Alla Casa circondariale di Torino
Viene spesso definito «scuola di crimine». L’esperienza in carcere dell’Università di Torino dimostra che è possibile uscire da questo vicolo cieco. Chi ha deviato potrà tornare nella società più consapevole e più preparato. E il tempo della pena non sarà stato tempo perso.
Il Polo universitario per studenti detenuti presso la Casa circondariale «Le Vallette» (dal 2003 «Lorusso-Cutugno») è nato da un Protocollo d’intesa del 27 luglio 1998 stipulato fra l’Università di Torino, il Tribunale di sorveglianza, il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria di Torino e la direzione della Casa circondariale. Con il Polo universitario si offre la possibilità a un certo numero di studenti provenienti dalle carceri di tutta l’Italia (alle quali viene inviato il bando per l’ammissione al Polo universitario) e in possesso di diploma di istruzione secondaria, di iscriversi all’Università di Torino o di continuare gli studi se già iscritti in altre sedi.
Il Polo universitario trova le sue premesse nell’attività di volontariato compiuta in passato da alcuni docenti della Facoltà di scienze politiche, che si recavano nelle carceri del Piemonte per fare attività di tutorato e per far sostenere gli esami agli studenti carcerati, che negli anni ’80 e nei primi anni ’90 erano prevalentemente detenuti «politici». Questa attività didattica era stata accompagnata da una ricerca – teorica e sul campo – svolta da docenti e da detenuti, col supporto delle autorità carcerarie, e aveva portato alla pubblicazione di un volume di vari autori curato da Luigi Berzano, «La pena del non lavoro» (Franco Angeli, Milano 1994).
L’iniziativa di un intervento di sostegno alle attività di risocializzazione dei detenuti è stata quindi ripresa nel 1997 su iniziativa di alcuni docenti della Facoltà che già avevano partecipato alla precedente esperienza (1).
Il progetto del Polo è sostenuto dalla Compagnia di San Paolo, la quale finanzia il pagamento della prima rata delle tasse universitarie degli studenti (mentre per la seconda rata sono esonerati dall’Università), l’acquisto dei testi e del materiale didattico, e il contratto di una persona per il cornordinamento della didattica. L’Ufficio Pio della Compagnia di San Paolo, in collaborazione con il comune di Torino, mette a disposizione borse-lavoro per gli studenti che sono in regime di semilibertà per permettere loro di frequentare le lezioni all’Università, di studiare e di lavorare e di iniziare così un percorso di reinserimento sociale.
La sezione del Polo universitario (padiglione B) è composta da 22 celle singole, aperte dalle 7 alle 21 per permettere agli studenti di seguire le lezioni e di studiare insieme; di un’aula dove si tengono le lezioni, e di due aulette per i colloqui; un’aula con i computer e la biblioteca con i testi relativi alle materie d’esame.
Le due Facoltà organizzano ogni anno i corsi relativi ai piani di studio previsti: i docenti e i ricercatori (tutti volontari) svolgono le lezioni (in media 10, ognuna di circa 3 ore) direttamente nella sezione, dove si sostengono anche gli esami. Sono attualmente impegnati circa 40 docenti afferenti alle due Facoltà, affiancati da altrettanti assistenti e collaboratori e da un tutor che si occupa del cornordinamento organizzativo e didattico. I corsi di laurea attivati sono: corso di laurea triennale in scienze politiche; corso di laurea triennale in scienze giuridiche; un corso di laurea specialistica in scienze politiche; un corso di laurea magistrale in giurisprudenza (2).
Il numero ridottissimo delle detenute (e in genere la brevità della loro pena) non consentono l’istituzione del Polo femminile, ma per l’unica donna (la seconda) iscritta alla Facoltà di giurisprudenza del Polo, e che non può seguire le lezioni nella sezione maschile, i docenti svolgono attività di tutorato nella sezione femminile della Casa circondariale. Gli studenti sono attualmente 16, dei quali 13 italiani e 3 stranieri (dal 1998 gli iscritti sono stati circa 70). A questi si aggiungono altri 4 studenti iscritti al Polo, ma non presenti in sezione.
I laureati finora sono stati 11, di cui 9 in scienze politiche (uno con il vecchio ordinamento); 2 in giurisprudenza (entrambi vecchio ordinamento). Uno degli studenti, laureatosi in scienze politiche con 110 e lode ha vinto il Premio Optime istituito dall’Unione Industriale e ha ottenuto un permesso speciale per andarlo a ritirare.
Le motivazioni che hanno spinto l’Università ad interessarsi del carcere sono di carattere sociale e civile da un lato, in quanto si ritiene che il carcere sia un luogo di ricupero, riabilitazione e reinserimento sociale; scientifico e didattico dall’altro (Dora Marucco in Convegno Carcere e società, pp.49-51).
L’istituzione del Polo risponde all’esigenza di garantire a tutti il diritto allo studio (sancito dalla Costituzione), anche ai livelli più elevati, in qualsiasi condizione della loro esistenza, purché sussistano le premesse per aspirarvi. L’Università, che svolge un compito di formazione e di cultura nei confronti dell’intera società, si impegna affinché i detenuti iscritti alle due Facoltà possano effettivamente studiare, completando il loro iter scolastico. L’attività didattica rivolta agli studenti detenuti parte dalla consapevolezza che tutte le istituzioni, nel momento stesso in cui ha inizio l’espiazione della pena, devono operare per far sì che chi affronta questa dolorosa esperienza non sia isolato e separato dalla società in cui dovrà rientrare.
Tutti i docenti che collaborano a questa iniziativa sono convinti, inoltre, che la cultura è libertà, impegno, fatica che richiede senso del dovere, momento di dialogo, e che la crescita culturale sia un patrimonio sociale da incrementare a beneficio di tutti; il possesso di maggiori capacità critiche favorisce certamente una collocazione più consapevole all’interno della società, con cognizione dei diritti e dei doveri e senso di responsabilità nei confronti dei cittadini e delle istituzioni.
Se tutto ciò ha un peso nel processo di risocializzazione del detenuto, lo ha anche per l’interesse scientifico che l’Università esprime verso ogni forma di manifestazione umana e nei confronti degli ordinamenti e delle istituzioni che la società appronta per governare i comportamenti. Sul piano didattico per l’Università il Polo è una sfida continua a creare e a sperimentare metodi di insegnamento diversi (rivolti a studenti lontani dalle sedi universitarie), a realizzare una preparazione culturale in condizioni sottoposte a costanti mutamenti e tenendo conto del fatto che gli studenti sono eterogenei sia per età, cultura, lingua, diversità delle esperienze di vita, sia per la distanza temporale dalle esperienze di studio precedenti.
Claudio Sarzotti ha messo in evidenza (Carcere e società, pag.100) che l’esperienza del Polo è utile non solo per gli studenti detenuti ma anche in direzione opposta, poiché ha segnato una maggior sensibilità da parte dell’Università ai problemi del carcere e al ruolo che essa deve svolgere nei confronti dei cittadini che stanno pagando il loro debito con la società. Questa iniziativa è utile anche per molti docenti che, con il loro bagaglio di inevitabili pregiudizi, si sono recati in carcere e si sono forse sorpresi del mondo che vi hanno trovato. Si impara molto di più a riguardo della pena e della giustizia dall’impatto emotivo che si subisce entrando in un carcere che dalla lettura di tanti libri. Quanti luoghi comuni sul carcere vengono sfatati appena si faccia esperienza, anche sommaria della realtà materiale di un istituto penitenziario, dei vincoli, condizionamenti, impedimenti, regolamentazione dei tempi…, quelli che l’ex direttore della Casa circondariale Lorusso-Cutugno, Pietro Buffa, ha definito i «supplementi di pena», cioè i riti, le mortificazioni, le situazioni frustranti a cui sono sottoposti i detenuti (3).
UN’ESPERIENZA
CHE NASCE DALLA STORIA
Anche se esistono Poli universitari in altre carceri, quello di Torino è l’unico nel contesto italiano in cui i docenti tengono i corsi, esaminano gli studenti, organizzano le commissioni per la discussione delle tesi di laurea all’interno della struttura carceraria.
Forse si può spiegare come mai è sorta proprio a Torino l’esperienza del Polo universitario se si richiamano alla memoria due precedenti illustri, contemporanei della notevole attività di assistenza e di conforto dei carcerati e dei condannati a morte svolta da San Giuseppe Cafasso.
Nel 1833 Carlo Alberto, che intendeva mutare la funzione del carcere da semplice luogo di reclusione e di pena in un’istituzione tesa alla rieducazione civile del detenuto, aveva affidato a Cesare Alfieri di Sostegno e a Cesare Balbo l’incarico di proporre uno schema di riforme e di miglioramento da introdursi nelle carceri. Insieme elaborarono, dopo aver condotto frequenti visite alle varie strutture carcerarie, un progetto per la costruzione di una prigione modello capace di contenere 400 detenuti, che avrebbe dovuto rispondere a requisiti di sicurezza, igiene e solidità. Il progetto fu poi abbandonato, ma ripreso da Vittorio Emanuele II con l’edificazione del carcere «Le Nuove» nel 1869.
Ben più efficace, concreta e modea era stata già nel 1821 l’attività di Giulia di Barolo in favore delle carcerate. Non potendo, durante le sue visite, parlare apertamente con le detenute, perché era obbligatoria la presenza del custode, Giulia di Barolo ottenne di farsi chiudere a chiave in cella come se fosse anch’essa prigioniera, per conoscere più a fondo le condizioni di vita delle carcerate e i loro problemi. Fra i molti risultati da lei ottenuti vale la pena poi ricordare che si adoperò personalmente perché venissero istituite carceri solamente femminili, organizzò corsi di alfabetizzazione e foì i mezzi perché le detenute avessero un’occupazione retribuita. Giulia scrisse, nelle sue Memorie sulle carceri, che la detenzione non deve essere soltanto punitiva ma anche rieducativa, che «mai l’orrore del crimine faccia trattare con disprezzo il criminale».
Non vorrei che il confronto sembrasse improprio o presuntuoso, ma non c’è dubbio che vi è una grande differenza, anche a livello culturale e formativo, tra il permettere ai detenuti di essere iscritti all’Università e di sostenere gli esami nelle sedi universitarie, come avviene in altre carceri italiane, o invece recarsi in carcere e seguire direttamente e in modo continuativo la formazione degli studenti, anche attraverso il dialogo e la conoscenza personale. È per questa ragione che tutti coloro che sono coinvolti in questa esperienza credono fermamente di poter realizzare quel percorso che gli studenti detenuti, in un documento presentato alcuni anni fa, avevano dichiarato di voler seguire: detenuto; detenuto-studente; studente-detenuto; libero-laureato.
Alcuni risultati, pur tra molte difficoltà, li abbiamo già ottenuti con 10 laureati e il reinserimento di alcuni nella società e nel mondo del lavoro.
«C’È QUALCUNO
CHE TI ASCOLTA»
«Il Polo universitario – hanno scritto alcuni studenti carcerati -, prima di essere una sezione all’interno di un carcere, è un gruppo di persone. Tra queste persone ci sono studenti, professori universitari, volontari, scrittori, artisti, giornalisti, educatori, direttori, pochi agenti penitenziari, mi piacerebbe pensare per assurdo che non ci sono detenuti. Perché il progetto Polo universitario permette alla cultura di entrare in carcere quotidianamente, di aprire le porte. Cultura significa libertà, comunicazione soprattutto, analisi critica. La comunicazione è la sacra scintilla che si trasmette da uomo a uomo, essa è l’essenza della libertà… Il Polo universitario permette al detenuto di spogliarsi dell’etichetta che gli hanno affibbiato, e al di là della maschera ritrovarsi, come persona, libera di parlare.
Cultura non significa stare sui libri dalla mattina alla sera. Essa ha bisogno di spazio, d’incontro, di confronto, di attività. E il Polo universitario svolge un ruolo attivo e allo stesso tempo difficile in questo senso. Al suo interno le persone s’incontrano al di là dei muri e delle finestre a sbarre e dei 14 cancelli che dividono le persone di dentro dalle persone di fuori. Si creano così le basi per imparare e mettere in pratica valori come l’amicizia e la solidarietà, valori importanti per rompere lo stato di costante isolamento a cui è sottoposto un individuo detenuto. Ma la cosa più bella della sezione Polo universitario è che lì qualcuno, qualsiasi cosa tu dica, ti sta ad ascoltare, indipendentemente dal reato, dal passato, dalla posizione sociale e da ogni altra sovrastruttura che maschera.
Come sezione all’interno del carcere, il Polo consente ai detenuti di migliorare non solo le proprie condizioni di vita ma altresì la propria considerazione di sé. La maggior parte delle persone ospitate sono state condannate a pene di reclusione della durata di alcuni anni, e la possibilità di usufruire di celle singole e di computer, l’opportunità di incontrare quasi ogni giorno professori universitari, dottorandi, i ragazzi del servizio civile, nonché l’eventualità di conseguire una laurea, sono senz’altro il migliore stimolo per non buttare via il tempo della pena. Oltre ai corsi di laurea in scienze politiche e in giurisprudenza, si svolgono incontri con musicisti, scrittori, giornalisti, attori di teatro, che sono occasione di confronto fra storie personali profondamente diverse e che consentono di sviluppare un senso di autocritica, necessario per la vita al di là delle sbarre».
RICORDANDO
CESARE BECCARIA
La Costituzione parla di rieducazione all’interno del carcere. Ma il carcere è una struttura totale, che allontana la persona dalla propria famiglia, dai propri amici, dalla sicurezza della vita quotidiana, da quelle piccole cose come l’essere chiamato per nome. Impedire all’individuo di prendere decisioni sull’organizzazione della propria vita, sorvegliarlo costantemente e costringerlo ad abituarsi a uno stile di vita coatto, non significa rieducare ma «prigionizzare». E la prigione, si sa, è una «scuola del crimine».
Foucault ha scritto che «la prigione è la vendetta della società contro la giustizia». Noi diciamo che il Polo universitario, così come ogni altro serio progetto in grado di aprire le porte del carcere e le menti dei detenuti, è la vendetta della cultura contro l’ingiustizia, o addirittura contro la prigione.
Per concludere vorrei nuovamente sottolineare, con le parole di Gian Mario Bravo, che il Polo universitario per studenti detenuti apre il carcere all’esterno, crea un contatto con la società, nella convinzione che chi ha deviato debba ritornare in essa più consapevole, più preparato ad affrontae i rischi, dotato di qualche strumento in più. Per questo motivo apporta un contributo, forse non elevato da un punto di vista numerico, ma sicuramente significativo per l’impatto con la società civile, per il recupero, la riabilitazione, la risocializzazione di persone che in qualche modo hanno «sbagliato» ma non per questo devono vedere sminuiti i loro diritti di uomini e cancellate le loro potenziali capacità intellettuali. Il Polo dunque porta un contributo affinché il mondo del carcere, in un settore di decisiva rilevanza quale è quello della formazione, dell’educazione e qualificazione permanenti, possa venir visto non solo in funzione della pena, ma anche e soprattutto per la riabilitazione, come già sostenne più di due secoli fa Cesare Beccaria.
Maria Teresa Pichetto