«Offrirono olocausti con gioia e sacrificarono vittime di ringraziamento e di lode»
La parabola del «figliol prodigo» (18)
Il vitello dei patriarchi
Quasi tutte le volte che nella bibbia si parla dei patriarchi si aggiunge che hanno «greggi e armenti», che in ebraico suona «z’on ubaqàr», che la versione greca della Lxx traduce quasi sempre con «pròbata kài mòschoi». L’espressione indica bestiame adulto (buoi, mucche, vitelli) e minuto (pecore, capre, agnelli).
I patriarchi d’Israele possiedono «greggi e armenti» in abbondanza, perché sono sotto la benedizione di Yhwh. Possedere «greggi e armenti» è segno di potenza e dimostrazione di forza, come per Adonia fratello maggiore di Salomone (ma di diversa madre), che «immolò pecore, buoi e vitelli grassi» (1Re 1,9.19) per affermare pubblicamente la sua primogenitura nella successione al re Davide, vecchio, ma ancora vivo. Adonia si comporta come il giovane della parabola lucana: assume il regno quando il padre è ancora vivo, cioè lo uccide prima del tempo. Finirà male, ucciso per ordine di Salomone (1Re, 2,12-25).
Nel libro della Genesi in due racconti che narrano lo stesso fatto, ma in due modi diversi, troviamo presenti uno o più vitelli. Il primo (Gen 12,10-20) narra di Abramo che, giunto in Egitto, per paura di essere ucciso a motivo della bellezza di Sara sua moglie, su consiglio della stessa Sara, la fece passare per sua sorella. Di lei s’invaghì il faraone che la fece portare a corte per possederla: «Per riguardo a lei, egli trattò bene Abram, che ricevette greggi e armenti e asini» (Gen 12,16). Il secondo fatto è simile, ma questa volta è Abram a fare passare Sara per sua sorella che così, per la seconda volta, sta per finire nelle mani di un altro. Ora è il tuo di Abimèlech, re di Gerar che se ne era invaghito. Quella notte, però, intervenne il Signore, fermò l’adulterio e fece restituire Sara al legittimo marito: «Allora Abimèlech prese greggi e armenti… li diede ad Abramo e gli restituì la moglie Sara» (Gen 20,1-18, qui, v. 14). In Gen 21,27 Abramo sigilla un’alleanza con Abimèlech dandogli «greggi e armenti».
In tutti questi casi la bibbia greca della Lxx traduce il termine «armenti» con «mòschoi» (plurale): lo stesso termine che usa Lc 15,23: «mòschos» (singolare). Da ciò possiamo rilevare che il «vitello» segna in un certo senso la vita patriarcale. Ordinando ai suoi servi di «prendere il vitello», il padre della parabola lucana, si presenta come un patriarca che non ha più bisogno di nascondersi per paura, ma apre la sua casa per sigillare una gioia. Il padre continua la storia dei patriarchi, di cui la storia del figlio e del padre rappresenta una parabola e una sintesi.
Il vitello del sacrificio
Nel libro dell’esodo il «vitello» fa parte degli animali deputati al sacrificio di comunione: «Farai per me un altare di terra e, sopra, offrirai i tuoi olocausti e i tuoi sacrifici di comunione, le tue pecore e i tuoi vitelli (mòschoi)» (Es 20,24). Il vitello è il segno della presenza di Dio perché gli è offerto e lo riceve in olocausto. Nel momento in cui il fumo del sacrificio si eleva sull’altare, esso diventa lo strumento della presenza di Dio che dopo averlo ricevuto lo restituisce come alleanza.
Il padre che chiede di prendere il vitello per il ritorno del figlio perduto, entra nella logica del sacrificio di comunione e celebra l’«eucaristia», nel senso più pieno e più profondo del sacramento: ringrazia Dio facendo festa. Il padre, attraverso il vitello, reintroduce il figlio nella storia patriarcale da cui si era tagliato fuori, andando via di casa, in un paese lontano, diventando figlio impuro e spurio del suo popolo. Il vitello diventa così il segno della riammissione del figlio nella santità della vita, nel-la purità del culto, nella realtà del suo popolo.
La traduzione italiana non evidenzia la particolarità della lingua greca: il padre non chiede di prendere soltanto un vitello, ma «il vitello, il grasso», che tutti conoscono, «quello grasso, tò siteutòn», quello e non un altro. Nell’espressione «il vitello, il/quello grasso», in greco si ha una costruzione per cui il soggetto con l’articolo è seguito dall’aggettivo anch’esso con l’articolo per dargli forza ed evidenza, ma anche eleganza stilistica.
Tale costruzione serve per mettere in evidenza che si tratta del vitello noto a tutti, forse tenuto all’ingrasso con cura speciale per un sacrificio (molto probabilmente) oppure per una circostanza particolare. Nulla ci vieta di pensare che il padre lo avesse tenuto in disparte per un sacrificio di comunione per il ritorno del figlio.
Nel libro dei Giudici (6,25-35) Gedeone costruisce un nuovo altare e vi immola «un vitello grasso» per riparare il peccato di idolatria dei suoi concittadini che avevano sacrificato a Bàal: un sacrificio di purificazione (v. 28). Il vitello, quello grasso, è una spia forse per dirci che in questo modo il figlio è reintegrato nell’ortodossia che aveva rinnegato, andandosene «in un paese lontano». Nel vangelo nulla è detto per caso o a casaccio. Il figlio aveva messo in moto un processo di morte, abiura, distruzione, blasfemia; ora tutto si annulla nel segno de «il vitello, quello grasso», sacrificato per la festa della risurrezione del figlio.
Il vitello dell’accoglienza ospitale
Altri due testi famosi ci sembrano più attenenti di ogni altro con il testo lucano. Il primo racconta la visita dei tre personaggi misteriosi ad Abramo, alle querce di Mamre (Gen 18,1-15). Per dare risalto alla sua ospitalità accogliente: «All’armento corse lui stesso, Abramo, prese un vitello tenero e bello e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo» (v. 7). Il testo greco usa il termine «moschàrion», un diminutivo per dire «vitellino»; e per sottolineare la portata della scelta aggiunge due aggettivi che qualificano il vitellino come (letteralmente) «tenero e bello».
Qui il vitello è segno dell’ospitalità e accoglienza dello straniero, che nella cultura semitica è sempre il segno della Presenza di Dio. Rifiutare lo straniero è rifiutare Dio e porsi al di fuori della sua comunione. Prendendo «il vitello, quello grasso», il padre si mette sulla scia di Abramo e accoglie il figlio che torna come se accogliesse la Shekinàh di Dio. Ritorna da un paese lontano e straniero; ritorna da straniero perché aveva rinnegato il suo popolo; ora lo straniero è accolto da figlio e così il padre rende visibile la Presenza di Dio. Il Dio dei padri che il figlio aveva abbandonato, dilapidato, offeso, infangato con la sua vita di uomo «senza salvezza» (Lc 15,13), ora ritorna di nuovo nel figlio distrutto, che si presenta al padre non più come figlio, ma come servo, come straniero che chiede un salario per vivere. Il vitello non è solo lo strumento per la festa del ritorno del figlio, esso è il simbolo sacrificale di una gioia festosa perché è stata ricostituita la discendenza patriarcale e restaurata di nuovo la storia della salvezza che il figlio aveva spezzato. Il padre ritorna a essere il patriarca che riceve l’erede, mentre il figlio è il futuro che si riannoda al suo passato. Il figlio che era diventato «senza salvezza» (Lc 15,13) ora rientra a pieno titolo nella storia della salvezza patriarcale.
Il vitello dell’idolatria
Il secondo testo racconta del vitello d’oro (Es 32,1-6). La prima generazione che visse l’esperienza del deserto non esitò a lasciare il Signore durante l’assenza di Mosè che stava sul monte Sinai per ricevere la Toràh scritta e orale. Approfittando della lontananza del profeta, la folla riuscì a corrompere anche il sacerdote Aronne, che fuse l’oro raccolto tra la massa e costruì l’idolo per eccellenza, prototipo di tutte le prostituzioni future d’Israele e della chiesa: un vitello. Un vitello d’oro. In greco si usa il termine già visto: mòschos. Essi lo adorano come loro Dio e liberatore: «Ecco il tuo Dio, o Israele, colui che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto» (Es 32,4). La folla, complice il sacerdote Aronne, fece festa al nuovo Dio: «Domani sarà festa in onore del Signore. Il giorno dopo si alzarono presto, offrirono olocausti e presentarono sacrifici di comunione. Il popolo sedette per mangiare e bere» (Es 32,5-6).
In Luca, nel banchetto di festa per il figlio ritornato, il vitello non è adorato, ma ucciso; non si fa festa «davanti al» vitello, ma perché il figlio minore è tornato alla vita. Con questo banchetto, il padre della parabola reintegra il figlio sottraendolo all’idolatria del vitello dietro al quale si era perduto, prostituendosi e lo restituisce all’adorazione del Signore e Dio di Mosè, il Dio dell’alleanza del Sinai. Colui che con un solo gesto aveva rinnegato la Toràh, ora nel sacrificio del vitello annienta tutte le idolatrie passate e si apre a un futuro da dove potrà fare festa davanti al Signore Dio suo e dei suoi padri.
Il vitello dell’odio
L’espressione intera «il vitello, il/quello grasso» ricorre tre sole volte e solo in Luca ed esclusivamente nella parabola del «figliol prodigo». Della prima ce ne stiamo occupando ora; la seconda volta è in bocca ai servi, che informano il figlio maggiore del ritorno del fratello e del fatto che «tuo padre ha fatto ammazzare il vitello, quello grasso» (v. 17). In questa seconda citazione la costruzione in greco è uguale alla prima, cioè con la ripetizione dell’articolo si mette in evidenza la «singolarità» di «quel vitello».
Il figlio maggiore si arrabbia e si scoccia per il ritorno del fratello che viene a sconvolgere i suoi piani e accusa il padre con veemenza: «Per lui ha ammazzato il vitello grasso» (v. 30). In questa terza volta il testo greco cambia, non ripete più l’articolo davanti all’aggettivo. In italiano non si riesce a esprimere la differenza tra le due costruzioni: il vitello che nelle prime due citazioni precedenti era «quello e non un altro», qui, in bocca al fratello maggiore diventa «il vitello grasso», cioè un vitello qualsiasi, uno della mandria.
Al fratello maggiore da fastidio che il padre abbia preso «un» vitello per festeggiare il fratello. Anche se il padre avesse preso un pollo, o un uovo, o un dattero, per lui sarebbe stato sempre e comunque uno spreco perché il fratello non merita nulla. Il testo greco ci dice la diversità di atteggiamento interiore attraverso l’uso delle parole e per questo è importante studiare la scrittura e appropriarsi degli strumenti di lettura per cogliere anche le sfumature e non perdere il sapore della Parola che a noi giunge attraverso le parole. Per questo figlio maggiore, senza fede e senza umanità, il padre ha solo sperperato ancora una volta un pezzo del suo patrimonio per accogliere il figlio/fratello come ospite di Dio. In questo atteggiamento, il figlio maggiore è un vero ateo, un religioso praticante ateo: l’opposto del padre.
Il vitello della gioia
Il verbo greco che traduce l’ordine del padre di ammazzare «il vitello, quello grasso» è «thýō» e significa «uccido/immolo/sacrifico/offro in sacrificio» (cf Mt 22,4; At 10,13). In molti testi del NT (Mc 14,12; Lc 22,7 e 1Cor 5-7) il verbo è usato per il sacrificio dell’agnello pasquale.
Usando questo vocabolario «sacrificale» per l’uccisione de «il vitello, quello grasso», è come se Lc ci dicesse che ci troviamo di fronte a un vero e proprio «sacrificio eucaristico», perché il sacrificio è festa per la gioia ritrovata. Non a caso tutto converge verso il banchetto della festa, che è l’espressione sociale di un evento interiore e spirituale: «Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». Il banchetto celebra la risurrezione del figlio, ma anche quella del padre e quella della casa: tutti risorgono in una casa quando qualcuno si salva dal pericolo e dalla morte.
Il banchetto è lo strumento della gioia perché, a tradurre alla lettera il greco, si deve mettere insieme la contemporaneità del mangiare con il giornire: le due azioni non possono essere separate perché la festa si esprime mangiando e mangiare è (non sempre) un segno/occasione di gioia e intimità. Il verbo principale usato da Lc è «euphràinō – giornisco/faccio festa», mentre il verbo «mangiare» è usato al participio, che è un tempo secondario ed esprime contemporaneità con il verbo da cui dipende.
In tutto il NT è usato 14 volte e sempre nello stesso senso di pienezza di soddisfazione, gioia irrefrenabile. A volte la gioia vuole essere egoista, ma diventa un peccato a sua volta, come nel caso dell’uomo ricco che invita la sua anima a godere e a divertirsi perché i raccolti sono andati molto bene, mentre non sa che non farà in tempo ad assaporare la festa perché quella notte gusterà il fiele della morte (cf Lc 12,19-21). Oppure come il ricco epulone che, mentre offre «lauti banchetti», non si accorge che sulla soglia di casa sua giace Lazzaro ammalato e affamato (Lc 16,19-21). La gioia non può essere mai individuale, ma per natura deve essere condivisa, perché è contagiosa e comunitaria; solo la tristezza è narcisistica. Il ricco che non si fa carico della povertà che sta sulla soglia di casa e delle cause che la provocano, scava «un grande abisso» tra sé e il cielo (Lc 16,26).
Il vangelo della gioia
In tutte le religioni storiche il rapporto con la divinità è assicurata dalla «comunione» con le offerte sacrificali (cf Dt 27,7). È una esigenza della religione mettere in contatto offerente e ricevente, attraverso segni e simboli: il banchetto di comunione è simbolo di intimità condivisa, accetta e partecipata. In un contesto di fede, però, il banchetto è secondario, perché è solo strumentale, mentre è determinante la gioia che attraverso il banchetto si esprime. L’eucaristia è il banchetto da cui scaturisce la gioia della ecclesialità, come il ruscello dalla sorgente.
La ragione del banchetto festoso è il figlio morto/risorto, perduto/ritrovato, espressione che troveremo ancora in chiusura del capitolo (v. 32); qui ci limitiamo a sottolineare che il padre non giornisce per sé, ma il motivo della sua gioia è solo il figlio. Come il suo amore fin dall’inizio fu e resta un amore senza tornaconto, così la gioia è una gioia gratuita, che consacra il suo amore e grandezza.
Il figlio fu al centro del suo dolore e solitudine; ora è il fulcro della sua gioia. Ha dato la vita al figlio, gli ha dato la libertà al prezzo della sua morte nel cuore; lo ha reintegrato nell’eredità, dignità e condizione di figlio: ora gli da anche la gioia del suo ritorno. Il padre è l’immagine perfetta del Padre celeste, che ha creato un cielo dove «c’è più gioia per un solo peccatore che si converte che per 99 giusti che non hanno bisogno di conversione» (Lc 15,4.10).
Una parabola della gioia perfetta
Concludiamo con un aneddoto della vita dei padri del deserto. Due monaci avevano peccato gravemente. Il padre abate impose loro la stessa penitenza: andare fuori dal monastero e fare penitenza; chi avrebbe fatto la penitenza più adeguata sarebbe stato riammesso nella comunità. I due uscirono dal monastero e presero strade diverse.
Passò un anno. Un uomo macilento e lacero fece appena in tempo a suonare la campanella del monastero che cadde in terra stremato. I monaci lo raccolsero: è uno dei due fratelli tornato dalla penitenza. L’abate gli chiese cosa fosse successo ed egli narrò ciò che aveva vissuto: «Dopo un lungo peregrinare, vivendo di elemosine giunsi in un bosco dove non passava anima viva. Mi sistemai in una capanna di fortuna e mi inginocchiai davanti al Signore, dicendo: “Signore, sono un grande peccatore, e tu lo sai; per compiere la penitenza comandata dal padre abate, vivrò tutto il tempo a digiuno, mangiando solo ciò che offre il bosco e bevendo l’acqua del vicino ruscello; pregherò e mi flagellerò ogni giorno per riparare le mie colpe”. Ora al termine della mia penitenza, chiedo di essere ammesso in comunità». L’abate disse ai confratelli presenti: «Questa è grande penitenza. Sia riammesso».
Dopo qualche giorno, arrivò anche il secondo e suonò la campanella. Era fresco come una rosa, paffutello, felice e sereno, canticchiava con cuore allegro. Stupore e disprezzo nella comunità che lo accoglie. Il padre abate gli chiede: «Figlio mio, disgraziato, cosa hai fatto ancora di peggio? Come mai ti ritrovi qui e in questo stato?».
Il monaco raccontò il suo anno di penitenza, dicendo: «Padre abate, dopo lungo pellegrinare sono arrivato in un bosco da dove non passava nessuno; sono entrato in una capanna di fortuna, ho chiuso la porta, mi sono inginocchiato e ho pregato: “Signore, sono davanti a te e tu mi conosci più di quanto io conosca me stesso. Tu sai che ho peccato e non meriterei di essere considerato tuo figlio, ma so anche che sei un Dio pietoso e misericordioso, lento all’ira e grande nel perdono. Mi fido e mi affido alla tua parola e accolgo il tuo perdono come la festa più grande della mia esistenza. Per celebrare il tuo perdono e la tua infinita misericordia, trascorrerò tutto il tempo che mi resta a lodarti e ringraziarti, facendo festa e banchettando con tutto ciò che vorrai mandarmi”. Così ho fatto e ora sono qui a chiedere di essere riammesso nella comunità».
L’abate fece suonare le campane, radunò la comunità e disse: «Rallegratevi, fratelli! Oggi si è compiuto per noi un miracolo: questa non è solo grande, ma vera penitenza, perché c’è più gioia in cielo per un peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione. La vera penitenza è la gioia del perdono». Per suggellare il ritorno dei due fratelli diede ordine di fare un banchetto come si usa a pasqua. (continua 18)
Paolo Farinella