I carcerati e la salute
In carcere, anche i rapporti tra medico e paziente sono diversi. Il detenuto non può scegliere e d’altra parte egli vede «la malattia come una risorsa», perché potrebbe aiutarlo ad uscire di prigione. Eppure qualcosa si può fare…
Il medico penitenziario è un medico «impertinente», non da intendersi quale insolente, ma come da etimologia cioè «non appartenente». Non appartiene di fatto al ministero della salute, ma a quello della giustizia, da cui il ruolo primario che gli si chiede non è il mantenimento del benessere del recluso ma una attività correlata a ragioni di sicurezza: più sono assicurate cure puntuali ed adeguate intramurarie minore sarà la necessità di trasferimento nei nosocomi cittadini, evento sempre connesso a rischio di evasioni funamboliche durante il tragitto o ad atti di violenza.
Il penitenziario infatti, applicando la teoria di Edwing Goffman (filosofo ed insegnante di sociologia), è una «istituzione totale» che serve a proteggere la società da ciò che si rivela come un pericolo intenzionale nei suoi confronti, nel qual caso il benessere delle persone segregate non risulta la finalità immediata dell’istituzione che li segrega: i reclusi sono sottoposti ad un processo di «spoliazione del sé», separati come sono dal loro ambiente originario e da ogni altro elemento costitutivo della loro identità. Anche il rapporto medico paziente non è fiduciario, in quanto il paziente detenuto non può scegliere il clinico dell’équipe da cui farsi seguire ed anzi se trasferito da una sezione di un padiglione ad un’altra, pur nella stessa sede, dovrà ogni volta instaurare un nuovo rapporto spesso conflittuale. Anche la patologia più o meno grave e manifesta assurge in questo ambiente un significato sconosciuto all’esterno: la «malattia come risorsa». Da cui la simulazione di malattia, la scarsa aderenza ai consigli medici in modo da peggiorare il corteo di sintomi ed ottenere l’ambita «incompatibilità» con il regime detentivo ovvero benefici di legge ottenuti quando l’infermità non possa essere adeguatamente curata oltre le sbarre.
ETNO-MEDICINA
ED ETNO-PSICHIATRIA
Il medico impertinente di cui sopra ha sempre presente che gli strumenti diagnostici, prognostici e terapeutici di esclusiva derivazione biologica o psicologica sono solo funzionalmente adeguati se si ignora la natura culturale dei problemi dei soggetti, siano essi individui singoli o gruppi etnici in quanto la nostra crescita, malattia, salute, moralità, devianza sono sempre connotate culturalmente e fanno parte di un sistema sociale dentro il quale l’individuo deve essere considerato.
Questo si può descrivere con la differenza che corre tra il significato dei termini «disease» e «illness» nella letteratura anglosassone: il primo indica la malattia secondo la conoscenza medica, mentre con illness si intende l’insieme di sensazioni, emozioni, pensieri e comportamenti correlati, propri della percezione soggettiva dell’essere ammalato del paziente. Nella medicina tradizionale occidentale l’attenzione è tutta concentrata sulla disease, cosicché la illness del paziente viene generalmente trascurata; così non può essere nella medicina penitenziaria. Medico e paziente devono percorrere contemporaneamente due percorsi paralleli impegnandosi entrambi a negoziare la loro relazione con l’altro all’interno del nuovo spazio interculturale, attraverso una esplorazione del loro mondo comune, in un cammino di pari dignità alla ricerca della salute, collaborando tra di loro.
L’elevata presenza di detenuti stranieri costituisce poi il vasto e complesso campo della etno-medicina ed etno-psichiatria con valenze sue proprie.
Il paziente straniero, infatti, pone il medico penitenziario di fronte ai suoi limiti – anche linguistici – se si creano impedimenti culturali specifici, ma questi può superarle traendo indicazioni sia dalle competenze del paziente, sia dalle proprie «risorse terapeutiche». Gli operatori sono come in mezzo a un guado, disposti a riformulare la propria identità professionale, permettendo ai propri parametri di divenire duttili, così da non rimanere arroccati nel sapere acquisito, né di rinunciarvi, ma capaci di aprirsi a «nuove prospettive», rispecchiandosi in qualche modo nel recluso che li ha messi più in difficoltà.
PSICOTICO, TOSSICODIPENDENTE
O DEVIANTE?
Il pluralismo culturale ed ideologico della attuale popolazione reclusa impone strategie nuove: perché in carcere sempre più frequentemente finisce oggi una popolazione che si fa fatica a definire con vecchie categorie nosografiche, così com’è difficile applicare categorie rigide nei Servizi di diagnosi e cura, nelle strade. È sempre più difficoltoso trovare un paziente che possa essere classificato come psicotico in modo pulito; è molto difficile trovare un soggetto che possa essere definito tossicodipendente; è laborioso trovare un paziente portatore di un puro disturbo di personalità; è molto raro trovare un soggetto che possa essere classificato «deviante e criminale» senza che vi siano inferenze anche di queste altre due categorie dello spirito.
Ci troviamo di fronte a quello che, con una provocazione, visto che gli acronimi vanno di moda, potrebbe definirsi un PTE, uno psico-tossi-emarginato, cioè un soggetto che ha problemi psicopatologici, assume sostanze, e che produce azioni che inevitabilmente ad un certo punto finiscono col collidere col sistema di norme della società e quindi lo portano nella zona dell’anomia e, quindi, verso i tribunali e poi verso il carcere. Le nuove droghe stanno ampiamente contribuendo al nuovo scenario a causa dei devastanti effetti a livello cerebrale: non è raro ormai constatare quadri di demenza precoce da extasy o cocaina in trentenni.
Allora, di fronte a questa visione delle cose, il carcere, così com’è, rappresenta rispetto alla devianza in un certo senso l’esatto opposto di quello che servirebbe. Laddove occorrerebbe ricostruire legami e relazioni che diano sensazioni di confidenza, di affidabilità e di progettualità, il carcere fa, per ovvie ragioni, esattamente l’opposto.
IL TRAUMA
DELLA PRIMA VOLTA
L’esperienza insegna che frequentemente provengono dalla libertà soggetti giovanissimi o anziani, tossicodipendenti, soggetti in condizioni fisiche o psichiche non buone o comunque di particolare fragilità, tutti soggetti ai quali la privazione della libertà, specie se sofferta per la prima volta, può arrecare sofferenze e traumi accentuati, tali da determinare in essi dinamiche autolesionistiche o suicide. Dunque, onde intervenire tempestivamente, è stato istituito un particolare servizio per i detenuti e gli inteati nuovi giunti dalla libertà, consistente in un presidio psicologico, che si affianca alla prima visita medica generale ed al colloquio di primo ingresso.
Altro dramma correlato è il numero impressionante di detenuti affetti da malattie croniche che hanno trasformato gli Istituti di pena dotati di centro diagnostico terapeutico (ovvero piccoli ospedali intramurari) in un vero luogo di cura: notevolissimo il numero di soggetti affetti da malattie cardiovascolari e polmonari favorite dalla mancanza assoluta di igiene di vita. Esorbitante il numero di individui affetti da malattie infettive croniche soprattutto correlate alla tossicodipendenza ed alla vita «di strada»; soprattutto per i soggetti HIV – HCV positivi l’ordinamento penitenziario appare obsoleto: la vetusta possibilità di scarcerazione legata ad una grave immunodepressione stride con la realtà attuale.Le terapie che tanto hanno migliorato la sopravvivenza dei sieropositivi sono purtroppo epatotossiche e controindicano spesso la contemporanea assunzione di farmaci per il virus dell’epatite C: la causa di morte non è dunque più per Aids conclamato, ma per cirrosi o tumore epatico. Cambia la statistica, ma non il tragico finale.
LA REALTÀ NON È
INELUTTABILE
Che dire poi dei malati di mente che, abbandonati a sé stessi, affollano le celle? La stessa legge Basaglia (più nota come «legge 180») ha dimenticato i cosiddetti «manicomi criminali», come se il matto delinquente non avesse ragion d’essere in quanto persona.
Molti sono, infine, i reclusi portatori di grave handicap motorio e poche le strutture che possano accoglierli: questi ultimi vagano allora in celle inadeguate con barriere architettoniche che rendono impossibile anche il solo lavarsi: da qui la figura del «piantone» in realtà un altro recluso di buona volontà che si presta a soddisfare le esigenze primarie quale il lavarsi il vestirsi e quant’altro. Il quadro sovra descritto meriterebbe un adeguato sforzo anche economico ma la sanità penitenziaria ad onta di una richiesta di salute sempre più accentuata si scontra con tagli di spesa ogni anno più marcati tanto che nelle piccole carceri è miracoloso raggiungere i livelli minimi di assistenza. Il medico penitenziario è allora il dottore degli ultimi , dei poveri di risorse personali ed ambientali: se la salute è definita come «completo benessere psico-fisico mentale e sociale e non soltanto assenza di malattia…» allora i nostri sforzi si scontrano con realtà ineluttabili. Ma non per questo bisogna scorarsi: presso il carcere di Torino sono presenti da anni importanti proposte che hanno importato una realtà «altra» basata sulla valorizzazione dei talenti pur in un ambiente degradato: sono i progetti Arcobaleno, Prometerno, Sestante e Sad.
È presente la comunità Arcobaleno (leggere a pagina 46) organizzata come una comunità terapeutica, pur dietro le sbarre, collegata a strutture estee dove proseguire un percorso riabilitativo lavorativo. Ai malati di Aids è dedicata la sezione «Prometerno» con un programma dedicato ed una attenta vigilanza infettivologica. La ASL 3 attraverso il progetto «Il Sestante» si occupa della osservazione e del trattamento dei pazienti psichiatrici. Importanti progetti coinvolgono poi la prevenzione delle patologie oncologiche ed infettive per le quali il carcere costituisce un fondamentale osservatore epidemiologico nazionale (il numero esponenziale di casi di TBC sta raggiungendo l’allarme sociale). Completa il quadro delle iniziative un progetto pilota sulla dipendenza patologica da sostanze denominato Sad Asl3 (dal nome della Asl competente), che ha già preso in carico centinaia di utenti (tra cui molti etilisti) soprattutto in giovane età.
Il rapporto tra sanità penitenziaria ed utenza allora travalica il rapporto «farmaco-guarigione» ma è dettato dall’incontro. E l’incontro può avvenire solo se si riconoscono queste dinamiche, ponendo l’attenzione su quanto accade qui e adesso nel dialogo, al di là delle differenze culturali, e portando alla consapevolezza quanto avviene in modo implicito nel percorso parallelo di cura, per superare gli inevitabili momenti di stallo.
«ERO IN CATENE, MA NON MI AVETE ACCOLTO»
Dal Discorso della montagna discendono i temi della salvezza citati nel vangelo di Luca. «Andate, maledetti, nella dannazione, perché ero affamato e non mi avete dato da mangiare, ero assetato e non mi avete dato da bere, ero ignudo e non mi avete rivestito, ero ammalato e non mi avete curato, ero carcerato e non mi avete visitato».
Ovvero: ero carcerato e non mi avete accolto, ero in catene e mi avete rifiutato. Ma altre domande sono senza risposta: accolto dove?, accolto come?. Questa dovrebbe essere la questione aperta, l’oggetto del nostro interrogarci, cioè quali sono le alternative concrete e possibili all’istituzione carceraria.
Maria Letizia Primo