Un «rifugio» per ricostruire il futuro

Casa di accoglienza a Benin City

I loro nomi spesso contengono un messaggio di speranza, un affidarsi a Dio: Blessed (Benedetta), Faith (Fede), ma anche Joy, Destiny… Eppure le loro storie parlano d’inferno. L’inferno della tratta di esseri umani, giovani donne, spesso poco più che bambine, comprate e vendute, sbattute sulle strade d’Italia, dove vengono usate e abusate per pochi euro. Sono loro, adesso, a riempire con le loro voci squillanti, i colori accesi dei loro abiti e un’immancabile e simpatica confusione, le stanze ancora tutte nuove dello shelter inaugurato l’11 luglio dello scorso anno a Benin City.
È qualcosa di più di una casa di accoglienza: è un rifugio e allo stesso tempo qualcosa di dirompente per il contesto di Benin City. Un luogo che dice che le ragazze possono tornare e devono essere accolte. Che quello della tratta non è un viaggio a senso unico. C’è, anche se raramente e spesso drammaticamente, un ritorno. È un luogo bello e difficile questo shelter, perché dice quello che le parole sin qui non hanno detto o hanno detto molto poco: la tratta esiste. Ecco queste ragazze, ecco le prove.
Il potere simbolico, si sa, in Africa è molto forte. E questa casa di accoglienza per donne vittime della tratta – rimpatriate volontariamente o espulse dall’Europa e specialmente dall’Italia – costruita proprio nel cuore della città che ne alimenta più di qualsiasi altra il traffico, ha il sapore intenso di una sfida: ai tabù, all’omertà, anche alla paura.
«Sono anni che lavoriamo a questo progetto e finalmente ne vediamo il compimento» dice suor Eugenia Bonetti, visitando lo shelter appena inaugurato. La religiosa ci ha davvero creduto molto e non si è fermata di fronte a nessun ostacolo. «Ci sono voluti quattro viaggi e una grande determinazione per realizzare questo progetto. Ma soprattutto c’è voluta la collaborazione di molte persone che hanno condiviso questo sogno».
Alcune di loro erano lì anche per l’inaugurazione. Lo scorso anno, infatti, una delegazione italiana si è recata sino a Benin City, per esprimere la propria vicinanza a questo progetto e rinsaldare i legami di cooperazione che già esistono tra Italia e Nigeria. Il gruppo era tutto al femminile (con un’unica eccezione): donne che con le ragazze trafficate hanno condiviso un pezzo di cammino, quello che dalla strada le ha condotte verso una vita nuova. Donne che lottano con coraggio, tenacia e amore per altre donne. Sono le suore delle molte case di accoglienza che in Italia ospitano e aiutano queste giovani nigeriane. Si sono recate sin lì per rendersi conto di persona del contesto da cui vengono le «loro» ragazze e per condividere la gioia dell’apertura di una casa che non è molto diversa da quelle in cui loro stesse operano, ma che è molto più vicina ai luoghi da cui provengono e a cui provano a ritornare.

I
nfatti, uno degli obiettivi fondamentali dello shelter è accogliere temporaneamente le ragazze che rientrano per preparare adeguatamente il loro ritorno in famiglia.
A questo scopo è fondamentale il lavoro che svolgono le suore nigeriane sul posto. «Loro stesse – spiega suor Eugenia – negli anni ‘90, hanno cominciato a rendersi conto del problema. Le abbiamo invitate in Italia, hanno visto con i loro occhi dove finivano le ragazze e si sono confrontate con le suore che lavorano qui da noi. Poi, hanno deciso di fare qualcosa».
«Sino ad ora – spiega sister Florence – accoglievamo le ragazze che tornavano in Nigeria nei nostri conventi. Ma non è facile, né per loro né per noi. Non sono più abituate a rispettare alcuna regola, sono disorientate, spesso disperate. Molte hanno disturbi mentali; alcune vengono rifiutate dalle famiglie. C’era bisogno di un luogo appropriato dove potessero stare per un po’ e che permettesse a noi di accompagnarle nel modo più adeguato».
Non sta ferma un momento sister Florence. È sempre impegnata su più fronti con inesauribile energia. Avvocato di formazione, ha fatto di questa lotta contro la tratta e per il recupero delle vittime la sua ragione di vita. Nel ’99, è stata tra le fondatrici del Cosodow (Comitato per il sostegno della dignità della donne), un’organizzazione voluta dalla Conferenza delle religiose nigeriane. Con lei lavorano altre suore, sia a Benin City che a Lagos (dove le ragazze vengono rimpatriate), oltre a due avvocati e molti volontari.
«Il nostro è un lavoro delicato e rischioso – ammette – perché, da un lato, si tratta di ricostruire la vita e la dignità di persone fortemente traumatizzate, sottoposte a una violenza disumanizzante; dall’altro, perché andiamo contro gli interessi di molte persone che su questa tratta vergognosa hanno costruito un enorme business».

La realizzazione di questo shelter è un passo incoraggiante, innanzitutto perché è il frutto della collaborazione di più enti e istituzioni della chiesa. Il terreno è stato acquistato da Caritas italiana, la costruzione è stata realizzata grazie a un finanziamento della Cei (dell’8 per mille), il cantiere è stato seguito da un salesiano, don Vincenzo Marrone. A ciò va aggiunto tutto il lavoro che è stato fatto sul posto dalle suore nigeriane, che non hanno mai smesso di accogliere le ragazze nei loro conventi, di collaborare con le famiglie e sensibilizzare la popolazione. Ora, questo lavoro di network ha un nuovo fondamentale punto di riferimento: la Casa di accoglienza di Benin City.
La struttura prevede l’ospitalità per un numero massimo di 18 ragazze. «Non di più – spiega sister Florence -, perché vorremmo creare il più possibile un clima di famiglia e perché le ragazze hanno bisogno di molte attenzioni specifiche e di tanto lavoro. Su di loro e sulle loro famiglie».
Molte si trovano davvero in una situazione di emergenza. Anche quelle che rientrano volontariamente (pochissime in verità), grazie ai programmi dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), spesso hanno enormi problemi a reinserirsi. Peggio ancora quelle espulse, che si ritrovano a casa loro senza un soldo e con addosso la vergogna di un fallimento.
Non poche presentano problemi psicologici, alcune vere e proprie patologie. «Spesso – spiega la religiosa -, specialmente all’inizio, vengono rifiutate dalle famiglie, non sanno dove andare, rischiano di finire nuovamente nelle mani di trafficanti o di persone senza scrupoli. Per questo hanno bisogno di una particolare attenzione e protezione».
Tra i primi ospiti dello shelter c’è Jody che segue sister Florence come un’ombra. È da poco rientrata nel suo paese, ma è come se fosse stata catapultata su un altro pianeta. È disorientata, un po’ assente… La sua famiglia, dice, è in un villaggio lì vicino, ma lei non può tornare. Abbassa gli occhi Jody, fatica a raccontare. E allora sister Florence si allontana e spiega: «Non può tornare perché non la vogliono. Sono arrabbiati, delusi. Jody rappresentava la loro unica fonte di reddito. Non so fino a che punto erano coscienti di quello che faceva in Italia. Sta di fatto che per loro significava un guadagno sicuro, ora invece è diventata solo un peso di cui farsi carico».
Sister Florence tuttavia non è pessimista. Sa che ci vuole tempo per tessere di nuovo dei legami. Intanto, aiuta Jody a imparare un mestiere e a cavarsela da sola. Almeno ora ha una casa. In futuro si vedrà…

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi




Qui Benin City: reportage

Introduzione

In quasi tutto il mondo, l’8 marzo è la «festa della donna», una giornata per celebrare le conquiste sociali, politiche, economiche delle donne e, al tempo stesso, sensibilizzare la pubblica opinione sui problemi che pesano ancora oggi sulla condizione femminile. Milioni di donne, infatti, non hanno nulla da festeggiare, né possono rivendicare alcun diritto, soprattutto le vittime della prostituzione coatta, la peggiore schiavitù. Il dossier di questo mese, vuole richiamare l’attenzione su queste vittime, in particolare le nigeriane, trafficate e prostituite sulle strade italiane.
Missioni Consolata si è già occupata del problema con un numero speciale di ottobre-novembre 2005, «Prezzo di Mercato», poi pubblicato come libro dalla Emi nel 2006, e ritorna ad occuparsene in questo dossier, poiché il fenomeno della tratta delle nigeriane è in crescita; la situazione delle vittime sempre più tragica; l’indifferenza più scandalosa che mai.

Il dossier è frutto di una ricerca sul campo e viene pubblicato in contemporanea, tutto o in parte, dalle altre riviste Fesmi (Federazione stampa missionaria italiana). Autrice e fotografa (che hanno accompagnato in Nigeria un gruppo di religiose e laiche impegnate nella lotta allo sfruttamento di donne e minori) raccontano quanto hanno visto: complessità del problema, storie di donne liberate da tale schiavitù, impegno di chiesa e stato per prevenire l’esodo delle vittime della tratta e soccorrerle in caso di rimpatrio.
La seconda parte descrive la situazione delle nigeriane in Italia, particolarmente nell’area milanese, e le iniziative in corso, soprattutto da parte delle congregazioni religiose femminili, per aiutarle a uscire dall’inferno dei marciapiedi e guarire le ferite inflitte alla loro dignità. Il lavoro già fatto contiene segni di speranza.
Per richiamare l’attenzione e la responsabilità di tutti, è in fase di allestimento una mostra fotografica, che visualizza la tragedia delle nigeriane in Italia e nel loro paese di origine. (BB)

Qui Benin City: reportage

Sono oltre 30 mila le ragazze nigeriane costrette a prostituirsi sulle strade italiane. All’origine del dramma c’è un intreccio perverso fatto di affari e corruzione, inganni e ricatti, violenze e ignoranza, stregoneria e… tanta miseria. Una sfida immane, a cui qualcuno sta rispondendo con iniziative di prevenzione, sensibilizzazione e accoglienza
delle ragazze che tornano a casa.

«S iamo qui a Benin City per lottare contro il traffico vergognoso di migliaia di ragazze che vengono portate via con l’inganno e sono costrette a prostituirsi sulle strade italiane. Ragazze ridotte in schiavitù. Ragazze usate e abusate…». «Dai vostri uomini!».
Suor Eugenia Bonetti denuncia; l’Oba contrattacca. Lei è una missionaria della Consolata, cornordinatrice dell’Ufficio contro la tratta di esseri umani dell’Unione delle superiore maggiori italiane (Usmi). Lui è il re di Benin City, discendente di uno dei regni più potenti dell’Africa occidentale, che ancora oggi conserva un’autorità enorme su questa fetta di Nigeria, dove gli uomini della politica e dell’amministrazione nulla possono senza il suo accordo. Quello dell’Oba è un potere tradizionale e reale, si nutre di occulto e s’impone su questioni molto concrete. Compresa quella delle donne trafficate in Italia per essere sfruttate sessualmente.
VERGOGNA GLOBALE
Nello scambio di battute tra lui e suor Eugenia c’è la sintesi di questo vergognoso business fatto sulla pelle di ragazze spesso giovanissime. Un business che si regge su un meccanismo consolidato di domanda e offerta. E che si snoda tra la Nigeria e l’Italia lungo le vie della tratta, gestite da mafie inteazionali ben organizzate ed efficienti, spesso non adeguatamente perseguite.
Oggi il «commercio» di donne a fini di sfruttamento sessuale è, secondo l’Onu, la terza attività illegale più redditizia al mondo (dopo il traffico di armi e di droga), con un giro di affari stimato attorno ai 12 miliardi di dollari l’anno.
Merce di consumo di una società edonista e mercantile, la donna diventa, da un lato, «capitale» finanziario da sfruttare da parte di organizzazioni malavitose senza scrupoli, dall’altro, oggetto di soddisfazione di desideri e perversioni.
Le chiamano prostitute, quando va bene. Più spesso sono additate con i vocaboli più dispregiativi. In Liguria sono ancora le bagasce, come lo scarto della lavorazione della canna da zucchero. Peggio dei rifiuti, in un immaginario collettivo che ipocritamente getta loro addosso disprezzo e pregiudizio. Come se fosse una libera scelta quella di vendere il proprio corpo. Per molte di loro è una vera e propria schiavitù. Vittime della povertà e dell’ingiustizia, di una vita che non è degna di essere vissuta, innanzitutto nei loro luoghi d’origine, molte di queste ragazze si ritrovano ingannate da promesse fittizie, dal miraggio di un’esistenza migliore, di un altrove fatto di benessere e felicità: finiscono col ritrovarsi schiave sessuali, in una situazione di vulnerabilità e povertà ancora peggiore di quella da cui vengono, sradicate in un paese straniero, clandestine, senza identità né dignità.
Le chiamano prostitute, ma sarebbe meglio dire prostituite. Costrette a vendere se stesse, corpi-merce di un traffico che ha preso la forma intollerabile di una delle peggiori schiavitù contemporanee.
DONNE CORAGGIO
Suor Eugenia, 69 anni, originaria di Bubbiano, in provincia di Milano, si occupa del problema da molti anni. Eppure non finisce mai di indignarsi e scandalizzarsi. Il grido d’aiuto di una ragazza nigeriana, 15 anni fa a Torino, le ha aperto uno squarcio su un abisso di miseria, sfruttamento e violazione della dignità della donna. «Sister, help me! Suora, aiutami!». Quel grido ha continuato ad accompagnarla anche quando è diventata, nel 2000, responsabile dell’Ufficio tratta dell’Usmi e ha cominciato a lottare senza risparmiarsi per mettere in rete tutti coloro che si battono contro questo «commercio» di esseri umani al fine di promuovere un’azione più concordata ed efficace.
Oggi, suor Eugenia è un punto di riferimento importante di una rete di realtà inteazionali. E non è un caso se, nel corso della visita di stato nel giugno del 2007, Laura Bush, moglie del presidente Usa, ha voluto incontrare a Roma questa religiosa, che pochi mesi prima, in marzo, aveva ricevuto dal Dipartimento di stato americano il premio «Donna Coraggio».
«Ci sono ancora circa 30 mila ragazze nigeriane sulle strade italiane – denuncia suor Eugenia davanti all’Oba e ai notabili di Benin City – costrette a prostituirsi per pagare un debito assurdo: 50, 60, anche 80 mila euro. A volte, anche di più! Ci vogliono anni prima che riescano a riscattarlo. Alcune muoiono, altre vengono uccise. E in molte di loro si spezza qualcosa dentro. Per sempre. Dobbiamo dire basta a questo sfruttamento inumano. Ma dobbiamo farlo tutti insieme».
L’Oba annuisce. Lui sa e potrebbe fare molto, perché sta nel cuore del cuore del problema. È infatti la massima autorità tradizionale di Benin City, la città da cui proviene la stragrande maggioranza delle ragazze trafficate in Italia. È qui il centro di quell’intricato intreccio di business e traffici, di azioni legali e riti tradizionali, di finanza e stregoneria, che ne è all’origine: un giro di favori e minacce, ricatti e doni, troppo vasto e complesso perché anche chi sa possa o voglia fare davvero qualcosa.
Qualcuno però ci sta provando. Come sister Florence Nwaonuma delle suore del Sacro Cuore, una congregazione diocesana di Benin City, responsabile del Comitato per il sostegno della dignità della donna (Cosodow), un’organizzazione voluta dalla Conferenza delle religiose nigeriane. Fondato nel 1999, insieme a due avvocati e altri volontari, il Comitato svolge un importante e delicato lavoro di prevenzione, sensibilizzazione e accoglienza delle ragazze che ritornano. Non senza difficoltà.
La prima è parlarne. Lo ammette la stessa sister Florence, che peraltro ha sia la stazza che il carattere di chi non si lascia facilmente mettere a tacere. Pure lei è avvocato, ed è venuta a Benin City per occuparsi del problema proprio là dove ha origine.
«Facciamo moltissima sensibilizzazione, a tutti i livelli – dice suor Florence -: parrocchie, scuole, amministratori, affinché si sappia innanzitutto cosa sta succedendo.  Dopo tutti questi anni, dopo migliaia di ragazze trafficate, non si può più far finta di niente, come se questo fenomeno non esistesse. Eppure c’è ancora molta omertà, a volte per paura, a volte per interesse. Noi lavoriamo soprattutto per creare una coscienza del problema e per provare a cambiare i comportamenti».
SPECCHIO DI CONTRADDIZIONI
Una bella sfida, in un contesto che certamente non aiuta. La Nigeria in generale, e Benin City in particolare, sono oggi lo specchio di un’Africa che sta cambiando in maniera impressionante e caotica. Un’Africa dove restano forti alcuni riferimenti tradizionali – la famiglia, il villaggio, valori e norme di comportamento, ma anche superstizioni e stregoneria – e dove sempre più si impongono stili di vita e modelli culturali di tipo occidentale, spesso legati a logiche consumistiche e materialiste. Il connubio talvolta è un ibrido inquietante. Come a Benin City, città di più di un milione di abitanti a circa 350 chilometri a est di Lagos, dove la povertà diffusa ed evidente stride in maniera sconcertante con alcuni simboli di ricchezza e potere ben esibiti: Suv americani ultimo modello, campi da golf col prato all’inglese, ville sontuose protette come fortezze. E lì accanto, il degrado di una città decadente, sporca, le strade disseminate di buche grandi come voragini, le case troppo spesso simili a baracche fatiscenti…
La vita qui costa poco e non vale quasi niente. Bastano pochi spiccioli per mangiare il solito piatto di riso e pesce secco, ma per pochi spiccioli una famiglia può «vendere» il proprio bimbo come domestico nelle case di chi sta un po’ meglio. Di lavoro non ce n’è ed è difficile capire come la gente riesca a cavarsela. C’è sempre un gran via vai di persone in strada, nei mercati, ovunque. Una miriade di attività «informali», ma di lavoro vero e proprio poco o nulla.
Forse nell’amministrazione pubblica, che finisce tuttavia col diventare il ricettacolo di amici, parenti, persone a cui si deve un favore. Come al Museo nazionale, dove almeno cinque persone «lavorano» all’ingresso, tra la cassa e l’albo delle presenze, non facendo praticamente nulla. Del resto, siamo gli unici visitatori da chissà quanto tempo. Una rarità. Peccato che anche le rarità che sono nelle teche, oggetti preziosissimi e antichi, risalenti al prestigioso regno di Benin, siano praticamente invisibili perché la maggior parte delle luci non funziona.
Che funzionano, invece, a qualsiasi ora del giorno, sono i cybercafé, ovunque affollati di giovani. È il business che va per la maggiore e infatti se ne trovano ovunque e sono sempre pieni, nonostante la connessione lentissima e precaria. Taluni sono veramente angusti e i ragazzi stanno ammassati l’uno accanto all’altro. Alcuni cercano una scuola o un lavoro all’estero; le ragazze chattano con «fidanzati» che sperano di raggiungere in Europa, altri – i cosiddetti yahoo-boy – si sono specializzati in truffe telematiche e trafficano con migliaia di indirizzi… Tutti paiono proiettati verso l’estero, l’altrove, il paradiso immaginato, inseguito, voluto a ogni costo.
FUGA DALLA DISPERAZIONE
«Oibo! Oibo!». In strada è un continuo chiamare lo straniero che passa. «Ehi, bianco, perché non mi porti in Europa con te?». Un po’ per scherzo, un po’ sul serio, sono in molti a chiederlo.
Non sfuggono a questo meccanismo le ragazze che vengono trafficate in Europa. All’inizio venivano quasi tutte da Benin City. Ora le madame, le donne che gestiscono i traffici, e i loro corrieri rastrellano sempre di più i villaggi limitrofi, facendo balenare il sogno di un lavoro ben retribuito all’estero a famiglie estremamente povere e senza strumenti culturali per valutare il rischio a cui espongono le loro figlie. Quanto a loro, ragazze giovanissime e spesso analfabete, non aspettano altro: l’Europa, la bella vita, i soldi per loro e per le loro famiglie. Un sogno. Per il quale sarebbero disposte a tutto: a sottoporsi a un rito voudou – il ju ju (vedi riquadro) – ad affrontare viaggi spaventosi, talvolta via terra, ad accettare di pagare un debito spropositato.
«Fino a che punto queste ragazze siano coscienti di dove finiranno e a fare cosa è difficile dirlo», spiega don Vincenzo Marrone, salesiano, da 25 anni in Nigeria. È lui che ha costruito a Benin City la casa di accoglienza per quelle che rientrano volontariamente o che vengono rimpatriate.
«Questa città – spiega – vive in bilico tra l’orgoglio per un passato grandioso e un presente di decadenza e mancanza di speranza. La sua popolazione è fiera e volitiva, vuole a tutti i costi farsi un futuro, desidera una vita migliore. Sono convinto che molti sappiano dove finiscono le ragazze. Le ragazze stesse, almeno quelle della città, ne sono consapevoli; ma molte pensano che quello che è successo alle altre non potrà mai succedere a loro: e così finiscono in una trappola da cui faticano poi a liberarsi».
«Perché proprio Benin City?» si interroga padre Jude Oidaga, gesuita originario di questa città, ma che ha studiato in mezzo mondo. Il suo è uno sguardo, al tempo stesso, dall’interno e dall’esterno. «Bisognerebbe fare l’esperienza di alzarsi la mattina e non avere cibo, arrivare a sera e non avere cibo; e non avere un lavoro, né benzina, né sapone per lavarsi… Bisognerebbe fare l’esperienza di chi lotta per sopravvivere, per capire a fondo cosa spinge queste ragazze a partire a ogni costo. Ma la responsabilità della loro fuga va ricercata a un livello più alto: quello delle istituzioni e dei governi – locali, federali, inteazionali -, corrotti e inetti; quello delle politiche inteazionali ingiuste e discriminatorie, che non fanno altro che ampliare la frattura tra ricchi e poveri. E allora non andrebbero biasimate in prima istanza queste ragazze, ma innanzitutto coloro che sono responsabili della sperequazione e ingiustizia distributiva che condanna tanta gente a vivere una vita indegna».
Benin City, con il suo disordine e la sua decadenza, la sua miseria e le sue ville milionarie, è un po’ l’archetipo di molti angoli di un mondo che funziona a velocità diverse, che corre sulle autostrade di uno sviluppo accessibile a pochi e lascia indietro grosse fette della popolazione mondiale, abbandonate alle periferie di una globalizzazione che non è poi così globale. E le ragazze di Benin City – trafficate, sfruttate, abusate – sono un po’ il simbolo di questa vergogna. Che va gettata in faccia a chi le ha gettate in strada.

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi




A scuola di dialogo interreligioso

«La religione è come il mago e la sibilla… Essa affronta le rovine del mondo e predice la restaurazione; di fronte al rosso-sangue del cielo, con i colori del tramonto che sprofondano nell’oscurità, profetizza l’aurora. Affronta la morte e annuncia la vita» (Felix Adler).
Mahatma Gandhi diceva che «uno studio amichevole delle religioni è un dovere sacro». Sono quindi contento di potermi dedicare allo studio comparato delle religioni, di avere l’opportunità non solo di assolvere a questo sacro dovere, ma di gustare, seppure come un semplice novizio, le ricchezze delle esperienze religiose del mondo al di fuori della sfera del cristianesimo. La realtà religiosa del mondo sta diventando sempre più pluralistica; perciò, qualsiasi religione venga professata, deve essere vissuta in un atteggiamento di incontro e dialogo con la fede del vicino.
«È arrivato il tempo in cui i contatti interreligiosi basati sulla cortesia e una conoscenza generica non sono più sufficienti. È indispensabile conoscere in profondità la religione di colui con cui si vuole dialogare» (card. Arinze). Lo studio del mondo delle religioni non consiste puramente nel cercare possibili vie di armoniosa coesistenza o pacifica interazione, ma è molto di più: è un arricchimento reciproco.
Quando lo studio delle religioni è fatto avendo in mente il dialogo interreligioso, è importante accettare che la maggioranza di tali religioni sono «i modi di vita di immense porzioni di umanità… l’espressione viva dell’anima di vasti gruppi umani. Esse portano in sé l’eco di millenni di ricerca di Dio, ricerca incompleta, ma realizzata spesso con sincerità e rettitudine di cuore. Posseggono un patrimonio impressionante di testi profondamente religiosi, di saggezza assimilata da popoli e culture. Sono tutte cosparse di innumerevoli “germi del Verbo”. Hanno insegnato a generazioni di persone a pregare, come vivere e morire, come custodire i propri defunti» (cfr Evangelii nuntiandi 53).

Infatti, il nocciolo della questione nello studio delle religioni è proprio qui: al di là dei contenuti di fede che vengono professati, esiste una realtà vissuta che è stata espressa in molti e differenti termini, come «esperienza religiosa», «esperienza spirituale», «esperienza divina», «esperienza del sacro, del trascendente, delle potenze divine» ecc. Nella tradizione abramitica possiamo chiamarla «esperienza di Dio».
Questa vasta gamma di «esperienze religiose», senza ignorare la realtà dell’errore umano, è una profonda, autentica e onesta avventura spirituale, che costituisce il cuore della storia umana di tutte le generazioni che si sono succedute nel tempo e nelle differenti situazioni geografiche. E poiché nessuno può pretendere di avere una completa e perfetta esperienza di Dio, lo studio delle differenti tradizioni religiose non può che arricchire la nostra limitata esperienza.
Noi non comprendiamo a pieno l’universo; non possiamo parlare della morte senza conoscere la vita. Almeno finché esistiamo, c’è una ragione per cui siamo al mondo. E la nostra volontà di credere in questa ragione più ampia ci aiuta ad agire in compagnia delle «potenze divine». E per affrontare la morte bisogna diventare collaboratori di cielo e terra nella creazione di un universo migliore: un traguardo raggiungibile se siamo aperti alle esperienze religiose altrui.
Lo studio delle religioni è di grande importanza anche nella stessa teologia cristiana. Senza raggiungere una prospettiva comparativa mondiale, la teologia cristiana non può né conoscere totalmente le proprie forze, né corroborare le sue debolezze. Per questo, la teologia cristiana ha bisogno di essere fondata sullo studio comparato delle religioni.

Il dialogo interreligioso è uno dei principali traguardi dello studio delle religioni. È importante nel nostro tempo inculcare nella mente della gente la «cultura del dialogo». «Il dialogo come attività umana e umanizzante – afferma il gesuita Raimond Panikkar, uno dei più grandi filosofi e teologi viventi – non è mai stato così indispensabile in tutti gli ambiti della vita quanto nel nostro tempo di individualismo accademico. Tutto il nostro loquace parlare di “villaggio globale” si effettua su paraventi artificiali sotto chiave».
Pace e coesistenza armoniosa della gente sono minacciate da estremismo e terrorismo. Per questo in tutto il mondo c’è un risveglio tra le persone di buona volontà, impegnate in uno sforzo di creare un’atmosfera di  amicizia e cordialità verso le religioni altrui.
Il traguardo da raggiungere nel dialogo interreligioso è, a sua volta, quello di rimuovere le nostre maschere religiose, che non hanno nulla a che fare con la vera esperienza religiosa. Il vero dialogo religioso ha luogo solo quando raggiunge le profondità delle intime credenze religiose e affronta gli interrogativi fondamentali sul senso della vita. Quando le maschere sono rimosse una ad una e siamo immersi nel dialogo con tutta la nostra persona, allora emerge qualcosa dal di dentro e comincia il «dialogo interreligioso».
A conclusione, riporto un poetico sermone di Panikkar, che contiene alcune linee-guida fondamentali per il dialogo interreligioso:
«Quando intraprendi un dialogo interreligioso, non pensare in anticipo ciò che devi credere.  Quando testimoni la tua fede, non difendere te stesso o i tuoi interessi acquisiti, per quanto ti possano apparire sacri. Fai come gli uccelli del cielo: essi cantano e volano, e non difendono la loro musica o la loro bellezza. Quando dialoghi con qualcuno, guarda il tuo interlocutore come un’esperienza rivelatrice, come tu vorresti (e dovresti) guardare il giglio nei campi. Quando prendi parte a un dialogo interreligioso, cerca di rimuovere la trave dal tuo occhio prima di togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo prossimo. Beato te, quando non ti senti autosufficiente mentre stai dialogando. Beato te, quando hai fiducia dell’altro, perché confidi in Dio. Beato te, quando affronti incomprensioni dalla tua stessa comunità o da altri per amore della tua fedeltà alla verità. Beato te, quando non abbandoni le tue convinzioni e tuttavia non le poni come norme assolute». 

di Peter Njoroge Githaiga

Peter Njoroge Githaiga




Quando gli elefanti lottano (è l’erba a essere calpestata)

C’era una volta … un paese ricco di gente povera

La locomotiva dell’Africa orientale è in ginocchio. Le elezioni (tranquille) del 27 dicembre 2007 hanno scatenato un conflitto fratricida. Politica, economia e tribalismo: tre ingredienti micidiali che hanno dato fuoco alle polveri. Tutta la regione sta facendo un balzo indietro. Mentre la comunità internazionale tenta una timida mediazione.

«Non è una lotta tribale. Si tratta di mancanza di giustizia e di vendette» ne è convinto padre Quattrocchio, missionario della Consolata, 44 anni di Kenya, conoscitore delle etnie. Eppure il «tribalismo» (meglio l’«etnicismo») è uno degli ingredienti della profonda crisi che sta attraversando il paese. Ma, come ricorda il sociologo Fabrizio Floris (autore di un saggio sulle baraccopoli di Nairobi), una legge della sociologia recita che a forza di parlare di qualcosa le conseguenze possono diventare reali. Cosa ha portato il gigante dell’economia dell’Africa orientale a crollare? Con un tasso di crescita del Pil superiore al 6% il Kenya è (o meglio era, perché oggi le previsioni sono al 3 – 4%) il motore economico della regione, nonché il principale porto per Uganda, Rwanda, Burundi, Nord Congo e Sud Sudan. Un paese politicamente stabile da molti anni, che consuma in poche settimane quasi 1.000 vite umane e produce 260.000 sfollati (secondo le stime del momento in cui si scrive). È la maggiore crisi della sua storia, dicono gli esperti.
«I segnali erano nell’aria» ricorda un altro missionario italiano «ma non abbiamo saputo leggerli. Abbiamo voluto essere ottimisti. Sembrava che la gente avesse raggiunto un certo grado di maturità democratica». E invece, tutto è precipitato dopo le elezioni del 27 dicembre scorso. Ordinate e con grande affluenza (80%), la gente faceva lunghe code alle ue. E poi la Commissione elettorale che farfuglia nel conteggio dei voti, dando vincente prima l’opposizione, poi un improbabile sorpasso e la vittoria di misura (230.000 voti su un elettorato di 4 milioni) del presidente uscente Mwai Kibaki. Questi si affretta, quasi di nascosto, a prestare giuramento e a costituire un governo con i suoi. Anche se in parlamento è l’opposizione di Raila Odinga a vincere, con 99 seggi su 210 (solo 43 al partito di Kibaki). E infatti è Kenneth Marende fedele a Odinga a essere eletto presidente dell’assemblea.

Blocchi contrapposti

Due blocchi che si arroccano sulle loro posizioni e mettono a ferro e fuoco il paese. Dalle baraccopoli di Nairobi alla città costiera (e importante porto) di Mombasa, alle città dell’Ovest: Kisumi, Eldoret, Nukuru. Case bruciate, gente cacciata dalla propria terra, ammazzata a colpi di machete o arsa viva.
Da un lato il presidente Kibaki e il suo partito Pnu (Partito di unità nazionale), assieme a un’élite economica di privilegiati che lo circonda. Raila Odinga e il suo Odm (Orange democratic muvement) dall’altro. Raila è anche figlio di Oginga Odinga, già primo vicepresidente della storia ai tempi di Kenyatta, poi oppositore durante il «regno», durato 24 anni, di Daniel Arap Moi.
Alleati nelle elezioni 2002, per cacciare Moi dal potere, Odinga e altri si dissociano dopo il referendum del 2004 e il fallimento della riforma costituzionale promessa da Kibaki. Riforma con la quale ci sarebbe stato un trasferimento di poteri dal presidente al primo ministro.
Due leader associati a due gruppi etnici. I kikuyu, a cui appartiene Kibaki, etnia maggioritaria delle oltre 50 (circa il 20%). Da sempre favoriti, fin dal tempo della colonia inglese (ad esempio nella distribuzione delle terre), e poi dal primo presidente e padre della patria Jomo Kenyatta (al potere dal ’64 al ’78). E i luo (circa 13%), a cui appartiene Odinga.

Pasticcio elettorale

«I brogli ci sono stati da entrambe le parti» assicura un testimone «voti sono stati rubati, oltre che comprati, naturalmente».
Già durante la campagna elettorale, non solo folle di giovani venivano pagate dai due campi per manifestare, ma un mercato del voto soprattutto a livello locale, era diffusissimo. «Molti si sono buttati a capofitto nella gara di spillare soldi ai candidati nazionali e locali, perché tutti erano nello spirito di dare. Alcuni hanno pensato che sarebbe stato da stupidi non approfittare» spiega un missionario italiano. «La miopia del volere tutto e subito senza una visione a lungo termine, senza preoccuparsi per il futuro. È impossibile per un politico onesto e senza soldi fare una campagna elettorale in Kenya».
Ma non basta. Una volta capito che Kibaki non arretrava davanti alle proteste sono cominciate le violenze. Luo (appoggiati da kalenjin) ad ammazzare kikuyu, a cacciarli e bruciare le loro case. E viceversa. La polizia a reprimere duramente. E così gli scontri sono diventati «etnici», prima per i mass media e poi per la gente. Esiste anche un macabro tariffario, denuncia padre Quattrocchio: «10-15 euro per bruciare una casa e 15-20 euro per uccidere un kikuyu».
«La questione etnica non è la ragione principale. Il tribalismo è usato, alimentato, fomentato, manipolato senza scrupoli come strumento politico. È vero, esistono antichissimi pregiudizi e diffidenze tra le varie tribù, soprattutto tra allevatori e agricoltori». Spiega Gigi Anataloni, missionario della Consolata e direttore della rivista «The Seed» a Nairobi.

Profonde disuguaglianze

«È un conflitto economico – sociale, mascherato da quello etnico» sostiene il sociologo Floris. Le sue radici stanno nelle profonde disuguaglianze che regnano in Kenya. Nella sola Nairobi, città modea dove si trova di tutto, due milioni di persone sono accatastate nelle baraccopoli, occupando solo il 5% della terra. «È facile assoldare giovani degli slum – continua Floris – per loro il futuro è una minaccia, non una prospettiva». Così sono migliaia i giovani pagati e armati per seminare disordini.
Della stessa idea è Gigi Anataloni: «Questi diseredati sono strumenti micidiali nelle mani di politici assetati di potere». E continua: «Alcune fonti parlano di 5.000 giovani pagati regolarmente ogni mese dal 2005 nella sola Kibera (la più grande baraccopoli di Nairobi, ndr). Le bande di vigilantes o di cosiddetti guerrieri, gli “eserciti privati”, armati e finanziati da pezzi grossi, che tante uccisioni fecero nel 1992 e più tardi, praticamente non sono mai state smantellate».
«Molti giovani degli slum volevano il cambiamento e subito», ricorda padre Bartolomeu, prete diocesano del Meru «e sono rimasti delusi. Da qui la rabbia e la violenza».

Difficili mediazioni

«La situazione si stabilizzerà perché ci sono troppi interessi economici estei – ricorda Floris – non faranno sprofondare il Kenya». Ma la mediazione internazionale ha mosso piccoli passi.
Luis Michel, commissario europeo alla cooperazione e il premio Nobel per la pace Desmond Tutu, sono stati tra i primi a intervenire, ma senza effetto. Così anche John Kufur, presidente del Ghana e presidente di tuo dell’Unione Africana. L’Ua ha quindi inviato l’ex segretario generale dell’Onu, Koffi Annan, che è riuscito a far incontrare per la prima volta i due contendenti, il 24 gennaio e a fare revocare le manifestazioni indette dall’Odm e proibite dal governo. Ma i disordini sono continuati, soprattutto nelle città dell’ovest Nakuru, Naivasha, Eldoret nella provincia Rift Valley, dove circa 140 civili sono stati vittime di massacri tra il 25 e il 27 gennaio. Alcune decine arse vive nelle proprie abitazioni. Annan denuncia «gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani».
«La polizia ha ricevuto ordini di sparare sui manifestanti» dichiara un testimone che chiede l’anonimato «chi brucia case, attacca persone o crea blocchi stradali può essere abbattuto».
La violenza è tale che il presidente della commissione dell’Ua, Alpha Oumar Konaré, all’apertura del summit di Addis Abeba (31 gennaio), parla di rischio genocidio e di «nuovo Rwanda». E chiama tutti i leader africani a intervenire per la pace.

Chi appoggia chi

Kibaki gode del sostegno dell’Uganda, infatti Yoweri Museveni è tra i pochi capi di stato a essersi complimentati con lui per la rielezione e subito a incontrarlo. Testimoni dalle province occidentali dichiarano che «soldati ugandesi attraversano il lago Vittoria di notte per venire in Kenya e dare man forte ai governativi» contro i dimostranti dell’opposizione.  Veicoli per il trasporto merci dal porto di Mombasa all’Uganda sono bloccati e distrutti dai giovani dell’Odm.
Kibaki è invece malvisto dalla Gran Bretagna per aver interrotto cospicui contratti di foiture di automezzi Land Rover all’esercito ed essersi orientato al Giappone. Peggio ancora, il presidente ha rifiutato agli Usa di installare una base militare a Mombasa, sull’Oceano Indiano, strategica per il Golfo Persico. Questo ha scatenato reazioni come sconsigliare ai cittadini statunitensi di recarsi in Kenya.
Oltre Usa e Gran Bretagna ad appoggiare Odinga ci sono anche molti keniani (influenti) della diaspora. Raila avrebbe promesso di istituire la doppia nazionalità (attualmente non prevista) che favorirebbe interessi economici degli emigrati che hanno fatto fortuna all’estero. Odinga avrebbe inoltre potuto contare sul sostegno dei musulmani del Kenya. Il National muslim leaders council avrebbe ricevuto promesse dal candidato dell’opposizione sull’istituzione di leggi che favoriscono l’Islam.

Quali prospettive?

Mentre scriviamo le posizioni dei due leader keniani sono molto ferme. L’Odm chiede l’annullamento delle elezioni e un nuovo scrutinio. Cosa piuttosto difficile, sia perché i brogli non sono stati riconosciuti ufficialmente, sia per lo stato di caos che regna e rende impossibile organizzare alcunché. Kibaki, dal canto suo non vuole sentire dire che non è lui il presidente legittimo.
Anche il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon arriva a Nairobi il 2 febbraio. Il lavoro della mediazione è estremamente delicato, ma anche urgente. Le violenze, che ormai hanno assunto una chiara connotazione etnica, rischiano di andare lontano. 

Di Marco Bello

Marco Bello




Libertà fuori le mura

Reportage da Cartagena e dintorni

Il fascino e la vitalità di Cartagena non riescono a nascondere le sue contraddizioni. A pochi chilometri dalle sue storiche mura, la comunità di Arjona non si rassegna al destino dettato dalla violenza delle armi, che da 40 anni insanguinano la Colombia, ma è impegnata a costruire il proprio futuro, lottando contro la prepotenza e riscoprendo le proprie radici culturali, con l’aiuto dei missionari carmelitani.

Vista dall’alto, Bogotà sembra una città svizzera, distesa su una valle circondata da rilievi brulli e regolari; si scorgono serre, fattorie, mucche al pascolo e abitazioni basse, sul cui tetto è installato il contenitore dell’acqua. Le nuvole formano un coperchio viola sopra il verde della distesa; la temperatura è di 17 gradi e un’atmosfera placida intorno ai quartieri mitiga la fatiscenza delle palazzine di periferia.
Entrati in aeroporto, si incontra la tipica confusione sudamericana, alla quale si aggiunge la sensazione di essere atterrati nello scalo di una città di provincia e non in quello della capitale. Al check-in per imbarcarmi sul volo diretto a Cartagena de Indias, due giovanissimi poliziotti mi fanno mille storie per un tagliaunghie, frugano dentro il mio bagaglio: sono interminabili minuti di confusione e, da parte mia, di nervosismo dovuto alla stanchezza del viaggio.
Alla fine della discussione con i poliziotti sono costretto a lasciare a terra il tagliaunghie; li saluto e cerco di dare una sistemata al bagaglio, visto che mi hanno fatto tirare fuori tutto quanto, e mi avvio verso la porta d’imbarco. Dopo aver riposto il passaporto e il biglietto al sicuro, mi accorgo che mi manca la cintura dei pantaloni che avevo dovuto deporre sul banco del check-in.
Nella sala d’attesa una buffa signora sulla sessantina, vestita da infermiera, si intrufola tra i viaggiatori domandando se vogliono farsi misurare la pressione. La mia attenzione è attratta da due indios, due facce arrostite dal sole e da un passato antichissimo: sguardo fiero e mento pronunciato, zigomi accentuati e guance solcate da due rughe come segni di coltelli. Portano capelli lunghi che si adagiano su una tunica bianca; indossano cappelli a forma di feluca e mostrano a tracolla l’immancabile borsa di lana.
Dall’altra parte della sala alcuni professionisti stanno lavorando al loro computer portatile parlando d’affari al cellulare; vestono informali e lanciano sguardi circoscritti, come se non vedessero l’ora di essere su un aereo per la prossima destinazione.
Ancora alquanto disorientato, mi guardo intorno e scruto la buffa infermiera che si dilegua in tutta fretta e scompare nel fiume indistinto di giacche e bagagli. Finalmente arriva il momento dell’imbarco per la mia finale destinazione: Cartagena.

VECCHI E NUOVI PIRATI

È già notte quando l’aereo atterra a Cartagena, che appare in tutta la sua suggestiva bellezza, carica di storia secolare.
Cartagena venne fondata nel 1533 dallo spagnolo Pedro de Heredia, sulla costa del Mar dei Caraibi, nella zona settentrionale del paese. Nel luogo in cui ora sorge la città, viveva una popolazione chiamata calamarì, descritta dalle cronache dell’epoca come gente feroce e amante della guerra, al punto che anche le donne combattevano al pari degli uomini.
Sin dalle sue origini, Cartagena fu un attivissimo porto dedito al commercio degli schiavi: vi operavano, tra gli altri, gli agenti della compagnia portoghese Cacheu, la quale distribuiva i carichi umani provenienti dall’Africa per tutta l’America del sud.
Per preservare la città dagli attacchi dei pirati inglesi, olandesi e francesi, la corona spagnola assoldò abili ingegneri militari europei, i quali dotarono Cartagena di quelle strutture difensive che ancora oggi la rendono unica. Il centro storico, infatti, è stato dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco nel 1984, proprio per l’imponente e storica bellezza delle mura che circondano la città vecchia, la ciudad amurallada. Più in alto, su una collina si erge il castello di San Filipe, un’altra costruzione militare a protezione della città. Mura e castello sono splendidamente illuminati.
Sulla medesima collina, nell’oscurità del cielo si staglia, fisso e sospeso, il convento della Popa, antica residenza dei gesuiti, che ancora oggi emana un forte senso di autorità, come se sorvegliasse la città distesa ai suoi piedi.
Le luci inondano di polvere d’oro l’aria densa di calore; la salsedine attacca l’antica pietra di questa città eroica, accarezzata dalle onde placide dei Caraibi. Ma se ora, come quella notte di quasi cinque secoli fa, spuntasse un’altra volta con la sua flotta il corsaro inglese Francis Drake, che gli spagnoli soprannominarono «el draque» (il dragone), non ci sarebbero più a fronteggiarlo il sangue degli schiavi, né gli aggressivi calamarì e neppure i cannoni del governatore spagnolo. Troverebbe, al contrario, una straripante gioia di vivere, una innata cultura fatta di balli e musica, e poi donne bellissime e dai vestiti sgargianti; tutte cose che allontanano per il momento dalla mente del visitatore l’immagine reale del paese, cioè, l’idea dominante nelle cronache inteazionali di una nazione martoriata da una guerra civile che perdura da quarant’anni.
Malgrado queste suggestioni, condivisibili ma parziali, al posto degli spagnoli Drake troverebbe la polizia locale, impegnata ogni giorno a infondere sicurezza ai turisti, uomini d’affari e politici che affollano la città custodita all’interno delle mura: oggi come allora il pericolo si trova all’esterno: in passato i nemici venivano dal mare, adesso ciò che fa paura e che non deve interferire con la vita di coloro che godono della bellezza imperitura di Cartagena è la miseria, la violenza e il degrado sociale e umano che regnano nei quartieri periferici.

L’ECONOMIA DEL SUCCO

Nelle strade di una domenica mattina, a Cartagena, non trovo tracce né di poliziotti né di malviventi, solo pochi passanti lenti e addormentati che percorrono le vie del centro storico, costeggiate dalle tipiche abitazioni in stile coloniale, con i muri azzurri, verdi e arancione; vie che si aprono in piccole piazze accoglienti, con comode panchine, dove siedono alcuni signori silenziosi.
Agli angoli delle piazzette e sui balconi si vedono tanti fiori, orchidee rosse e celesti. Con il passare delle ore, la città si sveglia e già sulla spiaggia di Bocagrande, dove si concentrano gli alberghi e i sollazzi dei turisti, i bagnanti si crogiolano al sole e i venditori ambulanti fanno la spola a destra e a manca per racimolare qualche pesos. Offrono ogni sorta di mercanzia: bibite, frutta, collanine, schede telefoniche o mettono a disposizione addirittura il proprio cellulare per chiamare direttamente. Ci si imbatte pure con massaggiatrici ambulanti, misteriose cartomanti e furbi ometti, impegnati a piazzare i loro intrugli spacciati come soluzioni più potenti del viagra.
E poi si incontra il tipico taxista, l’abile conoscitore dei vizi insiti nella natura umana, nonché di tutti i postriboli della città, che offre piaceri e cocaina in paradisi artificiali. 
Ma sul molo del porticciolo turistico della Bodeguita, da dove si salpa per raggiungere le isole da favola antistanti la città, la vita non appare paradisiaca; eppure si percepisce una certa effervescenza nell’aria; dal ponte del battello si può ammirare tutta la baia che si dischiude come un fiore dai petali cristallini e marini; sullo sfondo la cupola della cattedrale e altre strutture di rilevanza architettonica sembrano formare gli elementi di un arazzo; in mezzo ai flutti spunta la statua della Madonna che protegge la città, guarda le navi ancorate, le eroiche fortificazioni spagnole e i grattacieli dei nuovi ricchi, costruiti dalla speculazione selvaggia su una striscia della baia.
Ma lontano dalla brezza inebriante dell’oceano, nella periferia della città, dove si trova la zona industriale, tira tutta un’altra aria. Qui la mano d’opera arriva dalle depresse cittadine dell’interno e dai quartieri come quello chiamato Daniel Lemaitre: qui scorrazzano agguerrite bande di ragazzini che, oltre a rappresentare una seria emergenza delinquenziale, sono il coltello nella piaga di un sistema scolastico con molte falle e di un tessuto familiare sfibrato da disoccupazione e violenza domestica.
Malgrado il futuro sia macchiato da molte incognite, la notte si distende noncurante sui mendicanti, che sonnecchiano sotto i cartelloni pubblicitari con le facce dei candidati alle prossime elezioni amministrative; al tempo stesso, un fremito di vita, come una lunga scossa elettrica, pervade tutta la città, dai bassifondi al centro storico fino ai viali del benessere, dove fluisce una coda di auto costosissime.
Sul pullman che mi riporta alla mia abitazione sale un giovanotto che, con abilità da giocoliere, versa da una caraffa succo di frutta a un gruppo di studenti festanti e seminudi che hanno trascorso la domenica al mare. In una danza di sobbalzi e strategie da equilibrista, l’uomo del succo non ne lascia cadere neppure una goccia. Sembra posseduto da un fantasma, da uno spirito temerario e ghignante, quasi fosse la reincarnazione di qualche pirata, nuovamente alla conquista di Cartagena de Indias, spirito di un corsaro il cui eroismo oggi si dibatte tra l’immondizia lasciata ai bordi delle strade e il divertimento che si acquista nelle sfrenate notti sotto la Luna dei Caraibi.

SOGNI DI LIBERTÀ

Una volta svincolatomi dai movimenti esuberanti di Cartagena, mi dirigo verso Arjona, una cittadina nell’interno del dipartimento di Bolivar, per incontrare la comunità dei carmelitani in cui padre Lauro Negri, in Colombia da un trentennio, opera insieme a sacerdoti, laici e postulanti: una quindicina di giovani, tutti colombiani, che frequentano i corsi di filosofia nel seminario di Turbaco, in vista di continuare la loro preparazione al sacerdozio frequentando gli studi teologici a Roma.
Oltre a gobbare sui libri di filosofia, i giovani aspiranti carmelitani sono impegnati nell’animare la comunità parrocchiale e nelle sue varie attività pastorali indirizzate ai giovani, agli anziani, alle donne e agli indigenti, che ogni giorno si presentano nelle varie mense della città allestite da padre Lauro con l’aiuto del Piano mondiale dell’alimentazione.
Tutti i venerdì pomeriggio si recano nei quartieri che circondano la parrocchia, visitano le case di alcune famiglie dove si riuniscono con altre persone per leggere e commentare passi scelti del vangelo. Un pomeriggio accompagno due postulanti nel quartiere Limonal; l’appuntamento è nella casa di una famiglia originaria di una regione del sud della Colombia, trasferitasi ad Arjona per motivi di salute della signora, malata di cuore e bisognosa di un clima meno rigido. L’abitazione è semplice, con pochissime suppellettili, qualche elettrodomestico scassato e un tetto di lamiera che moltiplica minacciosamente il rumore prodotto da un forte e prolungato acquazzone.
La signora ha un’espressione dolente; mi racconta che va e viene dall’ospedale per sottoporsi a varie visite cardiologiche. Il marito mostra un misto di rassegnazione e di ironia, forse si tratta semplicemente di devozione per il proprio mestiere. Infatti tutte le notti lavora e impasta la farina per fare i panini, che al mattino presto inizia a consegnare nelle varie panetterie della città, spostandosi sempre in bicicletta.
I tre figli della coppia, finiti i compiti, un po’ al buio e un po’ con la luce – poiché l’elettricità a volte manca – contemplano seduti la superficie del tavolo completamente coperta dai panini del padre e forse i loro sogni non andranno più in là di quei pezzi affusolati di pane. Per tirare avanti in queste condizioni e mantenere alta la dignità e viva l’umanità ci vuole davvero un massiccio slancio di fede e di speranza nel futuro.
Si trova sempre la speranza nel fardello che appesantisce le spalle di coloro che lasciano la terra, come la famiglia del pane e come le tante famiglie che hanno raggiunto Arjona per sfuggire dalle nefandezze del conflitto armato. Li chiamano desplazados (sfollati), perché scappano dalle zone meridionali del paese dove le unità dell’esercito regolare, le squadre dei paramilitari e i guerriglieri si contendono il dominio del territorio e a farci le spese sono sempre e solo i civili, che in massa sono costretti ad abbandonare le loro case.
Nel giugno del 1995, 215 famiglie di sfollati giunsero ad Arjona, impaurite e, bisognose di tutto, presero possesso di un terreno incolto; da quel momento iniziò un duro contenzioso legale tra gli occupanti, supportati dalla comunità carmelitana, e il proprietario del latifondo, che lottò con ogni mezzo per conservare intatta la sua proprietà. La battaglia si risolse a favore della gente, che vide così la nascita di un nuovo quartiere con il nome Sueños de Libertad (sogni di libertà).
Da quei giorni incandescenti sono passati più di 12 anni; grazie a quel riconoscimento giuridico sono state costruite molte casupole di mattoni, lamiere e terriccio; ma l’amministrazione comunale non interviene per umanizzare e organizzare il quartiere. Qui la disoccupazione è cronica, la delinquenza morde soprattutto al calar del sole, la violenza familiare produce irreparabili disagi ai soggetti più deboli come i bambini e le donne, molti non possono usufruire dell’acqua e della luce; altre famiglie continuano ad arrivare, generando nuovi problemi che inevitabilmente si intrecciano con quelli ancora da affrontare.
Due signore arrivate da pochi mesi nel quartiere, mi raccontano dei loro figli uccisi dalla polizia, perché sospettati di collusione con la guerriglia, e dei loro villaggi saccheggiati sia dai paramilitari che dai ribelli. È gente che si è trovata tra l’incudine e il martello, cioè, tra lo stato che cerca di imporre la sua legge in tutti i modi e i rivoluzionari che tentano di rovesciare un ordine costituito, considerato illegittimo; gente che in Sueños de Libertad trovano almeno un po’ di pace per riprendere fiato; anche se si tratta di un respiro sempre affannato, a causa delle precarie condizioni socio-economiche.

A SCUOLA DI UMANITÀ

In tale contesto scoraggiante, l’unica possibilità di riscatto per questa comunità, nata dalla guerra e risorta dalle ceneri della lotta per la terra, è la scuola voluta e fondata dai carmelitani, a partire dalle classi dell’asilo fino a quelle superiori. Si chiama Centro educativo «Maria Eugenia Velandia», in memoria di una suora francescana venuta a mancare qualche anno fa, il cui impegno per gli altri rappresenta il fondamento dell’istituzione scolastica.
Da quando ha aperto i battenti nel 2001, la scuola ha visto crescere costantemente il numero degli alunni, passando dai 120 dell’inizio ai quasi 600 di oggi. Il Centro educativo è veramente il cuore pulsante della comunità: i genitori partecipano attivamente agli incontri in cui si illustrano e rinnovano i progetti didattici e alle feste organizzate per rafforzare l’identità della scuola.
Agli studenti più grandi, oltre alle materie tradizionali il Centro propone programmi concreti di educazione al rispetto reciproco, al riconoscimento dei valori delle diversità e presa di coscienza delle proprie capacità. Inoltre, è attiva la cattedra di cultura afro, al fine di riscoprire le antiche radici culturali di molti di questi ragazzi e valorizzae le attuali potenzialità.
Nonostante i problemi materiali e finanziari che ogni giorno i carmelitani devono affrontare, rimane altissima l’attenzione verso questi ragazzi, che soffrono le condizioni di precarietà in cui versano molte famiglie e le terribili conseguenze del conflitto interno: una guerra che nessuno riesce a spiegare e che nelle parole degli sfollati appare sempre di più come un’insensata lotta per il potere.
Ai margini di tale cinico gioco al massacro, perpetrato sulla pelle dei più indifesi, la scuola si fa carico dei loro problemi e con amore cerca di rendere meno dure e amare le difficoltà della crescita e della maturità. Un amore rivolto soprattutto ai più piccoli che frequentano l’asilo. Sono questi, infatti, le vittime più vulnerabili, che assorbono come spugne la violenza che incontrano in famiglia e nelle strade. Al loro fianco, come scudo per ripararli dalla crudeltà dei giochi dei potenti, ci sono le maestre che sotto un sole terribile o in mezzo al fango lavorano quotidianamente con dignità insuperabile, inflessibile e bella. 

RADICI

Ad Arjona manca il lavoro, non esistono né una vera e propria imprenditoria né la cosiddetta classe media dei colletti bianchi. I commerci e gli affari girano intorno alla «bomba de gasolina», la pompa di benzina, situata sulla strada per Cartagena battuta incessantemente da auto, moto e pullman stracarichi di gente.
Chi resta in città si arrangia attraverso piccole attività commerciali, lavoretti saltuari e non specializzati; oppure si ingegna per aggraziarsi le simpatie di qualche politico locale, specialmente nel periodo elettorale: affidarsi a un potente potrebbe risultare un’azione vincente per conseguire un’occupazione.
Altre persone invece si riversano su Cartagena; pochi, però, riescono a usufruire di uno stipendio fisso. Di conseguenza solo un gruppo ristretto si può permettere l’automobile o il computer a casa. La maggior parte si ritiene fortunata se riesce a tornare dalla grande città portando a casa il ricavato di un lavoro saltuario, che non si trova tutti i giorni. La fame, invece, non va a corrente alternata.
Ad Arjona gli spazi di aggregazioni sono un miraggio. Oltre alla bomba de gasolina, unico punto d’incontro è il piazzale che circonda la chiesa. I giovani soprattutto, vi passeggiano il sabato sera e per divertirsi si accontentano di poco: basta un po’ di musica che da queste parti spopola da sempre.
Mentre i ragazzi intessono le loro storie d’amore in questo ampio e lento girotondo, all’interno della chiesa si prega e, alla fine di ogni celebrazione, mi sembra quasi di percepire un sospiro di sollievo e di liberazione, come se la preghiera, carica di aspettative e di speranze, colmasse uno spazio irrazionale, ancestrale, legato al passato e all’anima africana di questa gente.
Tutto questo non è casuale. A pochi chilometri da Arjona, infatti, si può visitare un pezzo di continente nero: un villaggio interamente abitato da discendenti degli schiavi che orgogliosamente difendono le loro origini africane; vivono un po’ isolati, fuori dal mondo, anche se la televisione domina in quasi tutte le case; in una di queste abitazioni sorprendo una signora anziana mentre guarda distrattamente i Simpson, in una stanza piena di fotografie degli antenati. Sono prevalentemente agricoltori: ciò che riescono a produrre, lo vanno a vendere a Cartagena.
Il villaggio si chiama Palenque e gli abitanti parlano il palenquero, un idioma nato dall’innesto dello spagnolo su una base di dialetti africani mescolati tra loro. Attraverso la biblioteca della scuola, lo sport e attività artigianali, sono impegnati tutti i giorni a conservare con fierezza le radici del grande albero della cultura africana. Durante la dominazione spagnola, un gruppo di ribelli trovò la forza e il coraggio di fuggire trovando rifugio in una zona ben protetta, dove continuarono a lottare contro i loro aguzzini che ovviamente cercavano di rimetterli in catena. La resistenza fu così difficile da sedare, che gli spagnoli dovettero cedere, concedendo la libertà ai fuggiaschi che fondarono il nuovo villaggio. Era il 1603, così recita il monumento celebrativo davanti alla chiesetta del villaggio, sotto un cielo di enormi e rapide nuvole nere. 

Di Paolo Brunacci

Paolo Brunacci




Dai «termovalorizzatori» alla raccolta differenziata

Ancora lettere sui rifiuti

Dopo i gravi fatti accaduti in questi giorni a Napoli per le grandi quantità di rifiuti che si stanno accumulando per le strade, i giornali e le televisioni stanno presentando come unica soluzione quella dei termovalorizzatori, che, sempre secondo tutti gli organi di informazione, possono distruggere i rifiuti, trasformandoli in energia pulita, senza rischi per la popolazione, in virtù dei modei sistemi di abbattimento delle sostanze inquinanti presenti nei fumi.
Alcuni giornalisti hanno riferito, ad esempio, che l’aria di Brescia non risente della presenza del termovalorizzatore ed è «così pulita, che più pulita non si può» (La Stampa, 8 gennaio 2008), e che presso l’inceneritore di Granarolo (Bologna) pascolano mucche che producono latte di alta qualità (Porta a Porta, Rai1, 8 gennaio 2008).
Altre fonti hanno riferito che la quantità di diossina prodotta dagli inceneritori è paragonabile a quella di una strada un po’ trafficata e che i grandi produttori di diossina sono le acciaierie e fonderie, che non vengono contestate.
Tempo fa ho letto su Missioni Consolata un articolo di «Nostra madre terra», che parlava chiaramente dell’imbroglio dei termovalorizzatori, e vorrei sapere se l’evoluzione della tecnica ha effettivamente ottenuto una riduzione del rischio degli impianti di trattamento dei rifiuti o se siamo di fronte a una informazione distorta e manipolata ad arte dalle lobby inceneritoriste.
Sarei curioso di sapere cosa dicono i medici, che sarebbero i più qualificati per dare risposte su problemi che riguardano la nostra salute e il fatto che nessuno di loro sia stato interpellato o abbia parlato pubblicamente mi ha insospettito. C’è forse qualche forma di censura da parte dei media?
In attesa di un gradito riscontro, porgo cordiali saluti.

Margherita Bechis
Torino

I n queste settimane di emergenza rifiuti in Campania, quasi tutti i mezzi di informazione hanno presentato i termovalorizzatori come la soluzione ideale del problema. È possibile che si tratti di disinformazione, correlata a interessi legati alla realizzazione di tali impianti, o che si tratti di un’informazione superficiale, che non controlla le fonti e che trascura, ad esempio, i pareri dei medici, che sono le persone più qualificate per giudicare una situazione che riguarda la salute pubblica.
In ogni caso siamo di fronte a una informazione che non tiene in nessun conto i principi fondamentali della fisica, della chimica e della medicina.
La situazione di Napoli non si potrebbe definire di emergenza, perché è almeno un decennio che il problema dei rifiuti è presente. In Campania c’era un piano, che prevedeva di realizzare un mega-appalto, che avrebbe risolto il problema, dando a una grande azienda del Nord la gestione dei rifiuti, chiudendo tutte le discariche e realizzando sei impianti di Cdr, il cosiddetto «combustibile da rifiuti». Nell’attesa della realizzazione del termovalorizzatore di Acerra, un impianto di selezione dei rifiuti ha prodotto dei pacchi (le «ecoballe»), che dovevano essere costituiti dalla parte combustibile dei rifiuti.
Alcuni osservatori attenti, hanno notato che questi pacchi contenevano anche rifiuti che non avevano le caratteristiche previste e hanno informato l’autorità giudiziaria, che ha iniziato un’indagine, ha fermato i lavori e ha messo sotto sequestro parte degli impianti. Tra coloro che hanno presentato le denunce alla Procura della Repubblica, c’è anche il ministro dell’ambiente Alfonso Pecoraro Scanio, del quale molti avevano chiesto le dimissioni.
Intervistato da «Ambiente Italia» di Rai3, il senatore Tommaso Sodano, presidente della Commissione ambiente del senato, ha parlato dell’inchiesta sui rifiuti in Campania, partita nel 2002 anche dopo le sue denunce, che ha raccolto 100 mila pagine di documenti.
Mentre si attendono le decisioni della magistratura, è partita una specie di offensiva mediatica, che sembra aver lo scopo di convincere la gente che l’unica soluzione possibile per risolvere il problema sia quella di costruire altri termovalorizzatori.
In questo contesto ben si inseriscono le osservazioni della gentile signora che ci scrive. L’immagine evocata a «Porta a Porta» delle mucche che pascolano tranquillamente nei pressi dell’inceneritore di Granarolo dell’Emilia è sembrata, non solo a me, più preoccupante che rassicurante, in virtù di quanto sta accadendo a Brescia, all’ombra del «miglior termovalorizzatore del mondo», che è stato realizzato in un’area già fortemente inquinata a causa della presenza di un’industria chimica.
La Stampa ha scritto che a Brescia «tengono l’aria così pulita che più pulita non si può» (sic!) e infatti molti sono convinti che il termovalorizzatore non sia inquinante. In realtà tutti coloro che hanno studiato gli effetti sulla salute degli impianti di incenerimento dei rifiuti hanno rilevato un aumento dell’incidenza di tumori, malattie cardiovascolari e malformazioni nei bambini.

T ra le centinaia di composti tossici emessi dai camini degli inceneritori merita particolare attenzione la diossina, la cui presenza viene in genere negata da coloro che vogliono realizzare questi impianti.
Per farsi un’idea della grande quantità di diossina (e non solo) emessa da un impianto di incenerimento di quella taglia, basta leggere il recente libro di Mario Tozzi «Gaia. Un solo pianeta», dove il noto scienziato, dati alla mano, riferisce che anche quando i monitoraggi indicano valori entro i limiti di legge o addirittura zero, il rischio resta grave e reale per le persone che vivono nei dintorni dell’impianto.
Quanto illustrato da Mario Tozzi sembra spiegare i recenti fatti di Brescia, dove tre aziende agricole si sono viste respingere il latte dalla Centrale per eccesso di diossina e dal 7 dicembre (visto che le incolpevoli 150 vacche coinvolte vanno comunque munte ogni giorno) portano il prezioso liquido alla distruzione.
Altre sette aziende agricole dell’area sono sotto stretta osservazione, perché anche nel loro latte è stata trovata diossina.
La vicenda delle diossine nel latte è oltremodo preoccupante, perché si colloca in un contesto in cui, come è noto, i bresciani hanno già una concentrazione elevatissima di queste sostanze nel sangue (più che a Seveso). Il fatto che, dopo il disastro Caffaro, a Brescia circoli del latte con le diossine oltre i 6,5 picogrammi per grammo di grasso (ma sarebbe intollerabile anche se le diossine fossero di poco sotto i 6 pg) è scandaloso, se si tiene conto che mediamente le diossine nel latte italiano risultano al di sotto di 1 pg/gr grasso.
Marino Ruzzenenti del Forum Ambientalista di Brescia, studioso del caso Caffaro e delle ricadute ambientali dell’inceneritore cittadino afferma: «Abbiamo richiesto più volte all’Arpa di svolgere un’in­dagine sulle ricadute al suolo di diossine e altri inquinanti nell’area circostante l’inceneritore dell’Asm e l’Alfa Acciai, ma, nonostante tanti solleciti e un esposto in procura, l’indagine non è mai stata fatta».
Gli ambientalisti di Brescia, in un documento diffuso in rete, chiedono che Arpa e istituzioni finalmente si liberino da ogni sudditanza nei confronti delle aziende responsabili di queste emissioni nell’ambiente, rimediando anche allo scandalo dell’immotivata soppressione della centralina di via Bettole, l’unica che rilevava la qualità dell’aria nella zona di maggior impatto di questi impianti industriali.
La soppressione di questa centralina, a suo tempo appositamente posizionata dai tecnici della provincia, non è mai stata motivata dalla nuova direzione dell’Arpa di Brescia, autorizzando i cittadini a pensare che ciò sia avvenuto per non «disturbare» appunto l’attività di quegli stessi impianti a fortissimo impatto ambientale.
I comitati ambientalisti di Brescia attendono da parte della Magistratura, finalmente, un’azione incisiva per garantire l’informazione alla popolazione, per la tutela della salute e dell’ambiente e perché vengano perseguiti i colpevoli dei danni di cui trattasi, nonché delle omissioni nei controlli. Un testo, a firma di Marino Ruzzenenti e riportato integralmente sul sito di Beppe Grillo, dice testualmente: «A Brescia vi sono inquietanti analogie con la Campania: nel latte di aziende dei dintorni della città si è recentemente scoperta una presenza di diossine fuori norma; si nota inoltre un’elevatissima incidenza di tumori al fegato.
Ma il Registro tumori dell’Asl, rassicurante, sostiene, senza dati verificabili, che ciò è imputabile all’eccesso di epatiti e di consumi di alcol (Gioale di Brescia, 10 novembre 2007). Va segnalato che l’ing. Renzo Capra, presidente di Asm, fa parte del Comitato scientifico del Registro tumori dell’Asl, di cui è anche finanziatore».
Il fatto segnalato dal Ruzzenenti, se confermato, sarebbe di una gravità senza precedenti.

È sempre più evidente che la scelta di bruciare i rifiuti resta una follia.
L’alternativa esiste ed è la raccolta differenziata, che consente di riciclare e riutilizzare percentuali di rifiuti che possono arrivare anche al 90% e oltre, mentre l’inceneritore produce ceneri nocive, che devono essere smaltite in discariche apposite, pari al 30% del peso originale dei rifiuti, senza contare il grande uso di calce, ammoniaca, carboni attivi utilizzati nei filtri e lo spaventoso consumo d’acqua, pari a circa un litro e mezzo per chilogrammo di rifiuto trattato. Un inceneritore come quello del Gerbido di Torino consumerà quasi 2 milioni di litri d’acqua al giorno!
Per fare la raccolta differenziata basta raccogliere separatamente gli scarti di cibo e le bucce della frutta, il cosiddetto «umido» (30%), la carta (28%), la plastica (16%), il vetro (8%) e siamo già all’82%, restano ancora il legno e gli stracci (4%) e i metalli (4%) che portano la percentuale di riutilizzabile al 90%. Il restante 10% può essere stabilizzato senza problemi e messo in qualsiasi discarica.
Ancora due parole sul paragone tra l’inquinamento dovuto al traffico e quello degli inceneritori. Il traffico cittadino viene considerato «responsabile di centinaia di migliaia di morti all’anno solo in Italia» (Mario Tozzi – La Stampa del 12 gennaio 2008) e a fronte di questi dati si può correttamente affermare che, se il rischio legato agli inceneritori è simile a quello del traffico, siamo di fronte a un grave pericolo per la salute dei cittadini.
Per quanto riguarda le acciaierie e le fonderie ha ragione la signora: questi impianti industriali sono i più grandi produttori di diossina e pensiamo di parlarne a fondo in uno dei futuri numeri di «Nostra madre terra».

R. Topino e R. Novara

Roberto Topino e Rosanna Novara




Cari missionari

«Missioni Consolata» alla Sorbona di Parigi

Caro Direttore,
insegno Relazioni inteazionali in una nota università di Parigi. Spesso, per le mie lezioni e per discutere con gli studenti dei fatti più importanti che accadono nel mondo, porto diverse riviste di attualità internazionale, tra cui la sua.
Abbiamo potuto apprezzare così la serietà del suo magazine e, sia io che gli studenti, ci eravamo particolarmente affezionati a due giornalisti, Giulietto Chiesa e Piergiorgio Pescali, i cui articoli leggevamo con interesse e trovavamo sempre puntuali e ricchi di spunti per le nostre discussioni. Purtroppo vedo che nessuno dei due scrive più sulla vostra rivista. Ci piacerebbe che tornassero a scrivere o, se è possibile, potrebbe dirci su quale rivista o giornale scrivono ora questi due giornalisti? La ringrazio per la risposta.
PS. Ho conosciuto la rivista da una mia amica in Italia.
Valerie Lacombe Boulenga
Parigi

Ci fa piacere e ci lusinga sapere che Missioni Consolata è apprezzata e «studiata» in una università prestigiosa come la Sorbona; per questo abbiamo provveduto a inviarla, in abbonamento omaggio, alla biblioteca del Dipartimento di studi inteazionali del famoso ateneo.
Per quanto riguarda il dott. Pescali, abbiamo pubblicato un suo articolo sulla Corea del Nord nel numero di gennaio 2008 e ne pubblicheremo un altro sulla Cambogia nel numero di aprile.


Grazie per il 5×1000

Gentile Redazione,
ho lavorato qualche mese a Mogadiscio nel 1992-93, presso l’ospedale pediatrico del SOS Kinderdorf Inteational con suor Marzia Ferrua e sono rimasto in contatto con lei per qualche anno… Mi piacerebbe riprendere i contatti con suor Marzia che penso sia ancora a Nairobi, perché in maggio devo (situazione permettendo) andare lì e passarvi un mese come tutor di un gruppo di 10 pediatri africani, che iniziano ora in febbraio un training course di 2 anni in endocrinologia pediatrica (in un ospedale di quella città) organizzato dalla Società europea di endocrinologia pediatrica (Espe), e mi piacerebbe incontrarla nuovamente.
Vi ringrazio per l’attenzione e complimenti per la rivista che sia io, pediatra (universitario, ma con interessi per i paesi in via di sviluppo e per la cooperazione), sia mia moglie, insegnante, leggiamo e troviamo utile per conoscere meglio il Sud del mondo e i guasti che noi produciamo. La conoscenza di suor Marzia e delle altre sorelle di Mogadiscio, il sacrificio di suor Leonella ci ha spinto a indicare le vostre missioni per il 5 per mille…
Un cordiale saluto e augurio a voi ed ai religiosi e religiose della Consolata di sempre ottimo lavoro.
Raffaele Virdis
Parma

In una seconda e-mail, il dott. Virdis ci ha comunicato che suor Marzia si è fatta viva, prima che arrivassero le nostre informazioni. Intanto, ringraziamo per l’apprezzamento della nostra rivista, per la stima e simpatia verso i nostri confratelli e consorelle e per il sostegno alle loro attività missionarie.

Tranquilli… Siamo per la vita!

Caro Direttore,
ho terminato di leggere il numero monografico di ottobre-novembre, dedicato alle «Donne dell’altro mondo». È ampio, ben documentato e interessante, complimenti!
Mi chiedo, però, se alla redazione della «Consolata» non vi siete accorti di qualche distonia, nei testi pubblicati, con l’insegnamento morale della chiesa in materia di bioetica. Parlare di Michelle Bachelet, «presidenta» del Cile, e dire che «si è ricordata delle donne quando ha dovuto decidere su altre tematiche dividenti» è un modo un po’ involuto e, secondo me, poco corretto di dribblare sui temi, subito accennati nel testo, della pillola del giorno dopo e della «salute sessuale e riproduttiva degli adolescenti», dizione che nasconde, tutti lo sappiamo e mi preoccupa che lo nascondiate, la questione dell’aborto. Sappiamo come la pensa la Bachelet: sono diritti delle donne che lo stato laico deve riconoscere e anzi favorire. Perché non dire apertamente che la pensa così?
È, innanzitutto, una questione di correttezza e di completezza di informazione: i lettori italiani, indipendentemente da come la pensano, hanno il diritto di conoscere le opinioni dei governanti cileni, e anche di come la pensa la rivista di una delle congregazioni più note dei missionari italiani. Che poi magari agli italiani non gliene importi o non ne sappiano molto del Cile, in questa sede non ha importanza, anzi è un motivo di più per far crescere le conoscenze dei lettori su quanto accade negli altri paesi.
Il problema della qualità della notizia e del giudizio morale sul comportamento delle donne che vanno al potere nei paesi del terzo mondo, rimane.
Nel numero monografico c’è un altro richiamo alla cosiddetta «salute riproduttiva», quando si parla di Odile Sankara del Burkina Faso: sembra di capire (ma non lo dite chiaramente) che anche lei lotta per risolvere i problemi legati all’aborto che riguardano le donne del suo paese, ma parlare della solita «salute riproduttiva» fa capire in che modo intenda risolverli. E allora perché non spiegare chiaramente come la pensa questa donna, aiutando i lettori a elaborare un giudizio critico e motivato, compito precipuo di una rivista di formazione cristiana dove senz’altro nessuno ha dimenticato l’invito evangelico di dire sempre «sì, sì; no, no»?
Mio suocero e due miei cognati hanno studiato a Bevera e a Varallo Sesia, e senz’altro hanno ricevuto una buona formazione cristiana: oggi sono forse cambiate le cose da voi e, anziché il rispetto della vita umana dalla nascita alla fine naturale, si insegnano i diritti riproduttivi, tanto propagandati dall’Onu?
Spero proprio di no, spero che le opinioni espresse siano quelle dei giornalisti che hanno scritto gli articoli, e che magari sull’argomento non sono molto in linea con Giovanni Paolo ii e Benedetto xvi. Se invece anche voi avete cambiato idea… non c’è più religione!
Cordialmente.
Franco Eustorgio Malaspina
Milano

Prima di tutto, sig. Malaspina, grazie dei complimenti per il numero monografico sulle «Donne dell’altro mondo».
Nel compilare il nostro numero abbiamo voluto semplicemente presentare alcune figure di donne che stanno cambiando i paesi del Sud del mondo, facendosi strada in tutti quei campi ancora riservati al genere maschile. Ciò non significa che ne approviamo tutte le idee e le iniziative concrete.
Per cui vogliamo tranquillizzare il nostro affezionato lettore: siamo sempre stati schierati e continueremo ad esserlo in difesa della vita, dal suo concepimento fino alla morte naturale.

Siamo schierati… con gli oppressi

Ho letto sul numero di dicembre 2007 l’intervista a don Capovilla e mi ha colpito la totale noncuranza verso i problemi dei bambini palestinesi: non una parola sul fatto che nelle scuole venga loro insegnato a combattere e siano indottrinati sul bello del farsi esplodere; non una parola sui miliardi destinati alla gente, ma che la vedova di Arafat si gode all’estero.
La semplificazione dei problemi è una bella cosa, ma tacere sugli attentati e guerre subite da Israele (che è sempre stato attaccato dagli arabi, mai viceversa) e sul fatto che la spianata delle moschee non sia uno dei tre luoghi sacri dell’islam, ma «semplicemente» la spianata del tempio, quindi sacro per tutti i «popoli del libro», ma da molti anni frequentabile solo dai musulmani, fa sospettare una mancanza di buona fede.
Mi risulta che il papa Giovanni Paolo ii sia potuto andare a pregare al Muro del pianto, ma non sulla spianata; sono stati i palestinesi a entrare in armi nelle chiese di Betlemme, non i soldati israeliani. Quindi sembra che non ci sia quell’enorme tolleranza verso i cristiani.
Mi sarei quindi aspettato un riassunto storico della situazione, o comunque un’altra voce, oltre alla pubblicità, neppure velata, dei libri dell’intervistato. Certa che la parzialità sia stata casuale e non finalizzata alla suddetta pubblicità, cordiali saluti.

Luisa Pellegrino
via e-mail

Essere considerato di parte, e non casualmente, è un onore per me, oltre che un dovere a cui ormai da tempo cerco di ottemperare come meglio posso, soprattutto vivendo in prima persona i drammi inenarrabili di milioni di esseri umani ormai sull’orlo della catastrofe umanitaria. Per me e per la gran parte di inteazionali che nei Territori Occupati cercano di operare, mettendo a rischio la vita, poiché la potenza occupante non tollera chiunque possa testimoniare l’abisso di ingiustizia subito dai palestinesi.
Essere «di parte» significa stare dalla parte del diritto internazionale, delle risoluzioni Onu, puntualmente disattese da Israele, dei diritti umani violati quotidianamente da 60 anni, della legalità irrisa e difesa solo dalle Nazioni Unite.
Significa gridare a voce alta quando uno stato occupante viola qualsiasi regola impunemente, quando costruisce un muro dentro il territorio che appartiene a un altro popolo, quando costruisce illegalmente insediamenti sulla terra altrui con una colonizzazione mai interrotta. Quando imprigiona e commette omicidi extragiudiziali in nome della propria sicurezza, quando sradica migliaia di ulivi e ruba acqua e terreno ai contadini; quando costruisce strade solo per israeliani in territorio palestinese, quando dissemina le strade palestinesi di checkpoint illegali.
La nostra «parzialità» è, per fortuna, condivisa da sempre più israeliani che, per amore del loro paese, criticano aspramente il loro governo. Stare dalla parte della legalità internazionale significa gridare con la stessa voce angosciata che il terrorismo è ugualmente illegale, ma prima di tutto aberrante, disumano e immorale, sempre e ovunque, quello di un kamikaze che compie una strage in un ristorante come quello di un esercito che continua a bombardare e massacrare un milione di esseri umani a Gaza.
Per far questo, però, non basta fare come lei dice «un riassunto storico della situazione»: bisogna partire, ascoltare, condividere, con pellegrinaggi ed esperienze che ci mettano in contatto diretto con la reale situazione in cui si vive, sia in Israele che in Palestina. Bisogna però avere il coraggio e la pazienza di ricordare al mondo o a chi ci vuol stare a sentire che «in Terra Santa non c’è una guerra tra due eserciti, ma c’è uno stato occupante e un popolo occupato», come ripete sempre il patriarca latino di Gerusalemme mons. Sabbah.
È quello che cerca di fare anche il testo «Bocche Scucite», che Missioni Consolata, secondo lei, proprio non doveva pubblicizzare, ma che io volentieri le invierò, per restituire la parola (ed è davvero urgente) a chi possa gridare quello che ci ostiniamo a non voler sentire.
Cordiali saluti.

don Nandino Capovilla




Napoli e dintorni: anno del signore 2008

Le immagini di degrado che dai teleschermi si riversano nelle nostre case sembrano veicolare anche il fetore miasmatico dei rifiuti che tutti producono e che tutti a loro volta rifiutano. Le oltre 3.500 tonnellate di «munnezza» che invadono le strade della città sono il monumento osceno alla bulimia dei produttori, alla cecità degli amministratori e all’incoscienza dei consumatori. Ciò che scandalizza, tra la rabbia di questi ultimi, il balbettio dei secondi e il silenzio dei primi, è la mancanza di un pur minimo tentativo di individuazione delle cause che hanno portato a questo stato di cose e, ancor più, l’assenza assoluta di ogni voce critica  circa questo modello di sviluppo totalmente appiattito sulla categoria della produzione e del mercato.
Lasciamo agli esperti e agli specialisti il compito di ricercare le cause locali e circostanziate che hanno generato questo caos di putrescenza, anche perché noi non siamo all’altezza e non siamo in possesso dei dati necessari per una disanima precisa e imparziale. Ci preme piuttosto rilevare che la crisi napoletana è la manifestazione traumatica di qualcosa che sta avvenendo ovunque, in Italia e fuori. La crisi è planetaria.
«I mercati avanzano sulla desertificazione della società» ebbe a scrivere non molto tempo fa Karl Polanyi, mentre già nel 1932 Gandhi preannunciava la catastrofe: «Si esige oggi che la produzione industriale aumenti di anno in anno. Questa è un’autentica follia che non può portare altro che alla catastrofe».
Il «pensiero unico», ovvero il monoteismo della merce, che impone come imperativo categorico una crescita economica senza limiti sino a scaraventarci nel vortice del «guadagna e spendi» e «dell’usa e getta», non può che produrre quel consumismo sfrenato che uccide fisicamente chi non può accedervi e uccide moralmente i beneficiari, recando inoltre numerosi danni all’ecosistema. La nostra civiltà sopravvive consumando e consumandosi… La «megamacchina sociale» (cfr. Serge Latouche) riproduce se stessa divorando, dissipando irreversibilmente energie, beni, risorse, opere e linguaggi, culture, forme di vita e d’organizzazione, degradando complessità, omologando differenze e moltiplicando entropia.  

I nostri rappresentanti istituzionali, indistintamente, di destra e di sinistra, inalberando l’ideologia dello «sviluppo» e agendo come complici di imprenditori senza scrupoli hanno dilapidato montagne di denaro e prodotto montagne di rifiuti. Il livello di intossicazione è tale da ritrovarci anche con la coscienza inquinata. Siamo disposti a concedere credito anche ai valori improduttivi, purché li induciamo a produrre: l’arte per promuovere il turismo, l’amore per «accasarsi», Dio per concedere favori, la preghiera per salvarsi l’anima. Questo involgarimento delle esperienze umane più elevate, ridotte a beni di consumo, dà la misura del nostro modello antropologico, direbbe Adriana Zarri, fatto di «buon senso o di calcolo e del tutto privo di gratuità e di stupore».  
Appunto: i mercati avanzano sulla desertificazione della società! Non solo. In questa (in)civiltà, dove le cose importano sempre più e le persone sempre meno, i fini sono stati sequestrati dai mezzi, fino a sovvertie il rapporto: le cose ci posseggono, le auto ci guidano, il computer ci programma, la televisione ci comanda. Crediamo di possedere ma siamo dei posseduti.
Le discariche, ormai, sono il buco nero in cui tutto è destinato a precipitare: usi e costumi, lavoro e divertimento, pensieri e sentimenti, sogni e realtà.

In due secoli la popolazione del pianeta è triplicata, ma nei soli ultimi 50 anni la produzione e i consumi materiali sono sestuplicati. Nonostante questo, continuiamo a comportarci come se il pianeta avesse una capienza infinita per assorbire i resti del nostro banchetto tossico.
Ulderico Pesce ha messo in scena a Milano, a fine gennaio, il suo nuovo spettacolo «Asso di Monnezza». Vi si ricostruisce, attraverso la storia di una famiglia pugliese, il traffico di rifiuti industriali «speciali» che, dalle fabbriche del nord, finiscono in Campania e nel resto del meridione, dopo essere stati «trasformati» in rifiuti normali, grazie all’intervento della criminalità organizzata. In particolare, fa luce sulla complicità di alcuni laboratori di analisi chimiche della Toscana, dove i rifiuti speciali sostano per poco, prima di ripartire verso sud: giusto il tempo di essere riclassificati come innocui. Le imprese del nord, in questo modo, risparmiano i costi di bonifica e i rifiuti finiscono nelle discariche abusive o in finte fabbriche di compost e quindi nel terreno.
E non si tratta solo di «invenzione» teatrale. Già 8 anni fa, una commissione parlamentare accertò l’arrivo a Pianura dei rifiuti velenosi dell’Acna di Cengio (Savona). Massimo Scalia, docente di Fisica alla Sapienza di Roma, che tra il 1998 e il 2000 ha presieduto la commissione di inchiesta sui rifiuti, dice: «Otto anni fa, nel nostro lavoro d’indagine, accertammo in modo incontrovertibile che a Pianura erano finiti sicuramente i fanghi velenosi dell’Acna di Cengio. Un quantitativo rilevante, che purtroppo non riuscimmo a definire con esattezza, perché buona parte della documentazione che riguardava i trasporti o era andata distrutta o era incompleta. Quei fanghi, ovviamente, sono ancora lì, a Pianura. E se nessuno metterà mano continueranno ad avvelenare la terra e l’acqua. Per sempre».
Sorprende il silenzio di allora della popolazione. Una domanda si fa strada nella selva intrigata dei dubbi e delle ipotesi: forse che i lauti guadagni della mafia nel riempire le tasche dei pochi ha chiuso la bocca ai molti?

L’inversione di rotta è ormai improcrastinabile: produrre di meno e consumare di meno. La salvezza ci può venire solo da una presa di coscienza forte da parte dei consumatori, trovandosi, essi, in una posizione strategica: in base ai loro acquisti si possono trasformare in complici delle imprese che inquinano e sfruttano o in agenti di cambiamento.
A noi non resta che lavorare a questa coscientizzazione, fortemente convinti che un altro mondo è possibile e avendo già da tempo fatto nostro il monito di Mohawk: «Quando avrete inquinato l’ultimo fiume e avrete preso l’ultimo pesce, quando avrete abbattuto l’ultimo albero, allora e solo allora vi renderete conto che non potete mangiare il denaro che avete ammucchiato nelle vostre banche».

Di Aldo Antonelli

Aldo Antonelli