Ricerca in campo minato

Un’accurata ricerca sulla presenza islamica in Piemonte

Eventi recenti hanno suscitato vari interrogativi sulla presenza delle comunità islamiche in Italia: quanti sono, cosa fanno, come sono organizzate… Per rispondere a tali domande, almeno per quanto riguarda il Piemonte, il «Centro Federico Peirone» ha condotto una ricerca esemplare e stimolante, capace di fugare paure e razzismo.

Durante la trasmissione televisiva «Annozero» (febbraio 2007), una moschea di Torino era stata denunciata come «covo di propaganda anti-occidentale» e il suo imam marocchino è stato espulso (gennaio 2008), perché ritenuto «una minaccia per lo stato». La stessa sorte era toccata al suo predecessore nel settembre 2005.
Denunce del genere vengono spesso riportate dai quotidiani nazionali con titoli sensazionali, che parlano di scoperte di «scuola di terrorismo» collegata ad Al Qaeda, «covi di propaganda dell’odio», «schegge impazzite dell’islam» con sede in Italia… Ma mentre gli agenti di polizia, protagonisti di tali scoperte, ricevono encomi e complimenti, alcuni studiosi di islam, che con le loro ricerche spesso offrono «piste valide» alle stesse forze dell’ordine, sono accusati presso i tribunali di «vilipendio della religione islamica, come è capitato ai professori Allievi e Guolo, denunciati dal discusso Adel Smith (vedi riquadro).
In un paese dove cresce la nevrosi «da paura» e «razzismo» nei confronti del mondo arabo, sono proprio gli studi degli onesti ricercatori spesso anche apprezzati analisti di importanti quotidiani su questo «campo minato», che insegnano a «disceere», a non fare di «tutte le erbe un fascio», a distinguere tra «islam moderato», a cui appartiene la maggioranza dei musulmani residenti nel nostro paese, da quello marginale ma micidiale del «terrorismo fai-da-te».
In questo filone s’inserisce l’importante ed esemplare ricerca «Musulmani in Piemonte», promossa dal Centro Studi Federico Peirone, in collaborazione con docenti dell’Università di Torino, a cui ha offerto autorevoli contributi anche il «denunciato» prof. Renzo Guolo.
metodo e ambiti
«La ricerca si è confrontata con i seguenti quattro campi di analisi: le appartenenze all’islam, la costruzione dell’islam, i profili identitari dei musulmani, pratiche e ideologia  degli imam», scrive nell’introduzione Luigi Berzano, docente di sociologia all’Università di Torino, evidenziando subito come sia complesso studiare un settore del «fenomeno immigrazione» che ormai caratterizza l’Italia.
Pensata nel 2002, la ricerca si è sviluppata «sul campo» dall’ottobre 2003 al novembre 2004, con approfondite interviste su un campione ben bilanciato di 1.352 immigrati musulmani (917 uomini e 435 donne) residenti nelle nove province del Piemonte e provenienti da Marocco, Albania, Senegal, Tunisia, Egitto, Somalia. Altri 50 sono stati intervistati fra i 124 immigrati musulmani detenuti in carcere.
Nell’analisi dei dati statistici gli albanesi sono stati quasi sempre scorporati dalle altre nazionalità, per la loro accentuata laicità. Inoltre, dopo essere riusciti con fatica a compilare un elenco di 43 moschee (in molti casi «sale di preghiera») in Piemonte, se ne sono identificate 20 (7 in Torino) per «le visite e interviste approfondita ai dirigenti».
Nel 2005 si è conclusa la stesura dei testi e presentato il libro «Musulmani in Piemonte» (ed. Guerini e Associati-Milano) a cura di Augusto Tino Negri (direttore Centro Studi Federico Peirone) e Silvia Scaranari Introvigne (professoressa di filosofia e collaboratrice del Centro Peirone). Questa ricerca è stata possibile grazie al contributo dell’Associazione Torino-Europa, Fondazione San Paolo, Assessorato alle Politiche sociali Regione Piemonte.
Il libro, rigoroso e ricco di dati attendibili, è accurato nel presentare la metodologia della ricerca (appendice) e nell’approfondire alcuni aspetti della «presenza islamica in Piemonte» e «in patria»: viene così proposto un «quadro di confronto» per «analizzare tendenze e dinamiche dell’islam in Piemonte con quelle nazionali ed europee», è raccontato dettagliatamente «la visita alle moschee e le interviste agli imam», si descrivono le peculiarità degli «ethnic business» a Torino, vengono tratteggiati eventuali scenari futuri dell’islam in Piemonte e in Italia.

PRATICA RELIGIOSA

Secondo i dati Caritas, nel 2004 gli immigrati in Italia erano 2.194.000 (senza contare i circa 300 mila clandestini), il 33% dei quali sono musulmani (circa 825 mila), residenti il 30% a nord-ovest, 28,4% a nord-est, 21,5% al centro, 14% nelle isole. Il campione degli intervistati è stato estrapolato dai circa 50 mila musulmani presenti in Piemonte nel 2001 (attualmente sono circa 60 mila).
Il questionario, rigoroso ed essenziale, è stato suddiviso in tre parti in modo da identificare:  le caratteristiche socio-economiche dell’intervistato (genere, provenienza, professione); importanza dell’aspetto religioso nella vita del soggetto; indagare quanto l’appartenenza islamica influenzi la coesistenza con la società d’accoglienza.
Inoltre, il questionario ha posto particolare attenzione sulle 5 pratiche (i pilastri dell’islam) che «la sunna e il diritto islamico considerano obbligatorie: fare la professione di fede islamica, preghiera rituale (salat), elemosina rituale (zakat), digiuno del ramadan, pellegrinaggio alla Mecca una volta nella vita.
Circa dieci intervistatori, provenienti dai paesi degli intervistati, sono stati addestrati bene per ottenere risposte attendibili.
Dalle risposte ottenute dagli intervistati risulta che la religione islamica è considerata importante dal 60%, con punte altissime per somali e senegalesi (90%); la frequenza delle moschee per la preghiera del venerdì è del 31%, mentre il 53% prega 5 volte al giorno; il digiuno di ramadan è praticato dal 96%, il pellegrinaggio alla Mecca è stato compiuto dal 10%, mentre l’86% vorrebbe compierlo. L’elemosina, versata nel mese di ramadan, è rispettata dal 65% degli intervistati, in prevalenza arabi (Marocco 71%, Tunisia 68%, Egitto 65%).
Per quanto riguarda l’occupazione, il 45% dei musulmani intervistati svolge un lavoro dipendente, il 10% un lavoro autonomo con partita Iva, l’8% un lavoro autonomo senza partita Iva (sommerso), il 19% è disoccupato, il 6% è formato da studenti (da 18 anni in su), l’11% si occupa della cura domestica. Tra i lavoratori dipendenti, la maggioranza proviene dall’Africa subsahariana, mentre nel campo del commercio e piccola imprenditoria prevalgono gli arabi.

Islam politico e islam moderato

Alla domanda se «una buona società dev’essere governata dalla shari’a», il 43% degli intervistati ha risposto «sì», il 53,5% «solo per certe cose» e il 3,5% ha risposto con un netto «no».
«La shari’a è la legge positiva di origine religiosa – spiega il prof. Guolo -. Le sue fonti sono le stesse della teologia: il Corano, la sunna, il consenso della comunità (ijma), l’ijtihàd, ragionamento individuale di tipo analogico, che permette un margine di interpretazione e adattamento. La shari’a regola questioni assai diverse, dalla modalità della preghiera allo statuto della famiglia».
E analizzando le risposte, prosegue: «Tra i più favorevoli al modello sciaratico si riscontrano coloro che provengono dall’Egitto (57%) e dalla Somalia (50%), paesi investiti negli ultimi decenni dall’onda lunga del “risveglio islamico”. Ed è proprio tra i seguaci dell’orientamento islamista che si trovano molti di coloro che si dichiarano a favore delle pene coraniche (61%), richieste in maggioranza da egiziani (67%), marocchini (63%), somali (62%) e tunisini (61%)».
Stupisce che nessuno degli intervistati abbia chiesto chiarimenti sull’applicazione della shari’a, se essa riguardi il paese di provenienza o anche l’Italia. Sarebbe interessante appurare che cosa intendono coloro che hanno risposto «solo per certe cose»: e cioè, per regolare questioni intee alla comunità islamica o con incidenza sulla società civile del paese che li ospita.
I ricercatori hanno tratteggiato le seguenti identità socio-politiche, per cercare di individuare il gruppo di appartenenza degli intervistati:
1- islam-politico: ritiene che una buona società debba essere governata con la shari’a; vuole le pene coraniche e la Banca islamica;
2- islam-moderato: ritiene che una buona società debba essere governata con la shari’a solo per certe cose, vuole il velo per chi lo desidera, sceglierebbe una scuola statale con insegnamento dell’islam;
3- islam-laico: ritiene che una buona società non debba essere governata con la shari’a, non vuole né pene coraniche né banche islamiche.
Interessante è l’analisi dei dati su questi parametri: solo il 13,61% dei musulmani albanesi intervistati (4,5% del campione totale) appartiene all’identità socio-politica dell’islam laico. Tutti gli altri intervistati sono suddivisi tra islam-moderato e islam-politico, e un modesto gruppo residuale (2,8%). Il 67,16% (64,64% senza albanesi) appartiene all’islam-moderato (72% albanesi, 64% marocchini, 76% senegalesi, 65% tunisini, 57% egiziani, 51% somali); mentre il 24,44% degli intervistati (32,56% senza albanesi) appartiene all’islam-politico (33% marocchini, 8% albanesi, 21% senegalesi, 33% tunisini, 44% egiziani, 42% somali).
Commenta il prof. Guolo: «Il processo di individualizzazione, che segna la progressiva autonomia del singolo e l’autopercezione di sé come soggetto, segna sempre più l’essere musulmano in occidente… Quello che emerge dalla ricerca è dunque un islam sfaccettato più che monolitico».

 moschee e loro dirigenti

«Ogni moschea è indipendente dalle altre – chiarisce Tino Negri -. I suoi dirigenti esprimono l’ideologia politico-religiosa del gruppo che frequenta la moschea, o per lo meno del gruppo fondatore, e colui che solitamente è definito imam ne incarna i fini e gli obiettivi sulla scena sociale. Non esiste una struttura “ecclesiale” nell’islam, né una gerarchia di governo dell’istituzione. Sono sbagliate dunque le equazioni imam-prete (o vescovo) e moschea-chiesa».
Negli anni ‘90 i centri islamici si sono moltiplicati in Torino e provincia, intessendo tra di loro «reti associative allo scopo di negoziare con maggior forza le proprie richieste nei confronti dell’ambiente circostante, dell’autorità locale e dello stato».
Sono stati identificati tre tipi di «centri di culto», in base alla capienza degli edifici: grandi (ospitano 200 persone), medi (da 100 a 200), piccoli. «I locali sono, a volte in buono stato, altre volte, fatiscenti, ma sempre sistemati con cura, con tappeti, suppellettili e simboli essenziali… Quasi tutte le moschee, eccetto quelle molto piccole, assicurano la scuola coranica e di lingua araba per i ragazzi, che si svolge nei giorni di vacanza scolastica, il sabato pomeriggio e la domenica».
A Torino sono stati identificati due poli del «culto islamico piemontese» a San Salvario e a Porta Palazzo, sviluppati soprattutto dopo il 1995, che spaziano dall’islam radicale a quello moderato, oppure «etnico, comunitario, solidale e devozionale» dei senegalesi. 
Dal 2003 al 2004 i ricercatori, in periodi diversi, hanno monitorato la frequenza alle 20 moschee scelte e intervistato i «dirigenti» (2 hanno rifiutato l’intervista). Si preferisce usare l’appellativo «dirigente» invece di imam. «Sommersi dalle critiche per i comportamenti e la sovraesposizione mediatiche di noti leader islamici, le comunità hanno estromesso dal loro lessico il termine imam. Oggi i leader delle moschee preferiscono presentarsi come “dirigenti” dell’associazione che amministra la moschea».
Interessante è rilevare la disparità nel grado d’istruzione dei «dirigenti» intervistati. «Dei 20 centri visitati, solo 2 vantano un vero imam, o alim (dotto islamico), che ha compiuto studi pluriennali in una università islamica (Fés, Casablanca, Mecca); in altri 5 centri, troviamo 5 imam che hanno frequentato la scuola liceale per imam (3 anni) a Casablanca o che hanno seguito le lezioni di un alim impartite nella moschea; negli altri 13 centri, le guide della preghiera sono scelte tra coloro che meglio conoscono il Corano e la sunna, senza aver fatto studi specifici».
La sfaccettatura dell’islam in Piemonte si deduce anche dai fini e obiettivi delle «sale di culto». «Delle 20 moschee visitate, 4 s’ispirano alla corrente islamica wahhabita, puritana, lealista nei confronti dei principi sauditi dell’Arabia, favorevole allo stato islamico e all’applicazione della shari’a “dal basso”; 6 moschee s’ispirano alla corrente dei Fratelli musulmani che ha optato per l’islamizzazione “dal basso”, di cui 3 simpatizzanti e 2 aderenti all’Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia); 1 moschea s’ispira alla corrente più radicale e separatista dei Fratelli musulmani, che auspica l’islamizzazione “dall’alto”; 2 moschee sono salafite. In conclusione, il 55% delle moschee piemontesi appartiene all’area politica».

Commenti, esiti possibili

C’è una forte discrepanza tra la frequenza alla moschea dichiarata dagli intervistati e quella dichiarata dai «dirigenti» e rilevata dai ricercatori. «Mentre il 26% dei fedeli afferma di recarsi tutti i venerdì in moschea, secondo gli imam l’affluenza sarebbe del 5% e del 4% secondo le nostre rilevazioni. Durante il mese di ramadan, la frequenza dichiarata è del 37%, quella stimata dagli imam del 12%, mentre quella che emerge dai nostri rilievi del 7%».
Tra i dirigenti dei luoghi di culto, «generalmente sono condannati gli attentati alle Twin Towers di New York, quello in Spagna e quelli in Turchia. Le moschee aderenti o simpatizzanti dell’Ucoii menzionano la condanna pubblica degli attentati dell’11 settembre 2001 e dell’11 marzo 2004 pronunciata dall’Ucoii».
Inoltre, questi dirigenti «approvano la frequenza degli oratori parrocchiali da parte dei ragazzi, purché non ci sia né proselitismo né promiscuità». I ricercatori, infatti, affermano: «Non riscontriamo in nessuna delle guide delle moschee, quella reciprocità nel rispetto dell’altro e delle sue credenze né quella passione di ricerca intellettuale che sono irrinunciabili in un dialogo autentico». E constatano che «i dirigenti-imam delle moschee, in Piemonte (come in Italia e in Europa), affrontano il rapporto della comunità islamica con la modeità con gli strumenti della tradizione classica medioevale, assunta e ritrasmessa letteralmente, senza mediazioni; in secondo luogo i mediatori dell’incontro-scontro con la modeità sono soprattutto quegli autori contemporanei che provengono dall’area dell’islam-politico».
Malgrado la frequenza alle moschee non sia così alta bisogna rilevare che «le comunità musulmane in Occidente, compresa quella piemontese, mantengono uno stretto rapporto con la umma mondiale e le realtà nazionali e associative di appartenenza… Vivere a Torino e guardare al-Jazira o frequentare l’islam on line è esperienza diffusa».
A detta dei ricercatori, i processi visibili tra i musulmani in Piemonte sono: «Privatizzazione della sfera religiosa, reislamizzazione identitaria, secolarizzazione. A seconda del prevalere di questa o quella tendenza si definirà non solo il futuro di parte rilevante dell’islam in Italia, ma anche il quadro di convivenza tra società italiana e musulmana». 

Di Silvana Bottignole

Silvana Bottignole




Processi sconvenienti

Reportage: 30 anni dopo il regime dei Khmer Rossi

A 30 anni dalla fine del potere dei Khmer Rossi
e a 10 dalla morte del loro leader sanguinario,
Pol Pot, poco o nulla è cambiato per buona parte della popolazione cambogiana: non pochi nutrono una certa nostalgia per i tempi in cui si stava peggio e a nessuno interessa il processo dei principali responsabili del famigerato regime.

A l posto di confine di Poipet, il funzionario controlla perplesso ogni pagina del mio passaporto. «Non ha il visto cambogiano, deve farlo qui. Le costerà 30 dollari» mi dice. «Ho il visto fatto tramite internet. Ecco la ricevuta» ribatto mostrando la stampa dell’avvenuto rilascio dell’e-visa. Il poliziotto storce il naso, mugugna qualcosa, legge attentamente il foglio che gli porgo e dopo averlo timbrato, senza alcun sorriso me lo riconsegna, facendomi un cenno veloce con la mano di passare.
Guardo il gruppo di turisti francesi che sono dietro a me: li sento protestare con il doganiere perché ufficialmente il visto di entrata costa solo 20 dollari; i 10 dollari di maggiorazione andranno direttamente nelle tasche del poliziotto di tuo che li dividerà con i suoi colleghi. Un modo come un altro per arrotondare il magro stipendio che il governo offre ai suoi impiegati.
CORRUZIONE E INEFFICIENZA
È con queste premesse che rientro per l’ennesima volta in Cambogia. La corruzione, male ormai endemico del paese che ha infestato ogni ganglio della pubblica amministrazione, sembra non riesca ad essere debellata, anche se l’avvento della tecnologia informatica ha iniziato a dare i suoi frutti. Il visto emesso in via elettronica, infatti, è stato introdotto dal ministero degli Esteri, dopo le innumerevoli lamentele di turisti costretti a pagare il visto rilasciato in entrata ai posti di frontiera, sino al 50% in più della tariffa ufficiale. La brama di denaro colpiva anche i diplomatici e i volontari delle Ong che nel paese lavorano.
Accontentati i turisti, però, c’è ancora molto da fare in Cambogia per renderla una nazione pulita. E non parlo solo dal punto di vista della corruzione finanziaria. No, questo sarebbe il minimo. La Cambogia è corrotta nel suo interno, nell’animo.
Dalla caduta dei Khmer Rossi, avvenuta nel 1979 dopo l’invasione vietnamita, le speranze di ricostruire un paese nuovo, libero e moralmente virtuoso, si sono infrante di fronte agli scogli del potere. Un potere impersonificato in primo luogo dai politici, dal padre-padrone della nazione, il primo ministro Hun Sen, all’inconcludente Sam Rainsy per terminare con l’inaffidabile Norodom Ranariddh, figlio dell’ex re Norodom Sihanouk, che dal padre ha ereditato l’instabilità e la follia, ma non il carisma.
Nessuno, nei quasi 30 anni di decorso post-Khmer Rosso, è mai riuscito a defenestrare questa triade che tiranneggia i 14 milioni di cambogiani. «Non viviamo meglio oggi di quanto vivevamo sotto Pol Pot» mi dice Sok Bunroeun, un ottantenne di Siem Reap che ha vissuto l’odissea di Kampuchea Democratica tra il 1975 e il 1979.
Nonostante abbia lavorato sino a cinque anni fa, Sok Bunroeun è costretto a fare affidamento sui suoi tre figli sopravvissuti ai Khmer Rossi per sopravvivere. «La pensione che mi passa lo stato basta appena a comprare riso sufficiente per un pasto al giorno. Mi può dire quale è la differenza tra la vita durante Kampuchea Democratica e quella a cui siamo costretti oggi?».
Faccio fatica a sentire Bunroeun: nella bolgia di Angkor; la sua sommessa voce viene sovrastata dai megafoni delle guide che accompagnano i turisti tra le rovine del sito archeologico più famoso del Sud Est Asiatico. Le bancarelle mostrano «autentici» finti reperti archeologici, che vengono venduti a un prezzo pari a due interi mesi di pensione di un cambogiano.
DA ZONA PROIBITA
AD ATTRAZIONE TURISTICA
Decido di uscire da questo supermercato archeologico e mi dirigo verso Anlong Veng. Un tempo la strada che da Siem Reap conduceva a questo minuscolo villaggio, era la più militarizzata di tutto il paese. A pochi chilometri dalla città correva l’invisibile frontiera che divideva la Cambogia di Hun Sen da quella dei Khmer Rossi ribelli, di cui Anlong Veng era il quartier generale.
Nel 1995, dopo aver faticosamente ottenuto il lasciapassare da parte dei guerriglieri comunisti, avevo cercato di raggiungere il villaggio con una pattuglia. Il tragitto fu tanto breve quanto disastroso: la jeep sulla quale viaggiavamo incappò in una mina e subito dopo un conflitto a fuoco con l’esercito regolare cambogiano rischiò di farmi filare dritto in galera con l’accusa di spionaggio.
Oggi, dopo la resa dei Khmer Rossi alla fine degli anni ‘90, le regioni un tempo controllate da Pol Pot non sono più proibite. Per la verità non sono molti gli stranieri che si sobbarcano il faticoso viaggio di sei ore per raggiungere questo avamposto sperduto nella foresta cambogiana. Del resto perché privarsi delle comodità degli alberghi di Siem Reap, dotati di ogni confort, per dormire negli alberghetti decrepiti di Anlong Veng?
Dopo la disavventura del 1995, ero riuscito a tornare ad Anlong Veng, riuscendo anche a intervistare Pol Pot.
Un maldestro tentativo da parte del governo cambogiano di trasformare l’ex quartier generale dei Khmer Rossi, in un’attrazione turistica, è miseramente naufragato nel dimenticatornio. Complice la solita corruzione, che ha prosciugato i fondi stanziati per lo sviluppo del villaggio, prima ancora che si giungesse a un accordo con la popolazione locale. Too a visitare i luoghi dove avevo avuto le interviste con i massimi leaders Khmer Rossi: la casa di Ta Mok, quella dello stesso Pol Pot, di Nuon Chea, suo braccio destro… Case in muratura, ma assolutamente spoglie. Nulla a che vedere con i principeschi palazzi dei politici di Phnom Penh.
È facile, allora, capire perché il progetto turistico si sia arenato: che avrebbero detto i cambogiani, gli stranieri, vedendo in che umili condizioni avevano vissuto i leaders Khmer Rossi? Il paragone con Hun Sen, Sam Rainsy e altri politici sarebbe stato disastroso per questi ultimi. È anche per questo che nel paese si respira un senso di disappunto per il presente a cui fa contrappunto un sentimento di «nostalgia» per il passato.
SULLE TOMBE DEI CRIMINALI
La maggioranza dell’attuale popolazione cambogiana è nata dopo gli anni ‘80 e non conosce ciò che i loro genitori e nonni hanno dovuto sopportare. La scuola, inoltre, non è ancora pronta ad affrontare seriamente il periodo di Kampuchea Democratica. Trent’anni, se possono sembrare tanti per la nostra percezione del tempo immediato, sono un’inezia per la Storia e per poter confrontarsi con essa con obiettività.
E così ecco che ad Anlong Veng incontro un gruppo di pellegrini che vanno a rendere omaggio alle tombe di Pol Pot e Ta Mok. Sì, proprio a loro, i principali responsabili del milione e settecentomila cambogiani morti durante i 40 mesi in cui sono stati al governo. Quest’anno, infatti, ad Anlong Veng si celebrerà il decimo anniversario della morte di Pol Pot e migliaia di cambogiani arriveranno da tutto il paese per pregare sulle loro tombe.  Seguo il gruppo di viaggiatori al luogo in cui è stato cremato l’ex leader: una semplice tomba in legno con inciso il suo nome. Recitano le loro litanie, depositano del cibo e dei regali.
Con loro ci sono diversi bonzi. «Veniamo tutti da Khompong Thom. Abbiamo viaggiato tre giorni per arrivare fin qui – mi dice uno di loro -. L’esercito ci ha trasferiti da Phumi Romeas nel 2002. Fino ad allora abbiamo vissuto sotto il controllo dei Khmer Rossi. I trasferimenti forzati sono stati migliaia e il governo ha fatto in modo di emarginarci dal resto della società. Nessuno vuole avere a che fare con noi. Hanno paura che il governo si rivalga su di loro se ci aiutano».
Quello dei trasferimenti forzati è un problema che le organizzazioni che si occupano di controllare il rispetto dei diritti dell’uomo conoscono fin troppo bene. «Da quando abbiamo cercato di protestare per la politica del governo nei confronti dei cambogiani che hanno vissuto con i Khmer Rossi, non abbiamo più il permesso di entrare nelle aree che controllavano. Sappiamo che le evacuazioni continuano e che l’esercito tortura molti contadini del luogo» confida un membro di Human Rights Watch, l’organizzazione che, assieme ad Amnesty Inteational, si occupa di diritti umani e che, per questo, è stata messa al bando dal governo di Hun Sen.
PUNIZIONI PER LE VITTIME IMPUNITà PER I CARNEFICI
Per comprendere meglio come è mutata la vita dei contadini dopo il cambio di potere avvenuto all’inizio del 2000, mi addentro nelle zone meno battute e visito diversi villaggi. Subito mi accorgo di come molte risaie siano state abbandonate; inoltre le infrastrutture idrauliche, non più mantenute in modo adeguato, sono praticamente inservibili.
«Ta Mok veniva spesso qui – spiega In Kong Kea, un contadino di 35 anni -. È lui che ha progettato i canali, il sistema di irrigazione ed era ancora lui che si occupava della manutenzione. Riuscivamo a mietere tre raccolti all’anno. Ora, invece, il governo ci ha negato ogni sovvenzione e tutto quanto sta andando in rovina. I nostri campi riescono a produrre due scarsi raccolti all’anno».
In un altro villaggio, Vichea Kanleakhana, madre di sei figli, si lamenta per la chiusura della scuola e dell’ospedale. «Phnom Penh ci vuole punire per non esserci ribellati ai Khmer Rossi. Ma perché ci saremmo dovuti rivoltare quando ci davano tutto quello di cui avevamo bisogno? Se vogliono veramente che appoggiamo l’attuale governo, che ci diano almeno cibo, scuole, ospedali come ce li davano i Khmer Rossi…».
Mi dirigo a Pailin, ultimo rifugio della dirigenza comunista prima che venisse arrestata, accusata di genocidio dal tribunale patrocinato dall’Onu. Pailin è stata per lunghi anni il centro di una sorta di regione autonoma governata da Ieng Sary, ex ministro degli Esteri di Kampuchea Democratica, ex cognato di Pol Pot, ex Khmer Rosso.
Dal momento in cui Sary ha smesso i panni del guerrigliero comunista, il paesino al confine con la Thailandia è divenuto il rifugio più sicuro per tutti i leaders Khmer Rossi che, uno ad uno, abbandonavano le file del movimento. Mak Ben, Chounn Youran, Khieu Samphan e Nuon Chea, tutti si sono trasferiti qui, protetti dal potente esercito personale di Ieng Sary, finanziato da tycornon thailandesi.
Gli interessi attorno alla regione sono enormi: a pochi metri dall’unico albergo della città, sorge il Cesar Palace, un casinò costruito per ospitare ricchi uomini d’affari thailandesi (il confine è a pochi chilometri) in cerca di ebbrezza e nuove esperienze.
Oltre al casinò, però, vi sono altre ricchezze nel forziere di Pailin: le colline che si scorgono tutto intorno sono ricche di rubini e zaffiri. Sapendo di non poter fronteggiare militarmente Ieng Sary, Hun Sen ha sempre cercato di mediare con lui e dividere i proventi del commercio di pietre preziose, arrivando addirittura a concedergli l’amnistia, fino a garantirgli l’immunità in caso la comunità internazionale si fosse impuntata per avviare il processo per genocidio all’ex dirigenza di Kampuchea Democratica.
Ma Hun Sen non si può certo dire sia un esempio di coerenza. Il potere, per lui, è sempre stato il principale obiettivo sin da quando, alla fine del 1978, disertò le file dei Khmer Rossi, di cui era quadro, per affiancarsi ai vietnamiti durante l’invasione avvenuta nelle settimane seguenti. Da allora, e parliamo di ben 27 anni, questo caparbio politico cambogiano è sempre stato al vertice del governo cambogiano, trasformando l’intera nazione in un suo feudo personale.
NON CONVIENE A NESSUNO
Alla fine del mio viaggio mi trovo proprio a Phnom Penh, la bella capitale deturpata dalle piaghe sociali della droga e della prostituzione, caratteristiche di una società alla deriva e priva di valori. È qui che si sta svolgendo il processo ai dirigenti superstiti di Kampuchea Democratica: Nuon Chea, vice di Pol Pot, Khieu Samphan, presidente di Kampuchea Democratica, Ieng Sary e Kang Kech Eav (Duch), direttore del carcere S-21 dove venivano imprigionati e uccisi tutti gli oppositori a Pol Pot.
Passeggiando per Phnom Penh, è chiaro quanto poco interessati siano i cambogiani a questo processo. «Preferiamo sentirci parte del mondo andando in discoteca, nei night club, vestendo abiti firmati. Cerchiamo di vivere il presente. Un processo che parla di fatti accaduti 30 anni fa non ci interessa» spiega Phuong, una ragazza ventenne incontrata a Tuol Sleng.
In un’intervista in esclusiva, Ieng Sary ex Ministro degli Esteri dei Khmer Rossi e uno dei principali accusati al processo, denuncia anche il coinvolgimento di governi occidentali: «Se siamo incriminati, si dovranno cercare le cause di ciò che è successo più a fondo: nei bombardamenti illegali degli Stati Uniti in Cambogia durante la guerra del Vietnam, l’appoggio dato al nostro governo dall’Onu dopo l’invasione vietnamita, l’invio di armi al nostro movimento da parte della Gran Bretagna». È da queste parole che si capisce come mai, per ben 30 anni, nessuno ha voluto portare alla sbarra i Khmer Rossi, aspettando invece che la dirigenza storica venisse decimata.
A questo punto ci si potrebbe chiedere quanto possa essere equo e giusto un processo intentato in un paese dove il potere giudiziario è diretta emanazione di quello politico. Infine, un processo equo e giusto, dovrebbe ricercare le responsabilità delle sofferenze del popolo cambogiano anche in chi, come Norodom Sihanouk, ha accettato di condividere il potere con Pol Pot, perorando la sua causa nelle sedi inteazionali. O come Hun Sen, fino all’ultimo grande equilibrista e opportunista. O anche nell’Onu, ombrello politico di Kampuchea Democratica dal 1979 al 1982 e della coalizione antivietnamita di cui erano a capo i Khmer Rossi fino al 1993.
Nuon Chea, in una delle sue rarissime interviste che mi ha concesso pochi giorni prima di essere arrestato si chiedeva: «Se mi processeranno potrò dire tutto quello che penso? In tal caso la comunità internazionale dovrà interrogarsi sul fatto che noi abbiamo agito con il loro appoggio diplomatico. Ma non penso che mi lasceranno dire questo. Ciò che vogliono è un processo che condanni chi non può difendersi, per assolvere le proprie coscienze». 

Di Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




LE ORME DI LAETOLI

Museo etnografico / Contemplando una vetrina…

La vetrina in questione racchiude un calco con le orme di un adulto e di un bambino, risalenti agli albori dell’umanità. È uno delle migliaia di oggetti che i missionari della Consolata hanno raccolto in oltre 100 anni di presenza tra popoli e culture diverse e li conservano nel loro Museo. Una autentica «finestra sul mondo».

«Credo che queste orme siano allo stesso livello delle più fantastiche e illuminanti scoperte di questo secolo…». Così si espresse l’antropologo Tim White in un suo rapporto a un gruppo di studiosi ricercatori, e continuò: «Orme come quelle di esseri umani modei. Se ce ne fosse una su una qualsiasi spiaggia, oggi, e si chiedesse a un bambino di quattro anni di cosa si tratti, quel bimbo direbbe subito che si tratta di orme lasciate da qualcuno che camminava. Non le troverebbe differenti da altre centinaia».
Il calco di queste orme lo si può ammirare anche a Torino, Corso Ferrucci 14, nel Museo etnografico dei missionari della Consolata. In un silenzioso angolo di questo ricchissimo museo è obbligatorio fermarsi di fronte a una speciale vetrina, che riporta quanto successe agli albori dell’umanità. È un angolo d’Africa trasportato tra noi, incurante dello sferragliare dei tram e dello stridio delle gomme delle auto transitanti nel corso.
Mi son fermato, per lungo tempo, di fronte a questa vetrina e ho sognato. Ma un sogno vero, accaduto 3 milioni e mezzo di anni fa…

Siamo in una sperdutissima località che oggi i tanzaniani chiamano Laetoli. Il vulcano non troppo distante chiamato Sadiman, ha eruttato un’ennesima fitta nube di ceneri di carbonatite: una sostanza simile a quella di una nostra spiaggia dalla sabbia molto fine.
Sul terreno rimane un sottile strato di poco più di un centimetro. Poi cade la pioggia. La cenere si impregna di acqua, formando come una pastina di cemento fresco. Creature, abitanti nei dintorni, cominciano a muoversi e a imprimere le loro orme su questo strato di ceneri: elefanti, giraffe, antilopi, maiali, lepri, struzzi, uccelli, insetti… e creature umane.
Lo strato di cenere si indurisce presto al sole e, prima che torni a piovere, un’altra eruzione e un’altra ancora in un tempo non lungo, forse poco più di un mese. Lo spessore raggiunge i 20 centimetri. Venti centimetri di polveri vulcaniche in balia del vento, ma anche terreno fertile per la crescita, in tempi dovuti, dei primi licheni.
Passano gli animali e passano anche gli uomini. Sulla regione cade per sempre il silenzio, dopo che i vulcani hanno tuonato per l’ultima volta. E il silenzio dura per 3 milioni e mezzo di anni fino a un certo giorno del 1935.
Quella mattina la valletta verde di Laetoli si sveglia da un sogno. C’è un bianco venuto da Nairobi alla ricerca di qualcosa da incuriosire la fretta degli antropologi, che in tutta l’Africa si danno da fare per scoprire gli «albori dell’umanità». Il suo nome è Louis Leaky, un pastore protestante che ha anche contagiato la moglie Mary della stessa sua passione.
Come un segugio in cerca di preda, Leaky osserva e accatta roba quasi incomprensibile. Poi eccoti un bell’esemplare. «Un canino di vecchio babbuino» lo definisce senza troppo pensarci; e con questa etichetta lo spedisce in «omaggio» al British Museum di Londra.

Quel dentino restò pacifico, nascosto tra i tanti altri, fino al 1979, quando un giovane studioso, Tim White, lo notò e lo studiò a fondo. Quel dente finì per essere «riscoperto» come il più antico reperto fossile di ominide (superato poi dalla scoperta di «Lucy» e altre poche più recenti). Se Leaky l’avesse saputo, avrebbe fatto salti di gioia nonostante i suoi proverbiali dolori artritici.
Sulla scia di Leaky, si fece avanti un tedesco, Kohl Larsen, il quale a sua volta raccolse un pezzo di mascella con un paio di premolari. Anche questo studioso si accontentò di classificare detto reperto come quello di una scimmia antropomorfa. Era infatti inconcepibile per gli studiosi ante guerra (si tratta di studiosi di oltre 50 anni orsono) pensare a fossili del genere Homo o Ominide vecchi di milioni di anni.
Povero Leaky e povero Larsen! Avevano la gloria in tasca e non lo seppero mai.
Ma fortuna e gloria stavano bussando in casa Leaky: ad aprirla fu la moglie. Nel 1979, Mary Leaky decise di fare un ennesimo safari a Laetoli in cerca di materiale. Aveva addestrato un autentico fenomeno kenyano, Kaymoya Kimeu, a conoscere i fossili. Non ci vollero molti giorni e Kimeu portò a Mary un bel fossile di ominide. Il gruppo di ricercatori si ingrossò e il caiere si riempì di 42 denti di ominidi e un teschio con infissi ben 9 denti. Il mondo paleoantropologico lo conosce era come il fossile ominide LH4.

M a Laetoli riservava una incredibile sorpresa. Il gruppo di ricercatori, annoiati da tanto sole e assai poco divertimento, presero un giorno a giocare alla… guerra. I proiettili usati consistevano nell’abbondante sterco di elefante disseminato in quell’area. A un certo punto, un giovanetto di nome Andrew Hill, mentre tentava di sfuggire al lancio di un proiettile e raccattava dal suolo… munizioni, notò strani incavi nel letto asciutto di un torrentello; si fermò come una statua a contemplare delle impronte che egli definì subito come orme di animali…
Dovette trascorrere un altro anno, quando Philip, figlio della Mary Leaky, scoprì altre tracce che somigliavano sospettosamente a orme di… piede umano.
Mary Leaky diede la notizia al mondo, esagerando forse e giocando di fantasia: parlò addirittura di primi uomini in viaggio verso un ipotetico pozzo d’acqua e di animali impauriti, che fuggivano di fronte all’incombente pericolo del vulcano eruttante. Qualche antropologo rise sotto i baffi, perdonando alla Leaky il troppo sole equatoriale dei suoi tanti anni africani; ma un’esperta americana, Louise Robbins, accettò di unirsi al gruppo per ulteriori ricerche. Le orme trovate, fotografate e poi studiate con calma, finirono di creare disaccordo. Una di esse, però, trovata da un certo Paul Abell, aveva caratteristiche assai strane. Meritava di continuare la ricerca.
Ma esasperazione e disaccordo avevano ormai raggiunto il culmine. Mary Leaky diede ancora, ma a malincuore, il permesso di cercare e scavare. «Un piccolo scavo – disse Mary -, ma piccolo piccolo». Era così sicura che non ci fosse altro da trovare, che affidò il compito a Ndibo, un africano pacioccone addetto alla pulizia del campo base.
Ndibo si mise al lavoro, imitando come per scherzo i suoi «professori». Toò il giorno dopo tutto giulivo e disse alla Mary: «Vieni a vedere, mama Mary, ho trovato due orme: una grande e una piccola».
Pur credendo che si trattasse di uno scherzo, Mary andò a vedere e rimase con gli occhi sbarrati. Le orme si dirigevano verso nord, in un intrico di vegetazione, protetto da una zona erbosa. Il gruppo si precipitò con rinnovato entusiasmo al lavoro di pulitura: orma dopo orma, con certosina pazienza, liberarono un lungo pezzo di terreno: alla fine apparvero più di cinquanta orme appaiate, una piccola e una molto grande, per circa 23 metri. La ricerca proseguì, scoprendo oltre 200 metri di terreno.
Ominidi a stazione eretta, camminarono qui 3 milioni e mezzo d’anni or sono, lasciandoci il ricordo del loro passaggio. La serietà degli studi sul tufo vulcanico in cui le orme sono state impresse, non lascia spazio a dubbi. Con il metodo potassio-argo è stata confermata a più riprese la datazione dei due tipi di tufo esaminati: 3,59 e 3,77 milioni di anni.
Laetoli è stato per tanti anni un’esclusiva del passaggio «firmato» con i piedi dai nostri… progenitori. Oggi il sito divide la sua esclusiva con altri luoghi che conservano orme di piedi umani: Damasco, Ungheria, Nizza (Francia) e Italia.

I visitatori del Museo etnografico e di scienze naturali dei missionari della Consolata, sostando davanti alla vetrina che racchiude il calco di Laetoli, possono immergersi, senza troppa fatica, in un passato tanto remoto e immaginare una mamma e un bimbo per mano, scalzi, forse impauriti dal brontolio del vulcano, diretti verso un luogo più sicuro e più protetto. Un luogo dal quale non hanno mai fatto più ritorno.
Il museo offre ai visitatori altre possibilità di sogno, immergendosi nel mondo di altri popoli e culture. In cento anni di presenza tra popoli dell’Africa, Asia e America Latina, i missionari della Consolata hanno raccolto migliaia di oggetti, che vengono conservati come testimonianza di civiltà scomparse o in via di estinzione sotto l’incalzare della civiltà del mondo globalizzato. Un immenso patrimonio, che in tanti casi sarebbe andato distrutto per sempre.
I missionari sono lieti di accogliere, previo accordo, scolaresche e gruppi vari che hanno piacere di farci visita. Sarà una visita guidata che approfondirà tante nozioni già ascoltate dai loro insegnanti. Sarà, soprattutto, un’occasione per «aprire una finestra sul mondo». 

Di Giuseppe Quattrocchio

Giuseppe Quattrocchio




La terra dei passerotti

Majune: una missione a tutto campo

Da 3 anni tre missionari della Consolata si sono stabiliti nella missione di Majune, nel cuore del Niassa. Sono chiamati a sanare le ferite lasciate da decenni di violenza, per ricostruire nel tessuto sociale i valori di solidarietà e gratuità. Un lavoro duro, ma non impossibile.

Il distretto di Majune, a 150 km da Lichinga, capoluogo del Niassa, è il luogo in cui lavoro. Il suo nome mi aveva incuriosito sin dai primi tempi del mio arrivo, finché un giorno un anziano me ne spiegò l’origine.
Due secoli fa, Mataca, regolo del popolo ayao, voleva aumentare il numero dei suoi sudditi, favorendo l’immigrazione di gente proveniente dal sud del Niassa. Ma i nuovi arrivati rimanevano nei villaggi un anno o due e poi se ne andavano via, con vivo dispiacere del capo, che un giorno gli scappò detto: «Vengono, rimangono un poco e volano via proprio come i majune». I majune, infatti, sono degli uccellini gialli, tipici di questa regione. E da allora la zona cominciò a chiamarsi «Mataca Majune», terra dei passerotti di Mataca, e più tardi solo Majune.
«Povertà assoluta»
Gli economisti definiscono la maggioranza dei contadini mozambicani «poveri assoluti», perché vivono con meno di un dollaro al giorno. Per il contadino più povero, un dollaro deve servire per mangiare non uno, ma tre giorni; ciò significa che, prima o poi, qualcuno della sua famiglia morirà di fame.
Tale «povertà assoluta» è una conseguenza di decenni di guerra, prima per raggiungere l’indipendenza dal colonialismo, poi di conflitto civile che ha dissanguato il paese; ma è frutto anche di arretratezza. Buona parte dei contadini, infatti, hanno a disposizione solo la zappa; non conoscono né concimi né irrigazione; per avere un buon raccolto, devono sperare nella pioggia. Quando l’annata è buona, raccolgono qualche quintale di cereali e qualche chilo di fagioli, giusto il necessario perché la propria famiglia possa sopravvivere. Ma se le piogge non sono regolari, arriva la fame, soprattutto per bambini e anziani.
A Majune la fame non è occasionale, ma ricorre ogni anno e colpisce con violenza quasi tutte le famiglie contadine, che costituiscono la maggioranza della popolazione del distretto.
La fame costringe noi missionari ad assistere a spettacoli strazianti: persone che svengono al mercato, solo a vedere il cibo in vendita, ma che non possono comprare, perché hanno le tasche vuote; una mamma che prepara il pasto per due bambine bollendo qualche foglia di patata nella speranza di «ammazzare la fame»; una vecchia tutta pelle e ossa, con una zappa in spalla che va in cerca di qualche radice; neonati che piangono in continuazione, perché da giorni la mamma non ha più latte da dargli e il papà se n’è andato chi sa dove…
Una domanda assilla da tempo la mia mente: com’è possibile tutto questo? La regione di Majune non è una zona desertica; anzi, la terra è nera e fertile, vi scorrono due fiumi importanti e vari torrenti e ruscelli, tutti ricchi di acqua e pesce. Ci sono terreni umidi, adatti all’orticoltura o alle risaie. La savana è ancora ricca di cacciagione. Le piogge non mancano, anche se non iniziano e cessano con puntualità cronometrica.
Allora perché la fame? Ho voluto fare qualche domanda alla gente del posto. Un vecchio contadino mi ha risposto: «Un tempo non c’erano le carestie che sperimentiamo in questi anni, perché i vicini si aiutavano l’un l’altro. Quando, per esempio, il proprietario di un campo doveva assentarsi, ci pensavano le famiglie più vicine a vigilare le coltivazioni perché non venissero danneggiate da babbuini, elefanti e ippopotami. Oggi invece, bisogna guardarsi dai vicini più che dagli animali selvatici».
Un anziano portoghese ormai trapiantato in Africa ha aggiunto: «Quando il Mozambico era una nostra colonia, non riceveva tutti gli aiuti che riceve oggi. Anzi, era proibito ai portoghesi esportare capitali nelle colonie, perché queste dovevano essere autosufficienti. Certo, i missionari portavano avanti le loro attività come fanno oggi, ma a livello governativo, la colonia doveva arrangiarsi con i propri mezzi».
Anche alcuni dei nostri animatori fanno autocritica: «I nostri campi producono poco perché siamo pigri. Potremmo dedicarci molto di più alle colture, per organizzare un sistema d’irrigazione, togliere le erbacce, rinforzare le recinzioni, concimare con il letame… Invece, molti di noi passano il tempo nelle bettole. E poi sprechiamo il cibo. Quando i granai sono pieni, tanta gente consuma più del necessario e, magari, baratta sacchi di mais con bottiglie di bevande alcoliche, senza preoccuparsi di conservare le scorte fino al prossimo raccolto».
VALORI APPANNATI
I mozambicani non amano intristirsi con preoccupazioni economiche e politiche; è gente che, anche di fronte alle avversità, preferisce conversare e ridere insieme, meglio se davanti a un fuoco e a una bevanda. Inoltre, l’ospitalità è ancora un valore: il viandante affamato può bussare a una qualsiasi porta e la padrona di casa non gli farà mancare un po’ di polenta con fagioli e un bicchiere d’acqua, anche se ha tanti figli da sfamare e l’acqua deve attingerla, un secchio alla volta, da un pozzo lontano. Se uno ha un problema con la bicicletta o la moto, può sempre contare su un passante che si ferma per aiutarlo, con grande profusione di sudore e allegria.
Soprattutto, il Mozambico è un paese giovane: buona parte della popolazione mozambicana ha meno di 15 anni. E Majune non fa eccezione: basta entrare in un villaggio e si è subito attorniati da un nugolo di bambini.
Solidarietà e famiglia sono ancora valori fondamentali nei villaggi di Majune, come nel resto della società mozambicana. Ma siamo molto preoccupati, perché vediamo che tali valori si stanno sgretolando. In molte famiglie i bambini crescono in una specie di anarchia; i genitori tentano, a volte, di intervenire per richiamarli all’ordine, ma non riescono a farsi rispettare; forse anche perché non sempre danno il buon esempio e non sempre si interessano del benessere dei propri figli.
Di conseguenza, una volta cresciuti, molti figli non si occupano dei genitori, specie quando sono anziani. E quando si indebolisce la solidarietà familiare, viene meno anche la solidarietà verso le fasce più deboli della società, come malati, poveri, drogati.
In un villaggio di Majune, un giovane drogato, sorpreso mentre rubava, è stato bruciato vivo dal proprietario del negozio; l’assassino è in libertà, perché nessuno ha voluto testimoniare contro di lui, sebbene l’omicidio sia stato compiuto di fronte a molta gente. La domenica seguente, in chiesa, durante la messa, nessuno ha ritenuto fosse il caso di denunciare tale misfatto; l’ho fatto io negli avvisi parrocchiali, suscitando sorpresa e stupore tra la gente.
LA «MANO TESA»
Una volta non era così. Esisteva la «famiglia allargata», dove tutti si aiutavano in caso di bisogno: genitori e figli, zii e nipoti, cugini e altri membri della parentela. Oggi, nella «famiglia nuova», non sono molti i genitori che hanno la fortuna di avere figli che si prendono cura di loro. Ho incontrato tanti anziani che hanno figli benestanti, funzionari pubblici o commercianti, che si sono dimenticati dei propri genitori.
Anche questa situazione è una delle conseguenze della lunga guerra civile (1977-1992). Tanta gente è stata costretta ad abbandonare la propria casa per fuggire dalla violenza, creando la mentalità del «si salvi chi può», costringendo gli sfollati a pensare solo a salvare la propria pelle. Senza contare che molti bambini sono cresciuti da soli, orfani, senza avere altri valori di riferimento se non quelli della violenza e del sopruso. La guerra ha diviso famiglie, distrutto valori, fatto crescere una generazione priva di istruzione ed educazione morale.
Insieme all’egoismo, si sta affermando, a Majune come nel resto del paese, anche una «cultura della mano tesa». Se un bianco entra in un bar, o cammina per strada o viaggia in treno o in bus, incontra sempre qualcuno che tende la mano per chiedere un aiuto. E non sono solo i poveri.
La «mano tesa» sta diventando un malore endemico anche ai livelli più alti della società, da quando piovono gli aiuti inteazionali, in dollari o euro, per la ricostruzione delle strutture del paese, per iniziative di sviluppo nei 138 distretti in cui è organizzata l’amministrazione del Mozambico, per mantenere 140 mila funzionari, insegnanti, poliziotti, netturbini…
Tali aiuti sono indispensabili per evitare il fallimento di tutta la nazione; ma provocano pure il fenomeno della corruzione a tutti i livelli e, soprattutto, la diffusione della «cultura della mano tesa», che a sua volta affievolisce l’iniziativa privata e aumenta il complesso di inferiorità.
Mi è capitato spesso di vedere persone sgranare gli occhi per lo stupore di vedere un bianco andare a piedi o in bicicletta, o viaggiare nel cassone di un camioncino. Qui il bianco che si rispetti viaggia comodamente nella propria automobile. Anche più scioccante è stata l’espressione pronunciata da un alunno delle classi superiori della scuola di Majune: «Ci è andata male: siamo nati negri».
Non tutti i mozambicani si fanno abbattere dai pregiudizi razzisti; c’è anche chi lavora sodo per migliorare la propria situazione economica; ma anche in questo caso può capitare che amici e parenti lo apostrofino: «Adesso, vuoi metterti a fare il bianco mentre non sei altro che un negro come noi?». Se qualche amico apprezza il suo successo, gli chiede, magari, l’indirizzo dello stregone che gli ha procurato la fortuna.

Essere missionari a Majune

È questo l’ambiente in cui noi missionari della Consolata ci troviamo a lavorare; e non è un lavoro facile. La missione di Majune conta 42 villaggi: 14 di essi hanno una comunità cristiana di una certa consistenza; altri tre villaggi contano appena uno o due cristiani, spesso infermieri o insegnanti di passaggio, in attesa di essere trasferiti in luoghi più comodi.
La missione non è nuova. È stata fondata nel 1965; è intitolata a Santa Isabel (Santa Elisabetta), regina di Portogallo. Ma noi missionari della Consolata siamo presenti dal gennaio 2005 con una équipe stabile, formata da tre missionari: il padre kenyano Felix Odongo, il brasiliano fratel Ayres Osmarin e il sottoscritto, missionario laico, incaricato della caritas parrocchiale.
I missionari che ci hanno preceduto avevano avviato numerosi progetti di evangelizzazione e promozione umana: scuole, centri per la nutrizione infantile, allevamenti di bestiame, orti, corsi di taglio e cucito… Ma la guerra e poi la partenza dei missionari, ha provocato il fallimento di vari progetti, anche perché la popolazione non si è sentita interessata. «Abbiamo bisogno di qualcuno che ci tolga le bende dagli occhi» mi confidava un vecchio catechista.
È quello che vogliamo fare. Fin dall’inizio della nostra presenza a Majune abbiamo spiegato ai nostri parrocchiani che vogliamo lavorare insieme a loro, meglio ancora in progetti proposti da loro stessi, piuttosto che da noi missionari.
Uno dei primi progetti intrapresi riguarda la cura dei poveri, vedove, orfani, anziani soli, malati cronici. Non si è trattato di togliere le bende dagli occhi, ma anche dalla mente. Molti cristiani (e musulmani) pensano che aiutare i più bisognosi sia un compito esclusivo dei missionari. Ma noi abbiamo insistito e continuiamo a insistere che in ogni villaggio è tutta la comunità, cristiani e musulmani insieme, che deve farsi carico dei più diseredati. Per questo andiamo spesso nei villaggi, parliamo con i capi tradizionali, con gli imam musulmani e gli animatori cristiani e insieme visitiamo i bisognosi e decidiamo insieme come aiutarli.
Per gente abituata a chiedere aiuti, ma riluttante a dare qualcosa gratuitamente, non è facile far capire il valore della gratuità. Eppure qualcosa si sta muovendo: alcuni animatori hanno smesso di chiederci un po’ di tutto e ci sostengono nel convincere la popolazione dei propri villaggi a rivitalizzare e promuovere un minimo di solidarietà. Anzi, sono passati all’azione concreta: in alcuni villaggi gli incontri di preghiera sono accompagnati dalla raccolta di cereali, legumi e qualche soldo da destinare ai poveri. Oppure rivolgono appelli per chiedere che qualche volontario si presti a fare qualche lavoro a favore di chi non è più in forze. E c’è sempre qualcuno che si offre. Perfino i musulmani si sono uniti ai cristiani e, dopo la preghiera del venerdì, raccolgono cibo e denaro.
Da alcuni mesi abbiamo lanciato in 12 villaggi un progetto per aiutare i malati di Aids e i bambini che hanno perso i genitori a causa di questa malattia. Nel progetto lavorano 24 animatori (due per ogni villaggio) e vi sono coinvolte 180 famiglie che si occupano di oltre 350 bambini orfani.
Ma l’impegno più urgente è la formazione del personale coinvolto nelle varie iniziative. Non si tratta solo di spiegare la natura e le conseguenze della «malattia del secolo», ma di fornire anche gli strumenti più elementari per la sopravvivenza. Per questo i nostri formatori sono preparati per insegnare le tecniche più semplici di agricoltura, orticoltura, zootecnia, igiene, nutrizione infantile, conservazione dei raccolti e qualche trucco di… mercato.
In generale sono le donne che frequentano tali incontri di formazione. Alcune seguono con attenzione, mentre altre sono sopraffatte dal sonno. Quando però si parla di soldi, sono tutte sveglie: viene loro spiegato che, se vendono una tanica di mais nel mese di aprile, ricavano 510 meticais (14 euro), nel mese dicembre, invece, il prezzo sale a 2.550 meticais (72 euro), una somma sufficiente per comprare una bella bicicletta.
Il nostro impegno più importante, tuttavia, è l’evangelizzazione. Per questo abbiamo bisogno di formare catechisti e animatori maturi e responsabili. Anche sotto questo aspetto c’è bisogno di togliere le bende dagli occhi e dalla mente. Per qualcuno, infatti, l’incarico di animatore della comunità è sentito come un’investitura paragonabile a quello di un capo tradizionale, col rischio della ricerca del potere, invece della disponibilità al servizio.
Anche in questo campo il lavoro non è facile e non mancano i momenti di scoraggiamento. Eppure facciamo nostro un motto ormai in disuso: la lotta continua, per formare comunità cristiane sempre più mature, responsabili e solidali. E speriamo di farcela. 

Di Paolo Deriu

Paolo Deriu




Cari missionari

Passione
per la Parola di Dio

Cari missionari,
il commento di don Paolo Farinella alla parabola del Figliol prodigo è un dono grande. Don Paolo è riuscito in un’impresa che riesce a pochi, quella di coniugare rigore scientifico e cuore, passione, capacità di coinvolgere il lettore in profondità. Con la sua esegesi don Paolo ci ha comunicato qualcosa di veramente importante, ci ha dimostrato che la parola di Dio non è mai scontata, che è sempre in grado di dare, a chi le lascia un minimo di spazio, nuovi stimoli, nuovo slancio, nuovo vigore.
Per me don Paolo è come quella terra fertile di cui ci parla Gesù nella parabola del seminatore, una terra capace di produrre ora il trenta, ora il sessanta, ora il cento per uno. Spero che quel che ha fatto con la parabola del Figliol prodigo don Paolo possa presto farlo anche con altre pagine evangeliche, per esempio la parabola dell’amministratore disonesto (Luca 16,1-14). Cordiali saluti.
Ludovico Torrigiani
Pesaro Urbino

Sono molti che, come il signor Torrigiani, ringraziano per il commento alla parabola del Figliol prodigo. Siamo grati anche noi a don Paolo per la sua collaborazione, per la «passione» con cui ci spezza il pane della Parola e ce la rende affascinante e «coinvolgente».
La lunga spiegazione della parabola è nata dalla lettera a lui scritta da un nostro lettore; per cui benvenuti altri suggerimenti, come quello del signor Torrigiani.
A proposito
di morti bianche

Cari missionari,
anche se non sono di Torino e finora l’ho vista solo in televisione e sui giornali questa bellissima città, la città della Madonna della Consolata, la simpatia che ho per lei è grande ed è proprio questo sentimento di simpatia che mi fa sentire in dovere di scrivervi per esprimere alle famiglie di Antonio Schiavone, Roberto Scola, Angelo Laurino, Bruno Santino, Rocco Marco, Rosario Rodinò, Giuseppe Demasi, tutto il mio cordoglio e la mia vicinanza.
Da decenni si ripete che in Italia ci sono troppe morti bianche, che si investe troppo poco in sicurezza, che coloro che dovrebbero fare le ispezioni sono troppo pochi e persino che, spesso e volentieri, gli imprenditori vengono avvisati dell’arrivo dell’ispettore, per cui l’ispezione stessa si risolve in una farsa…
Nello stesso tempo però, ci si lamenta che l’Italia corre poco, il suo Pil cresce troppo lentamente, le imprese hanno troppi vincoli, gli imprenditori, quando vogliono licenziare qualcuno, incontrano ostacoli inconcepibili e che tutto questo ci fa sempre più regredire nella classifica della competitività. C’è addirittura chi sostiene che bisogna dare nuovo impulso all’edilizia, che le aree fabbricabili vanno aumentate, che i giovani debbono smetterla di fare i bamboccioni e che è ora di piantarla con la storia del lavoro precario che scoraggia la ricerca dell’autonomia, della flessibilità che deprime il desiderio di creare nuovi nuclei familiari e dei contratti a termine che scoraggiano la mateità. Guai anche a ricordare che il tasso di abortività è in crescita tra le lavoratrici extracomunitarie, guarda caso, quelle più esposte ai ricatti padronali.
Ecco, io credo che, se vogliamo veramente bene alle vittime dei roghi, delle cadute dalle impalcature, del caporalato, del mobbing, degli abusi – sessuali e non – sul posto di lavoro, non possiamo astenerci dal dire queste cose, non possiamo – e qui mi rivolgo innanzitutto al clero e all’episcopato – fare campagne giuste, anzi sacrosante contro l’aborto e la RU486 e poi girare gli occhi dall’altra parte quando un movimento, sindacato, partito chiedono, ad esempio, l’estensione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori a tutte le aziende, siano esse acciaierie, calzaturifici o aziende agricole, e a prescindere dal fatto che abbiano 1, 5, 15, 100 o un milione di persone alle loro dipendenze.
Cari vescovi e cari preti, che ogni prima domenica di febbraio riempite le sedie e le panche delle chiese di volantini inneggianti alla bellezza e alla vita e invitate i Casini e gli Sgreccia a tener conferenze contro la mentalità abortista e relativista, dove stavate rintanati domenica 15 giugno 2003, giorno del referendum sull’articolo 18? Perché tante belle omelie contro il liberismo selvaggio delle multinazionali, quando presiedete le esequie funebri di chi muore in incidenti come quello alla ThyssenKrupp e tanto, tanto silenzio (in alcuni casi addirittura ostilità…) quando, attraverso proposte di modifiche legislative, qualcuno cerca semplicemente di responsabilizzare chi gestisce un’azienda e togliergli l’illusione pericolosa (pericolosa per lui e i suoi familiari oltre che per gli operai e comunità civile…) di essere anche giudice supremo, oltre che imprenditore e manager, e che certe sue decisioni sono insindacabili, incontestabili e irrevocabili? Cordialmente.
Francesco Rondina
Fano (PU)

Errata corrige

Cari missionari,
la vostra rivista è bella e interessante, la trovo anche varia nella scelta degli argomenti e scritta in modo semplice, ma comunque di un buon livello culturale. Però, forse, andrebbe un po’ più curata nei particolari, nella correzione delle bozze, perché qualche strafalcione, purtroppo, ogni tanto si trova.
Due esempi. Nel numero di ottobre-novembre 2007, a pag. 106 si parla della moglie di Maometto, dicendo che è vissuta nel xvi secolo e che era una donna musulmana. Il profeta Muhammad, ovviamente, è vissuto mille anni prima, e la moglie non può, a rigore, essere definita musulmana, considerando che, al momento delle nozze con Maometto, l’islam non era ancora sorto. Invece, nel numero di gennaio 2008, a pag. 46, si dice che della non violenza «l’antesignano fu Indira Gandhi»; ovviamente non è il Mahatma Gandhi, con cui non era neppure imparentata.
Scusate la pignoleria, ma mi sembra giusto collaborare, affinché MC diventi sempre migliore, anche grazie alla necessaria precisione nei contenuti.
Franco Eustorgio Malaspina
Milano
Prima di tutto grazie per la collaborazione. Sono due strafalcioni imperdonabili, di cui avremmo dovuto accorgerci prima di passare le bozze alla correzione finale.
E poi, ci scusiamo con i nostri lettori.

Kosovo indipendente – Interesse d’Italia

Cosa farebbero gli italiani se un giorno gli albanesi (o qualsiasi altro gruppo etnico presente nel territorio) diventassero la maggioranza in una delle regioni italiane, perché le famiglie italiane hanno pochi figli, e decidessero di proclamare quella regione «Repubblica indipendente»?
Gli italiani non hanno conosciuto  gli effetti della «lotta demografica» (significa fare più figli possibile) per poter vendicare il diritto di «autodeterminazione», una volta diventati maggioranza assoluta.
Forse gli italiani pensano che questo non potrebbe mai succedere  alla loro terra, o credono di poter adottare due misure nel reagire: una  per se stessi e l’altra per gli altri?
«È nell’ interesse d’Italia il Kosovo indipendente»! Per questo motivo l’Italia è pronta a riconoscere l’indipendenza del Kosovo, legittimare lo strappo di un territorio a un paese sovrano, indipendente, riconosciuto come tale dal diritto internazionale. Ma è veramente questo l’interesse d’Italia? Non è il vero interesse di un paese pensare al futuro delle giovani generazioni, trasmettere loro dei valori, e guardarsi di  fare quello di cui quelle generazioni possano vergognarsi?

I serbi sono un popolo con profonde radici cristiane, che nel corso dei secoli è riuscito a sopravvivere e a trasmettere alle generazioni dei valori cristiani, nonostante il secolare dominio ottomano, nonostante mezzo secolo di ateizzazione comunista. Sopravviverà anche in questa Europa, che ha rinnegato le proprie radici cristiane, proprio perché ha sempre avuto la ricchezza spirituale che è il Kosovo.
Nei Balcani non è cominciato tutto il 28 giugno 1989 con Milosevic, come dicono i giornali, informati dall’Osservatorio dei Balcani, ma secoli prima: il 28 giugno 1389 con il sultano Murat e lo zar Lazzaro, quando entrambi persero la vita in battaglia sul Campo dei Merli (Kosovo), mentre Murat occupava e Lazzaro difendeva la Serbia. I serbi per la prima volta persero il Kosovo e vissero per secoli sotto dominio turco.
La seconda volta lo persero durante il comunismo di Tito, che proclamò il Kosovo e la Metohija una provincia autonoma, accolse tutti gli albanesi che venivano dall’Albania, favorì la loro natalità essendo lui stesso il padrino di ogni famiglia che aveva più di nove figli.
Gli albanesi possono impossessarsi della terra che non appartiene loro, dei monasteri medievali della chiesa ortodossa serba, e presentarli ai turisti come fossero loro, come stanno già facendo, possono edificare il «loro stato» sulle altre bugie, e cercare sostegno e protezione dei potenti che non temono Dio, ma questo non può durare. È passato l’impero ottomano, è passato il comunismo, passerà anche questo nuovo impero, che sfrutta, sottomette o cancella il più debole.
I serbi continueranno a trasmettere ai loro figli la via, verità e vita che è Gesù Cristo, convinti che quello è il più grande interesse di ogni generazione.
Snežana Petrović, Rovereto (Trento)

Comprendiamo l’amarezza della signora Petrović, da molti anni nostra collaboratrice, e ne condividiamo le ragioni, per la perdita di una parte storicamente così importante del territorio del suo paese. Ogni separazione, a qualsiasi livello e in qualsiasi ambito, porta solo dispiaceri. Proverei anch’io gli stessi sentimenti, qualora un pezzo d’Italia dichiarasse unilateralmente la propria indipendenza o si staccasse per confluire in un altro stato.
Nei decenni passati, anche in Italia ci sono stati (e ci sono ancora) movimenti indipendentisti o separatisti, come quello dell’Alto Adige o Südtirol, caratterizzato da tensioni e attentati terroristici, per ottenere la secessione dall’Italia e l’unione con l’Austria. Ma grazie al dialogo e agli accordi pacifici tra i maggiori responsabili delle due nazioni, le tensioni sono state dissolte. Da quando, poi, anche l’Austria è entrata nella Comunità europea, nessun tirolese si sogna di modificare i confini tra i due paesi.

S ulla nostra rivista abbiamo seguito con apprensione e rammarico le tensioni e violenze etniche che hanno insanguinato l’ex Jugoslavia negli ultimi anni. Più che ricercare i colpevoli della tragedia balcanica, abbiamo riportato le testimonianze di persone impegnate nella pacificazione tra i popoli, mediante il dialogo e la cooperazione disinteressata: unica strada valida anche per il futuro.
Auguriamo che Serbia e Kosovo entrino nella grande famiglia di popoli che è l’Unione europea, in cui i confini geografici perdono la loro importanza, i nazionalismi vengono stemperati e le identità e i diritti delle minoranze etniche più garantiti… con l’aiuto di Dio, che guida la storia dei popoli.




Quale profezia?

La storia dell’uomo si evolve grazie alle impronte lasciate da pochi e capaci di influenzare i più. La storia della chiesa e della missione non fa eccezione. Fermo restando che in questo campo bisogna riconoscere allo Spirito Santo un protagonismo indiscusso, i grandi cambiamenti sono fenomeni che nascono da una base pressoché elitaria. Se non tutti sono santi o profeti, va però detto che tali figure non appartengono alla galassia dei superuomini, ma vivono tra noi. Anzi, la «zampata» decisiva, quella che lascia il segno indelebile sulla storia, potrebbe essere uno di noi a darla. Perché no?
Ciò che caratterizza la profezia è la spontaneità assoluta, l’imprevedibilità radicata nell’iniziativa di Dio, in seguito accolta e, quindi, tradotta in realtà. La profezia va letta nel quotidiano, scovata negli anfratti della storia, stanata dalle pieghe della marginalità. La profezia alberga nelle stanze degli esclusi e per tal ragione è poco visibile, anche se di per sé illuminante.
Quali profezie si scorgono, in atto o in potenza, nell’oggi della missione in Italia?
Se lo sono chiesti più di cento missionari e missionarie che hanno preso parte nel mese di febbraio al Forum della C.I.M.I., la Conferenza che riunisce i superiori provinciali degli istituti esclusivamente ad gentes presenti in Italia. Al di là della bella esperienza del trovarsi insieme a Pacognano, nella penisola sorrentina, qualcosa non ha funzionato.

Gli interrogativi non sono mancati, anche se sono stati conditi da un senso di smarrimento, inadeguatezza, difficoltà ad adattarsi a un mondo – quello europeo e italiano – che a molti sembra non appartenere geneticamente al Dna del missionario. Le conferenze su un’Europa da ri-conoscere e nella quale ubicarsi efficacemente come missionari, sulla contestualizzazione del lascito carismatico dei fondatori dei vari istituti missionari e della teologia per una missione in Europa hanno offerto solo in parte piste da percorrere. Le proposte finali su un’ipotesi di lavoro missionario comune sono rimaste imbrigliate nel tentativo di fare giusta sintesi tra utopia e disincanto.
I momenti di maggior impatto si sono avuti grazie ad alcune testimonianze, offerte sia da ospiti estei, come anche da partecipanti al Forum. Il condividere esperienze missionarie significative, talvolta difficili, di frontiera e nello stesso tempo gratificanti, ha dato fiducia all’assemblea, indicando cammini possibili per una missione profetica in Italia e ribadendo ancora una volta la centralità del racconto come strumento di animazione missionaria.
Il missionario, abitualmente un grande fagocitatore e ripetitore di storie, pare faticare una volta rientrato in Europa a nutrirsi del racconto dell’altro. Commette, forse, l’errore di pensare di esser l’unico ad avere una narrazione che vale la pena di essere ascoltata e si chiude alle storie di chi incontra. In che altro spazio merita andare a cercare uno spunto profetico se non nel vissuto di chi ci circonda? Una delle immagini di maggior impatto di tutto il Forum è stata quella del confine. Il missionario, una volta inviato ad «attraversare» i confini, è ora chiamato ad «abitare» quei bordi sfrangiati che la modeità ha ricavato dall’erosione costante delle frontiere geopolitiche, sociali, generazionali, ecc. Occorre far sì che tali confini si riempiano di storie di vita vissuta, da raccogliere, ripensare ed elaborare, al fine di costruire la missione di domani. Un approccio che non tenga conto di questi racconti già in atto potrà forse costruire un’ideologia della missione, ma non troverà la strada per la missione profetica sulla quale ci si interroga e di cui si ha bisogno.
di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli