Reati e disvalori: com’è cambiata la società
Voltaire valutava il grado di civiltà di una nazione dalle sue galere. Indubbiamente il sistema giustizia (nella teoria e nella pratica) è una buona cartina di tornasole di un paese e dei suoi abitanti. Tuttavia, non basta. Per esempio, nel tempo è cambiato il sentire dei cittadini italiani nei confronti di alcuni reati. Un cambiamento, ma non per il meglio…
Parlando di giustizia penale, mi ritorna in mente la frase rivolta da Voltaire a chi, accompagnandolo in visita in un Paese per lui straniero, gli rammostrava le bellezze artistiche: «Non dirmi degli archi, dimmi delle galere».
Credo di non esprimere un pensiero particolarmente originale se a mia volta dico che il tipo di sistema giustizia, in particolare penale, adottato nella teoria (i codici) ma soprattutto praticato (le aule di Tribunale, le celle del carcere) rappresenti una delle cartine di tornasole più significative della natura di una nazione e dello spirito di coloro che lo abitano (1). Ciò detto, entriamo in media re.
Ed al proposito confesso che è con grande imbarazzo che mi accingo a parlare dell’esperienza che vive colui/colei il quale/la quale viene indagato/a – imputato/a in un procedimento penale e financo finisce in carcere.
Imbarazzo che mi deriva dal fatto che si tratta di accadimento che non ho vissuto in prima persona.
Per cui potrei dunque solo riportare quella parte di impressioni, sensazioni, emozioni e sentimenti che ho tratto affiancando, nel mio mestiere di avvocato penalista, la persona che viveva e vive invece direttamente sulla propria pelle questa/e esperienza/e.
Anche in questo caso credo che alcune premesse si rendano peraltro necessarie.
La prima innanzitutto. Sarà forse banale ma ogni situazione ed ogni persona sono uniche ed irripetibili. Ne deriva, tra l’altro, che ogni generalizzazione rischia di essere sciocca.
Esistono una verità storica (ciò che è accaduto realmente) ed una verità processuale (quella che si forma nel corso del procedimento). Le due possono alla fine non coincidere.
L’avvocato difensore non sempre (nell’esperienza di chi scrive spesso e volentieri) viene portato a conoscenza dal suo assistito della verità storica.
Presumere che la persona sottoposta a procedimento penale sia innocente è la regola di normale civiltà (spesso tuttavia così non mi pare accada). Il processo è comunque pena, diceva Calamandrei.
Anche in questo caso, come a proposito delle opere e degli autori, si potrebbero elencare ancora parecchi altri principi generali ed astratti (validi ovviamente dal punto di vista di chi scrive).
Non esageriamo tuttavia e vediamo invece se sia possibile, ferme le premesse di cui sopra, registrare alcune distinzioni di massima e trovare dei minimi comuni denominatori con riferimento alle vicende penali.
Una prima grande distinzione può così essere fatta, con i distinguo di cui sopra naturalmente ripeto, tra coloro i quali si trovano per la prima volta coinvolti in una vicenda penale e coloro che invece ne hanno già fatto esperienza in precedenza.
Una seconda distinzione, che mi pare di cogliere sempre più fortemente con il passare del tempo, è tra gli «onesti» (che possono anche aver sbagliato, ma che di per sé sono onesti) ed i «disonesti».
Cerco di spiegare meglio il concetto. Ho la sensazione che vi siano persone e generazioni (tra queste penso in particolare a quelle più avanti negli anni) più rispettose del principio di legalità. E che altre lo siano di meno.
Se i primi vivono di norma in senso drammatico il solo fatto di essere sottoposti ad indagine penale (quand’anche si trattasse di un fatto per niente grave e, nella peggiore delle ipotesi, risolvibile senza grandi conseguenze), i secondi assumono piuttosto un senso di fastidio nei confronti della giustizia, esprimono rivendicazioni del tipo «Sono tutte calunnie, denunciamo chi mi ha denunciato», tirano in ballo teorie complottistiche ai loro danni, negano financo l’innegabile (2).
Un’altra distinzione, di forte incidenza, è data dalla circostanza che la persona venga tratta in arresto ovvero viva il procedimento penale in libertà.
Non si dimentichi infatti, se mai ce ne fosse bisogno, che l’incarcerazione è uno dei maggiori fattori di stress (3).
Per concludere due considerazioni ancora. La prima: mi pare si vada tristemente diffondendo in Italia, giacché incontra terreno fertile in una mentalità sempre più diffusamente incurante del rispetto del principio di legalità, il fenomeno culturale secondo il quale vi sono reati (tra i quali alcuni considerati invece assai gravi nella maggior parte dei paesi cosiddetti civili) ritenuti pressoché privi di disvalore sociale da una parte significativa del Paese (si pensi all’evasione fiscale ma non solo) (4) (5). La seconda: il carcere si sta trasformando sempre più in luogo di discarica sociale.
Ivi trovano accoglienza persone prive di risorse economiche, culturali e famigliari; affette da malattie e da dipendenze, autrici di fatti anche di non particolare offensività ma non più sopportabili e supportabili da uno Stato sociale in grave crisi. In tale contesto, sempre più, il precetto costituzionale sulla pena, diventa lettera morta.
Davide Mosso