli altri malcapitati: automobilisti, motociclisti e persino mezzi pubblici come i tram.
Dopo mesi di tira e molla, la soluzione a cui accenna il giornalista cinese è quella concordata (sembra in via definitiva, ma non si può mai dare per certo) tra Comune di Milano e rappresentanti dei commercianti cinesi: tutti i negozi all’ingrosso verranno spostati a partire da prima dell’estate 2008 in una zona periferica del sud cittadino, nel quartiere Gratosoglio, e le vie di Chinatown diventeranno Ztl, zone a traffico limitato.
Un bel progetto, che rischia però di rimanere sulla carta, se tutte e tre le parti in causa non sono d’accordo. Tre, proprio così. Perché oltre ai cinesi e Comune, voce in capitolo la vogliono avere anche i residenti e i commercianti italiani del quartiere. Che, come è logico, vogliono vederci chiaro, a cominciare da Luigi Anzani, padrone della celebre cappelleria Melegari, da 90 anni in via Paolo Sarpi.
«Come cittadini prima e negozianti poi vogliamo essere tutelati – spiega l’Anzani dopo averci ricevuto tra centinaia di cappelli d’ogni epoca -. Prima cosa quindi la legalità, da qui nasce la convivenza». Parole che trovano d’accordo anche l’associazione Vivisarpi, gruppo spontaneo cittadino che si batte per la vivibilità del quartiere.
Poco più in là della cappelleria, un negozio di massaggi reiki è anche la sede dell’Associazione Cinesi in Milano, che ogni giorno espone i giornali locali e inteazionali in vetrina. «Basta discriminazione, siamo milanesi anche noi» dice il cartello appeso a lato del negozio.

Girato l’angolo, ci s’imbatte nella parrocchia del quartiere, quella della Santissima Trinità, condotta da tre sacerdoti tra cui don Dario Bolzani, 33 anni, che cornordina uno degli oratori più multietnici della città, tanto che, dal mese di aprile dello scorso anno, è stato affiancato da un prete cinese altrettanto giovane, il 30enne Li Jinsheng; grazie a lui la comunità mandarina, ogni domenica alle tre e mezza del pomeriggio, può seguire la messa nella propria lingua d’origine.
«Uno dei piccoli ma importanti passi per migliorare sempre più un’integrazione che già c’è» spiega don Dario. Per avvicinare ancor più i ragazzi, egli ha creato il brillante sito internet: www.parrocchiatrinita.it. Un’integrazione che significa convivenza pacifica, in cui non bisogna evitarsi ma, poco alla volta, cercare di conoscersi.
Nel frattempo, la visita prosegue. E le immagini, gli spunti sono davvero tanti. Poco più in là dell’ampia e bassa chiesa, due vigili in bicicletta entrano in un’erboristeria salutando con garbo la commessa. È un giro di routine, per controllare come va la «trasparenza» dei negozi, dopo l’ultimo spauracchio segnalato, quello delle erboristerie che si trasformano in cliniche dell’orrore, luoghi nel cui retro vengono praticati aborti illegali.
La segnalazione è arrivata da un’urgenza ospedaliera di una donna, poi salvatasi per il rotto della cuffia, a cui l’interruzione di gravidanza clandestina era andata male. Ma, nei controlli delle forze dell’ordine nei giorni successivi, non era stato trovato niente che potesse rimandare a tali pratiche. «Qualcosa sotto-sotto ci deve pur essere – afferma Gianni, 45enne italiano che a Chinatown fa affari con un’oreficeria -, ma come spesso accade, è l’alone di mistero attorno a una comunità chiusa come quella cinese che alimenta voci che poi, di bocca in bocca, rischiano di andare al di là della realtà».
Un esempio di quello che sta dicendo Gianni lo spiega, ridendo ma non troppo, uno dei personaggi più «importanti» del nostro viaggio: Hu Xiao, 40 anni, proprietario di una catena di market tra Milano e Torino, e di un centro di smistamento alimentari a Pero, fuori Milano. «Bella la barzelletta sui nostri morti, vero?» domanda Xiao con sarcasmo, rivelandoci di essere molto contrariato da quando, tempo fa, un quotidiano italiano ha pubblicato un articolo sui cinesi che non muoiono mai. «Avevo anche pensato di intentare una causa per diffamazione al quotidiano Libero, visto che pensa che i nostri morti li facciamo arrosto e li mettiamo a tavola – continua Xiao -. Sono stato due giorni fa a un funerale di un mio caro amico; al prossimo, invito tutta la redazione di quel giornale».
In Italia da 10 anni, il piccolo imprenditore cinese è un punto di riferimento nel quartiere per la sua serietà. «Vai da Xiao che sa tutto» è stato infatti il consiglio di uno dei grossisti di via Paolo Sarpi, quando il nostro traghettatore Xin gli ha chiesto di suggerirgli un rappresentante della comunità cinese da potere incontrare.

E il tempo passato con Xiao è stato molto istruttivo: ci ha fatto visitare il suo market di via Niccolini, tenuto in modo impeccabile. «Ogni dieci giorni riceviamo una visita della Asl – spiega -; le multe per qualsiasi errore sono salate, sui 3mila euro; ma è un bel po’ che non le prendiamo». Ci permette pure di parlare con i due commessi e con la giovanissima cassiera, che quasi con vergogna si scusa per non riuscire a parlare italiano: «Meno male che quasi tutti i nomi dei prodotti sono in doppia lingua e i prezzi bene in vista» riesce a dirci con l’aiuto di Xin.
Soprattutto Xiao ci ha raccontato la sua storia. «Vengo dalla campagna attorno a Shangai, come il 95% della gente di Chinatown» spiega mentre ci consegna il suo biglietto da visita, in cui spicca la scritta Group Hu Italy. «Ci chiamiamo quasi tutti Hu, siamo così numerosi che abbiamo superato i Brambilla, il cognome milanese per eccellenza» scherza l’imprenditore cinese.
Lui, le dinamiche dell’immigrazione mandarina in Italia (oggi il 5% del totale) le conosce bene. «La nostra famiglia in Cina si indebita fino al collo per farci venire qui – continua Xiao -. Quando arriviamo, ci facciamo ospitare da conoscenti e alla prima opportunità di lavoro ci dedichiamo 24 ore su 24, per saldare prima possibile il debito familiare». A molti va male, devono tornare in Cina. Xiao, invece, è uno di quelli che ce l’ha fatta, ha una piccola fortuna. «E ora che posso, cerco di dare lavoro a più connazionali possibili» conclude.
Proprio mentre dice ciò, gli si avvicina un cinese di mezz’età, chiedendogli qualcosa. Dopo qualche minuto, una stretta di mano e Xiao lo saluta. «Fa il muratore, ma ha problemi di permesso e non trova un impiego serio, spero di poterlo aiutare» chiarisce in un italiano impeccabile. «È vero che pochissimi cinesi sanno l’italiano, ma guai a fae loro una colpa – aggiunge -. Lavorano tutto il giorno a contatto solo con connazionali, la sera crollano di stanchezza. Quando trovano il tempo di studiare la lingua?».

A questo punto sopraggiunge la sciura Luisa, si ferma e, appoggiandosi al suo bastone, s’intromette di nuovo per dirci con il suo forte accento milanese: «È gente perbene, questa. Vivo nel palazzo qui a fianco da 50 anni, posso garantirlo»; e così dicendo, rivolge lo sguardo all’imprenditore, che ricambia con un ampio sorriso. Lei conosce Xiao, così come lo conosce Guido, 84 anni; questi, mentre Luisa parla, s’intrattiene con Geng (uno dei quattro ragazzi dell’associazione) per imparare formule di saluto cinesi, che poi ripete in modo molto buffo.
Xiao e i suoi giovani dipendenti cinesi, Luisa e Guido sono gli ultimi incontri di questo «passaggio» da Chinatown. «C’è qualcuno che manca all’appello – aggiunge Guido -. Sono i ragazzi italiani. Qui per le strade non se ne vedono da tempo, ed è un peccato: non possiamo essere solo noi anziani a dialogare con i giovani cinesi; devono farlo loro, prima che sia troppo tardi». Può darsi che abbia ragione. Forse per superare le incomprensioni bisognerebbe parlarsi, e «contaminarsi» un po’ di più. 

Di Daniele Biella

Daniele Biella