Il paese inesistente

L’ennesima crisi a Sud del Sahara

Dal bubbone del Darfur partono tre movimenti ribelli. Mettono a ferro e fuoco la capitale del Ciad. Ma il comandante in capo, presidente Déby, li respinge. Grazie alla logistica e alle munizioni francesi. Ma anche la Libia ha detto la sua. E dietro i ribelli il Sudan che vorrebbe cambiare il regime di N’Djamena, dove il clan al potere «sfrutta» il petrolio del sud del paese.

Sono almeno trecento pick up, circa tremila uomini. Procedono in colonne ordinate, provengono dal Sudan e si dirigono verso la capitale del Ciad. Così vengono avvistate dagli aerei militari francesi a fine gennaio. La notizia è inquietante, fa rivivere nelle menti l’attacco a N’Djamena dell’aprile 2006 ad opera dei ribelli del Fuc (Fronte unito per il cambiamento) di Mahamat Nour.
Idriss Déby Itno, presidente della repubblica e comandante in capo, decide di non fuggire, al contrario di battersi. Anche lui, come tiene spesso a precisare, è un militare.
In tre giorni i ribelli percorrono i quasi 700 km di Sahel tagliando il Ciad da Est a Ovest. Il primo febbraio sono a Massaguet, 80 km a Nord della capitale. Déby scende sul campo di battaglia, ma i suoi sono respinti ed è costretto a nascondersi. I ribelli entrano a N’Djamena il giorno successivo: così la gente della città è sconvolta dalla guerra per le strade. Raffiche di mitragliatori, cannonate, granate. E cadaveri abbandonati sul suolo sabbioso delle vie di quartiere.
I ribelli prendono la radio televisione nazionale, che però va in fumo e impedisce loro di trasmettere un messaggio al paese. Poi si avvicinano alla presidenza della repubblica. Ma sono i blindati T55 dell’Ant (armée nazionale tchadienne, l’esercito ciadiano) appoggiati dagli elicotteri che hanno la meglio su fuoristrada e mitragliatori.
Mentre Idriss Déby è rifugiato nel suo bunker alla presidenza, domenica sera i ribelli lasciano la città: ritirata strategica. La battaglia di N’Djamena è finita. Il bilancio provvisorio è di almeno 160 morti, un migliaio di feriti e 50.000 sfollati. Gli abitanti della capitale hanno passato, con ogni mezzo il ponte sul fiume Chari, che separa il Ciad dal Nord del Camerun. La cittadina Kousserié è stata invasa di profughi. Alcuni hanno continuato verso la vicina Nigeria.
I circa 1.500 militari francesi di stanza in Ciad hanno tenuto l’aeroporto, punto strategico per ogni operazione militare. Da qui sono stati evacuati circa 1.200 stranieri. Qui sono arrivati gli aerei libici carichi di munizioni per Déby. La Francia, legata da un accordo militare con il Ciad, ha infatti riconosciuto di aver dato appoggio logistico e tecnico. Ma anche di avere passato armamenti alla compagine governativa. I militari francesi sono stati costretti a rispondere al fuoco, per contrastare un tentativo dei ribelli di prendere l’aeroporto. Il presidente francese Sarkozy, nel momento più critico, ha proposto a Déby di evacuarlo, ma lui ha rifiutato, sicuro di vincere. E così è stato, mentre il ministro della difesa, Hervé Morin ha fatto una visita ai militari francesi subito dopo la battaglia.

La storia si ripete

Anche Déby prese il potere attaccando con i suoi la capitale nel dicembre 1990, destituendo un altro dittatore, Hissene Habré, del quale era stato capo di stato maggiore. Habré aveva guidato una ribellione negli anni Settanta fino a prendere il potere nel 1982, spodestando Goukouni Weddeye. In quell’epoca il Nord risentiva dell’influenza della Libia e il Sud della Francia. Sotto Habré si stimano in 40.000 gli uccisi e gli scomparsi. Così dal 2000 pende su di lui, rifugiato in Senegal, un’accusa di «crimini contro l’umanità».
Ma la storia post coloniale del Ciad è un intreccio di guerre intestine, colpi di stato e ingerenze straniere, spesso armate. Sopra tutte quelle di Libia e Francia. La prima influenza le sorti del paese da quasi 40 anni. È arrivata fino a conquistare la capitale (1980) e ha mantenuto il controllo del Nord del paese per lungo tempo. La seconda ha sempre mantenuto un «piede» nel paese appoggiando ora questo ora quel dittatore. Come disse l’ex presidente francese Jaques Chirac (in privato): il Ciad «è uno spazio definito dalle frontiere dei suoi vicini». Come dire: non esiste in quanto Nazione.

Il gioco delle etnie

Habré è di etnia gorane, originario di Faya-Largeau (centro – Nord), mentre Déby appartiene ai zaghawa (Fada, Nord – Est). Questa etnia, presente anche in Sudan, rappresenta il 3% degli oltre 9 milioni di ciadiani. Il presidente si è circondato del suo clan (sottogruppo zaghawa-bideyat), ha adottato il sistema di promuovere gli scontenti, soprattutto in seno all’esercito. Si è fatto eleggere a larga maggioranza nel 1996 e poi nel 2001. Nel 2005 riesce a far approvare, per via referendaria, l’emendamento della Costituzione del ’96, che prevedeva solo due mandati presidenziali consecutivi. Si fa quindi riconfermare nel 2006 e … non esistono più limiti.
Una storia di gestione del potere da parte di «signori della guerra» appartenenti a piccoli gruppi entici del Nord. Controllo quasi assoluto, a danno di tutto il paese, e in particolare il più popolato Sud. Il paese si può idealmente dividere in due, tagliandolo a metà dal 13° parallelo. Quelli che provengono dalla metà Nord hanno sempre gestito le ricchezze della metà Sud. Come ultima il petrolio.

Il fattore «P»

Alla fine degli anni ’90 viene scoperto il petrolio nel Sud del Ciad. Il giacimento di Doba inizia a fornire il greggio nel 2003 e oggi frutta 2 miliardi di dollari l’anno.
Nel 2004 viene inaugurata una raffineria a N’Djamena e, l’anno prima, un oleodotto di oltre 1.000 km che attraversa il Camerun, fino al porto di Kribi, nel Golfo di Guinea. Finanziano Banca mondiale (Bm) e alcune compagnie petrolifere (Exxon Mobile, Chevron Texano e Petronas).
Gli investimenti della Bm erano soggetti a un accordo singolare: l’80% del ricavato dalla vendita del greggio sarebbe stato vincolato a investimenti per l’educazione e la sanità, mentre il 10% accantonato in un fondo per le «generazioni future». Ma il governo ha deciso che la sicurezza del paese è altrettanto importante e ha iniziato quindi a investire in armamenti, mentre il fondo sul futuro viene soppresso.
È prevista un’imposta complementare sulle società di quasi 300 milioni di dollari come «restituzione», che fornisce ulteriori introiti al governo.

Vicini scomodi

Importante e complesso è l’intreccio con la crisi del Darfur, che vede Ciad e Sudan protagonisti in un conflitto  che ha raggiunto connotazioni regionali.
Dal febbraio 2003 in questa regione dell’Est Sudan i governativi reprimono la popolazione appoggiando miliziani nomadi janjawid contro una ribellione delle popolazioni nere locali, il Movimento per la giustizia e l’uguaglianza (Mje). Il conflitto ha generato, secondo le organizzazioni inteazionali, una delle maggiori crisi umanitarie degli ultimi anni, causando almeno 200.000 morti e 2,2 milioni di sfollati (di cui 240.000 in campi profughi in Ciad). Una settimana dopo la battaglia di N’Djamena, esercito sudanese (appoggiato dall’aviazione) e milizie janjawid hanno attaccato tre villaggi del Darfur, causando una nuova ondata di 12.000 persone che si sono rifugiate nel Sud-Est del Ciad.
Il governo di Déby appoggia i ribelli del Darfur, così l’Mje è venuto in soccorso al Ciad durante la battaglia di N’Djamena. A dicembre i militari ciadiani hanno sconfinato in Sudan per appoggiare direttamente l’Mje.
Il Sudan di Hassan el-Beshir, invece, finanzia, in misura diversa tra loro, i gruppi ribelli ciadiani. Karthoum è interessato a un cambio di potere nel paese vicino, anche per rompere l’equazione zaghawa, etnia di Déby presente in Darfur.
Il Sudan, a sua volta fornisce alla Cina petrolio in cambio di armamenti di ogni tipo, pesanti e leggeri (vedi anche MC dicembre 2007). Si dice infatti che: «il Darfur sta sporcando l’immagine dei giochi olimpici di Pechino 2008».
Il ministro dell’interno di Déby parla di «mercenari, elementi della legione islamica, di al-Qaeda, al soldo del Sudan», mostrando alla stampa 135 prigionieri catturati dopo la battaglia di N’Djamena. Alcuni dei quali minorenni. Affermazioni che vogliono rafforzare l’immagine che Déby sta vendendo all’Occidente, quella di garante di stabilità regionale, contrafforte che si oppone all’avanzata degli arabi e degli islamici verso l’Africa Centrale e dell’Ovest.

Quel ribelle di mio nipote

Il Sudan nega ufficialmente ogni impegno in appoggio dei ribelli ciadiani, che peraltro hanno le loro basi nel Darfur. Sono tre gruppi distinti che hanno attaccato N’Djamena. Le differenze profonde e le difficoltà di cornordinazione tra di loro sono state uno dei fattori critici che hanno permesso a Déby di resistere. «Ci doteremo di un capo unico» dichiara il portavoce dei miliziani Abderaman Koulamallah e la pressione in questo senso del Sudan è forte.
Timane e Tom Erdimi, capi del Rfc (Rassemblement des forces pour le changement) sono nipoti di Idriss Déby.  Zaghawa come lui, hanno occupato posti di altissimo rilievo alla presidenza. Nel 2005, all’indomani della riforma costituzionale, che svela le intenzioni dello zio a non lasciare il timone.
Mahamt Nouri è l’uomo di Karthoum. Di etnia gorane, come Hissène Habré con il quale ha combattuto e poi governato. Occupa poi posti chiave anche con Déby. È capo del Ufdd (Union des forces pour la démocratie et le développement) e uno degli uomini più forti della ribellione, grazie al sostegno del Sudan. Abdelwahid Abdou Makey è un arabo ciadiano. Ribelle di lungo corso fin dalla guerra civile del 1980. È poi a fianco dei Mahamat Nour nell’attacco dell’aprile 2006, fonda poi l’Ufdd –  fondamentale, alleandosi con Mahamat Nouri (quasi omonimo di Nour), con il quale, però, non va troppo d’accordo.
La risoluzione della crisi del Darfur, è un passaggio nodale per riportare la pace nell’intera regione.
Non è un caso che, pochi giorni prima dell’attacco ribelle, l’Eufor, la forza europea in Ciad e Repubblica Centro Africana (Rca), avesse iniziato il proprio spiegamento. Già in ritardo a causa della difficoltà dei paesi europei a mettersi d’accordo, era stata bloccata. L’Eufor ha come missione la protezione di 450.000 tra profughi del Darfur e sfollati ciadiani e centrafricani in Ciad e nord della Rca. Composta da 4.700 uomini di 14 paesi (di cui 2.100 francesi), ha ripreso a installarsi a metà febbraio.

E dopo?

«Dopo la battaglia di N’Djamena i militari sono tornati in città e hanno festeggiato ubriacandosi e sparando in aria» racconta un volontario da una località del sud «peccato che festeggiando abbiano ucciso un uomo e due bambini». «È facile di questi tempi incontrare militari ubriachi…» continua.
Dopo la ritirata strategica, i ribelli riparano a Sud-Est, passando da Mongo, nel centro. Sono seguiti – a distanza –  dai francesi e dall’esercito regolare. Ripiegano perché hanno finito i rifoimenti e perché «i carri armati vincono sui pick up» come dichiara Mahamat Nouri. Sono convinti che il presidente sarebbe caduto, se non avesse avuto l’appoggio della Francia. I transalpini hanno scelto Déby come il «meno peggio», non potendosi fidare dei ribelli (pur tentando di negoziare l’avvio di un processo democratico in caso di vittoria di questi…). «Non tollereremo un altro attacco alla capitale» raccontano militari francesi a un testimone. I ribelli si dividono e vanno nella zona della frontiera tripla Ciad – Sudan – Repubblica centro africana.

Stato di emergenza

Intanto Déby dichiara lo «stato di emergenza» su tutto il territorio nazionale, per 15 giorni. Questo gli permette di rendere legali le perquisizioni di abitazioni private (già largamente abusate subito dopo la battaglia di N’Djamena), i posti di blocco e il controllo della stampa pubblica e privata. Instaura anche il coprifuoco notturno. Subito dopo la battaglia furono arrestati «manu militari» tre  importanti leader dell’opposizione: Lol Mahamat Choua, Ibni Mahamat Saleh e Ngarléjy Yorongar. Solo del primo, già capo di stato, si hanno notizie: dopo aver passato un mese in una prigione militare, viene messo agli arresti domiciliari. Degli altri due nessuna notizia. «Non sappiamo dove siano» dichiarano dal governo. Intanto Francia e organizzazioni per i diritti umani fanno pressioni affinché siano liberati.
Il presidente francese, in volo per il Sud Africa, decide di fare un breve scalo in Ciad il 27 febbraio.
«Il messaggio del presidente al suo omologo sarà molto chiaro: occorre un’inchiesta credibile» dichiara il portavoce dell’Eliseo, David Martinon. E continua: «Il presidente della repubblica dirà al capo di stato ciadiano che l’amicizia tra i due paesi potrà aumentare solo se il processo di democratizzazione in Ciad riprende e si accelera». Preoccupazione dunque, per la tendenza di deriva autoritaria del regime di N’Djamena.
«Il Ciad è un paese strano – ci racconta un volontario italiano – sembra tutto tranquillo e, all’improvviso, si scatena l’inferno». 

Di Marco Bello

Marco Bello




Musica dell’anima

I ritmi vivi dell’Africa dell’Ovest

La musica può essere l’identificazione di un paese. Così si parla di mbalax
in Senegal, di musica mandinga in Mali. E di tackborsé e couper decaler
in Burkina Faso. E anche di  nomi  famosi sulla scena internazionale:
Youssou Ndour, Salif Keita, Yeleen. Breve viaggio nell’Africa «musicale».

La musica è molto presente sul continente africano. L’Africa è un universo in cui il ritmo è magico. Ogni paese possiede il proprio e ogni regione utilizza strumenti differenti. Ma il tutto converge verso una cultura della festa, della sensualità, del sogno e dell’emozione. La musica è percepita come una comunione tra l’uomo e la natura. Per questo i 53 paesi africani rivaleggiano d’ingeniosità.

Ritmi dal Senegal

Così il Senegal si esprime musicalmente attraverso il mbalax. È un tipo di musica popolare molto ritmata e che spinge alla danza. È basata sulle percussioni come il tama e il sabar, strumenti tipici di questa musica senegalese. Attinge le sue origini dai canti dei griot (cantastorie, detentori della tradizione orale cantata). In Senegal, come ovunque in Africa, i griot sono importanti.  Trasmettono la musica tradizionale e la poesia di generazione in generazione. In Senegal, dunque, questi griot cantano la gloria dei re e dei principi. All’arrivo dell’Islam, i musulmani sono diventati i maestri «parolieri» e hanno sviluppato l’arte delle preghiere cantate. Le generazioni di cantanti che sono seguite si sono appropriati di questa tradizione, dandole uno stile più moderno.
La particolarità del mbalax è quella di essere riusciti a sposare i ritmi tradizionali e le danze locali. Nato alla fine degli anni Settanta, è stato reso popolare sulla scena internazionale da Youssou Ndour. Classe 1959 Ndour è oggi una star a livello mondiale. Nel 1998 ha composto l’inno della coppa del mondo di calcio «La Cour des Grands» (La corte dei grandi). L’ha cantato con la francese Axelle Red.  Youssou Ndour ha al suo attivo una ventina di album e una decina di compilation. Ha ricevuto numerosi premi, tra i quali quello di miglior artista africano 1996 e dell’artista africano del secolo nel 1999.
Baba Maal, Ismaèl Lo, Coumba Gawlo … sono ugualmente delle vedette senegalesi conosciute a livello  mondiale.
Quando si parla di musica rap del Senegal uno dei grandi nomi è quello di Didier Awadi. Nato nel 1969 a Dakar, il suo primo album da solista «Kaddu gor» (parola d’onore), del 2002 gli varrà il premio «Rfi (Radio France internazionale) Musiche dal mondo», edizione 2003. Nell’ottobre 2005 pubblica il suo secondo album «Un altro mondo è possibile». È una vibrante arringa per delle politiche più umane e una più grande considerazione del cosiddetto terzo mondo. Il suo ultimo album, uscito nel 2007, s’intitola «Presidenti d’Africa». Vi si trovano i rapper africani e le voci dei presidenti del dopo indipendenza. Didier Awadi fa un discorso panafricanista. Per materializzare la sua visione, ha battezzato il suo studio con il nome di Thomas Sankara, il presidente burkinabè assassinato il 15 ottobre 1987. In Senegal, dunque rap e mbalax si completano.

blues e Tradizione

La musica è una delle principali risorse culturali del Mali. Risalendo a imperi tanto antichi come quello Mandingo, esiste una tradizione ricchissima di canti di lode. Queste canzoni di lode malinké o mandinghe sono dominio esclusivo dei griot (chiamati djeliw), musicisti ereditari, che sono allo stesso tempo genealologi e storici. Questa musica dei griot è sempre viva e cantata.
Ma la musica maliana è molto più variegata e nuovi stili sono apparsi. Per esempio, c’è la musica bambara che è più ritmica, il mali blues di Kar Kar, il blues songhai di Ali Farka Touré, Afel Bocoum o Sidi Touré. Ancora la musica del wassoulou resa celebre da Oumou Sangaré. La musica maliana ha sempre saputo combinare modeità e tradizione. Non si può parlare di essa senza ricordare Ali Farka Touré. Nato nel 1939, questo virtuoso della chitarra, si è spento il 7 marzo 2005. Con la sua scomparsa la musica maliana perde uno dei suoi più illustri rappresentanti. Il musicista ha contribuito, durante tutta la sua carriera a mettere in evidenza la filiazione tra il suo blues e quello suonato nei campi di cotone oltre Atlantico dai discendenti degli schiavi africani. Questo autodidatta formato all’educazione dei campi, è rimasto sempre legato alle sue origini. Ancorato a una ruralità che voleva sempre difendere, al di là della stessa musica, si è fatto eleggere sindaco del piccolo comune di Niafunké, nel delta interno del fiume Niger. È laggiù che si installa dopo la morte di suo padre durante la seconda guerra mondiale.
Salif Keita è l’altra grossa stella della musica maliana. Nato il 25 agosto 1949, albino, in una regione dove quelli come lui sono mal visti, a causa dei poteri malefici che sono loro attribuiti. È respinto dalla famiglia. La sua scelta per la musica è pure condannata. Infatti, in Mali, la musica è tradizionalmente riservata alla casta dei griot. I Keita sono invece una famiglia di principi. Pagando il prezzo di mille difficoltà, riuscirà a realizzare il suo sogno. Oggigiorno, Salif Keita porta alta la bandiera maliana e africana delle grandi arene della musica internazionale.
Altri artisti come Rokia Traoré o Djeneba Seck, emergono dal contesto nazionale.

Il fenomeno tackborsé

In questi ultimi cinque anni, una nuova pagina musicale sembra scriversi in Burkina Faso con il ritmo tackborsé. Questo genere musicale è attualmente il più ascoltato nei maquis (piccoli ristoranti e bar popolari), posti alla moda e sulle onde radio e televisive. In Burkina anche l’esercito danza «rumorosamente» il tackborsé. Il ritmo unisce, scuote. Questo concetto che provoca il delirio di certi musicomani è stato concepito da un uomo: Ahmed Smani. Anche se in seguito, numerosi altri attori ci hanno messo le mani. Il tackborsé è la combinazione di warba, wiiré e di liwaga, tutte danze tradizionali. Il significato è «suonare il corno» in lingua mooré (la più diffusa in Burkina Faso, ndr) La danza consiste nel tirare dal suolo una corda immaginaria. Lanciando il tackborsé, Ahmed Smani aveva per ambizione quella di colmare un vuoto e soprattutto di contribuire alla federazione della galassia musicale nazionale. «Zalissa», il suo primo album, è un grande successo. Il ritornello ripreso dai cori spontanei. Nasce il genere tackborsé con grande gioia dei musicomani alla ricerca di un ritmo tipicamente ancorato nelle profondità locali. La danza prenderà davvero il volo con il titolo «Bouge» dell’album «Gouveement». Poi seguiranno i gruppi le pouvoir, la cour supreme, les premières dames. In una rivalità di nuove idee.
Oltre al tackborsé c’è lo stile couper décaler che è stato inventato in Costa d’Avorio. I giovani ballano anche al suono del rap. In questo genere gli artisti burkinabè più conosciuti sono gli Yeleen e Smockey. I primi hanno vinto il Kundé d’oro 2006 (concorso annuale per la canzone d’autore in Burkina Faso, ndr). È la ricompensa per il miglior artista o gruppo burkinabè.
Smockey, lui, è considerato come il guru del movimento Hip hop del Burkina. Il suo studio Abazon permette a molti giovani rapper di uscire dall’ombra.
Con altri artisti come Bil Aka Kora, Sissao, Faso Kombat la musica burkinabè sta prendendo un nuovo slancio. Un’innovazione che ha come base di partenza il lavoro di chi è venuto prima come i famosi George Ouedraogo, Jean Claude Bamogo, Salammo Joseph.

Da Dakar a Ouagadougou, passando per Bamako, gli artisti cercano di offrire alla musica africana quanto di meglio ci sia: un riconoscimento. E con le loro prodezze e i loro talenti danno ragione a Nietzsche, che ci ricorda: «Senza la musica, la vita sarebbe un errore». 

Di Arsène Flavien Bationo

Arsène Flavien Bationo




«Offrirono olocausti con gioia e sacrificarono vittime di ringraziamento e di lode»

La parabola del «figliol prodigo» (18)

Il vitello dei patriarchi
Quasi tutte le volte che nella bibbia si parla dei patriarchi si aggiunge che hanno «greggi e armenti», che in ebraico suona «z’on ubaqàr», che la versione greca della Lxx traduce quasi sempre con «pròbata kài mòschoi». L’espressione indica bestiame adulto (buoi, mucche, vitelli) e minuto (pecore, capre, agnelli).
I patriarchi d’Israele possiedono «greggi e armenti» in abbondanza, perché sono sotto la benedizione di Yhwh. Possedere «greggi e armenti» è segno di potenza e dimostrazione di forza, come per Adonia fratello maggiore di Salomone (ma di diversa madre), che «immolò pecore, buoi e vitelli grassi» (1Re 1,9.19) per affermare pubblicamente la sua primogenitura nella successione al re Davide, vecchio, ma ancora vivo. Adonia si comporta come il giovane della parabola lucana: assume il regno quando il padre è ancora vivo, cioè lo uccide prima del tempo. Finirà male, ucciso per ordine di Salomone (1Re, 2,12-25).
Nel libro della Genesi in due racconti che narrano lo stesso fatto, ma in due modi diversi, troviamo presenti uno o più vitelli. Il primo (Gen 12,10-20) narra di Abramo che, giunto in Egitto, per paura di essere ucciso a motivo della bellezza di Sara sua moglie, su consiglio della stessa Sara, la fece passare per sua sorella. Di lei s’invaghì il faraone che la fece portare a corte per possederla: «Per riguardo a lei, egli trattò bene Abram, che ricevette greggi e armenti e asini» (Gen 12,16). Il secondo fatto è simile, ma questa volta è Abram a fare passare Sara per sua sorella che così, per la seconda volta, sta per finire nelle mani di un altro. Ora è il tuo di Abimèlech, re di Gerar che se ne era invaghito. Quella notte, però, intervenne il Signore, fermò l’adulterio e fece restituire Sara al legittimo marito: «Allora Abimèlech prese greggi e armenti… li diede ad Abramo e gli restituì la moglie Sara» (Gen 20,1-18, qui, v. 14). In Gen 21,27 Abramo sigilla un’alleanza con Abimèlech dandogli «greggi e armenti».
In tutti questi casi la bibbia greca della Lxx traduce il termine «armenti» con «mòschoi» (plurale): lo stesso termine che usa Lc 15,23: «mòschos» (singolare). Da ciò possiamo rilevare che il «vitello» segna in un certo senso la vita patriarcale. Ordinando ai suoi servi di «prendere il vitello», il padre della parabola lucana, si presenta come un patriarca che non ha più bisogno di nascondersi per paura, ma apre la sua casa per sigillare una gioia. Il padre continua la storia dei patriarchi, di cui la storia del figlio e del padre rappresenta una parabola e una sintesi.

Il vitello del sacrificio
Nel libro dell’esodo il «vitello» fa parte degli animali deputati al sacrificio di comunione: «Farai per me un altare di terra e, sopra, offrirai i tuoi olocausti e i tuoi sacrifici di comunione, le tue pecore e i tuoi vitelli (mòschoi)» (Es 20,24). Il vitello è il segno della presenza di Dio perché gli è offerto e lo riceve in olocausto. Nel momento in cui il fumo del sacrificio si eleva sull’altare, esso diventa lo strumento della presenza di Dio che dopo averlo ricevuto lo restituisce come alleanza.
Il padre che chiede di prendere il vitello per il ritorno del figlio perduto, entra nella logica del sacrificio di comunione e celebra l’«eucaristia», nel senso più pieno e più profondo del sacramento: ringrazia Dio facendo festa. Il padre, attraverso il vitello, reintroduce il figlio nella storia patriarcale da cui si era tagliato fuori, andando via di casa, in un paese lontano, diventando figlio impuro e spurio del suo popolo. Il vitello diventa così il segno della riammissione del figlio nella santità della vita, nel-la purità del culto, nella realtà del suo popolo.
La traduzione italiana non evidenzia la particolarità della lingua greca: il padre non chiede di prendere soltanto un vitello, ma «il vitello, il grasso», che tutti conoscono, «quello grasso, tò siteutòn», quello e non un altro. Nell’espressione «il vitello, il/quello grasso», in greco si ha una costruzione per cui il soggetto con l’articolo è seguito dall’aggettivo anch’esso con l’articolo per dargli forza ed evidenza, ma anche eleganza stilistica.
Tale costruzione serve per mettere in evidenza che si tratta del vitello noto a tutti, forse tenuto all’ingrasso con cura speciale per un sacrificio (molto probabilmente) oppure per una circostanza particolare. Nulla ci vieta di pensare che il padre lo avesse tenuto in disparte per un sacrificio di comunione per il ritorno del figlio.
Nel libro dei Giudici (6,25-35) Gedeone costruisce un nuovo altare e vi immola «un vitello grasso» per riparare il peccato di idolatria dei suoi concittadini che avevano sacrificato a Bàal: un sacrificio di purificazione (v. 28). Il vitello, quello grasso, è una spia forse per dirci che in questo modo il figlio è reintegrato nell’ortodossia che aveva rinnegato, andandosene «in un paese lontano». Nel vangelo nulla è detto per caso o a casaccio. Il figlio aveva messo in moto un processo di morte, abiura, distruzione, blasfemia; ora tutto si annulla nel segno de «il vitello, quello grasso», sacrificato per la festa della risurrezione del figlio.

Il vitello dell’accoglienza ospitale
Altri due testi famosi ci sembrano più attenenti di ogni altro con il testo lucano. Il primo racconta la visita dei tre personaggi misteriosi ad Abramo, alle querce di Mamre (Gen 18,1-15). Per dare risalto alla sua ospitalità accogliente: «All’armento corse lui stesso, Abramo, prese un vitello tenero e bello e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo» (v. 7). Il testo greco usa il termine «moschàrion», un diminutivo per dire «vitellino»; e per sottolineare la portata della scelta aggiunge due aggettivi che qualificano il vitellino come (letteralmente) «tenero e bello».
Qui il vitello è segno dell’ospitalità e accoglienza dello straniero, che nella cultura semitica è sempre il segno della Presenza di Dio. Rifiutare lo straniero è rifiutare Dio e porsi al di fuori della sua comunione. Prendendo «il vitello, quello grasso», il padre si mette sulla scia di Abramo e accoglie il figlio che torna come se accogliesse la Shekinàh di Dio. Ritorna da un paese lontano e straniero; ritorna da straniero perché aveva rinnegato il suo popolo; ora lo straniero è accolto da figlio e così il padre rende visibile la Presenza di Dio. Il Dio dei padri che il figlio aveva abbandonato, dilapidato, offeso, infangato con la sua vita di uomo «senza salvezza» (Lc 15,13), ora ritorna di nuovo nel figlio distrutto, che si presenta al padre non più come figlio, ma come servo, come straniero che chiede un salario per vivere. Il vitello non è solo lo strumento per la festa del ritorno del figlio, esso è il simbolo sacrificale di una gioia festosa perché è stata ricostituita la discendenza patriarcale e restaurata di nuovo la storia della salvezza che il figlio aveva spezzato. Il padre ritorna a essere il patriarca che riceve l’erede, mentre il figlio è il futuro che si riannoda al suo passato. Il figlio che era diventato «senza salvezza» (Lc 15,13) ora rientra a pieno titolo nella storia della salvezza patriarcale.

Il vitello dell’idolatria
Il secondo testo racconta del vitello d’oro (Es 32,1-6). La prima generazione che visse l’esperienza del deserto non esitò a lasciare il Signore durante l’assenza di Mosè che stava sul monte Sinai per ricevere la Toràh scritta e orale. Approfittando della lontananza del profeta, la folla riuscì a corrompere anche il sacerdote Aronne, che fuse l’oro raccolto tra la massa e costruì l’idolo per eccellenza, prototipo di tutte le prostituzioni future d’Israele e della chiesa: un vitello. Un vitello d’oro. In greco si usa il termine già visto: mòschos. Essi lo adorano come loro Dio e liberatore: «Ecco il tuo Dio, o Israele, colui che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto» (Es 32,4). La folla, complice il sacerdote Aronne, fece festa al nuovo Dio: «Domani sarà festa in onore del Signore. Il giorno dopo si alzarono presto, offrirono olocausti e presentarono sacrifici di comunione. Il popolo sedette per mangiare e bere» (Es 32,5-6).
In Luca, nel banchetto di festa per il figlio ritornato, il vitello non è adorato, ma ucciso; non si fa festa «davanti al» vitello, ma perché il figlio minore è tornato alla vita. Con questo banchetto, il padre della parabola reintegra il figlio sottraendolo all’idolatria del vitello dietro al quale si era perduto, prostituendosi e lo restituisce all’adorazione del Signore e Dio di Mosè, il Dio dell’alleanza del Sinai. Colui che con un solo gesto aveva rinnegato la Toràh, ora nel sacrificio del vitello annienta tutte le idolatrie passate e si apre a un futuro da dove potrà fare festa davanti al Signore Dio suo e dei suoi padri.

Il vitello dell’odio
L’espressione intera «il vitello, il/quello grasso» ricorre tre sole volte e solo in Luca ed esclusivamente nella parabola del «figliol prodigo». Della prima ce ne stiamo occupando ora; la seconda volta è in bocca ai servi, che informano il figlio maggiore del ritorno del fratello e del fatto che «tuo padre ha fatto ammazzare il vitello, quello grasso» (v. 17). In questa seconda citazione la costruzione in greco è uguale alla prima, cioè con la ripetizione dell’articolo si mette in evidenza la «singolarità» di «quel vitello».
Il figlio maggiore si arrabbia e si scoccia per il ritorno del fratello che viene a sconvolgere i suoi piani e accusa il padre con veemenza: «Per lui ha ammazzato il vitello grasso» (v. 30). In questa terza volta il testo greco cambia, non ripete più l’articolo davanti all’aggettivo. In italiano non si riesce a esprimere la differenza tra le due costruzioni: il vitello che nelle prime due citazioni precedenti era «quello e non un altro», qui, in bocca al fratello maggiore diventa «il vitello grasso», cioè un vitello qualsiasi, uno della mandria.
Al fratello maggiore da fastidio che il padre abbia preso «un» vitello per festeggiare il fratello. Anche se il padre avesse preso un pollo, o un uovo, o un dattero, per lui sarebbe stato sempre e comunque uno spreco perché il fratello non merita nulla. Il testo greco ci dice la diversità di atteggiamento interiore attraverso l’uso delle parole e per questo è importante studiare la scrittura e appropriarsi degli strumenti di lettura per cogliere anche le sfumature e non perdere il sapore della Parola che a noi giunge attraverso le parole. Per questo figlio maggiore, senza fede e senza umanità, il padre ha solo sperperato ancora una volta un pezzo del suo patrimonio per accogliere il figlio/fratello come ospite di Dio. In questo atteggiamento, il figlio maggiore è un vero ateo, un religioso praticante ateo: l’opposto del padre.
Il vitello della gioia
Il verbo greco che traduce l’ordine del padre di ammazzare «il vitello, quello grasso» è «thýō» e significa «uccido/immolo/sacrifico/offro in sacrificio» (cf Mt 22,4; At 10,13). In molti testi del NT (Mc 14,12; Lc 22,7 e 1Cor 5-7) il verbo è usato per il sacrificio dell’agnello pasquale.
Usando questo vocabolario «sacrificale» per l’uccisione de «il vitello, quello grasso», è come se Lc ci dicesse che ci troviamo di fronte a un vero e proprio «sacrificio eucaristico», perché il sacrificio è festa per la gioia ritrovata. Non a caso tutto converge verso il banchetto della festa, che è l’espressione sociale di un evento interiore e spirituale: «Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». Il banchetto celebra la risurrezione del figlio, ma anche quella del padre e quella della casa: tutti risorgono in una casa quando qualcuno si salva dal pericolo e dalla morte.
Il banchetto è lo strumento della gioia perché, a tradurre alla lettera il greco, si deve mettere insieme la contemporaneità del mangiare con il giornire: le due azioni non possono essere separate perché la festa si esprime mangiando e mangiare è (non sempre) un segno/occasione di gioia e intimità. Il verbo principale usato da Lc è «euphràinō – giornisco/faccio festa», mentre il verbo «mangiare» è usato al participio, che è un tempo secondario ed esprime contemporaneità con il verbo da cui dipende.
In tutto il NT è usato 14 volte e sempre nello stesso senso di pienezza di soddisfazione, gioia irrefrenabile. A volte la gioia vuole essere egoista, ma diventa un peccato a sua volta, come nel caso dell’uomo ricco che invita la sua anima a godere e a divertirsi perché i raccolti sono andati molto bene, mentre non sa che non farà in tempo ad assaporare la festa perché quella notte gusterà il fiele della morte (cf Lc 12,19-21). Oppure come il ricco epulone che, mentre offre «lauti banchetti», non si accorge che sulla soglia di casa sua giace Lazzaro ammalato e affamato (Lc 16,19-21). La gioia non può essere mai individuale, ma per natura deve essere condivisa, perché è contagiosa e comunitaria; solo la tristezza è narcisistica. Il ricco che non si fa carico della povertà che sta sulla soglia di casa e delle cause che la provocano, scava «un grande abisso» tra sé e il cielo (Lc 16,26).

Il vangelo della gioia
In tutte le religioni storiche il rapporto con la divinità è assicurata dalla «comunione» con le offerte sacrificali (cf Dt 27,7). È una esigenza della religione mettere in contatto offerente e ricevente, attraverso segni e simboli: il banchetto di comunione è simbolo di intimità condivisa, accetta e partecipata. In un contesto di fede, però, il banchetto è secondario, perché è solo strumentale, mentre è determinante la gioia che attraverso il banchetto si esprime. L’eucaristia è il banchetto da cui scaturisce la gioia della ecclesialità, come il ruscello dalla sorgente.
La ragione del banchetto festoso è il figlio morto/risorto, perduto/ritrovato, espressione che troveremo ancora in chiusura del capitolo (v. 32); qui ci limitiamo a sottolineare che il padre non giornisce per sé, ma il motivo della sua gioia è solo il figlio. Come il suo amore fin dall’inizio fu e resta un amore senza tornaconto, così la gioia è una gioia gratuita, che consacra il suo amore e grandezza.
Il figlio fu al centro del suo dolore e solitudine; ora è il fulcro della sua gioia. Ha dato la vita al figlio, gli ha dato la libertà al prezzo della sua morte nel cuore; lo ha reintegrato nell’eredità, dignità e condizione di figlio: ora gli da anche la gioia del suo ritorno. Il padre è l’immagine perfetta del Padre celeste, che ha creato un cielo dove «c’è più gioia per un solo peccatore che si converte che per 99 giusti che non hanno bisogno di conversione» (Lc 15,4.10).

Una parabola della gioia perfetta
Concludiamo con un aneddoto della vita dei padri del deserto. Due monaci avevano peccato gravemente. Il padre abate impose loro la stessa penitenza: andare fuori dal monastero e fare penitenza; chi avrebbe fatto la penitenza più adeguata sarebbe stato riammesso nella comunità. I due uscirono dal monastero e presero strade diverse.
Passò un anno. Un uomo macilento e lacero fece appena in tempo a suonare la campanella del monastero che cadde in terra stremato. I monaci lo raccolsero: è uno dei due fratelli tornato dalla penitenza. L’abate gli chiese cosa fosse successo ed egli narrò ciò che aveva vissuto: «Dopo un lungo peregrinare, vivendo di elemosine giunsi in un bosco dove non passava anima viva. Mi sistemai in una capanna di fortuna e mi inginocchiai davanti al Signore, dicendo: “Signore, sono un grande peccatore, e tu lo sai; per compiere la penitenza comandata dal padre abate, vivrò tutto il tempo a digiuno, mangiando solo ciò che offre il bosco e bevendo l’acqua del vicino ruscello; pregherò e mi flagellerò ogni giorno per riparare le mie colpe”. Ora al termine della mia penitenza, chiedo di essere ammesso in comunità». L’abate disse ai confratelli presenti: «Questa è grande penitenza. Sia riammesso».
Dopo qualche giorno, arrivò anche il secondo e suonò la campanella. Era fresco come una rosa, paffutello, felice e sereno, canticchiava con cuore allegro. Stupore e disprezzo nella comunità che lo accoglie. Il padre abate gli chiede: «Figlio mio, disgraziato, cosa hai fatto ancora di peggio? Come mai ti ritrovi qui e in questo stato?».
Il monaco raccontò il suo anno di penitenza, dicendo: «Padre abate, dopo lungo pellegrinare sono arrivato in un bosco da dove non passava nessuno; sono entrato in una capanna di fortuna, ho chiuso la porta, mi sono inginocchiato e ho pregato: “Signore, sono davanti a te e tu mi conosci più di quanto io conosca me stesso. Tu sai che ho peccato e non meriterei di essere considerato tuo figlio, ma so anche che sei un Dio pietoso e misericordioso, lento all’ira e grande nel perdono. Mi fido e mi affido alla tua parola e accolgo il tuo perdono come la festa più grande della mia esistenza. Per celebrare il tuo perdono e la tua infinita misericordia, trascorrerò tutto il tempo che mi resta a lodarti e ringraziarti, facendo festa e banchettando con tutto ciò che vorrai mandarmi”. Così ho fatto e ora sono qui a chiedere di essere riammesso nella comunità».
L’abate fece suonare le campane, radunò la comunità e disse: «Rallegratevi, fratelli! Oggi si è compiuto per noi un miracolo: questa non è solo grande, ma vera penitenza, perché c’è più gioia in cielo per un peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione. La vera penitenza è la gioia del perdono». Per suggellare il ritorno dei due fratelli diede ordine di fare un banchetto come si usa a pasqua.        (continua 18)

di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Dalla iurta al soyuz

Reportage dalla più grande delle repubbliche ex sovietiche

A 16 anni dall’indipendenza (1991), il Kazakistan porta ancora segni vistosi, demografici e culturali, di 150 anni di russificazione. Lo sfruttamento degli idrocarburi ne fa un paese strategico e il più ricco tra le ex repubbliche sovietiche; ma la ricchezza non è per tutti: buona parte dei kazaki vivono ancora sotto la soglia della povertà.

S ono in Kazakistan o in Russia? Sapevo benissimo di essermi lasciata la frontiera alle spalle due giorni prima, ma continuavo ad avere la sensazione di non averla mai attraversata, sia perché le formalità erano state minime, sia perché paesaggio, abitazioni, stile di vita non portavano cambiamenti che mi segnalassero il passaggio dalla steppa russo-siberiana in quella kazaka.
Non mi aspettavo una steppa così verde e ricca d’acque. Non era il piattume ottuso della depressione caspica, attraversata qualche anno prima. Qui la linea dell’orizzonte era rotta da tratti ondulati e gruppi di alberi; campi coltivati si alternavano ad ampie distese di brughiera; sugli stagni volteggiavano uccelli selvatici; il verde tenero dell’erba era punteggiato e a volte vinto dagli esuberanti colori dei fiori; poi le isbe russe e gli orti. E di nuovo riaffiorava il dubbio.
All’interno dell’autobus su cui viaggiavo lo spettacolo era altrettanto vario: volti europei e volti turco-mongoli, dai caratteristici occhi a mandorla; il brusio delle conversazioni in un miscuglio di russo e uno strano cocktail per due terzi kazako un terzo russo. È il nord del Kazakistan, mi dicevo, dove è concentrata gran parte della minoranza russa; non c’è da stupirsi di sì grandi affinità.
affinità con la russia
Ma ho dovuto ricredermi: l’influenza culturale russa non si limita al solo nord. Ben presto ho scoperto che in Kazakistan manca il colorito locale. Le città, piccole o grandi che siano, sono sorte solo dopo la conquista russa e ne portano l’impronta: dal confine a nord fino a quello cinese, le abitazioni sono tali e quali a quelle della Russia centrale.
I kazaki erano un popolo nomade, vivevano delle loro greggi e si spostavano per garantire loro freschi pascoli tutto l’anno, abitavano nelle iurte, comode tende di feltro, smontabili in poche ore e per essere rimontate a centinaia di chilometri. Ora, però, di quelle tradizionali abitazioni non rimane traccia: l’unica iurta vista durante il viaggio era esposta al Museo statale di Almaty.
Anche nella lingua e costumi la russificazione è stata qui maggiore che nelle altre repubbliche ex sovietiche: non ho mai sentito parlare un russo così perfetto, così russo. Alcuni kazaki lo conoscono meglio della lingua nazionale. Arrivata ad Astanà ho scoperto, con mia grande meraviglia, che in Kazakistan si festeggia la «Festa dei paracadutisti», esattamente come si fa a Mosca: giovani russi e kazaki insieme, in maglietta a righe bianco-azzurre e basco azzurro si riversano nelle strade e nei parchi, cantano, ballano, schiamazzano e, bottiglie in mano, naturalmente bevono; non si può dire che, nel bere, i kazaki si lascino battere dai russi.
Il consumo di alcolici distingue i kazaki dagli altri popoli musulmani dell’ex Asia centrale sovietica (eccetto i kirghizi). D’altra parte, nella steppa l’islam non ha messo radici profonde e ha sempre convissuto con pratiche e credenze dello sciamanesimo, la religione tradizionale dei nomadi turco-mongoli. Presso di loro l’alcol era parte fondamentale di ogni convivio.
Con la fine dell’Urss questa identificazione di molti kazaki con la cultura russa pose non pochi problemi al nuovo Kazakistan, che doveva giustificare la propria esistenza come stato indipendente e teneva, quindi, a sottolineare le differenze, non certo le somiglianze, rispetto ai popoli vicini. I dirigenti della neonata repubblica dovettero in tutta fretta disseppellire da un passato ormai defunto simboli e riferimenti che ispirassero ai kazaki un senso d’identità comune: dovevano convincersi di essere una nazione, sebbene questo concetto, europeo e illuminista, fosse estraneo alla loro cultura. Tradizionalmente la società kazaka era organizzata intorno alla famiglia allargata e al clan, con cui il singolo s’identificava completamente. La questione del passato, della lingua, del recupero delle tradizioni ha suscitato nel paese un dibattito che dura tuttora.
Per capire tali affinità, occorre fare almeno qualche accenno alla storia degli ultimi tre secoli.
weste sovietico
L’avanzata dei russi in Asia Centrale si potrebbe paragonare alla conquista del West in Nord America. Quando, all’inizio del xviii secolo, l’impero russo si affacciò sulla steppa kazaka, si trovò di fronte un territorio sconfinato, che per la mentalità di un popolo stanziale era una sorta di terra di nessuno: non c’erano città, né fortificazioni, ma solo sparute tribù nomadi che si muovevano da un punto all’altro della steppa, senza lasciare dietro di sé tracce permanenti. Senza un’organizzazione statale né un esercito, tali tribù continuavano a vivere, come ai tempi di Gengiz Khan, una vita regolata dalle stagioni e dalle esigenze delle greggi, loro fonte principale di sussistenza e segno di ricchezza e potenza.
Avanzare su queste terre per i russi fu relativamente facile. All’incirca tra il 1720 e il 1850 nella steppa kazaka si combatté un’impari lotta tra il modello di vita stanziale e quello nomade. Era una guerra dall’esito scontato. I nomadi erano già stati sconfitti molti secoli prima, quando l’invenzione delle armi da fuoco aveva annullato i due grandi vantaggi che avevano permesso alle schiere turco-mongole di conquistare un impero mondiale: rapidità negli spostamenti, agilità e forza fisica. La resistenza dei kazaki s’infranse contro le mura delle fortezze russe, i loro attacchi furono spezzati dal fuoco dell’artiglieria zarista.
Nel 1846, con la fondazione di Veyj, futura Alma Ata, e di una linea fortificata lungo il Syr Daria, la conquista della steppa kazaka era ultimata. Man mano che occupavano un pezzo di steppa, i russi vi costruivano fortezze, nucleo originario dei futuri centri urbani, e vi facevano affluire i propri contadini, da sempre assetati di terra, che mettevano a coltura i terreni migliori, riducendo progressivamente i pascoli dei kazaki, compromettendone l’economia irrimediabilmente. L’arrivo sempre più massiccio dei coloni russi cominciò a modificare anche l’equilibrio demografico, a tutto svantaggio degli autoctoni.
Se a ciò si aggiungono le grosse perdite subite dalla popolazione kazaka, prima per la sanguinosa repressione della rivolta del 1916 e la conseguente emigrazione verso Cina e Mongolia, poi, alla fine degli anni ‘20, per la sedentarizzazione e collettivizzazione forzata (tra morti e deportazioni sparirono un milione e mezzo di kazaki), non sembrerà strano che già nel 1939 essi non fossero più la maggioranza in Kazakistan: 37,8% kazaki e 40% russi.
Dalla seconda metà degli anni ‘30 in poi tale sbilanciamento si aggravò, perché questa repubblica fu scelta da Mosca come luogo di detenzione e deportazione. Vi furono aperti numerosi campi di concentramento e vi furono fatti confluire interi popoli, della cui lealtà il regime dubitava e che venivano evacuati da territori strategicamente importanti: dall’Estremo Oriente arrivarono 100 mila coreani, altrettanti polacchi da Ucraina e Bielorussia; durante la guerra vi furono deportati 440 mila tedeschi del Volga, 400 mila tra balkari, karachai, ingusci, ceceni, turchi meschi dal Caucaso e tatari dalla Crimea.
Nel 1954 prese il via la campagna per il dissodamento delle terre vergini della steppa. Iniziò così un nuovo flusso d’arrivi, questa volta volontari, soprattutto da Russia, Ucraina e Bielorussia. Nel 1959 la percentuale di kazaki nella repubblica era precipitata al 30%, per poi risalire lentamente, fino al 39,7% del 1989, quando si registrò il sorpasso rispetto ai russi, scesi al 37,8%.
STABILITà
CONTRO DEMOCRAZIA
La situazione demografica fu subito percepita dai dirigenti del Kazakistan indipendente come la minaccia più seria all’integrità dello stato. Poiché nel nord del paese i russi costituivano la maggioranza degli abitanti, si temeva una secessione del territorio dal resto del paese; una soluzione sostenuta da alcuni movimenti politici e alimentata da infiammati discorsi dei politici russi, dall’una e dall’altra parte della frontiera. Col passare del tempo, invece della secessione, i russi hanno preferito prendere la strada dell’emigrazione e le loro comunità si sono andate assottigliando.
Per garantirsi un maggior controllo sul nord, il presidente Nazarbaev spostò la capitale da Almaty ad Astanà. Il passaggio di sede fu deciso nel 1994 e ufficialmente celebrato alla fine del 1997, sebbene a quei tempi la città fosse ancora lontana dall’avere un aspetto rappresentativo e molti non avessero nessuna fretta di trasferirvisi.
Nato nel 1940 da una famiglia contadina, fece una rapida carriera all’interno del Partito comunista (Pc) kazako e nel 1989 arrivò a occupae la massima posizione, quella di primo segretario. Quando nel 1990 in Urss fu creata la figura del presidente di repubblica, egli fu designato a occuparla e alla fine del 1991 divenne il primo presidente del Kazakistan indipendente, con il 98% dei suffragi.
La continuità di leadership è stato un tratto comune a tutta l’Asia centrale ex sovietica: i capi dei Pc locali sono diventati i presidenti dei nuovi stati indipendenti; ma, tra tutti, Nazarbaev si è dimostrato il più accorto e lungimirante. A differenza del tagiko Nabiev e del kirghizo Akaev è ancora saldamente alla guida del paese; a differenza dell’uzbeko Karimov e del turkmeno Niyazov, deceduto nel 2006, si è presentato come un moderato, attirandosi le simpatie e i finanziamenti dell’Occidente.
Il suo non è stato un compito facile. Come gli altri burocrati della vecchia guardia comunista divenuti improvvisamente capi di stati sovrani, Nazarbaev si è trovato ad affrontare situazioni di cui non aveva esperienza alcuna. Il Kazakistan, come le altre quattro repubbliche sovietiche d’Asia Centrale, non aveva mai condotto una politica economica ed estera autonoma, non aveva un esercito nazionale né il controllo dei propri confini. Bisognava inventarsi ex novo un sistema politico ed economico, in sostituzione del fallito modello socialista centralizzato, sotto la guida di Mosca. Il riferimento più ovvio, a quel punto, diventava il modello occidentale. Ispirandosi ad esso, furono create le prime istituzioni di democrazia rappresentativa e s’intrapresero caute riforme economiche.
A 16 anni di distanza, il Kazakistan può ormai considerarsi fuori dalle incognite della transizione: ha un’economia in rapida crescita, ha regolato tutte le questioni di confine con Russia e Cina, ha una discreta reputazione internazionale e si è affermato come leader regionale. Nazarbaev è anche riuscito a evitare al proprio paese i conflitti che hanno, invece, insanguinato le repubbliche confinanti, un esito inizialmente per nulla scontato.
Certo, il bilancio di questi anni non è stato positivo per tutti. Non lo è stato per la comunità russa, di cui si temevano gli umori secessionisti e che è ora sottorappresentata in parlamento, negli organi di governo e negli incarichi pubblici. E non lo è stato per la democrazia. Se, inizialmente, era parso che il Kazakistan si avviasse verso un assetto politico pluralistico, fondato sul principio della divisione del potere tra gli organi dello stato, ora il quadro è molto diverso. Il presidente e la sua cerchia detengono il controllo pressoché totale delle istituzioni. Il parlamento è diventato un docile strumento nelle mani di Nazarbaev. Alle ultime elezioni politiche, nell’agosto del 2007, il suo partito Nur Otan ha ottenuto l’88% dei consensi e la totalità dei seggi in parlamento. Si è, così, tornati al partito unico di sovietica memoria.
Inoltre, con gli emendamenti alla costituzione del maggio scorso, che hanno abolito i vincoli di mandato e d’età alla sua rielezione, Nazarbaev si è assicurata la presidenza a vita. Gli elettori, però, non sembrano preoccuparsene. Tra i kazaki, così come tra la minoranza russa, egli continua a godere di un consenso molto alto e, se lo si sente criticare per la diffusa corruzione o l’iniqua distribuzione delle ricchezze, alla fine tutti concordano che con lui ci si sente più tranquilli, perché lo si ritiene in grado di garantire la pace sociale. Nazarbaev, quindi, ha ragione quando, rispondendo alle critiche dell’Occidente, afferma che alla sua gente interessa più la stabilità della democrazia.
GAS E PETROLIO
Nel suo compito di fondare un nuovo ordine e una nuova stabilità in Kazakistan, Nazarbaev ha avuto un grande alleato: il sottosuolo. Oltre a essere di gran lunga la più estesa tra le cinque repubbliche ex sovietiche d’Asia Centrale, il Kazakistan è anche la più ricca, grazie alle sue ingenti risorse naturali. Gas e petrolio fanno la parte del leone nelle esportazioni e gli hanno consentito di diventare il motore economico della regione, con una crescita annua del Pil superiore al 9%.
Per le risorse di cui dispone, il Kazakistan è corteggiato da molti. La Russia è interessata a continuare a trasportare il suo greggio attraverso il proprio territorio, cosa che, oltre ai diritti di transito, le dà la possibilità di acquistarlo a condizioni di favore e rivenderlo all’Europa a un prezzo maggiorato. Occidente e Cina sono, invece, interessati ad acquistare gli idrocarburi kazaki direttamente alla fonte; a questo scopo hanno progettato, e in parte realizzato, vie per il loro trasporto alternative a quella russa. Tutti quanti, poi, sono interessati a partecipare allo sfruttamento dei ricchi giacimenti di gas e petrolio.
La competizione tra le compagnie straniere si sta facendo sempre più agguerrita, proprio mentre il governo kazako, dopo la fase di liberalizzazione degli anni ‘90, sta ritornando al controllo statale del settore energetico (di nuovo il parallelo con la Russia s’impone).
In questo contesto s’inserisce anche la recente vertenza con la nostra Eni, che dal 1997 guida un consorzio di compagnie straniere impegnate nella costruzione degli impianti per lo sfruttamento delle ricchissime riserve petrolifere di Kashagan, sul Caspio. Il contratto stipulato con il Kazakistan a quel tempo prevedeva condizioni molto vantaggiose, anche perché il paese non aveva il know how tecnologico necessario per affrontare l’impresa.
I ritardi nella realizzazione del progetto e la lievitazione dei suoi costi hanno portato a una revisione degli accordi iniziali, in un contesto politico e legislativo completamente mutato rispetto a 10 anni fa. Il parlamento ha approvato nuove leggi che danno all’ente idrocarburi di stato Kazmunaigas il diritto alla maggioranza in tutti i progetti futuri e al governo quello di modificare i contratti, anche retroattivamente, se sono messi in pericolo gli interessi nazionali.
LA GRANDE CRISI DEL 1993
Come sempre accade, la ricchezza che viene dallo sfruttamento delle risorse naturali non è arrivata dappertutto: si vede nelle città petrolifere del Caspio, nei quartieri nuovi di Almaty e, in massimo grado, nella nuova capitale; si vede poco o non si vede affatto nel nord russo, nelle città di provincia e nei villaggi.
Sono, però, lontani gli anni terribili della crisi economica seguita al crollo dell’Urss. Chi li ha vissuti ammette che le cose adesso vanno molto meglio. La riforma monetaria del 1993, quando il Kazakistan fu costretto a uscire dall’area del rublo e cominciò a battere moneta propria, innescò una svalutazione così galoppante, che la gente smise di usare i soldi e toò a praticare il baratto. In poco tempo stipendi e pensioni si trovarono azzerati. Per sopravvivere molti s’improvvisarono commercianti.
«Devo dir grazie ai cinesi, se sono riuscita a sfamare i miei figli a quel tempo» ricordava una signora kazaka sul treno che ci stava portando da Almaty a Semey, nel Kazakistan orientale. Condividere uno scompartimento per una mezza giornata predispone a confidenze e racconti. La nostra compagna di viaggio aveva tirato fuori polpettone di cavallo e pesce persico affumicato del Balkash, e s’apparecchiava a trascorrere nel modo migliore le lunghe ore in treno, spartendo con noi quelle prelibatezze. Chissà come, il discorso era caduto sulla crisi del ‘93.
Lei aveva lasciato l’impiego alle poste e si era messa a vendere al mercato quello che le capitava. Poi aveva cominciato a fare la spola con la Cina e questo piccolo commercio aveva permesso a lei, come a molti altri, di tirare avanti. A lavorare in posta non è più tornata. Gli stipendi statali restano, comunque, molto bassi, è difficile viverci. Adesso, però, ha smesso di procurarsi la merce in Cina, va a prenderla al mercato all’ingrosso di Almaty.
La crisi economica degli anni ‘90 portò anche a una drastica riduzione dei servizi pubblici: il sistema sanitario, quello scolastico, i servizi per l’assistenza ai più deboli, tra cui gli orfanotrofi, furono i primi a risentirne. In quegli anni lessi un articolo impressionante sui ragazzi di strada in Kazakistan, che avevano fatto delle fogne la propria casa: una popolazione di bambini e adolescenti che viveva sotto i piedi della gente.
Il fenomeno dei ragazzi di strada è tristemente diffuso in alcune repubbliche dell’ex Urss, ma non in quelle asiatiche; negli anni ‘90, però, il loro numero era cresciuto anche in Kazakistan, per le grosse difficoltà in cui versava il paese.
RAGAZZI DI STRADA
Il ricordo di quell’articolo era riemerso vivido parlando con padre José, dopo la messa domenicale da lui tenuta nella chiesa cattolica di Shymkent. Vi era arrivato 7 anni prima dalla Spagna per servire la comunità cattolica locale, formata da polacchi, tedeschi e ucraini, che non aveva un prete. Dapprima aveva preso in affitto un appartamento, poi, con l’aiuto di sponsor spagnoli, era stato aperto un complesso nuovo, con la chiesa, casa parrocchiale e oratorio.
Ci eravamo fermati a chiacchierare proprio sui gradini della chiesa. Padre José, che avevo appena conosciuto, si era dimostrata una persona gioviale, ben disposta a mettere a disposizione il suo tempo e condividere la propria esperienza del luogo con me, arrivata giusto quella mattina.
Avevo notato che alcuni ragazzini si erano seduti poco distanti da noi e non accennavano ad andarsene. «Vivono in condizioni famigliari difficili – spiegò padre José -, vengono qua al mattino, li tengo impiegati con qualche lavoretto o cerco di farli studiare un po’, poi condividiamo il pranzo. Non posso mica mandarli via, altrimenti starebbero per strada».
Tra di loro c’era Tanja, la più grande del gruppo, che la strada l’aveva conosciuta sul serio, ma se l’era lasciata alle spalle. Silenziosa e riservata, Tanja non dimostrò molto entusiasmo quando le chiesi di raccontarmi la sua storia. Ma padre José, che vedeva il mio interesse per l’argomento, non lasciò cadere il discorso.
«I ragazzi che vivono per strada sono soprattutto russi; di kazaki ce ne sono pochi, perché tra di loro si sono conservati molto di più i valori della famiglia tradizionale e perché, a differenza dei russi, possono contare su un’estesa rete parentale. I ragazzi, anche giovanissimi, scappano da situazioni di estremo degrado familiare, dove i genitori non sono in condizioni o non vogliono pensare a loro, oppure sono alcolizzati. Vivono in strada finché fa caldo e d’inverno si rifugiano nelle cantine, o dentro i tombini, dove passano i tubi dell’acqua calda. Tra di loro gira anche la droga. Rispetto ad alcuni anni fa, però, la situazione è migliorata, hanno riaperto gli orfanotrofi. La situazione peggiore si è vista dopo la fine dell’Urss, quando la gente diventò più povera dall’oggi al domani».
Se quei tempi, fortunatamente, sono superati, grazie a una ripresa economica cominciata nella seconda metà degli anni ‘90 e in accelerata dal 2000, bisogna dire che i livelli di vita reali stanno crescendo lentamente, non in proporzione con i dati del Pil. Anche in Kazakistan le risorse del sottosuolo hanno come conseguenza di consegnare una sproporzionata potenza economica nelle mani di pochi e di ostacolare il nascere di un’economia equilibrata: la crescita dell’importanza del comparto energetico ha portato a un maggiore controllo in tutti i settori da parte di alcuni potenti gruppi economici, frenando lo sviluppo della media e piccola imprenditoria.
sulla via della seta
C’è un angolo di Kazakistan, o meglio, un triangolo, dove si percepisce con certezza di aver lasciato la Russia ed essere entrati nell’Asia più autentica: è il sud del paese, il territorio che s’incunea tra Uzbekistan e Kirghizia e il cui centro principale è Shymkent. Qui siamo al confine tra il mondo della steppa e dei nomadi e la civiltà stanziale delle oasi e dei fiumi.
È una terra dove il clima arido riduce le possibilità di pascolo e dove l’uomo nei secoli si è ingegnato a sfruttare al meglio i corsi d’acqua, estendendo la superficie coltivabile attraverso laboriosi sistemi d’irrigazione. Qui scorre il Syr Daria, nelle cui prossimità, fin dai tempi più remoti, sono sorti insediamenti che erano anche tappe di uno dei tanti rami della via della seta.  Tra di essi si possono ricordare Turkestan, l’antica Yasi, dove c’è il mausoleo del maestro sufi Akhmed Yasavi, e Otyrar, tristemente famosa per un episodio che fu all’origine della calata dei mongoli in Asia centrale.
Nel 1218 il governatore della città depredò e massacrò una compagnia di mercanti provenienti dalla Mongolia. Otyrar faceva parte dei territori dello scià della Corasmia, Ala ad-din Mohammad, il sovrano più potente della regione, il cui dominio andava dalla catena del Tien Shan fino alla Mesopotamia. Quando Gengiz Khan gli mandò un ambasciatore per chiedere giustizia costui lo fece uccidere, attirandosi così l’ira del Gran Khan e le sue nefaste conseguenze.
Il sud è la regione che ha meglio conservato i costumi tradizionali e dove più forte e antica è l’adesione all’islam. Popolare vi è la sua corrente mistica: il sufismo (vedi riquadro).
Nel sud del Kazakistan, rimasto prevalentemente agricolo, è minima la presenza russa. Vi si concentra invece la comunità uzbeka, che, a differenza di quella russa, è in crescita. Per secoli uzbeki e kazaki si sono contesi il dominio su queste terre e ognuno le considera proprio territorio storico. La disputa è stata decisa dai sovietici in favore dei secondi, ma ai tempi dell’Urss i confini tra le varie repubbliche erano solamente amministrativi e non costituivano certo una barriera al passaggio di uomini e mezzi. Quello tra Uzbekistan e Kazakistan, tra l’altro, aveva una demarcazione approssimativa, tanto che si dà il caso di una provincia, quella di Maktaaral’sk (ora in Kazakistan) passata di mano una ventina di volte.
Con la fine dell’Urss, quando il confine diventò anche politico e si rese necessario stabilire un tracciato preciso, i due stati cominciarono a litigare, e a tutt’oggi non sono pervenuti a un accordo definitivo.
La disputa sui confini è solo una delle manifestazioni di una rivalità di vecchia data, che non accenna a sopirsi. Gli uzbeki rivendicano un’egemonia culturale sui popoli circostanti per la ricchezza del loro passato artistico, letterario e della tradizione religiosa. Vorrebbero vedersi riconosciuta anche quella politica, ma, per il momento, l’unico argomento indiscutibile a sostegno di tale pretesa è quello demografico: sono il gruppo etnico di gran lunga maggioritario nella regione. Il paese continua ad avere seri problemi economici ed è afflitto da una povertà cronica.
Dal canto loro, i kazaki vanno fieri del passato nomade e delle virtù guerriere che scorrevano nel sangue dei loro antenati e non si scambierebbero mai con un uzbeko, a maggiore ragione ora che la loro economia è in piena ascesa. Il Kazakistan è l’unica repubblica centroasiatica che non esporta, ma importa forza lavoro. Vi arrivano i lavoratori stagionali kirghizi, tagiki e, naturalmente, anche quelli uzbeki, che offrono mano d’opera a basso costo, impiegata per lo più nei cantieri.
La rivalità tra le repubbliche ha finora impedito loro di collaborare proficuamente per risolvere i tanti problemi comuni. Paradossalmente, sia il Kazakistan che l’Uzbekistan fanno meno fatica a intendersi con la Russia, la cui superiorità è accettata come un fatto in sé evidente. Riconoscerla non ferisce il loro orgoglio e non suscita sentimenti di gelosia, sempre in agguato quando si tratta dei vicini. 

Di Bianca Maria Balestra

Bianca Maria Balestra




La salute non è di casa

I carcerati e la salute

In carcere, anche i rapporti tra medico e paziente sono diversi. Il detenuto non può scegliere e d’altra parte egli vede «la malattia come una risorsa», perché potrebbe aiutarlo ad uscire di prigione. Eppure qualcosa si può fare…

Il medico penitenziario è un medico «impertinente», non da intendersi quale insolente, ma come da etimologia cioè «non appartenente». Non appartiene di fatto al ministero della salute, ma a quello della giustizia, da cui il ruolo primario che gli si chiede non è il mantenimento del benessere del recluso ma una attività correlata a ragioni di sicurezza: più sono assicurate cure puntuali ed adeguate intramurarie minore sarà la necessità di trasferimento nei nosocomi cittadini, evento sempre connesso a rischio di evasioni funamboliche durante il tragitto o ad atti di violenza.
Il penitenziario infatti, applicando la teoria di Edwing Goffman (filosofo ed insegnante di sociologia), è una  «istituzione totale» che serve a proteggere la società da ciò che si rivela come un pericolo intenzionale nei suoi confronti, nel qual caso il benessere delle persone segregate non risulta la finalità immediata dell’istituzione che li segrega: i reclusi sono sottoposti ad un processo di «spoliazione del sé», separati come sono dal loro ambiente originario e da ogni altro elemento costitutivo della loro identità. Anche il rapporto medico paziente non è fiduciario, in quanto il paziente detenuto non può scegliere il clinico dell’équipe da cui farsi seguire ed anzi se trasferito da una sezione di un padiglione ad un’altra, pur nella stessa sede, dovrà ogni volta instaurare un nuovo rapporto spesso conflittuale. Anche la patologia più o meno grave e manifesta assurge in questo ambiente un significato sconosciuto all’esterno: la «malattia come risorsa». Da cui la simulazione di malattia, la scarsa aderenza ai consigli medici in modo da peggiorare il corteo di sintomi ed ottenere l’ambita «incompatibilità» con il regime detentivo ovvero benefici di legge ottenuti quando l’infermità non possa essere adeguatamente curata oltre le sbarre.

ETNO-MEDICINA
ED ETNO-PSICHIATRIA

Il medico impertinente di cui sopra ha sempre presente che gli strumenti diagnostici, prognostici e terapeutici di esclusiva derivazione biologica o psicologica sono solo funzionalmente adeguati se si ignora la natura culturale dei problemi dei soggetti, siano essi individui singoli o gruppi etnici in quanto la nostra crescita, malattia, salute, moralità, devianza sono sempre connotate culturalmente e fanno parte di un sistema sociale dentro il quale l’individuo deve essere considerato.
Questo si può descrivere con la differenza che corre tra il significato dei termini «disease» e «illness» nella letteratura anglosassone: il primo indica la malattia secondo la conoscenza medica, mentre con illness si intende l’insieme di sensazioni, emozioni, pensieri e comportamenti correlati, propri della percezione soggettiva dell’essere ammalato del paziente. Nella medicina tradizionale occidentale l’attenzione è tutta concentrata sulla disease, cosicché la illness del paziente viene generalmente trascurata; così non può essere nella medicina penitenziaria. Medico e paziente devono percorrere contemporaneamente due percorsi paralleli impegnandosi entrambi a negoziare la loro relazione con l’altro all’interno del nuovo spazio interculturale, attraverso una esplorazione del loro mondo comune, in un cammino di pari dignità alla ricerca della salute, collaborando tra di loro.
L’elevata presenza di detenuti stranieri costituisce poi il vasto e complesso campo della etno-medicina ed etno-psichiatria con valenze sue proprie.
Il paziente straniero, infatti, pone il medico penitenziario di fronte ai suoi limiti – anche linguistici – se si creano impedimenti culturali specifici, ma questi può superarle traendo indicazioni sia dalle competenze del paziente, sia dalle proprie «risorse terapeutiche». Gli operatori sono come in mezzo a un guado, disposti a riformulare la propria identità professionale, permettendo ai propri parametri di divenire duttili, così da non rimanere arroccati nel sapere acquisito, né di rinunciarvi, ma capaci di aprirsi a «nuove prospettive», rispecchiandosi in qualche modo nel recluso che li ha messi più in difficoltà.

PSICOTICO, TOSSICODIPENDENTE
O DEVIANTE?

Il pluralismo culturale ed ideologico della attuale popolazione reclusa impone strategie nuove: perché in carcere sempre più frequentemente finisce oggi una popolazione che si fa fatica a definire con vecchie categorie nosografiche, così com’è difficile applicare categorie rigide nei Servizi di diagnosi e cura, nelle strade. È sempre più difficoltoso trovare un paziente che possa essere classificato come psicotico in modo pulito; è molto difficile trovare un soggetto che possa essere definito tossicodipendente; è laborioso trovare un paziente portatore di un puro disturbo di personalità; è molto raro trovare un soggetto che possa essere classificato «deviante e criminale» senza che vi siano inferenze anche di queste altre due categorie dello spirito.
Ci troviamo di fronte a quello che, con una provocazione, visto che gli acronimi vanno di moda, potrebbe definirsi un PTE, uno psico-tossi-emarginato, cioè un soggetto che ha problemi psicopatologici, assume sostanze, e che produce azioni che inevitabilmente ad un certo punto finiscono col collidere col sistema di norme della società e quindi lo portano nella zona dell’anomia e, quindi, verso i tribunali e poi verso il carcere. Le nuove droghe stanno ampiamente contribuendo al nuovo scenario a causa dei devastanti effetti a livello cerebrale: non è raro ormai constatare quadri di demenza precoce da extasy o cocaina in trentenni.
Allora, di fronte a questa visione delle cose, il carcere, così com’è, rappresenta rispetto alla devianza in un certo senso l’esatto opposto di quello che servirebbe. Laddove occorrerebbe ricostruire legami e relazioni che diano sensazioni di confidenza, di affidabilità e di progettualità, il carcere fa, per ovvie ragioni, esattamente l’opposto.

IL TRAUMA 
DELLA PRIMA VOLTA

L’esperienza insegna che frequentemente provengono dalla libertà soggetti giovanissimi o anziani, tossicodipendenti, soggetti in condizioni fisiche o psichiche non buone o comunque di particolare fragilità, tutti soggetti ai quali la privazione della libertà, specie se sofferta per la prima volta, può arrecare sofferenze e traumi accentuati, tali da determinare in essi dinamiche autolesionistiche o suicide. Dunque, onde intervenire tempestivamente, è stato istituito un particolare servizio per i detenuti e gli inteati nuovi giunti dalla libertà, consistente in un presidio psicologico, che si affianca  alla prima visita medica generale ed al colloquio di primo ingresso.
Altro dramma correlato è il numero impressionante di detenuti affetti da malattie croniche che hanno trasformato gli Istituti di pena dotati di centro diagnostico terapeutico (ovvero piccoli ospedali intramurari) in un vero luogo di cura: notevolissimo il numero di soggetti affetti da malattie cardiovascolari e polmonari favorite dalla mancanza assoluta di igiene di vita. Esorbitante il numero di individui affetti da malattie infettive croniche soprattutto correlate alla tossicodipendenza ed alla vita «di strada»; soprattutto per i soggetti HIV – HCV positivi l’ordinamento penitenziario appare obsoleto: la vetusta possibilità di scarcerazione legata ad una grave immunodepressione stride con la realtà attuale.Le terapie che tanto hanno migliorato la sopravvivenza dei sieropositivi sono purtroppo epatotossiche e controindicano spesso la contemporanea assunzione di farmaci  per il virus dell’epatite C: la causa di morte non è dunque più per Aids conclamato, ma per cirrosi o tumore epatico. Cambia la statistica, ma non il tragico finale.

LA REALTÀ NON È
INELUTTABILE

Che dire poi dei malati di mente che, abbandonati a sé stessi, affollano le celle? La stessa legge Basaglia (più nota come «legge 180») ha dimenticato i cosiddetti «manicomi criminali», come se il matto delinquente non avesse ragion d’essere in quanto persona.
Molti sono, infine, i reclusi portatori di grave handicap motorio e poche le strutture che possano accoglierli: questi ultimi vagano allora in celle inadeguate con barriere architettoniche che rendono impossibile anche il solo lavarsi: da qui la figura del «piantone» in realtà un altro recluso di buona volontà che si presta a soddisfare le esigenze primarie quale il lavarsi il vestirsi e quant’altro. Il quadro sovra descritto meriterebbe un adeguato sforzo anche economico ma la sanità penitenziaria ad onta di una richiesta di salute sempre più accentuata si scontra con tagli di spesa ogni anno più marcati tanto che nelle piccole carceri è miracoloso raggiungere i livelli minimi di assistenza. Il medico penitenziario è allora il dottore degli ultimi , dei poveri di risorse personali ed ambientali: se la salute è definita come «completo benessere psico-fisico mentale e sociale e non soltanto assenza di malattia…» allora i nostri sforzi si scontrano con realtà ineluttabili. Ma non per questo bisogna scorarsi: presso il carcere di Torino sono presenti da anni importanti proposte che hanno importato una realtà «altra» basata sulla valorizzazione dei talenti pur in un ambiente degradato: sono i progetti Arcobaleno, Prometerno, Sestante e Sad.
È presente la comunità Arcobaleno (leggere a pagina 46) organizzata come una comunità terapeutica, pur dietro le sbarre, collegata a strutture estee dove proseguire un percorso riabilitativo lavorativo. Ai malati di Aids è dedicata la sezione «Prometerno» con un programma dedicato ed una attenta vigilanza infettivologica. La ASL 3 attraverso il progetto «Il Sestante» si occupa della osservazione e del trattamento dei pazienti psichiatrici. Importanti progetti coinvolgono poi la prevenzione delle patologie oncologiche ed infettive per le quali il carcere costituisce un fondamentale osservatore epidemiologico nazionale (il numero esponenziale di casi di TBC sta raggiungendo l’allarme sociale). Completa il quadro delle iniziative un progetto pilota sulla dipendenza patologica da sostanze denominato Sad Asl3 (dal nome della Asl competente), che ha già preso in carico centinaia di utenti (tra cui molti etilisti) soprattutto in giovane età.
Il rapporto tra sanità penitenziaria ed utenza allora travalica il rapporto «farmaco-guarigione» ma è dettato dall’incontro. E l’incontro può avvenire solo se si riconoscono queste dinamiche, ponendo l’attenzione su quanto accade qui e adesso nel dialogo, al di là delle differenze culturali, e portando alla consapevolezza quanto avviene in modo implicito nel percorso parallelo di cura, per superare gli inevitabili momenti di stallo.

«ERO IN CATENE, MA NON MI AVETE ACCOLTO»

Dal Discorso della montagna discendono i temi della salvezza citati nel vangelo di Luca. «Andate, maledetti, nella dannazione, perché ero affamato e non mi avete dato da mangiare, ero assetato e non mi avete dato da bere, ero ignudo e non mi avete rivestito, ero ammalato e non mi avete curato, ero carcerato e non mi avete visitato».
Ovvero: ero carcerato e non mi avete accolto, ero in catene e mi avete rifiutato. Ma altre domande sono senza risposta: accolto dove?, accolto come?. Questa dovrebbe essere la questione aperta, l’oggetto del nostro interrogarci, cioè quali sono le alternative concrete e possibili all’istituzione carceraria. 

Di Maria Letizia Primo

Maria Letizia Primo




L’università entra in carcere

Alla Casa circondariale di Torino

Viene spesso definito «scuola di crimine». L’esperienza in carcere dell’Università di Torino dimostra che è possibile uscire da questo vicolo cieco. Chi ha deviato potrà tornare nella società più consapevole e più preparato. E il tempo della pena non sarà stato tempo perso.

Il Polo universitario per studenti detenuti presso la Casa circondariale «Le Vallette» (dal 2003 «Lorusso-Cutugno») è nato da un Protocollo d’intesa del 27 luglio 1998 stipulato fra l’Università di Torino, il Tribunale di sorveglianza, il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria di Torino e la direzione della Casa circondariale. Con il Polo universitario si offre la possibilità a un certo numero di studenti provenienti dalle carceri di tutta l’Italia (alle quali viene inviato il bando per l’ammissione al Polo universitario) e in possesso di diploma di istruzione secondaria, di iscriversi all’Università di Torino o di continuare gli studi se già iscritti in altre sedi.
Il Polo universitario trova le sue premesse nell’attività di volontariato compiuta in passato da alcuni docenti della Facoltà di scienze politiche, che si recavano nelle carceri del Piemonte per fare attività di tutorato e per far sostenere gli esami agli studenti carcerati, che negli anni ’80 e nei primi anni ’90 erano prevalentemente detenuti «politici». Questa attività didattica era stata accompagnata da una ricerca – teorica e sul campo – svolta da docenti e da detenuti, col supporto delle autorità carcerarie, e aveva portato alla pubblicazione di un volume di vari autori curato da Luigi Berzano, «La pena del non lavoro» (Franco Angeli, Milano 1994).
L’iniziativa di un intervento di sostegno alle attività di risocializzazione dei detenuti è stata quindi ripresa nel 1997 su iniziativa di alcuni docenti della Facoltà che già avevano partecipato alla precedente esperienza (1).
Il progetto del Polo è sostenuto dalla Compagnia di San Paolo, la quale finanzia il pagamento della prima rata delle tasse universitarie degli studenti (mentre per la seconda rata sono esonerati dall’Università), l’acquisto dei testi e del materiale didattico, e il contratto di una persona per il cornordinamento della didattica. L’Ufficio Pio della Compagnia di San Paolo, in collaborazione con il comune di Torino, mette a disposizione borse-lavoro per gli studenti che sono in regime di semilibertà per permettere loro di frequentare le lezioni all’Università, di studiare e di lavorare e di iniziare così un percorso di reinserimento sociale.
La sezione del Polo universitario (padiglione B) è composta da 22 celle singole, aperte dalle 7 alle 21 per permettere agli studenti di seguire le lezioni e di studiare insieme; di un’aula dove si tengono le lezioni, e di due aulette per i colloqui; un’aula con i computer e la biblioteca con i testi relativi alle materie d’esame.
Le due Facoltà organizzano ogni anno i corsi relativi ai piani di studio previsti: i docenti e i ricercatori (tutti volontari) svolgono le lezioni (in media 10, ognuna di circa 3 ore) direttamente nella sezione, dove si sostengono anche gli esami. Sono attualmente impegnati circa 40 docenti afferenti alle due Facoltà, affiancati da altrettanti assistenti e collaboratori e da un tutor che si occupa del cornordinamento organizzativo e didattico. I corsi di laurea attivati sono: corso di laurea triennale in scienze politiche; corso di laurea triennale in scienze giuridiche; un corso di laurea specialistica in scienze politiche; un corso di laurea magistrale in giurisprudenza (2).
Il numero ridottissimo delle detenute (e in genere la brevità della loro pena) non consentono l’istituzione del Polo femminile, ma per l’unica donna (la seconda) iscritta alla Facoltà di giurisprudenza del Polo, e che non può seguire le lezioni nella sezione maschile, i docenti svolgono attività di tutorato nella sezione femminile della Casa circondariale. Gli studenti sono attualmente 16, dei quali 13 italiani e 3 stranieri (dal 1998 gli iscritti sono stati circa 70). A questi si aggiungono altri 4 studenti iscritti al Polo, ma non presenti in sezione.
I laureati finora sono stati 11, di cui 9 in scienze politiche (uno con il vecchio ordinamento); 2 in giurisprudenza (entrambi vecchio ordinamento). Uno degli studenti, laureatosi in scienze politiche con 110 e lode ha vinto il Premio Optime istituito dall’Unione Industriale e ha ottenuto un permesso speciale per andarlo a ritirare.
Le motivazioni che hanno spinto l’Università ad interessarsi del carcere sono di carattere sociale e civile da un lato, in quanto si ritiene che il carcere sia un luogo di ricupero, riabilitazione e reinserimento sociale; scientifico e didattico dall’altro (Dora Marucco in Convegno Carcere e società, pp.49-51).
L’istituzione del Polo risponde all’esigenza di garantire a tutti  il diritto allo studio (sancito dalla Costituzione), anche ai livelli più elevati, in qualsiasi condizione della loro esistenza, purché sussistano le premesse per aspirarvi. L’Università, che svolge un compito di formazione e di cultura nei confronti dell’intera società, si impegna affinché i detenuti iscritti alle due Facoltà possano effettivamente studiare, completando il loro iter scolastico. L’attività didattica rivolta agli studenti detenuti parte dalla consapevolezza che tutte le istituzioni, nel momento stesso in cui ha inizio l’espiazione della pena, devono operare per far sì che chi affronta questa dolorosa esperienza non sia isolato e separato dalla società in cui dovrà rientrare.
Tutti i docenti che collaborano a questa iniziativa sono convinti, inoltre, che la cultura è libertà, impegno, fatica che richiede senso del dovere, momento di dialogo, e che la crescita culturale sia un patrimonio sociale da incrementare a beneficio di tutti; il possesso di maggiori capacità critiche favorisce certamente una collocazione più consapevole all’interno della società, con cognizione dei diritti e dei doveri e senso di responsabilità nei confronti dei cittadini e delle istituzioni.
Se tutto ciò ha un peso nel processo di risocializzazione del detenuto, lo ha anche per l’interesse scientifico che l’Università esprime verso ogni forma di manifestazione umana e nei confronti degli ordinamenti e delle istituzioni che la società appronta per governare i comportamenti. Sul piano didattico per l’Università il Polo è una sfida continua a creare e a sperimentare metodi di insegnamento diversi (rivolti a studenti lontani dalle sedi universitarie), a realizzare una preparazione culturale in condizioni sottoposte a costanti mutamenti e tenendo conto del fatto che gli studenti sono eterogenei sia per età, cultura, lingua, diversità delle esperienze di vita, sia per la distanza temporale dalle esperienze di studio precedenti.
Claudio Sarzotti ha messo in evidenza (Carcere e società, pag.100) che l’esperienza del Polo è utile non solo per gli studenti detenuti ma anche in direzione opposta, poiché ha segnato una maggior sensibilità da parte dell’Università ai problemi del carcere e al ruolo che essa deve svolgere nei confronti dei cittadini che stanno pagando il loro debito con la società. Questa iniziativa è utile anche per molti docenti che, con il loro bagaglio di inevitabili pregiudizi, si sono recati in carcere e si sono forse sorpresi del mondo che vi hanno trovato. Si impara molto di più a riguardo della pena e della giustizia dall’impatto emotivo che si subisce entrando in un carcere che dalla lettura di tanti libri. Quanti luoghi comuni sul carcere vengono sfatati appena si faccia esperienza, anche sommaria della realtà materiale di un istituto penitenziario, dei vincoli, condizionamenti, impedimenti, regolamentazione dei tempi…, quelli che l’ex direttore della Casa circondariale Lorusso-Cutugno, Pietro Buffa, ha definito i «supplementi di pena», cioè i riti, le mortificazioni, le situazioni frustranti a cui sono sottoposti i detenuti (3).

UN’ESPERIENZA
CHE NASCE DALLA STORIA

Anche se esistono Poli universitari in altre carceri, quello di Torino è l’unico nel contesto italiano in cui i docenti tengono i corsi, esaminano gli studenti, organizzano le commissioni per la discussione delle tesi di laurea all’interno della struttura carceraria.
Forse si può spiegare come mai è sorta proprio a Torino l’esperienza del Polo universitario se si richiamano alla memoria due precedenti illustri, contemporanei della notevole  attività di assistenza e di conforto dei carcerati e dei condannati a morte svolta da San Giuseppe Cafasso.
Nel 1833 Carlo Alberto, che intendeva mutare la funzione del carcere da semplice luogo di reclusione e di pena in un’istituzione tesa alla rieducazione civile del detenuto, aveva affidato a Cesare Alfieri di Sostegno e a Cesare Balbo l’incarico di proporre uno schema di riforme e di miglioramento da introdursi nelle carceri. Insieme elaborarono, dopo aver condotto frequenti visite alle varie strutture carcerarie, un progetto per la costruzione di una prigione modello capace di contenere 400 detenuti, che avrebbe dovuto rispondere a requisiti di sicurezza, igiene e solidità. Il progetto fu poi abbandonato, ma ripreso da Vittorio Emanuele II con l’edificazione del carcere «Le Nuove» nel 1869.
Ben più efficace, concreta e modea era stata già nel 1821 l’attività di Giulia di Barolo in favore delle carcerate. Non potendo, durante le sue visite, parlare apertamente con le detenute, perché era obbligatoria la presenza del custode, Giulia di Barolo ottenne di farsi chiudere a chiave in cella come se fosse anch’essa prigioniera, per conoscere più a fondo le condizioni di vita delle carcerate e i loro problemi. Fra i molti risultati da lei ottenuti vale la pena poi ricordare che si adoperò personalmente perché venissero istituite carceri solamente femminili, organizzò corsi di alfabetizzazione e foì i mezzi perché le detenute avessero un’occupazione retribuita. Giulia scrisse, nelle sue Memorie sulle carceri, che la detenzione non deve essere soltanto punitiva ma anche rieducativa, che «mai l’orrore del crimine faccia trattare con disprezzo il criminale».
Non vorrei che il confronto sembrasse improprio o presuntuoso, ma non c’è dubbio che vi è una grande differenza, anche a livello culturale e formativo, tra il permettere ai detenuti di essere iscritti all’Università e di sostenere gli esami nelle sedi universitarie, come avviene in altre carceri italiane, o invece recarsi in carcere e seguire direttamente e in modo continuativo la formazione degli studenti, anche attraverso il dialogo e la conoscenza personale. È per questa ragione che tutti coloro che sono coinvolti in questa esperienza credono fermamente di poter realizzare quel percorso che gli studenti detenuti, in un documento presentato alcuni anni fa, avevano dichiarato di voler seguire: detenuto; detenuto-studente; studente-detenuto; libero-laureato.
Alcuni risultati, pur tra molte difficoltà, li abbiamo già ottenuti con 10 laureati e il reinserimento di alcuni nella società e nel mondo del lavoro.

«C’È QUALCUNO
CHE TI ASCOLTA»

«Il Polo universitario – hanno scritto alcuni studenti carcerati -, prima di essere una sezione all’interno di un carcere, è un gruppo di persone. Tra queste persone ci sono studenti, professori universitari, volontari, scrittori, artisti, giornalisti, educatori, direttori, pochi agenti penitenziari, mi piacerebbe pensare per assurdo che non ci sono detenuti. Perché il progetto Polo universitario permette alla cultura di entrare in carcere quotidianamente, di aprire le porte. Cultura significa libertà, comunicazione soprattutto, analisi critica. La comunicazione è la sacra scintilla che si trasmette da uomo a uomo, essa è l’essenza della libertà… Il Polo universitario permette al detenuto di spogliarsi dell’etichetta che gli hanno affibbiato, e al di là della maschera ritrovarsi, come persona, libera di parlare.
Cultura non significa stare sui libri dalla mattina alla sera. Essa ha bisogno di spazio, d’incontro, di confronto, di attività. E il Polo universitario svolge un ruolo attivo e allo stesso tempo difficile in questo senso. Al suo interno le persone s’incontrano al di là dei muri e delle finestre a sbarre e dei 14 cancelli che dividono le persone di dentro dalle persone di fuori. Si creano così le basi per imparare e mettere in pratica valori come l’amicizia e la solidarietà, valori importanti per rompere lo stato di costante isolamento a cui è sottoposto un individuo detenuto. Ma la cosa più bella della sezione Polo universitario è che lì qualcuno, qualsiasi cosa tu dica, ti sta ad ascoltare, indipendentemente dal reato, dal passato, dalla posizione sociale e da ogni altra sovrastruttura che maschera.
Come sezione all’interno del carcere, il Polo consente ai detenuti di migliorare non solo le proprie condizioni di vita ma altresì la propria considerazione di sé. La maggior parte delle persone ospitate sono state condannate a pene di reclusione della durata di alcuni anni, e la possibilità di usufruire di celle singole e di computer, l’opportunità di incontrare quasi ogni giorno professori universitari, dottorandi, i ragazzi del servizio civile, nonché l’eventualità di conseguire una laurea, sono senz’altro il migliore stimolo per non buttare via il tempo della pena. Oltre ai corsi di laurea in scienze politiche e in giurisprudenza, si svolgono incontri con musicisti, scrittori, giornalisti, attori di teatro, che sono occasione di confronto fra storie personali profondamente diverse e che consentono di sviluppare un senso di autocritica, necessario per la vita al di là delle sbarre».

RICORDANDO
CESARE BECCARIA

La Costituzione parla di rieducazione all’interno del carcere. Ma il carcere è una struttura totale, che allontana la persona dalla propria famiglia, dai propri amici, dalla sicurezza della vita quotidiana, da quelle piccole cose come l’essere chiamato per nome. Impedire all’individuo di prendere decisioni sull’organizzazione della propria vita, sorvegliarlo costantemente e costringerlo ad abituarsi a uno stile di vita coatto, non significa rieducare ma «prigionizzare». E la prigione, si sa, è una «scuola del crimine».
Foucault ha scritto che «la prigione è la vendetta della società contro la giustizia». Noi diciamo che il Polo universitario, così come ogni altro serio progetto in grado di aprire le porte del carcere e le menti dei detenuti, è la vendetta della cultura contro l’ingiustizia, o addirittura contro la prigione.
Per concludere vorrei nuovamente sottolineare, con le parole di Gian Mario Bravo, che il Polo universitario per studenti detenuti apre il carcere all’esterno, crea un contatto con la società, nella convinzione che chi ha deviato debba ritornare in essa più consapevole, più preparato ad affrontae i rischi, dotato di qualche strumento in più. Per questo motivo apporta un contributo, forse non elevato da un punto di vista numerico, ma sicuramente significativo per l’impatto con la società civile, per il recupero, la riabilitazione, la risocializzazione di persone che in qualche modo hanno «sbagliato» ma non per questo devono vedere sminuiti i loro diritti di uomini e cancellate le loro potenziali capacità intellettuali. Il Polo dunque porta un contributo affinché il mondo del carcere, in un settore di decisiva rilevanza quale è quello della formazione, dell’educazione e qualificazione permanenti, possa venir visto non solo in funzione della pena, ma anche e soprattutto per la riabilitazione, come già sostenne più di due secoli fa Cesare Beccaria. 

Di Maria Teresa Pichetto

Maria Teresa Pichetto




Un paese senza giustizia

La crisi del sistema giuridico-penale

Non esiste la «certezza della pena»: il 93 per cento dei reati rimane impunito. Chi è in carcere appartiene a due sole categorie: quella dei tossicodipendenti e quella degli extracomunitari. Le strutture detentive (sovraffollate e inadeguate) non rieducano. E la società sembra più interessata all’emergenza (si pensi allo slogan della «tolleranza zero») che alla soluzione dei problemi.

Attualmente in Italia i temi inerenti la giustizia non solo sono caratterizzati da una complessità intricata, ma sono segnati da una crisi evidente profonda e di difficile soluzione.
Prima di tutto esiste una frattura sempre più divaricata tra morale, giustizia e prassi o, per specificarla in altri termini, una frattura tra valori, diritti, doveri, norme e usi.
Esiste, inoltre, nell’amministrazione della giustizia una discordanza notevole tra le concezioni teoriche, le norme comminate e ratificate, la loro applicazione e le pene effettivamente irrogate e vissute; in altri termini tra le pene teorizzate, comminate e esistenzialmente sofferte esiste un divario iperbolico e spropositato.
La percentuale di autori di reato condannati segnala lo sconcertante dato del 7%: se il 93% dei reati complessivamente resta impunito ogni riferimento alla certezza della pena e al suo potere di intimidazione assume una valutazione paradossale e piuttosto eccentrica.
La concezione retributiva della pena risulta compromessa non tanto per giustificate considerazioni psicologiche e soggettive, quanto per il disorientamento e la confusione ingenerati dalla pletora di norme che prevedono la pena detentiva (circa 35.000) e dalla adozione di sanzioni stabilite per tacitare risposte dettate dall’emergenza.
Le vittime, considerate finora come epifenomeno del reato (M. Bouchard), costituiscono pretesto occasionale da utilizzare a sostegno di mozioni per proporre la «tolleranza zero», campagne di «profilassi sociale», di aggravamento delle pene, di abbassamento dell’età cronologica e dell’inizio della responsabilità penale dei minorenni autori di reato. Durante il processo, e anche dopo, le vittime sono accreditate come «parte lesa e parte offesa» del reato senza essere riconosciute in sé indipendentemente e ontologicamente come persone.
Gli autori di reato condannati tipologicamente sono rappresentati dagli extracomunitari o neocomunitari (49% in Piemonte) e dai tossicodipendenti (34% in Piemonte). Più dell’80% delle persone detenute risentono dell’incidenza di fattori strutturali.

L’EVOLUZIONE DEL REATO
E L’INDULTO

Il reato con le sue implicazioni, come ogni altro fatto sociale, è attualmente in continuo e veloce divenire: di fronte ai cambiamenti così rapidi anche le modalità di analisi e interpretazione ancorate alle passate teorizzazioni risultano superate dalla realtà effettuale, come, ad esempio, la spiegazione dei reati contro il patrimonio (furti, rapine, scippi, appropriazioni indebite, …) connessi al disagio economico dell’autore del reato. Nella spiegazione delle cause la ricerca è condotta sul passato («la causa precede e produce l’effetto»): da qualche tempo assume importanza nell’interpretazione la mancanza di futuro e prospettive, introducendo nell’analisi la convinzione che il reato più che nel passato trova la sua motivazione nella problematicità del futuro.
Talvolta l’analisi è pregiudiziale e marcata da «indesiderabili differenze», riscontrabili come stigmi visibili nell’asociale e nell’antisociale. Il giudizio del passato diventa pregiudizio esistenziale che predetermina il futuro e consolida la contrapposizione in termini duali.
L’indulto (provvedimento di clemenza adottato recentemente dallo Stato e giustificato per ridurre il sovraffollamento nelle carceri ritenuto intollerabile rispetto alla capienza) ha determinato la scarcerazione di 26.731 detenuti (16.460 italiani e 10.271 stranieri) ma è stato giudicato in realtà non solo inefficace perché completamente estemporaneo ed estraneo ad una concertata programmazione e pianificazione di opportunità concrete, sufficienti, coerenti, fruibili ma anche controproducente, perché l’opinione pubblica l’ha recepito come rinuncia da parte dello Stato a garantire la certezza dell’esecuzione della pena, perché i beneficiari dell’indulto sono stati collocati nelle stesse condizioni nelle quali si trovavano quando avevano commesso il precedente reato, perché i beneficiari non hanno fatto nulla per rendersene meritevoli.

IL DETENUTO:
FUORI DALLA SOCIETÀ?

Che senso ha la pena detentiva nella nostra società?
Intanto la pena deve essere la risposta istituzionale al comportamento creato accertato; deve essere l’ultima ratio alla quale si fa ricorso, adoperando ogni mezzo per riuscire ad intercettare i segni precursori e indicatori dello stato di disagio e di devianza per interpretarli e per predisporre risposte attinenti, praticabili, immediate, concrete prima che il comportamento acquisisca la caratterizzazione di antisocialità e di violazione della legge.
Durante la pena da parte delle Istituzioni, della società non deve essere espresso un mandato di delega ampia o addirittura di rinuncia a continuare a prendersi carico della persona in carcere. Il detenuto, anche quando è affidato all’Istituzione penitenziaria perché sia «controllato, privato della libertà e rieducato», continua a far parte della società e la dialettica tra individuo e società non solo non deve interrompersi, ma deve diventare più continua e intensa perché il processo di formazione e di educazione possa essere attivato e realizzato.
La pena detentiva è di fatto una parentesi più o meno lunga della vita della persona: prima e dopo la carcerazione la persona è inserita nel proprio contesto familiare, lavorativo, sociale; tra il prima e il dopo più che una cesura, deve esserci un collegamento mettendo in moto un’azione per il recupero del passato che risulta ancora positivo e costruttivo per la realizzazione del progetto di vita futura.
La condanna e la pena (inclusa la detenzione) sono necessarie ma debbono essere giuste: necessarie per la società, per la vittima, per l’autore del reato; giuste perché la pena non può essere contro la persona in quanto ne rispetta la dignità ed è occasione per mettere in moto azioni contestuali (soggettive e socio-ambientali).
La pena costituisce un patrimonio conoscitivo ed esperienziale utilizzabile come fattore di prevenzione secondaria per se stessi in quanto autori di reato e come prevenzione primaria per gli altri perché le esperienze esistenzialmente sono individuali ma conoscitivamente sono universali, trasferibili, condivisibili.
La pena non deve essere un tempo vuoto e insignificante ma una esperienza per ricomprendere e rimodulare il passato e per elaborare un progetto di ricollocazione nel contesto esterno al carcere e di riproposizione di ruoli (familiare, genitoriale, sociale, lavorativo,…). Non è superfluo ribadire che per i detenuti, come per ognuno di noi, il presupposto per riuscire nella realizzazione di un progetto è costituito dalla combinazione simultanea e contestuale di condizioni soggettive o individuali e di condizioni oggettive o socio-ambientali.
Anche in merito a questo tema la bioetica e l’etica, secondo l’approccio del personalismo, offrono spunti di riflessione attinenti perché esse dichiarano e assicurano che dal concepimento alla morte l’essere umano ontologicamente ed essenzialmente è persona e mantiene la sua dignità, unità, identità e continuità di persona non solo se è genio, eroe, santo ma anche se è autore di reato.
L’ordinamento penitenziario, art.1, afferma che «il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona».
Tuttavia le affermazioni di principio possono restare solo mere enunciazioni quando tra la funzione (gestione, controllo, trattamento durante la pena) e la persona (dell’operatore, dell’utente, del detenuto) non esiste una correlazione stretta e dinamica.

CARCERE: NON-LUOGO, NON-SPAZIO, NON-RELAZIONE

Il carcere è un non-luogo, non-spazio, non-relazione dove si sperimenta «l’etnologia della solitudine» (M. Augè) e dell’individualismo: non conviene fidarsi di alcuno e si teme che l’operatore (educatore, assistente sociale, psicologo) tenti di accreditare un profilo che possa danneggiare il detenuto.
La pena è una dimensione di assenza di tempo non solo perché si sperimenta il vuoto, ma perché si vanifica facilmente la prospettiva del tempo-risorsa e del tempo-meta: la pena detentiva può diventare un contenitore di azioni e reazioni senza senso formativo.
Il lavoro, che pure costituisce l’elemento più concreto del trattamento penitenziario, è di fatto una chimera perché al massimo riesce a coinvolgere il 15-18% dei detenuti, impegnati peraltro generalmente in lavori scarsamente qualificati e nei lavori cosiddetti domestici negli Istituti.
La contrapposizione tra esclusi ed inclusi si consolida nel pregiudizio fino a stravolgere il principio costituzionale e ad esprimersi nella presunzione di colpevolezza.
La rinuncia a trovare e a rinforzare ponti di comunicazione e di relazione tra inclusi ed esclusi si riflette anche in carcere fino ad interiorizzarsi come disagio esistenziale che esplode con reazioni psicosomatiche, autolesionistiche, tentativi di suicidio.
Si constata scarsa attenzione e disponibilità da parte di enti pubblici a programmare iniziative e interventi rivolti alla prevenzione, all’educazione alla legalità, al contrasto di comportamenti devianti e criminali.
Dedicare tempo e risorse alla prevenzione è estremamente utile non solo per apprendere dalle esperienze degli altri (detenuto, tossicodipendente, clandestino, vittima di reati, …) ed evitare possibili ed analoghe conseguenze, ma anche perché nei processi di inclusione o integrazione devono esserci persone disponibili a relazionarsi, ad accogliere, a promuovere la cultura del dialogo e dell’interazione.
Il carcere certifica lo stato di svantaggio sociale e di persona svantaggiata quando ormai la persona è giunta al capolinea: un intervento promosso e pianificato prima sarebbe meno oneroso, più efficace e socialmente più utile.
Lo stato e gli enti pubblici locali concedono delega ampia riproponendo una concezione carcero-centrica secondo la quale è l’Istituzione penitenziaria che conosce e si occupa dei problemi del carcere e, pertanto, ha titolo di programmare e utilizzare gli interventi, i contenuti e la metodologia più funzionali per il trattamento dei detenuti. In realtà non esistono nei processi pedagogici e formativi posizioni di monopolio; e, inoltre, la formazione è un processo che dura tutta la vita, la quale è più lunga della parentesi esistenziale vissuta in carcere.
Per attivare percorsi di (re)inserimento lavorativo di detenuti si valutino contestualmente i requisiti giuridici e i requisiti professionali: se si tratta di inserimento lavorativo, non si può prescindere dal presupposto che la persona detenuta possegga la competenza professionale, le abilità sociali e le motivazioni individuali a svolgere le mansioni lavorative richieste.

SE IL CARCERE:
È UN CONTENITORE

Usare il carcere come un contenitore nel quale collocare tipologie di persone con bisogni e domande diverse significa creare i presupposti per la deriva della giustizia.
I reati, i processi, le condanne attirano l’attenzione dei media che da qualche anno dedicano risorse, tempo, mezzi ed impegnano operatori in modo sconveniente per istituire processi paralleli negli studi televisivi anticipando il dibattimento nelle aule dei tribunali.
In queste messinscene il risultato che si ottiene è davvero mortificante perché ingenera confusione, inquietudine, impossibilità di acquisire conoscenza e di avere consapevolezza per riflettere sulle questioni fondamentali che caratterizzano il comportamento-reato.
Da alcuni anni si continua a ridurre il budget per il funzionamento delle attività collegate al sistema della giustizia con l’intento dichiarato di contenere le spese. Questa tendenza, a conti fatti, diventa, però, più onerosa per i costi umani e sociali conseguenti ai reati commessi e perché limita le risposte alle pressioni dell’emergenza e non piuttosto ad una seria e ponderata progettualità che programmi e pianifichi interventi mirati. 

di Antonio de Salvia

Antonio de Salvia




Dov’è finito «Il principio della legalità»?

Reati e disvalori: com’è cambiata la società

Voltaire valutava il grado di civiltà di una nazione dalle sue galere. Indubbiamente il sistema giustizia (nella teoria e nella pratica) è una buona cartina di tornasole di un paese e dei suoi abitanti. Tuttavia, non basta. Per esempio, nel tempo è cambiato il sentire dei cittadini italiani nei confronti di alcuni reati. Un cambiamento, ma non per il meglio…

Parlando di giustizia penale, mi ritorna in mente la frase rivolta da Voltaire a chi, accompagnandolo in visita in un Paese per lui straniero, gli rammostrava le bellezze artistiche: «Non dirmi degli archi, dimmi delle galere».
Credo di non esprimere un pensiero particolarmente originale se a mia volta dico che il tipo di sistema giustizia, in particolare penale, adottato nella teoria (i codici) ma soprattutto praticato (le aule di Tribunale, le celle del carcere) rappresenti una delle cartine di tornasole più significative della natura di una nazione e dello spirito di coloro che lo abitano (1). Ciò detto, entriamo in media re.
Ed al proposito confesso che è con grande imbarazzo che mi accingo a parlare dell’esperienza che vive colui/colei il quale/la quale viene indagato/a – imputato/a in un procedimento penale e financo finisce in carcere.
Imbarazzo che mi deriva dal fatto che si tratta di accadimento che non ho vissuto in prima persona.
Per cui potrei dunque solo riportare quella parte di impressioni, sensazioni, emozioni e sentimenti che ho tratto affiancando, nel mio mestiere di avvocato penalista, la persona che viveva e vive invece direttamente sulla propria pelle questa/e esperienza/e.
Anche in questo caso credo che alcune premesse si rendano peraltro necessarie.
La prima innanzitutto. Sarà forse banale ma ogni situazione ed ogni persona sono uniche ed irripetibili. Ne deriva, tra l’altro, che ogni generalizzazione rischia di essere sciocca.
Esistono una verità storica (ciò che è accaduto realmente) ed una verità processuale (quella che si forma nel corso del procedimento). Le due possono alla fine non coincidere.
L’avvocato difensore non sempre (nell’esperienza di chi scrive spesso e volentieri) viene portato a conoscenza dal suo assistito della verità storica.
Presumere che la persona sottoposta a procedimento penale sia innocente è la regola di normale civiltà (spesso tuttavia così non mi pare accada). Il processo è comunque pena,  diceva Calamandrei.
Anche in questo caso, come a proposito delle opere e degli autori, si potrebbero elencare ancora parecchi altri principi generali ed astratti (validi ovviamente dal punto di vista di chi scrive).
Non esageriamo tuttavia e vediamo invece se sia possibile, ferme le premesse di cui sopra, registrare alcune distinzioni di massima e trovare dei minimi comuni denominatori con riferimento alle vicende penali.
Una prima grande distinzione può così essere fatta, con i distinguo di cui sopra naturalmente ripeto, tra coloro i quali si trovano per la prima volta coinvolti in una vicenda penale e coloro che invece ne hanno già fatto esperienza in precedenza.

Una seconda distinzione, che mi pare di cogliere sempre più fortemente con il passare del tempo, è tra gli «onesti» (che possono anche aver sbagliato, ma che di per sé sono onesti) ed i «disonesti».
Cerco di spiegare meglio il concetto. Ho la sensazione che vi siano persone e generazioni (tra queste penso in particolare a quelle più avanti negli anni) più rispettose del principio di legalità. E che altre lo siano di meno.
Se i primi vivono di norma in senso drammatico il solo fatto di essere sottoposti ad indagine penale (quand’anche si trattasse di un fatto per niente grave e, nella peggiore delle ipotesi, risolvibile senza grandi conseguenze), i secondi assumono piuttosto un senso di fastidio nei confronti della giustizia, esprimono rivendicazioni del tipo «Sono tutte calunnie, denunciamo chi mi ha denunciato», tirano in ballo teorie complottistiche ai loro danni, negano financo l’innegabile (2).
Un’altra distinzione, di forte incidenza, è data dalla circostanza che la persona venga tratta in arresto ovvero viva il procedimento penale in libertà.
Non si dimentichi infatti, se mai ce ne fosse bisogno, che l’incarcerazione è uno dei maggiori fattori di stress (3).
 
Per concludere due considerazioni ancora. La prima: mi pare si vada tristemente diffondendo in Italia, giacché incontra terreno fertile in una mentalità sempre più diffusamente incurante del rispetto del principio di legalità, il fenomeno culturale secondo il quale vi sono reati (tra i quali alcuni considerati invece assai gravi nella maggior parte dei paesi cosiddetti civili) ritenuti pressoché privi di disvalore sociale da una parte significativa del Paese (si pensi all’evasione fiscale ma non solo) (4) (5). La seconda: il carcere si sta trasformando sempre più in luogo di discarica sociale.
Ivi trovano accoglienza persone prive di risorse economiche, culturali e famigliari; affette da malattie e da dipendenze, autrici di fatti anche di non particolare offensività ma non più sopportabili e supportabili da uno Stato sociale in grave crisi. In tale contesto, sempre più, il precetto costituzionale sulla pena, diventa lettera morta. 

Di Davide Mosso

Davide Mosso




Cinquantamila reietti della società?

Introduzione

In Italia e nel mondo la situazione carceraria vive una perenne emergenza, lasciando trasparire un’immagine opaca della nostra società e suscitando reazioni sovente contraddittorie, dettate più dall’impulso emotivo che da un’analisi attenta e ponderata del problema. Nel nostro Paese vi sono circa 50.000 detenuti, ma erano 63.000 (per 43.000 posti regolamentari) prima dell’ultimo indulto del luglio 2006, soglia che sarà comunque nuovamente presto raggiunta e superata procedendo al ritmo di 1.000 nuovi detenuti al mese.
Parlare di carcere significa tuttavia riflettere anche sul significato del reato, della pena, della colpa, significa inevitabilmente parlare di società.

Le prigioni sono nate e cresciute parallelamente con la storia dell’umanità. Strutture carcerarie con un significato simile a quello odierno si menzionano già nella Bibbia, nonché nella Grecia e nella Roma antica. Il termine prigione deriva infatti dal latino «prehensio», mentre la parola carcere deriverebbe da «carcer», recinto, inteso come luogo ove si restringe, si rinchiude e si punisce. Viene così sottolineata la sua funzione primaria che consiste nell’allontanare dalla vita attiva e separare dalla comunità quei soggetti ritenuti un pericolo per la società stessa.   
I sistemi penitenziari hanno attraversato i secoli, variando da Stato a Stato in base alla concezione della pena vigente nelle diverse legislazioni. Tuttavia, nonostante  molteplici trasformazioni e continui adeguamenti, il mondo carcerario vive ancora oggi una condizione fatta di luci e di ombre, di problemi irrisolti e forse irrisolvibili.
Un miglioramento complessivo delle condizioni di vita, della tutela dei diritti e del rispetto della dignità umana, almeno in una parte dell’Occidente, è stato indubbiamente attuato, ma nella sostanza il nucleo della vita detentiva è rimasto immodificato.

Il sovraffollamento in strutture talvolta fatiscenti,  le condizioni sanitarie precarie, l’aumento dei minori (oltre 400 nel 2006), la presenza sempre più cospicua degli stranieri (circa il 30% dei detenuti), sono soltanto alcuni dei problemi che ciclicamente trovano spazio nelle cronache. L’alto numero di suicidi, oltre mille dal 2000 al 2007, è la testimonianza tangibile e forse più eclatante di un profondo ed inespresso disagio esistenziale. A ciò si aggiungono inevitabilmente i problemi del recupero e del reinserimento nella società civile.
Al fine di trattare una tematica così complessa, in questo dossier diamo voce a coloro  che vivono quotidianamente la realtà carceraria.

di Enrico Larghero

Enrico Larghero




Per neutralizzare o per rieducare?

La necessità di ripensare il carcere e la pena

Il 70% dei condannati torna a commettere reati (la recidiva, che porta al fenomeno detto della «porta girevole») entro 5 anni dalla conclusione della detenzione. Le misure alternative, pur in crescita, vengono guardate con sospetto dall’opinione pubblica. Mentre tra i carcerati è altissimo il tasso di suicidio. Da qualunque lato lo si guardi, così com’è il sistema non funziona.

«Lei aveva sempre inteso dire che voleva aiutarmi ad aiutare me stesso, e ciò era quello che mi aspettavo e desideravo». «Aiutarmi ad aiutare me stesso», sono le parole che si leggono più volte nella storia autobiografica di Edward Bunker («Educazione di una canaglia», Einaudi). La «lei» della storia di Bunker si chiama Miss Louise Wallis, una ex diva del cinema hollywoodiano che prende a cuore l’esistenza di un giovane detenuto che si chiede se sia stato lui a dichiarare guerra alla società o se sia stata quest’ultima a volere la guerra. E, in questa dichiarazione di guerra, il carcere non rappresenta che un campo di battaglia, in cui Bunker esperisce il suo percorso iniziatico di «canaglia».

PERCHÉ IL CARCERE?

Nei 250 anni da cui esiste la prigione modea molti studiosi ed operatori sociali si sono interrogati su quale sia l’utilità sociale di tenere rinchiusi degli individui a causa dei loro reati. Ma se dovessimo rispondere alla domanda che il sociologo norvegese Thomas Mathiesen si poneva nel titolo di un suo lavoro di qualche anno fa «Perché il carcere?», forse l’unica risposta che avrebbe qualche chanches di resistere alle obiezioni degli abolizionisti, è quella che esso dovrebbe aiutare ad essere aiutati coloro che vi entrano per scontare una pena. Sull’utilità del carcere, peraltro, il dibattito pubblico sembra avere pochissimi dubbi. È dato per scontato che il carcere sia il principale, se non unico, strumento di lotta alla criminalità. Ad ogni fenomeno che produce allarme sociale, dal cybercrime ai maltrattamenti degli animali, dal doping nello sport alla violenza negli stadi, la risposta standard attraverso la quale il sistema mediatico-politico sembra poter testimoniare la propria attenzione è quella dell’introduzione di nuove fattispecie di reato con relativa appendice di sanzione detentiva.
L’ultima vicenda dell’indulto del 2006 ha evidenziato come la funzione che la nostra società implicitamente richiede alla pena detentiva è quella della mera neutralizzazione delle persone condannate. Se le carceri tornano a sentire il problema del sovraffollamento, infatti, la risposta più ovvia sembra essere quella di costruie di nuove, ignorando che gli organismi inteazionali (ad esempio, il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa presieduto dall’italiano Mauro Palma) hanno sconsigliato i governi nazionali di adottare questa soluzione perché in molti paesi le nuove carceri sono state in breve tempo riempite, riproponendo gli stessi problemi di sovraffollamento, ma in dimensioni più estese. Inoltre, considerati gli altissimi tassi di recidiva fatti registrare dalle persone condannate alla detenzione, che cosa significa auspicare un maggior uso della stessa se non legittimare la funzione meramente neutralizzativa della pena, contraddicendo il principio costituzionale (art. 27) dello scopo rieducativo della pena?
Il carcere dunque come principale risposta alla criminalità. E se questi sono i messaggi che giungono dal sistema mediatico-politico non ci si può stupire se i numeri della carcerazione crescono nuovamente. L’indulto aveva riportato la popolazione detenuta ad un livello accettabile. Nel luglio 2006 si era raggiunta la cifra record per la storia repubblicana di oltre 61mila detenuti, dopo il provvedimento clemenziale, alla fine del 2006, tale cifra si era abbassata a circa 39mila. Nel breve volgere di qualche mese, tuttavia, siamo ritornati a quote di sovraffollamento inquietanti: nel giugno 2007 siamo risaliti a quasi 44mila ed oggi abbiamo superato i 49mila, a fronte di una capienza regolamentare di poco superiore alle 43 mila unità.
Ma quanto è efficace lo strumento carcere per combattere la criminalità? I dati anche rispetto a questo aspetto sono poco confortanti. Un carcere socialmente utile dovrebbe «produrre» degli individui meno inclini a violare la legge. Come scriveva Alexis de Tocqueville più di 150 anni fa, se non per intima convinzione nel rispetto delle leggi per lo meno per timore della pena o per avere acquisito in prigione l’abitudine a rispettare la legge. Le poche ricerche accreditate (la più recente svolta proprio dal ministero della giustizia) ci dicono che quasi il 70% dei condannati torna a commettere reati entro 5 anni dalla conclusione della detenzione.
Si parla, al proposito, del cosiddetto fenomeno «porta girevole», nel senso che molti detenuti continuano ad entrare ed uscire dal carcere come seguendo la rotazione delle porte di un albergo. È sufficiente analizzare la composizione sociale della popolazione reclusa per rendersi conto che si tratta di persone la cui marginalità sociale rende altamente probabile l’esito carcerario e la recidiva. Un quarto di tale popolazione ha problemi di tossicodipendenza e/o di alcoldipendenza, oltre il 35% di essa proviene da paesi stranieri ed è in attesa, una volta scontata la pena, di essere rimpatriata perché giunta in Italia clandestinamente.

MISURE ALTERNATIVE:
VALIDE, MA IMPOPOLARI

Il carcere, secondo il nostro ordinamento giuridico, dovrebbe costituire l’extrema ratio delle modalità punitive, riservato solamente ai reati considerati più gravi. Che fine hanno fatto le forme alternative alla carcerazione introdotte con la lontana riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975? Rispetto alle misure alternative, esse risultano in aumento nel corso degli ultimi anni se pensiamo che le persone sottoposte ai vari regimi di limitazione della libertà (semilibertà, detenzione domiciliare, affidamento in prova ai servizi sociali) sono arrivate ad essere pari a quelle detenute in carcere.
L’opinione pubblica, tuttavia, è frequentemente chiamata a scandalizzarsi di casi di cronaca in cui condannati a misure alternative commettono altri reati, dimenticando peraltro che la percentuale di questi casi è bassissima e che i progetti di reinserimento sociale dei reclusi necessitano di un periodo di verifica che non può che passare attraverso forme, anche limitate, di libertà del condannato. Le ricerche dimostrano che coloro i quali hanno scontato la pena in misura alternativa fanno registrare tassi di recidiva molto più bassi rispetto a quelli degli ex detenuti (la percentuale già citata del 70% cala a poco più del 20%). La stessa cultura giuridica degli operatori del diritto stenta a considerare le pene alternative come una sanzione penale vera e propria e tende quindi a concederle con sempre maggiore riluttanza: quest’estate ha destato scalpore la rapina commessa dall’ex brigatista Piancone, mentre stava scontando la misura alternativa, benché avesse scontato la pena detentiva per la durata di 25 anni! Del resto, non si intravede una politica di potenziamento delle strutture pubbliche chiamate a svolgere le attività di reinserimento sociale.
La percentuale di personale che all’interno delle carceri è addetta al trattamento è ancora oggi estremamente ridotta rispetto a quella che si occupa della sicurezza. Mentre esiste in media più di un agente di polizia penitenziaria per ogni detenuto, ancora oggi ci sono carceri che ospitano 200/300 reclusi che dispongono dell’intervento di uno o due educatori! Lo stesso provvedimento dell’indulto è stato approvato nel periodo estivo, quasi alla chetichella e prontamente disconosciuto dalle stesse forze politiche che l’avevano approvato, senza un serio piano di reinserimento sociale e di accoglienza delle persone scarcerate con i soggetti del privato sociale operanti sul territorio. In buona sostanza, una occasione perduta per dimostrare all’opinione pubblica come il carcere possa e debba mantenere una valenza risocializzativa.

TROPPI SUICIDI NEGLI 
«ALBERGHI A 5 STELLE»

Di quando in quando emerge nell’opinione pubblica che le carceri siano «alberghi a 5 stelle». Non è proprio così, se consideriamo che gran parte dei nostri istituti penitenziari sono fatiscenti o perché vetusti, o perché nati vecchi in quanto costruiti non per il bene pubblico, ma per soddisfare interessi privati di consorterie di potere (ricordate lo scandalo delle «carceri d’oro»?). Inoltre, la maggior parte delle persone detenute sono costrette ad un ozio forzato, in quanto la possibilità di svolgere lavori all’interno del carcere è garantita per non più di un quarto della popolazione reclusa a causa di croniche carenze di finanziamenti statali e della latitanza dell’imprenditoria privata che, nonostante la retorica sul capitalismo sociale, non sembra molto propensa ad investire nel recupero delle persone che hanno sbagliato (la Corte costituzionale, infatti, ha ribadito che i detenuti non perdono i loro diritti di lavoratori…).
Un altro diritto che i detenuti non dovrebbero perdere entrando in un carcere è quello alla salute. Tuttavia, le condizioni della sanità penitenziaria non sono certo in grado di garantire tale diritto per tutte le persone recluse. La cosiddetta riforma Bindi, che ne prevedeva, dopo una fase di sperimentazione in alcune regioni, il passaggio al servizio sanitario nazionale è stata a lungo inapplicata e forse l’anno 2008 sarà quello decisivo per una sua positiva realizzazione. Nel frattempo la situazione sanitaria delle carceri si è fatta sempre più critica, appena migliorata dalla boccata di ossigeno dell’indulto, ma ben presto di nuovo sotto pressione con l’incremento dei detenuti degli ultimi mesi. Anche qui tagli ai finanziamenti pubblici, resistenze di potentati corporativi, disorganizzazione complessiva dell’amministrazione penitenziaria, riluttanza della società extra-muraria di farsi carico della questione hanno prodotto una realtà sanitaria che, soprattutto in alcune regioni, non può considerarsi a livello di un paese civile.
Ma c’è un dato del mondo carcerario che risulta ancor più inquietante: il tasso dei suicidi. Negli ultimi anni in Italia tale tasso tra i detenuti ha superato l’uno per mille abitanti, il che significa che in prigione ci si ammazza 15 volte di più che nella società dei liberi. Proprio nelle ultime settimane quattro episodi di suicidi tra gli agenti di polizia penitenziaria hanno riproposto l’attualità del tema anche nell’ambito del mondo degli operatori penitenziari. Possiamo considerarli un ennesimo esempio di morti bianche sul lavoro? Direi proprio di sì. Condizioni di sovraffollamento, stato di abbandono da parte della famiglia e degli operatori sociali, difficili rapporti con i compagni di detenzione o di lavoro, condizioni igienico-sanitarie degli stabilimenti penitenziari non idonee a costruire un ambiente di lavoro accogliente; tutte situazioni che incidono negativamente tanto sui detenuti quanto sul personale di custodia e che contribuiscono ad aumentare quella dimensione di sofferenza umana che emerge dagli istituti di pena italiani.
Jean-Pierre Faye a chi gli chiedeva una definizione di Europa rispondeva: «l’Europa è là dove non esiste la pena di morte». Affermazione ancor più significativa dopo la moratoria approvata dall’Onu proprio su istanza dei paesi europei.
Uno Stato che voglia definirsi europeo non può quindi accettare che sussistano nei propri istituti penitenziari delle condizioni che inducano suoi cittadini a privarsi di quel bene, la vita, per la protezione del quale è stato costituito lo stesso patto sociale. 

Di Claudio Sarzotti

Claudio Sarzotti