Per neutralizzare o per rieducare?
La necessità di ripensare il carcere e la pena
Il 70% dei condannati torna a commettere reati (la recidiva, che porta al fenomeno detto della «porta girevole») entro 5 anni dalla conclusione della detenzione. Le misure alternative, pur in crescita, vengono guardate con sospetto dall’opinione pubblica. Mentre tra i carcerati è altissimo il tasso di suicidio. Da qualunque lato lo si guardi, così com’è il sistema non funziona.
«Lei aveva sempre inteso dire che voleva aiutarmi ad aiutare me stesso, e ciò era quello che mi aspettavo e desideravo». «Aiutarmi ad aiutare me stesso», sono le parole che si leggono più volte nella storia autobiografica di Edward Bunker («Educazione di una canaglia», Einaudi). La «lei» della storia di Bunker si chiama Miss Louise Wallis, una ex diva del cinema hollywoodiano che prende a cuore l’esistenza di un giovane detenuto che si chiede se sia stato lui a dichiarare guerra alla società o se sia stata quest’ultima a volere la guerra. E, in questa dichiarazione di guerra, il carcere non rappresenta che un campo di battaglia, in cui Bunker esperisce il suo percorso iniziatico di «canaglia».
PERCHÉ IL CARCERE?
Nei 250 anni da cui esiste la prigione modea molti studiosi ed operatori sociali si sono interrogati su quale sia l’utilità sociale di tenere rinchiusi degli individui a causa dei loro reati. Ma se dovessimo rispondere alla domanda che il sociologo norvegese Thomas Mathiesen si poneva nel titolo di un suo lavoro di qualche anno fa «Perché il carcere?», forse l’unica risposta che avrebbe qualche chanches di resistere alle obiezioni degli abolizionisti, è quella che esso dovrebbe aiutare ad essere aiutati coloro che vi entrano per scontare una pena. Sull’utilità del carcere, peraltro, il dibattito pubblico sembra avere pochissimi dubbi. È dato per scontato che il carcere sia il principale, se non unico, strumento di lotta alla criminalità. Ad ogni fenomeno che produce allarme sociale, dal cybercrime ai maltrattamenti degli animali, dal doping nello sport alla violenza negli stadi, la risposta standard attraverso la quale il sistema mediatico-politico sembra poter testimoniare la propria attenzione è quella dell’introduzione di nuove fattispecie di reato con relativa appendice di sanzione detentiva.
L’ultima vicenda dell’indulto del 2006 ha evidenziato come la funzione che la nostra società implicitamente richiede alla pena detentiva è quella della mera neutralizzazione delle persone condannate. Se le carceri tornano a sentire il problema del sovraffollamento, infatti, la risposta più ovvia sembra essere quella di costruie di nuove, ignorando che gli organismi inteazionali (ad esempio, il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa presieduto dall’italiano Mauro Palma) hanno sconsigliato i governi nazionali di adottare questa soluzione perché in molti paesi le nuove carceri sono state in breve tempo riempite, riproponendo gli stessi problemi di sovraffollamento, ma in dimensioni più estese. Inoltre, considerati gli altissimi tassi di recidiva fatti registrare dalle persone condannate alla detenzione, che cosa significa auspicare un maggior uso della stessa se non legittimare la funzione meramente neutralizzativa della pena, contraddicendo il principio costituzionale (art. 27) dello scopo rieducativo della pena?
Il carcere dunque come principale risposta alla criminalità. E se questi sono i messaggi che giungono dal sistema mediatico-politico non ci si può stupire se i numeri della carcerazione crescono nuovamente. L’indulto aveva riportato la popolazione detenuta ad un livello accettabile. Nel luglio 2006 si era raggiunta la cifra record per la storia repubblicana di oltre 61mila detenuti, dopo il provvedimento clemenziale, alla fine del 2006, tale cifra si era abbassata a circa 39mila. Nel breve volgere di qualche mese, tuttavia, siamo ritornati a quote di sovraffollamento inquietanti: nel giugno 2007 siamo risaliti a quasi 44mila ed oggi abbiamo superato i 49mila, a fronte di una capienza regolamentare di poco superiore alle 43 mila unità.
Ma quanto è efficace lo strumento carcere per combattere la criminalità? I dati anche rispetto a questo aspetto sono poco confortanti. Un carcere socialmente utile dovrebbe «produrre» degli individui meno inclini a violare la legge. Come scriveva Alexis de Tocqueville più di 150 anni fa, se non per intima convinzione nel rispetto delle leggi per lo meno per timore della pena o per avere acquisito in prigione l’abitudine a rispettare la legge. Le poche ricerche accreditate (la più recente svolta proprio dal ministero della giustizia) ci dicono che quasi il 70% dei condannati torna a commettere reati entro 5 anni dalla conclusione della detenzione.
Si parla, al proposito, del cosiddetto fenomeno «porta girevole», nel senso che molti detenuti continuano ad entrare ed uscire dal carcere come seguendo la rotazione delle porte di un albergo. È sufficiente analizzare la composizione sociale della popolazione reclusa per rendersi conto che si tratta di persone la cui marginalità sociale rende altamente probabile l’esito carcerario e la recidiva. Un quarto di tale popolazione ha problemi di tossicodipendenza e/o di alcoldipendenza, oltre il 35% di essa proviene da paesi stranieri ed è in attesa, una volta scontata la pena, di essere rimpatriata perché giunta in Italia clandestinamente.
MISURE ALTERNATIVE:
VALIDE, MA IMPOPOLARI
Il carcere, secondo il nostro ordinamento giuridico, dovrebbe costituire l’extrema ratio delle modalità punitive, riservato solamente ai reati considerati più gravi. Che fine hanno fatto le forme alternative alla carcerazione introdotte con la lontana riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975? Rispetto alle misure alternative, esse risultano in aumento nel corso degli ultimi anni se pensiamo che le persone sottoposte ai vari regimi di limitazione della libertà (semilibertà, detenzione domiciliare, affidamento in prova ai servizi sociali) sono arrivate ad essere pari a quelle detenute in carcere.
L’opinione pubblica, tuttavia, è frequentemente chiamata a scandalizzarsi di casi di cronaca in cui condannati a misure alternative commettono altri reati, dimenticando peraltro che la percentuale di questi casi è bassissima e che i progetti di reinserimento sociale dei reclusi necessitano di un periodo di verifica che non può che passare attraverso forme, anche limitate, di libertà del condannato. Le ricerche dimostrano che coloro i quali hanno scontato la pena in misura alternativa fanno registrare tassi di recidiva molto più bassi rispetto a quelli degli ex detenuti (la percentuale già citata del 70% cala a poco più del 20%). La stessa cultura giuridica degli operatori del diritto stenta a considerare le pene alternative come una sanzione penale vera e propria e tende quindi a concederle con sempre maggiore riluttanza: quest’estate ha destato scalpore la rapina commessa dall’ex brigatista Piancone, mentre stava scontando la misura alternativa, benché avesse scontato la pena detentiva per la durata di 25 anni! Del resto, non si intravede una politica di potenziamento delle strutture pubbliche chiamate a svolgere le attività di reinserimento sociale.
La percentuale di personale che all’interno delle carceri è addetta al trattamento è ancora oggi estremamente ridotta rispetto a quella che si occupa della sicurezza. Mentre esiste in media più di un agente di polizia penitenziaria per ogni detenuto, ancora oggi ci sono carceri che ospitano 200/300 reclusi che dispongono dell’intervento di uno o due educatori! Lo stesso provvedimento dell’indulto è stato approvato nel periodo estivo, quasi alla chetichella e prontamente disconosciuto dalle stesse forze politiche che l’avevano approvato, senza un serio piano di reinserimento sociale e di accoglienza delle persone scarcerate con i soggetti del privato sociale operanti sul territorio. In buona sostanza, una occasione perduta per dimostrare all’opinione pubblica come il carcere possa e debba mantenere una valenza risocializzativa.
TROPPI SUICIDI NEGLI
«ALBERGHI A 5 STELLE»
Di quando in quando emerge nell’opinione pubblica che le carceri siano «alberghi a 5 stelle». Non è proprio così, se consideriamo che gran parte dei nostri istituti penitenziari sono fatiscenti o perché vetusti, o perché nati vecchi in quanto costruiti non per il bene pubblico, ma per soddisfare interessi privati di consorterie di potere (ricordate lo scandalo delle «carceri d’oro»?). Inoltre, la maggior parte delle persone detenute sono costrette ad un ozio forzato, in quanto la possibilità di svolgere lavori all’interno del carcere è garantita per non più di un quarto della popolazione reclusa a causa di croniche carenze di finanziamenti statali e della latitanza dell’imprenditoria privata che, nonostante la retorica sul capitalismo sociale, non sembra molto propensa ad investire nel recupero delle persone che hanno sbagliato (la Corte costituzionale, infatti, ha ribadito che i detenuti non perdono i loro diritti di lavoratori…).
Un altro diritto che i detenuti non dovrebbero perdere entrando in un carcere è quello alla salute. Tuttavia, le condizioni della sanità penitenziaria non sono certo in grado di garantire tale diritto per tutte le persone recluse. La cosiddetta riforma Bindi, che ne prevedeva, dopo una fase di sperimentazione in alcune regioni, il passaggio al servizio sanitario nazionale è stata a lungo inapplicata e forse l’anno 2008 sarà quello decisivo per una sua positiva realizzazione. Nel frattempo la situazione sanitaria delle carceri si è fatta sempre più critica, appena migliorata dalla boccata di ossigeno dell’indulto, ma ben presto di nuovo sotto pressione con l’incremento dei detenuti degli ultimi mesi. Anche qui tagli ai finanziamenti pubblici, resistenze di potentati corporativi, disorganizzazione complessiva dell’amministrazione penitenziaria, riluttanza della società extra-muraria di farsi carico della questione hanno prodotto una realtà sanitaria che, soprattutto in alcune regioni, non può considerarsi a livello di un paese civile.
Ma c’è un dato del mondo carcerario che risulta ancor più inquietante: il tasso dei suicidi. Negli ultimi anni in Italia tale tasso tra i detenuti ha superato l’uno per mille abitanti, il che significa che in prigione ci si ammazza 15 volte di più che nella società dei liberi. Proprio nelle ultime settimane quattro episodi di suicidi tra gli agenti di polizia penitenziaria hanno riproposto l’attualità del tema anche nell’ambito del mondo degli operatori penitenziari. Possiamo considerarli un ennesimo esempio di morti bianche sul lavoro? Direi proprio di sì. Condizioni di sovraffollamento, stato di abbandono da parte della famiglia e degli operatori sociali, difficili rapporti con i compagni di detenzione o di lavoro, condizioni igienico-sanitarie degli stabilimenti penitenziari non idonee a costruire un ambiente di lavoro accogliente; tutte situazioni che incidono negativamente tanto sui detenuti quanto sul personale di custodia e che contribuiscono ad aumentare quella dimensione di sofferenza umana che emerge dagli istituti di pena italiani.
Jean-Pierre Faye a chi gli chiedeva una definizione di Europa rispondeva: «l’Europa è là dove non esiste la pena di morte». Affermazione ancor più significativa dopo la moratoria approvata dall’Onu proprio su istanza dei paesi europei.
Uno Stato che voglia definirsi europeo non può quindi accettare che sussistano nei propri istituti penitenziari delle condizioni che inducano suoi cittadini a privarsi di quel bene, la vita, per la protezione del quale è stato costituito lo stesso patto sociale.
Claudio Sarzotti