Il paese inesistente

L’ennesima crisi a Sud del Sahara

Dal bubbone del Darfur partono tre movimenti ribelli. Mettono a ferro e fuoco la capitale del Ciad. Ma il comandante in capo, presidente Déby, li respinge. Grazie alla logistica e alle munizioni francesi. Ma anche la Libia ha detto la sua. E dietro i ribelli il Sudan che vorrebbe cambiare il regime di N’Djamena, dove il clan al potere «sfrutta» il petrolio del sud del paese.

Sono almeno trecento pick up, circa tremila uomini. Procedono in colonne ordinate, provengono dal Sudan e si dirigono verso la capitale del Ciad. Così vengono avvistate dagli aerei militari francesi a fine gennaio. La notizia è inquietante, fa rivivere nelle menti l’attacco a N’Djamena dell’aprile 2006 ad opera dei ribelli del Fuc (Fronte unito per il cambiamento) di Mahamat Nour.
Idriss Déby Itno, presidente della repubblica e comandante in capo, decide di non fuggire, al contrario di battersi. Anche lui, come tiene spesso a precisare, è un militare.
In tre giorni i ribelli percorrono i quasi 700 km di Sahel tagliando il Ciad da Est a Ovest. Il primo febbraio sono a Massaguet, 80 km a Nord della capitale. Déby scende sul campo di battaglia, ma i suoi sono respinti ed è costretto a nascondersi. I ribelli entrano a N’Djamena il giorno successivo: così la gente della città è sconvolta dalla guerra per le strade. Raffiche di mitragliatori, cannonate, granate. E cadaveri abbandonati sul suolo sabbioso delle vie di quartiere.
I ribelli prendono la radio televisione nazionale, che però va in fumo e impedisce loro di trasmettere un messaggio al paese. Poi si avvicinano alla presidenza della repubblica. Ma sono i blindati T55 dell’Ant (armée nazionale tchadienne, l’esercito ciadiano) appoggiati dagli elicotteri che hanno la meglio su fuoristrada e mitragliatori.
Mentre Idriss Déby è rifugiato nel suo bunker alla presidenza, domenica sera i ribelli lasciano la città: ritirata strategica. La battaglia di N’Djamena è finita. Il bilancio provvisorio è di almeno 160 morti, un migliaio di feriti e 50.000 sfollati. Gli abitanti della capitale hanno passato, con ogni mezzo il ponte sul fiume Chari, che separa il Ciad dal Nord del Camerun. La cittadina Kousserié è stata invasa di profughi. Alcuni hanno continuato verso la vicina Nigeria.
I circa 1.500 militari francesi di stanza in Ciad hanno tenuto l’aeroporto, punto strategico per ogni operazione militare. Da qui sono stati evacuati circa 1.200 stranieri. Qui sono arrivati gli aerei libici carichi di munizioni per Déby. La Francia, legata da un accordo militare con il Ciad, ha infatti riconosciuto di aver dato appoggio logistico e tecnico. Ma anche di avere passato armamenti alla compagine governativa. I militari francesi sono stati costretti a rispondere al fuoco, per contrastare un tentativo dei ribelli di prendere l’aeroporto. Il presidente francese Sarkozy, nel momento più critico, ha proposto a Déby di evacuarlo, ma lui ha rifiutato, sicuro di vincere. E così è stato, mentre il ministro della difesa, Hervé Morin ha fatto una visita ai militari francesi subito dopo la battaglia.

La storia si ripete

Anche Déby prese il potere attaccando con i suoi la capitale nel dicembre 1990, destituendo un altro dittatore, Hissene Habré, del quale era stato capo di stato maggiore. Habré aveva guidato una ribellione negli anni Settanta fino a prendere il potere nel 1982, spodestando Goukouni Weddeye. In quell’epoca il Nord risentiva dell’influenza della Libia e il Sud della Francia. Sotto Habré si stimano in 40.000 gli uccisi e gli scomparsi. Così dal 2000 pende su di lui, rifugiato in Senegal, un’accusa di «crimini contro l’umanità».
Ma la storia post coloniale del Ciad è un intreccio di guerre intestine, colpi di stato e ingerenze straniere, spesso armate. Sopra tutte quelle di Libia e Francia. La prima influenza le sorti del paese da quasi 40 anni. È arrivata fino a conquistare la capitale (1980) e ha mantenuto il controllo del Nord del paese per lungo tempo. La seconda ha sempre mantenuto un «piede» nel paese appoggiando ora questo ora quel dittatore. Come disse l’ex presidente francese Jaques Chirac (in privato): il Ciad «è uno spazio definito dalle frontiere dei suoi vicini». Come dire: non esiste in quanto Nazione.

Il gioco delle etnie

Habré è di etnia gorane, originario di Faya-Largeau (centro – Nord), mentre Déby appartiene ai zaghawa (Fada, Nord – Est). Questa etnia, presente anche in Sudan, rappresenta il 3% degli oltre 9 milioni di ciadiani. Il presidente si è circondato del suo clan (sottogruppo zaghawa-bideyat), ha adottato il sistema di promuovere gli scontenti, soprattutto in seno all’esercito. Si è fatto eleggere a larga maggioranza nel 1996 e poi nel 2001. Nel 2005 riesce a far approvare, per via referendaria, l’emendamento della Costituzione del ’96, che prevedeva solo due mandati presidenziali consecutivi. Si fa quindi riconfermare nel 2006 e … non esistono più limiti.
Una storia di gestione del potere da parte di «signori della guerra» appartenenti a piccoli gruppi entici del Nord. Controllo quasi assoluto, a danno di tutto il paese, e in particolare il più popolato Sud. Il paese si può idealmente dividere in due, tagliandolo a metà dal 13° parallelo. Quelli che provengono dalla metà Nord hanno sempre gestito le ricchezze della metà Sud. Come ultima il petrolio.

Il fattore «P»

Alla fine degli anni ’90 viene scoperto il petrolio nel Sud del Ciad. Il giacimento di Doba inizia a fornire il greggio nel 2003 e oggi frutta 2 miliardi di dollari l’anno.
Nel 2004 viene inaugurata una raffineria a N’Djamena e, l’anno prima, un oleodotto di oltre 1.000 km che attraversa il Camerun, fino al porto di Kribi, nel Golfo di Guinea. Finanziano Banca mondiale (Bm) e alcune compagnie petrolifere (Exxon Mobile, Chevron Texano e Petronas).
Gli investimenti della Bm erano soggetti a un accordo singolare: l’80% del ricavato dalla vendita del greggio sarebbe stato vincolato a investimenti per l’educazione e la sanità, mentre il 10% accantonato in un fondo per le «generazioni future». Ma il governo ha deciso che la sicurezza del paese è altrettanto importante e ha iniziato quindi a investire in armamenti, mentre il fondo sul futuro viene soppresso.
È prevista un’imposta complementare sulle società di quasi 300 milioni di dollari come «restituzione», che fornisce ulteriori introiti al governo.

Vicini scomodi

Importante e complesso è l’intreccio con la crisi del Darfur, che vede Ciad e Sudan protagonisti in un conflitto  che ha raggiunto connotazioni regionali.
Dal febbraio 2003 in questa regione dell’Est Sudan i governativi reprimono la popolazione appoggiando miliziani nomadi janjawid contro una ribellione delle popolazioni nere locali, il Movimento per la giustizia e l’uguaglianza (Mje). Il conflitto ha generato, secondo le organizzazioni inteazionali, una delle maggiori crisi umanitarie degli ultimi anni, causando almeno 200.000 morti e 2,2 milioni di sfollati (di cui 240.000 in campi profughi in Ciad). Una settimana dopo la battaglia di N’Djamena, esercito sudanese (appoggiato dall’aviazione) e milizie janjawid hanno attaccato tre villaggi del Darfur, causando una nuova ondata di 12.000 persone che si sono rifugiate nel Sud-Est del Ciad.
Il governo di Déby appoggia i ribelli del Darfur, così l’Mje è venuto in soccorso al Ciad durante la battaglia di N’Djamena. A dicembre i militari ciadiani hanno sconfinato in Sudan per appoggiare direttamente l’Mje.
Il Sudan di Hassan el-Beshir, invece, finanzia, in misura diversa tra loro, i gruppi ribelli ciadiani. Karthoum è interessato a un cambio di potere nel paese vicino, anche per rompere l’equazione zaghawa, etnia di Déby presente in Darfur.
Il Sudan, a sua volta fornisce alla Cina petrolio in cambio di armamenti di ogni tipo, pesanti e leggeri (vedi anche MC dicembre 2007). Si dice infatti che: «il Darfur sta sporcando l’immagine dei giochi olimpici di Pechino 2008».
Il ministro dell’interno di Déby parla di «mercenari, elementi della legione islamica, di al-Qaeda, al soldo del Sudan», mostrando alla stampa 135 prigionieri catturati dopo la battaglia di N’Djamena. Alcuni dei quali minorenni. Affermazioni che vogliono rafforzare l’immagine che Déby sta vendendo all’Occidente, quella di garante di stabilità regionale, contrafforte che si oppone all’avanzata degli arabi e degli islamici verso l’Africa Centrale e dell’Ovest.

Quel ribelle di mio nipote

Il Sudan nega ufficialmente ogni impegno in appoggio dei ribelli ciadiani, che peraltro hanno le loro basi nel Darfur. Sono tre gruppi distinti che hanno attaccato N’Djamena. Le differenze profonde e le difficoltà di cornordinazione tra di loro sono state uno dei fattori critici che hanno permesso a Déby di resistere. «Ci doteremo di un capo unico» dichiara il portavoce dei miliziani Abderaman Koulamallah e la pressione in questo senso del Sudan è forte.
Timane e Tom Erdimi, capi del Rfc (Rassemblement des forces pour le changement) sono nipoti di Idriss Déby.  Zaghawa come lui, hanno occupato posti di altissimo rilievo alla presidenza. Nel 2005, all’indomani della riforma costituzionale, che svela le intenzioni dello zio a non lasciare il timone.
Mahamt Nouri è l’uomo di Karthoum. Di etnia gorane, come Hissène Habré con il quale ha combattuto e poi governato. Occupa poi posti chiave anche con Déby. È capo del Ufdd (Union des forces pour la démocratie et le développement) e uno degli uomini più forti della ribellione, grazie al sostegno del Sudan. Abdelwahid Abdou Makey è un arabo ciadiano. Ribelle di lungo corso fin dalla guerra civile del 1980. È poi a fianco dei Mahamat Nour nell’attacco dell’aprile 2006, fonda poi l’Ufdd –  fondamentale, alleandosi con Mahamat Nouri (quasi omonimo di Nour), con il quale, però, non va troppo d’accordo.
La risoluzione della crisi del Darfur, è un passaggio nodale per riportare la pace nell’intera regione.
Non è un caso che, pochi giorni prima dell’attacco ribelle, l’Eufor, la forza europea in Ciad e Repubblica Centro Africana (Rca), avesse iniziato il proprio spiegamento. Già in ritardo a causa della difficoltà dei paesi europei a mettersi d’accordo, era stata bloccata. L’Eufor ha come missione la protezione di 450.000 tra profughi del Darfur e sfollati ciadiani e centrafricani in Ciad e nord della Rca. Composta da 4.700 uomini di 14 paesi (di cui 2.100 francesi), ha ripreso a installarsi a metà febbraio.

E dopo?

«Dopo la battaglia di N’Djamena i militari sono tornati in città e hanno festeggiato ubriacandosi e sparando in aria» racconta un volontario da una località del sud «peccato che festeggiando abbiano ucciso un uomo e due bambini». «È facile di questi tempi incontrare militari ubriachi…» continua.
Dopo la ritirata strategica, i ribelli riparano a Sud-Est, passando da Mongo, nel centro. Sono seguiti – a distanza –  dai francesi e dall’esercito regolare. Ripiegano perché hanno finito i rifoimenti e perché «i carri armati vincono sui pick up» come dichiara Mahamat Nouri. Sono convinti che il presidente sarebbe caduto, se non avesse avuto l’appoggio della Francia. I transalpini hanno scelto Déby come il «meno peggio», non potendosi fidare dei ribelli (pur tentando di negoziare l’avvio di un processo democratico in caso di vittoria di questi…). «Non tollereremo un altro attacco alla capitale» raccontano militari francesi a un testimone. I ribelli si dividono e vanno nella zona della frontiera tripla Ciad – Sudan – Repubblica centro africana.

Stato di emergenza

Intanto Déby dichiara lo «stato di emergenza» su tutto il territorio nazionale, per 15 giorni. Questo gli permette di rendere legali le perquisizioni di abitazioni private (già largamente abusate subito dopo la battaglia di N’Djamena), i posti di blocco e il controllo della stampa pubblica e privata. Instaura anche il coprifuoco notturno. Subito dopo la battaglia furono arrestati «manu militari» tre  importanti leader dell’opposizione: Lol Mahamat Choua, Ibni Mahamat Saleh e Ngarléjy Yorongar. Solo del primo, già capo di stato, si hanno notizie: dopo aver passato un mese in una prigione militare, viene messo agli arresti domiciliari. Degli altri due nessuna notizia. «Non sappiamo dove siano» dichiarano dal governo. Intanto Francia e organizzazioni per i diritti umani fanno pressioni affinché siano liberati.
Il presidente francese, in volo per il Sud Africa, decide di fare un breve scalo in Ciad il 27 febbraio.
«Il messaggio del presidente al suo omologo sarà molto chiaro: occorre un’inchiesta credibile» dichiara il portavoce dell’Eliseo, David Martinon. E continua: «Il presidente della repubblica dirà al capo di stato ciadiano che l’amicizia tra i due paesi potrà aumentare solo se il processo di democratizzazione in Ciad riprende e si accelera». Preoccupazione dunque, per la tendenza di deriva autoritaria del regime di N’Djamena.
«Il Ciad è un paese strano – ci racconta un volontario italiano – sembra tutto tranquillo e, all’improvviso, si scatena l’inferno». 

Di Marco Bello

Marco Bello

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