Si placheranno i «tamburi di morte»?

Viaggio nella Repubblica islamica

In attesa di capire chi sarà il nuovo inquilino della Casa Bianca, per Washington l’Iran rimane uno «stato canaglia» da tenere sotto stretta osservazione. Nel paese, la gente ha paura, perché ogni momento ed ogni scusa sono buoni per scatenare una nuova guerra. Ancora Oriente versus Occidente. Follia contro ragione. Ipotesi troppo pessimistiche? No, tutto è già avvenuto con il confinante Iraq.

480 a.C. Il re persiano Serse decide di invadere la Grecia riprendendo la guerra iniziata da suo padre Dario I. Per bloccare l’avanzata dell’esercito persiano, le città greche formano un’alleanza guidata dal re spartano Leonida. L’intera guardia del corpo del re, composta da 300 opliti, viene inviata a difendere il passo montuoso delle Termopili per permettere al resto dell’esercito greco di organizzarsi per il confronto con il nemico. La loro resistenza, eroica, fino al totale sacrificio, è annientata da mostri assetati di sangue, feroci soldati-schiavi al servizio di un sovrano semi-dio, scellerato e capriccioso. Serse, appunto.
Domenica 6 gennaio 2008. «Stretto di Hormuz. È stata una danza di guerra, è durata venti minuti ed è sembrata l’alba del nuovo conflitto. Succede alle cinque di domenica mattina nel mezzo dello stretto di Hormuz, in quel budello di mare tra Repubblica islamica e Oman, dove transita il 20 per cento della produzione mondiale di greggio. In quel budello strategico cinque motovedette iraniane costringono tre navi statunitensi a ballare sull’orlo dell’abisso. Una danza di venti minuti, un balletto che, per poco, non trascina marinai e nazioni allo scontro irreparabile. Prima il lancio di misteriosi galleggianti bianchi, poi l’affondo di un barchino puntato come una torpedo suicida, infine – mentre gli americani son pronti al fuoco – l’ultima, provvidenziale virata».
Il primo racconto è la trama di «300», un colossal cinematografico, adattamento dell’omonimo graphic-novel di Frank Miller (tratto da un episodio storico della guerra tra greci e persiani), piuttosto applaudito, intriso di sangue e stereotipi, che esalta i valori del coraggio, della libertà, della razionalità, della nobiltà d’animo, dell’amor patrio e familiare quale retaggio tutto occidentale, e li contrappone alla forza bruta, alla follia cieca, alla schiavitù dell’Oriente, rappresentato dall’impero persiano. Uno scontro di civiltà pre-moderno, anticipatore di quello (o quelli, i nemici della nostra civiltà, sembra, sono tanti) attuale.
Il secondo è la cronaca narrata da Il Gioale, quotidiano della famiglia Berlusconi, sull’incidente che avrebbe potuto scatenare l’ennesimo conflitto. Ancora, Oriente versus Occidente. Follia contro ragione.
Spiega ancora Il Gioale: «In quella strozzatura, larga nel punto più angusto meno di cinquanta chilometri (…) transitano le navi americane e le portaerei che da un anno battono il Golfo Persico. Lì nell’aprile del 1988 la marina statunitense affondò due navi e sei motoscafi iraniani. Due mesi dopo, sempre lì, abbatté un volo di linea di Teheran uccidendo 290 civili» (1).
A gennaio di quest’anno, George W. Bush, presidente Usa uscente, ha ribadito che l’Iran costituisce un grave pericolo per gli Stati Uniti e per l’Occidente.
I tamburi di morte battono forte: Hollywood, media mondiali, Pentagono, governi, ci stanno prospettando un nuovo scenario di guerra. Il copione è ormai collaudato ed è stato distribuito. Gli attori stanno provando le scene. A noi tocca il ruolo di spettatori. E, forse, di vittime. Non è un film già visto?

Vediamo cosa ne pensa Scott Ritter (2), capo delle ispezioni Onu sugli armamenti dal ‘91 al ‘98, in «Obiettivo Iran. Perché la Casa Bianca vuole una nuova guerra in Medio Oriente» (Fazi Editore, 2007):
« (…) sul tema Iran, stiamo assistendo a una replica della storia. Sono colpito dalla somiglianza tra il modo in cui gli Stati Uniti, Israele, l’Europa, la Russia e le Nazioni Unite hanno continuato a percorrere un passo falso dopo l’altro, la strada che portava alla guerra all’Iraq sulla base di una premessa fasulla (cioè l’esistenza di ADM, armi di distruzione di massa, in Iraq), e quel che oggi trapela per quanto riguarda l’Iran: sembra proprio che stiamo procedendo, lungo lo stesso percorso che porta al conflitto, inseguendo i fantasmi di un programma di armamenti nucleari che non si è mai manifestato in alcun modo, se non nelle esagerazioni e nella retorica delle congetture di quanti vogliono un cambio di regime a Teheran, assai più che l’autentica non proliferazione e il disarmo» (pag. 20-21).
«Parlare della nascita di questa crisi e riportare la storia degli individui e delle organizzazioni coinvolte vuol dire raccontare una vicenda fatta di hybris, pathos, integrità e inganno. Una storia di perspicacia e indifferenza, e di paura nata dall’ignoranza. (…) È una storia dominata da un nauseante senso di deja vù, come se avessimo già passato tutto questo, quando il dito accusatore era puntato in direzione dell’Iraq, invece che dell’Iran. Siccome questa storia l’abbiamo già vista svolgersi, stavolta, mentre la raccontiamo, siamo in grado di scorgere un percorso diverso da quello che conduce all’abisso di un conflitto con l’Iran (…)» (pag. 22-23).
Forse proprio quei valori e quella razionalità, retaggio della civiltà occidentale, dovrebbero aiutarci a non cadere, ancora una volta, nella trappola dei guerrafondai, dei mestieranti di morte e rapina.

Teheran. Redazione di Al-Vefagh, in strada Khoramshahr. È un quotidiano nazionale iraniano in lingua araba. Nel palazzo c’è la sede di altri quattro giornali: in farsi, in inglese (The Iran Daily), in breille, e un giornale sportivo. Appartengono tutti e cinque allo stesso gruppo editoriale, Al-Iran, vicino al governo.
Incontriamo il dott. Mosayeb Naimi, direttore del gruppo di redazioni, nel suo ufficio, al fondo di una grande stanza dove numerosi giornalisti stanno lavorando.
Nonostante la propaganda mediatica anti-iraniana ci spieghi che le donne vivono in condizione di grave subalteità e disparità, balza subito agli occhi che in quest’ufficio maschi e femmine condividono spazi e discussioni, apparentemente piuttosto alla pari e in un clima amichevole. Alcune giornaliste sono in chador, altre hanno un semplice foulard colorato poggiato sul capo e indossano completi eleganti e alla moda.
Naimi è un tipo simpatico, dallo humor mediterraneo. Il discorso cade subito sul potere delle donne in Iran, forse perché la traduttrice è una donna, un medico e docente universitario, che ha a lungo soggiornato in Italia, o forse perché, nella redazione ce ne sono parecchie.
«Qui in Iran – racconta divertito – sono le donne che comandano gli uomini. I mariti cercano di non perdere l’amore delle loro mogli. Molte sono quelle che raggiungono alti gradi di carriera. La famiglia, comunque, rimane sempre al centro dell’attenzione nella nostra società».

Tra le cinque testate che lei dirige, c’è un quotidiano in arabo e uno in breille. Come mai questa scelta?
«Sono stato per 11 anni responsabile dell’Ia, l’agenzia stampa iraniana, in Libano. Poi ho lavorato in Quwayt. Conosco bene, quindi, sia la lingua sia le varie realtà del mondo arabo. Per questa ragione, abbiamo ritenuto importante creare un giornale in lingua araba. Inoltre, abbiamo scelto questo nome, “Amicizia” (al-Vefagh), perché sono molti gli aspetti che condividiamo con gli arabi. Quanto all’edizione per non-vedenti, è nata 10 anni fa. È il primo giornale in breille in Iran e nel resto del Medio Oriente, e viene distribuito in abbonamento. Tutti i redattori sono ciechi, tranne il capo della redazione. Abbiamo constatato che ha molto successo presso la popolazione di non-vedenti (attualmente, circa 300 mila): i lettori ci inviano messaggi, interagiscono con noi. È un buon mezzo di comunicazione».

Come vi mantenete?
«Con la pubblicità. Ogni spazio pubblicitario può costare anche 1.700 dollari. In questo modo possiamo mantenere 500 tra redattori e personale vario. L’edizione in farsi tira 400.000 copie giornaliere. Le altre sono più ridotte».

Il suo gruppo non è «di stato», ma nel consiglio di amministrazione c’è anche un rappresentante della Repubblica islamica. Idee e pensieri, in Iran, hanno libertà di espressione e circolazione?
«Ci sono molte testate giornalistiche. Inoltre, la risposta a questa domanda dipende da chi le sta davanti. Chi appartiene alla classe alta, con l’abitudine al lusso dell’epoca dello Shah (dove c’era una enorme disparità fra il povero e il ricco), le dirà che ora non c’è libertà. Questi sono molto arrabbiati con il governo. Per i ceti medi e bassi (3), è diverso. In questi anni c’è stato un cambiamento profondo e il divario sociale si è ridotto, anche se la povertà esiste ancora, così come la ricchezza. Ma la cultura e la scolarizzazione si sono diffuse».

L’attenzione internazionale sull’Iran è crescente, in particolar modo nei media. Come vive questa pressione il popolo iraniano?
«La propaganda negativa è percepita molto chiaramente. I media occidentali stanno cercando di dimostrare che l’Iran è un paese pericoloso, nemico, raccontando tutto fuorché la realtà. Bush lo ha definito “l’asse del male”. Per fortuna, sappiamo che non tutti gli occidentali abboccano e prestano fede alle bugie veicolate dai mezzi di informazione. Noi stiamo lavorando per far arrivare notizie veritiere anche in Occidente, attraverso il nostro giornale in lingua inglese. L’Iran ha una storia millenaria, che la “pubblicità negativa” vorrebbe cancellare o manipolare. Per raggiungere questo obiettivo, sono stati prodotti di recente anche Colossal cinematografici che raccontano dei persiani come violenti e miserabili. La propaganda lavora su tutti i fronti, non solo quello politico ed economico, ma anche mediatico».

Prendete sul serio le minacce belliche statunitensi? Temete di essere attaccati?
«Pensiamo si tratti solo di minacce. L’uso del nucleare per scopi pacifici è un nostro diritto, che ad altri Paesi è garantito. Gli Usa hanno interessi che esulano dalla tutela dei diritti umani: in Iraq è sotto gli occhi di tutti. L’Iran non ha intenzione di dotarsi di bomba atomica: lo ha dimostrato rendendosi disponibile alle ispezioni dell’Aiea (Inteational Atomic Energy Agency, ndr), che ha piazzato telecamere nei siti dove sono situate le centrifughe. L’Iran, comunque, è disponibile a lavorare per la produzione di energia nucleare sotto il controllo internazionale.
Non crediamo che gli Stati Uniti ci attaccheranno: sanno che non abbiamo le bombe nucleari. La propaganda di guerra serve per spaventarci, ma noi non abbiamo paura. Siamo tranquilli. Se dovessero attaccare, risponderemo. E il peggio toccherà all’Europa: da noi sono impiegati numerosi operai e tecnici europei. In caso di conflitto, saranno mandati via e questo inciderà pesantemente sulle aziende e sulle famiglie.
Durante la guerra tra Iran e Iraq, Saddam era protetto con armi e soldi da Francia, Germania e Stati Uniti. Ma nessuno di loro ha ottenuto da noi ciò che voleva. Cosa dovrebbero ottenere ora? Noi iraniani siamo intelligenti e pazienti: sappiamo aspettare e ascoltare. Non inizieremo a sparare per primi. Reagiremo se verremo attaccati».

E la popolazione come reagirà?
«Si compatterà a fianco del governo, dello stato. La storia dell’Iran lo dimostra: nessuno può averla vinta con noi». 

Di Angela Lano

(*) La prima puntata di questo reportage è stata pubblicata su MC nel settembre 2007.

(1) È il 3 luglio 1988: siamo alle battute finali della guerra tra Iran e Iraq. Il Golfo Persico è pattugliato da diverse navi militari statunitensi che difendono le petroliere del Kuwait (Quwayt). L’incrociatore USA Vincennes abbatte il volo di linea 655 dell’Iran Air, decollato da Bandar Abbas e diretto a Dubai. A bordo ci sono 290 civili, tra cui 66 bambini. L’aereo viene colpito da due missili e precipita. Non ci saranno superstiti.
(2) L’autore Scott Ritter fu il capo delle ispezioni Onu sugli armamenti iracheni dal ‘91 al ‘98. Già nel 2002 aveva negato – come racconta nel libro «Guerra all’Iraq» (Fazi editore) – l’esistenza di armi di distruzione di massa nel paese di Saddam. Nonostante i continui tentativi di discredito da parte dei media statunitensi, la sua attendibilità è rimasta intatta.
(3) In realtà, l’opposizione al regime iraniano è presente anche nei ceti medi intellettuali, laici e di sinistra, che criticano sia la retorica del loro presidente, Ahmedinejad (ritenendola pericolosa per la sicurezza del paese, laddove, in particolare, lancia strali provocatori contro Israele e gli Usa), sia l’«islamizzazione» della politica e del governo. Tuttavia, più d’un iraniano «oppositore» ha sottolineato come, in caso di attacco Usa, tutta la popolazione si unirebbe di fronte al nemico esterno, dimenticando, forse, i problemi interni, come sottolinea Naimi alla fine dell’intervista.

Angela Lano




Le «travolgenti» olimpiadi cinesi

Reportage/ La capitale cinese attende le Olimpiadi

Quando si prepara il massimo evento sportivo mondiale, non si guarda in faccia alcuno.  
È avvenuto e sta avvenendo anche per le imminenti Olimpiadi organizzate dalla Cina. Pechino ha l’opportunità di mostrarsi al mondo come una nazione modea e felice e non soltanto come una potenza economica che cresce il 10 per cento all’anno. O come un paese che avrebbe molto da spiegare nel campo dei diritti umani (se qualcuno avesse il coraggio di chiederglielo…). Storie
di ordinaria ingiustizia dalla capitale che attende atleti da ogni parte del globo.

Pechino. Il cuore pulsante di Pechino, gli spazi urbani più vivaci e intimi della megalopoli si chiamano hutong, termine che ci riporta indietro nel tempo: da hottog, che in mongolo significa «pozzo d’acqua», ricordano la «città del khan», Khanbaliq, e le prime aggregazioni urbane in prossimità dei pozzi. La traduzione «vicoli» ne riduce l’importanza: gli hutong sono luogo di incontro, comunicazione e socialità. Costituiscono una rete labirintica di stradine su cui si affacciano gli siheyuan, tradizionali complessi residenziali costituiti da quattro edifici disposti intorno a un cortile, di cui dal vicolo si vede solo l’alto muro grigio che li racchiude e i portali lignei d’ingresso finemente intagliati, decorati con scritte augurali e lantee di un colore rosso acceso. I chioschi e le bancarelle fanno da sfondo agli anziani che mangiano jiaozi, i ravioli ripieni, e giocano a mahjong, seduti su bassi sgabelli, mentre i bambini giocano e uomini in pigiama e vestaglia discutono sulle novità del quartiere. Il chiacchiericcio delle donne, le grida dei bambini e il parlottare degli anziani, il fruscio delle foglie degli alberi che abbelliscono e proteggono le corti, vengono interrotti solo dallo sferragliare dei risciò a pedali, gli unici a turbare la quiete di luoghi in cui la vita familiare, sociale, amministrativa e religiosa si svolge prevalentemente nello spazio comune che è la strada o il cortile. Oggi negli hutong il nemico temuto non è più lo sfrecciante risciò a pedali guidato da un affaticato ciclista, ma la ruspa. Le Olimpiadi del 2008 rappresentano la fine di questi antichi distretti e infliggono alla città ferite permanenti.

Dazhalan,
morte di un distretto

Sono proprio queste ferite che preoccupano Ma Lian: «I bulldozer stanno cancellando centinaia di anni di storia. Tutta la mia famiglia ha sempre abitato nello stesso hutong, qui a Dazhalan. Anche io sto aspettando che la mia casa venga demolita». Circondato da cumuli di macerie e case sventrate, ogni mattina il 60enne Lian continua ad alzare la saracinesca del chiosco dove vende sigarette, bevande fresche e semi di zucca. Gli occhi vispi, in bocca solo due denti, dalla sua voce trapela rabbia: «Il turista dovrebbe rimanere colpito dalla ricchezza artistica di Pechino, ma ciò che vi troverà per le Olimpiadi sarà solo una città rifatta e priva di carattere».
Nessuno sa cosa sorgerà al posto di Dazhalan, un distretto popolare a cinque minuti da piazza Tiananmen, intreccio di hutong a sud della Città Proibita. La sua storia testimonia la peculiarità dell’area: il suo nome, in pechinese Dashilar, «grandi cancelli», risale al 1670, quando per editto dell’imperatore fu ordinata la chiusura nottua dei vicoli. Mentre l’intero complesso della «Città Proibita» era circondato da alte e spesse mura e sottoposto al ferreo controllo del potere, a Dazhalan si garantiva la libertà di commerciare e divertirsi. Inoltre, in epoca Qing, quando l’imperatore vietò l’apertura di attività artistiche e commerciali all’interno delle mura della sua residenza, Dazhalan divenne il luogo che meglio di tutti gli altri accolse il fermento culturale e imprenditoriale degli abitanti di Pechino. Teatri, case da tè, antiche farmacie, cappellerie, templi, negozi di giada e seta, e «case dei fiori», i tradizionali luoghi di divertimento notturno, resero Dazhalan un’attrattiva per mercanti, pellegrini e viaggiatori. Ancora oggi vi si trovano antiche librerie e antiquari, ristoranti dove si degustano le specialità di Pechino come l’anatra alla pechinese, attività artigianali di ogni tipo e teatri tradizionali. Ancora per poco.
Lo sguardo dell’anziano Feng si perde tra alti coicioni di legno finemente intagliati, ormai scoloriti e rovinati dal tempo e dall’incuria. Barba bianca e canottiera nell’afa dei vicoli, così ricorda il passato del quartiere. «Questi erano tutti palazzi di artigiani della giada. Dopo le riforme di Deng Xiaoping, negli anni ’80, sono cominciate ad apparire piccole attività commerciali, ristorantini e negozietti. Ho più di 70 anni e questo è sempre stato il mio mondo». La giada arriva nella capitale dal lontano Xinjiang, la provincia nord occidentale a maggioranza musulmana. Minerale considerato quasi sacro per le sue presunte proprietà medicamentose e taumaturgiche, era il preferito alla corte dell’imperatore.
«Non so quando me ne dovrò andare – continua Feng -, le ruspe arriveranno sicuramente nei prossimi mesi, prima delle Olimpiadi: tutto deve essere rinnovato. C’è altra soluzione? Noi laobaixing (gente comune, vedi glossario a pag. 63) possiamo solo obbedire».
A Dazhalan ci sono edifici che risalgono al XVI secolo, palazzi che portano con sé la storia di due dinastie imperiali, quella dei Ming e quella dei Qing.

Per le ruspe
il lavoro non finisce mai

L’agenda politica della «Commissione per la pianificazione e lo sviluppo» della Municipalità di Pechino dedica un capitolo a parte alla tutela della città storica: le aree coinvolte sono 25, il 17% della Pechino antica, ma, dietro la retorica, sono in agguato speculazione edilizia e perdita di identità culturali.
Zhao Lianmiao è un artista che vive nel suo studio-abitazione di meno di 10 metri quadrati, ancora per poco di sua proprietà. Alle pareti sono appesi i suoi dipinti, davanti a una tazza di tè al gelsomino racconta la sua vita a Dazhalan, le persecuzioni subite durante la «Rivoluzione culturale», e quanto gli piacerebbe comprare una nuova casa in quella zona. «Stanno distruggendo tutto, è un vero peccato, io vivo qui da sempre e sono molto affezionato a questo quartiere. A un certo punto appare un foglio appeso a un muro nei vicoli che ci intima a sgomberare nel giro di un mese». Anche Fu Zheqing, giovane donna che conduce un’attività commerciale per i cui locali paga l’affitto, non sa quale sarà il suo destino: «Io e la mia famiglia viviamo nel retro del negozio, ma non essendo proprietari le cose sono un po’ diverse. Dovrò semplicemente cercare un altro locale ma di certo non a Dazhalan: dopo il rinnovamento del quartiere i prezzi saliranno alle stelle, sicuramente non riuscirò più a trovare nulla per i 150 yuan che pago qui!».
Secondo Hu Xinyu, responsabile del gruppo «Friends of Old Beijing» (Amici della vecchia Pechino), già nel 2003 la metà dei 3.000 hutong della città storica era stata demolita, e migliaia di persone trasferite in sobborghi anonimi, mentre un alto rappresentante del governo – citato in forma anonima dal Financial Times – ha paragonato i danni causati dalle odiee politiche urbanistiche alle distruzioni della «Rivoluzione culturale».  
Nel 2005 più di 800 edifici giudicati vecchi e pericolosi sono stati demoliti nella caratteristica via del Carbone, e centinaia di siheyuan risalenti al XIV sec. hanno lasciato il posto a nuovi palazzi. Ma le ruspe non hanno ancora finito il loro lavoro. Il piano del governo prevede un dislocamento di 5 milioni di residenti dal centro di Pechino alle periferie nell’arco di 15 anni, motivazione ufficiale: traffico urbano e alta densità di popolazione.
Dietro al progetto di ristrutturazione e modeizzazione delle aree storiche e fatiscenti fanno capolino dinamiche di discriminazione sociale.
«Ci stanno rubando i nostri soldi! – grida Li Wu -. Per andarmene mi daranno 10.000 yuan al metro quadro, ma i nuovi edifici saranno rivenduti a 50.000! Il governo ci sta ingannando: ha potuto attuare le sue politiche senza incontrare resistenze, qui la gente è povera, quel poco che ci danno per andarcene è sufficiente per ottenere il silenzio. Ci trasferiamo in quartieri dormitorio in nuovi appartamenti al ventesimo piano e ci illudiamo che la nostra vita migliorerà». Wu vive e lavora in uno hutong tra i più vivaci e trafficati, dove in un piccolo spazio ripara di tutto, dai vestiti agli orologi. Il rumore delle ruspe che demoliscono la casa vicina è assordante. Di fronte alla sua officina i resti di un ristorante musulmano, una vecchia targhetta in caratteri arabi a ricordare la presenza nel quartiere della minoranza islamica degli hui.

Il coraggio
della protesta

Ou Ning, che ha dedicato particolare attenzione e impegno al caso di Dazhalan, è un affermato regista e videomaker originario di Canton, ma che da anni vive e lavora a Pechino. Il giovane artista non giudica direttamente l’operato del governo, ma preferisce porre l’accento sul concetto di scelta: tutti dovrebbero avere il diritto di decidere dove e come vivere, non è giusto imporre dall’alto modelli di vita, né di città.
L’artista è uno dei promotori di Dazhalan Project, organizzato assieme a «Kulturstiftung des Bundes», fondazione tedesca che si occupa dei processi di allargamento e sviluppo dei centri urbani. Zhang Jinli è una figura chiave di questo esperimento che monitorerà l’esito delle Olimpiadi e si chiuderà nel 2008. «Abbiamo conosciuto Zhang mentre stavamo filmando la situazione a Dazhalan – ricorda Ou Ning seduto sul divano al ventesimo piano di un edificio moderno e colorato che fa parte del complesso residenziale Xiandai Soho, vicino alla city pechinese -. Stava affiggendo cartelli di protesta. Un mese dopo aveva in mano una telecamera, per riprendere la sua vita nel quartiere alla vigilia dello sgombero». Jinli conduceva una osteria frequentatissima in uno hutong chiamato Meishi jie: la sua forza è stata quella di mettere in atto forme di resistenza pubblica per difendere i suoi diritti in quanto residente in attesa di essere rimosso. «Il governo gli aveva imposto di lasciare la casa e l’attività, ma lui riteneva che la compensazione offerta fosse inadeguata – racconta ancora Ou Ning -, che sarebbe stato giusto ottenere l’assegnazione di un altro ristorante nel nuovo quartiere». La telecamera è stata usata come arma per criticare le politiche governative: l’esperimento di Zhang Jinli ha dato vita a un video (Meishi street) e a una pubblicazione (The Story of Zhang Jinli). Il prezzo pagato per aver attuato queste forme di protesta è alto: Jinli è stato sottoposto a una fortissima pressione psicologica. Inoltre, nonostante le numerose richieste, le autorità non hanno mai concesso un incontro ai responsabili di Dazhalan Project.  
«Jinli ha avuto il coraggio di denunciare l’ingiustizia delle compensazioni e ha contribuito a far nascere una certa consapevolezza nel vicinato». Uno degli obiettivi principali di Dazhalan Project (www.dazhalan-project.org) è analizzare l’influenza delle politiche governative sulle diverse realtà urbane, fino ad arrivare a quelle più piccole, all’individuo. «Nel marzo 2006, dopo mesi di protesta e sensibilizzazione della comunità, le ruspe hanno distrutto la casa e il ristorante di Jinli». Ou Ning non è contrario alla modeizzazione: «Le città devono migliorare, ma noi ci preoccupiamo di quale influenza abbia questo sviluppo sulle persone, di quali siano gli spazi per la gente nel contesto di una città nuova. La storia di Zhang Jinli rappresenta la rottura dell’equilibrio tra tradizione e sviluppo», prosegue l’artista. Secondo Ou Ning, «a Dazhalan ogni proprietario avrebbe ristrutturato le case gradualmente, lasciando invariata la zona. Invece il cittadino non ha possibilità di scelta, né sa come si trasformerà il quartiere, davanti agli occhi ha solo quelle fotografie sulle transenne che lasciano immaginare un ricco distretto commerciale». Politiche urbanistiche che distruggono il senso di comunità, cancellando la vita di strada e la vivacità delle città cinesi. «Per la Costituzione cinese la terra appartiene al popolo, ma in realtà è del governo, che si muove solo in base a valutazioni di tipo politico-economico – conclude il videomaker -. Studenti, ricercatori, studiosi e gente comune in Europa e in America si sono interessati al nostro progetto, ma le autorità non ascoltano, a meno che non ci siano scontri e dei morti. Il nostro obiettivo è far conoscere questa situazione sensibilizzando e coinvolgendo il maggior numero di persone, solo così il futuro potrà essere diverso».
Il traffico e lo smog di Pechino ricoprono di suoni e polvere una città in continuo mutamento, come mutevoli e incerte sono le vite degli abitanti di queste aree. Un tempo ricche e fiorenti, si sono impoverite con l’ingresso del Paese nel mercato globale: le  manifatture artigianali sono state soppiantate da quelle delle fabbriche della Cina sud orientale, teatri e «case dei fiori» sono stati sostituiti da night club e da centri per massaggi. 

Di Alessandra Cappelletti

Alessandra Cappelletti




Perù. Ollanta e Nadine

Incontro con Ollanta Humala Tasso, fondatore del Partito nazionalista

Ollanta Humala Tasso è un personaggio che suscita sentimenti opposti. Presidente del «Partito nazionalista peruviano»,  nel 2006 ha vinto il primo tuo delle elezioni presidenziali, per essere poi sconfitto da Alan García, l’attuale presidente. Ollanta, che ha soltanto 45 anni, gode di un forte seguito tra la popolazione povera, soprattutto fuori Lima. Idealmente vicino a Hugo Chávez ed Evo Morales,  è inviso a molti avversari politici e ai media, dentro e fuori il Perú. In questa lunga intervista abbiamo cercato di scoprie i veri motivi.


Lima. «Ma scendete qui?», il taxista è sorpreso. «Allora andate dal comandante!», aggiunge sempre più incuriosito.   
Sì, andiamo dal comandante Ollanta Humala Tasso, fondatore e presidente del «Partito nazionalista peruviano» (Partido nacionalista peruano, Pnp). Vorremmo cercare di capire se egli sia un astro o una meternora della politica peruviana, nonché per cercare di comprendere da cosa nasca tanta ostilità (politica e mediatica) nei suoi confronti.
La sede del Pnp è una sobria casetta di colore verde davanti ad un bel parco di San Isidro. L’unico elemento che la distingue da una normale abitazione è un grande cartellone elettorale posto sul tetto che riproduce un Ollanta Humala sorridente.  «La gran transformacion sigue en marcha…», recita lo slogan.
Oltre la porta d’ingresso c’è un piccolo giardino dove, appoggiato al muro, sta un altro cartellone dell’ultima campagna elettorale. In esso Ollanta è ritratto con la giovane e bella consorte, Nadine Heredia: «El verdadero cambio sin mentiras, corrupción ni falsas promesas».
Cynthya, la segretaria di fiducia, ci introduce in un ufficio al primo piano, moderno e luminoso. Sulla lavagna bianca dietro la scrivania sono ancora visibili le scritte di una discussione sull’argomento, sempre spinoso, della produzione di foglie di coca.
Il nostro interlocutore arriva in maglietta estiva e blu-jeans. Giovanile e sorridente.

Il nazionalismo per «de-privatizzare»

La stampa italiana ed europea parla molto male di lei… Chi è realmente Ollanta Humala?

 «Sono un padre di famiglia. Ho due figlie piccole. Oggi sono un militare in congedo. Nell’anno 2000 (leggere la cronologia, ndr) ho guidato una sollevazione militare contro il governo dittatoriale di Fujimori e Montesinos».

Lei è fondatore e presidente del «Partito nazionalista peruviano». Il problema è che l’aggettivo «nazionalista» viene guardato con molto sospetto…
«Il concetto nazionalista è diverso da quello che avete voi in Europa. Noi non parliamo di un nazionalismo imperialista, che tanti danni fece nella storia europea. Stiamo parlando di uno stato nazionale. A differenza dell’Italia, il Perú è un paese sottosviluppato e semi-coloniale. Siamo stati per 300 anni sotto una dominazione spagnola che ha lasciato il segno. Una minoranza, legata ai poteri economici transnazionali, si è appropriata dello stato peruviano e lo ha privatizzato.
Un paese ricchissimo di ricchezze naturali come il nostro ha 7 milioni di abitanti su 28 che vivono nell’esclusione economica, sociale e politica.  Ci sono milioni di persone che vivono senza i servizi minimi. Che abitano in case di esteras (stuoie di bambù intrecciate, ndr). Che non possono dare ai loro figli una vita degna».

In concreto, che cosa proponete?
«Il nostro nazionalismo vuole recuperare lo stato nazionale per risolvere questi problemi.  Siamo nazionalisti proprio per questo: per poter “de-privatizzare lo stato”.  Soltanto così è possibile portare educazione e salute a tutti coloro che oggi non li hanno».

Toiamo alle elezioni presidenziali del 2006. Lei vinse nettamente al primo tuo, poi perse nel ballottaggio con Alan García. Fu tutto regolare?
«Il secondo tuo è un artifizio tecnico per costruire delle maggioranze. Si sono alleati tutti – politici, detentori del potere economico – per impedire il cambiamento che con noi sarebbe avvenuto. Lo stesso presidente Toledo fece campagna contro di me, commettendo una grave violazione costituzionale.
 I mezzi di comunicazione mi hanno fatto una guerra incredibile. Che ero antigiudeo. Che con me saremmo andati alla guerra con il Cile. Mi accusarono di essere un assassino. Che con me si sarebbe instaurato un regime comunista. Che con me non si sarebbe rispettata la proprietà privata. Si disse di tutto. Addirittura che io avrei fatto fucilare gli omosessuali! La mia famiglia venne dipinta come la peggiore famiglia del Perú».

Quando un candidato  è «anti-sistema»

È vero. Provo imbarazzo a dirlo, ma anche in Italia si sono sentite cose incredibili su di lei. Per esempio, i due principali quotidiani italiani – il “Corriere della sera” e “la Repubblica” (1) – l’hanno descritta o come un populista o come una macchietta…
«Quando una persona vuole cambiare le cose, tutto diventa più difficile. Se io fossi stato un candidato pro-sistema, che parla di neoliberismo, che non andrà ad intaccare i privilegi dei ricchi e a risolvere i problemi della grande maggioranza, non sarei stato tanto stigmatizzato, ma anzi mi avrebbero descritto come un perfetto democratico.
Come lei sa, qui a Lima può incontrare quartieri molto belli, ma appena passa alle barriadas trova gente che vive con meno di un dollaro al giorno. Quella del Perú non è una democrazia, ma una dittatura dei poteri economici nazionali ed inteazionali».

Mario Vargas Llosa,  il  più famoso scrittore peruviano, molto conosciuto in Europa, ha fatto una propaganda feroce (2) contro di lei…
«Uno scrittore celebrato come Mario Vargas Llosa, nemico dell’attuale presidente, chiese di votare Alan García (pur tappandosi il naso), piuttosto che dare il voto a me.
Il cambio è possibile in Perú, ma è una sfida molto difficile. Io perdo molto tempo ad affrontare i giudizi intentati contro di me, ma non mi pento. Andrò avanti.
Noi nazionalisti andremo al potere. Stiamo instaurando rapporti di fratellanza con gli altri partiti progressisti latinoamericani, che possono chiamarsi socialisti (in Venezuela), indigenisti (in Bolivia) o altro, ma che hanno tutti un obiettivo comune: cambiare il modello economico neoliberista. Con loro dobbiamo allearci.
Anche perché oggi i principali problemi sono sovrannazionali: quello della fame, della salute. Sono problemi che oltrepassano le frontiere».

Come i Trattati di libero commercio (Tlc)…
«Certo. Noi, come molti altri paesi latinoamericani, siamo contrari al Tlc con gli Stati Uniti».

I media e i politici occidentali la criticano anche per le sue relazioni con Hugo Chávez ed Evo Morales. Che rapporti ha con i presidenti di Venezuela e Bolivia?
«Ho un’amicizia con loro, che si basa su un’affinità ideologica, su un cammino comune, anche se ogni paese ha le sue particolarità.
Credo che Hugo Chávez ed Evo Morales (3) siano il nuovo volto dell’America Latina. Dopo che negli anni precedenti, il popolo ha cacciato presidenti in Argentina, Ecuador e qui in Perú per Fujimori».

Da questi sommovimenti nascono le proposte nazionaliste?

«Voglio insistere ancora: il concetto nazionalista in Europa è diverso da quello in Perú, anche se il nome è lo stesso. Come quando in Europa è giorno e qui è notte, quando là fa caldo, qui fa freddo.
Come la Francia durante l’occupazione tedesca, anche qui vogliamo liberarci dall’oppressione straniera».

La Guerra del Pacifico, pur lontana nel tempo (1879-1884), riesce ancora ad avvelenare i rapporti tra Bolivia e Perú da una parte, Cile dall’altra. Come sono le relazioni con Santiago?
 «L’economia del Cile si basa molto sul rame (cobre), che proviene da Arica e Tarapacá, territori che appartennero al Perú fino alla Guerra del Pacifico. Oltre a questo, il Cile sta occupando 65mila chilometri quadrati di mare e 37mila di terra ferma, che corrisponde alla nostra Costa Sud.
Fissiamo una volta per tutte la questione delle frontiere e poi parliamo di integrazione economica».

Le questioni con il Cile devono essere risolte sempre per via diplomatica?
«Certamente! Mai abbiamo parlato di soluzioni diverse da quella diplomatica. I due popoli sono popoli fratelli. Il problema è a livello politico».

E che può dire delle relazioni con gli Usa di George W. Bush?
«La politica nordamericana in America Latina è sempre stata molto questionata. È stata caratterizzata da interventi diretti o indiretti. In Perú l’ambasciatore Usa è un uomo molto potente, più dello stesso presidente peruviano. Noi non abbiamo ragione per litigare con il paese più forte del mondo. In più, dal loro popolo possiamo imparare molto.  È una nazione che è nata su valori importanti come la libertà e la democrazia. Detto questo, credo che si dovrebbe stabilire una relazione equa e di mutuo rispetto.
Ci sono questioni importanti come la politica antidroga, in particolare quella contro la foglia di coca che in Perú è stata fallimentare. Come dimostra il fatto che in 20 anni la quantità prodotta di foglie di coca si è moltiplicata.
Normalmente i governi affrontano il problema dal lato più debole, colpendo piccoli coltivatori di foglie di coca. Invece di prendersela con le vere mafie che sono coloro che vendono il cloridrato, che esportano la coca, eccetera».

Un aggettivo per Alberto Fujimori, Alejandro Toledo e Alan García…
«Fujimori: un delinquente.  Toledo: un pusillanime. Alan García: un traditore».

In che senso il presidente García è un traditore?
«Perché in campagna elettorale disse alcune cose, ma giunto al potere le dimenticò. Ad esempio, sul “Trattato di libero commercio” prima disse no e poi sì.  Anche per frenare l’asse Caracas- La Paz.
Ha detto di tornare alla vecchia costituzione, perché quella del dittatore Fujimori è una costituzione delinquenziale. Neppure questo ha fatto. Non ha messo imposte sugli extraprofitti delle compagnie minerarie, facendo perdere milioni al Perú. E poi la questione del Cile e le forze armate senza soldi. Per tutto questo dico che lui è un traditore».

Alan García goveò molto male durante la sua prima presidenza. Eppure, è stato di nuovo votato dai peruviani. Possiamo dire che l’hanno votato perché avevano paura di una sua vittoria?
«Possiamo dirlo. In Perú i mezzi di comunicazione sono una forza poderosa. Possono distruggere o portare alle stelle chiunque, allo scopo di difendere interessi specifici, come quelli delle imprese minerarie».

La interrompo: la maggioranza delle imprese minerarie sono straniere, giusto?
 «Sono tutte straniere».

Stava parlando dei mezzi di comunicazione…
«Hanno dipinto il sottoscritto come un mostro: fascista, nazionalsocialista, hitleriano, di tutto insomma. È una parte della prostituzione dei mezzi di comunicazione o comunque del cattivo uso che si fa della libertà di espressione. A chi mi insulta viene subito dato credito, anche ora».

Alan García starà al potere fino al 2011. Come goveerà?
«Sta facendo quello che sa fare meglio: aprire la strada alla corruzione, far arricchire chi è già ricco, tenere nella povertà la maggioranza dei peruviani. È una tappa penosa, ma credo che sarà l’ultima. Dal 2012 si potrà costruire una nuova società».

Guerra e diritti:  le colpe dello Stato

Qualche considerazione sulla storia del Perú, quella caratterizzata dalla guerra sporca e sulla quale ha indagato la Commissione per la verità.
«È stata una guerra intea tra movimenti sovversivi  e stato. Quest’ultimo altro non fece che inviare l’esercito, senza un confronto ideologico e politico. La guerra terminò con circa 60.000 morti ed 8.000 scomparsi. Si formò una “Commissione per la verità e la riconciliazione” (4). Secondo la sua relazione, il principale colpevole fu Sendero Luminoso, ma ciascun protagonista tiene la sua quota di responsabilità.
In ciascun lato, sono stati identificati i responsabili che stanno pagando per le loro colpe (5). Per Sendero Luminoso c’è Guzmán, per l’Mrta c’è Campos, ma per lo Stato non c’è nessuno…
I primi due movimenti hanno pagato con i loro leader in carcere, ma nessuno ha pagato per lo Stato. Anzi, i responsabili di allora sono quelli oggi al potere. Guardiamo ad Alan García. Durante la sua prima presidenza ci furono numerosi massacri, sparizioni, assassini nelle carceri. Che ha fatto lo Stato? Ha accusato i soldati che parteciparono nella guerra e non i politici. Insomma, manca un giudizio politico sullo stato peruviano per la partecipazione alla guerra».

Come giudica il lavoro della Commissione?

«È stato lo studio più serio e completo sulla guerra intea del Perú. Io non sono stato accusato di nulla. E il nostro partito è stato l’unico a mettere nel programma il compimento delle raccomandazioni della Commissione».   

Cosa sono per lei i diritti umani?
«Significa dare tutte le sicurezze e le libertà perché una persona sia non solamente una persona ma anche un cittadino.
Essere cittadino significa avere obblighi, ma anche diritti. Non solo diritti alla vita ma anche al lavoro, alla salute, all’educazione. In questo contesto, il più grande violatore di diritti umani è lo Stato, che nega un’educazione di qualità ai bambini, che nega una sanità accessibile e di qualità alla maggioranza dei peruviani, che nega sicurezza e stabilità economica agli anziani che hanno lavorato per 30-40 anni. Non hanno una pensione degna. Ebbene, in tutto ciò io credo stiano i diritti umani».

Il futuro che cosa potrebbe riservarvi?
«Siamo un partito giovane, un partito del Siglo XXI. Credo che siamo nati per contribuire a migliorare la società, per cambiare questo sistema che si chiama “democrazia rappresentativa”, ma che in questo momento non rappresenta la maggioranza dei peruviani. Occorre una “democrazia partecipativa”.
Abbiamo ridato speranza a questo popolo. La nostra sfida per il futuro è di riuscire ad organizzare questa speranza».

Con metodi pacifici?

«Sempre. Mai abbiamo parlato di uscire dai limiti dello stato di diritto. Se cammina per le nostre strade, vede molta fame, molta disperazione, molto scontento. In questa situazione, si trova sempre qualcuno disposto a cambiare attraverso la violenza. Noi, i nazionalisti, siamo contrari a soluzioni violente. Anche se ci hanno accusato di ogni nefandezza, mai abbiamo parlato di abbandonare lo stato di diritto. In Perú tutti siamo stanchi della violenza. Io so cos’è la guerra e la violenza. E so che non è quello che chiede la famiglia peruviana».

Lei è ancora un militare?
«Sono un militare in pensione».

Cosa le ha lasciato la carriera militare?
«Provengo dalla classe media e pertanto avevo una certa idea del Perú. Nell’esercito entrano invece persone di ogni provenienza così ho potuto conoscere veramente il mio paese.
Ho capito che lo Stato non rappresentava la grande maggioranza. Da quando sono in pensione mi sento in dovere di ricostruire questo paese. Ho 2 bambine e non voglio che vivano in un Perú con questa classe dirigente».

La famiglia   

In Italia e in Europa i media hanno dato rilievo a dichiarazioni discutibili da parte di suo padre Isaac, sua madre Elena, suo fratello Antauro. Che può dire al riguardo?
«Nell’ultima campagna elettorale ci sono state differenze con la mia famiglia. Riconosco che alcune posizioni di mio padre e di mio fratello sono piuttosto estremiste e per questo io non le condivido. Durante la campagna elettorale avversari politici e media unirono le nostre posizioni come fossero un tutt’uno. Certamente noi non siamo un partito razzista perché non si fa politica in base al colore della pelle. Noi chiediamo soltanto di riscattare la cultura e i valori ancestrali. Io rifiuto qualsiasi divisione in bianco, nero, giallo».

Abbiamo iniziato questo incontro con la famiglia. Vorremmo concludere allo stesso modo:  sua moglie e le sue figlie sono con lei?
«Siamo una squadra. Per fortuna, le mie due figlie non sanno ancora leggere. Altrimenti quante cose mi avrebbero domandato…
L’appoggio di mia moglie Nadine è importante perché in Perú la politica è una cosa molto difficile. Quando una persona vuole cambiare le cose, la prima mossa che le forze al potere fanno è di attaccare la sua credibilità. In questa situazione, se non stai bene in famiglia, è facile arrivare al divorzio». 

Di Paolo Moiola

Cronologia essenziale 1963-2008
LA POPOLARITA’ DI OLLANTA METTE PAURA

27 giugno 1963: la nascita
Ollanta Humala Tasso nasce a Lima da Isaac Humala ed Elena Tasso, discendente di Termilio Tasso, un italiano arrivato in Perú nel 1850 (assieme al naturalista Antonio Raimondi). Ollanta sarà il secondo di 8 figli.

1982- decennio ‘90: guerra e sospetti
Dopo aver frequentato il collegio peruviano-giapponese di Lima, Ollanta inizia la carriera militare. Negli anni Novanta combatte Sendero Luminoso. In seguito, i suoi avversari e i media diranno che proprio in questo periodo il comandante Ollanta si rese colpevole di violazione dei diritti umani (Huallaga, 1992). Accuse peraltro mai comprovate.

29 ottobre 2000: la sollevazione
Ollanta Humala, con il fratello Antauro ed altri ufficiali dell’esercito capeggiano una sollevazione a Locumba (Tacna, vicino alla frontiera con il Cile) per esigere la rinuncia del governo guidato da Alberto Fujimori. Vengono amnistiati qualche mese dal governo transitorio di Valentín Paniagua.

2002-2003: all’estero
Sotto il governo di Alejandro Toledo, Ollanta Humala viene inviato come funzionario militare alle ambasciate peruviane di Francia e Corea del Sud. A Parigi, frequenta corsi di diritto internazionale alla Sorbona.

1-3 gennaio 2005: il fratello Antauro
Antauro Humala con un gruppo di 160 militari assalta un commissariato a Andahuaylas (Apurímac) per suscitare una sollevazione popolare contro Toledo. Il gruppo si arrende dopo 2 giorni. Ollanta Humala condanna l’azione del fratello. Le loro strade si dividono.

aprile 2005: il partito nazionalista
Ollanta Humala, Nadine Heredia Alarcón ed altri fondano il «Partito nazionalista peruviano».

28 giugno 2006: commercio
Il parlamento peruviano uscente approva il Trattato di libero commercio (Tlc) con gli Stati Uniti.

9 aprile 2006: vince Humala
Al primo tuo delle elezioni presidenziali si impone  Ollanta Humala con il 30,6% dei voti validi. Al ballottaggio con lui andrà Alan García Pérez, che ottiene il 24,3% dei consensi.

4 giugno 2006: vince García
Al secondo tuo, vince Alan García con il 52,62% dei voti contro il 47,37% di Ollanta Humala. Quest’ultimo vince in 14 province.

14 dicembre 2007: il gradimento
Secondo un’inchiesta dell’Università cattolica l’approvazione per l’operato del presidente García è al 29 per cento. Con punte del 15-13 per cento fuori di Lima.

gennaio 2008: intanto…
Il governo peruviano presenta un’istanza alla Corte Internazionale di giustizia di La Haya, perché delimiti i confini marittimi con il Cile. Nel frattempo, la congressista Keiko Fujimori annuncia la nascita di «Fuerza 2011», il partito fujimorista che si presenterà alle prossime elezioni presidenziali.

gennaio 2008:  lotta senza esclusione
La magistratura peruviana chiede 15 anni di carcere e l’espulsione dal paese per Ollanta Humala per i fatti accaduti ad Andahuaylas nel 2005. Il leader nazionalista viene difeso da Chávez e Ortega durante la riunione dell’Alca a Caracas. Il governo di García protesta per l’ingerenza negli affari peruviani.

30 gennaio 2008:  manifestazione
A Lima c’è una grande manifestazione in favore di Ollanta Humala e contro le manovre per allontanarlo dal paese.

Paolo Moiola

Nadine Heredia, consorte di Ollanta
UN SORRISO E UNA PENNA: LA CAMPAGNA DI NADINE

Eliane Karp, moglie dell’ex presidente Alejandro Toledo,  era spesso sui media peruviani. Antropologa ebrea di nazionalità belga, la Karp si fece conoscere a causa di dichiarazioni avventate, liti familiari e da ultimo anche per scandali finanziari. Anche Nadine Heredia, moglie di Ollanta Humala, è spesso sui media del paese, ma non come oggetto di scandalo, bensì come giornalista ed opinionista. Scrive sul quotidiano La República, uno dei più importanti del paese, che da gennaio 2007 le ha concesso una rubrica settimanale.  Siamo andati a spulciare tra i suoi articoli.

Sulla democrazia e il Tlc – «Viviamo un paradosso: poche volte come ora si parla tanto di democrazia e poche volte, come ora, le istituzioni appaiono tanto lontane dai cittadini, dai loro problemi, dalle loro aspettative.  (…) Buon esempio è il Tlc che il governo applica per beneficiare alcuni senza preoccuparsi dei danni: questo Tlc consente il disboscamento indiscriminato nella nostra Amazzonia e l’inquinamento dell’ambiente. Nello stesso tempo, permette l’entrata di prodotti agricoli sussidiati (i prodotti Usa, ndr) e prolunga il monopolio delle multinazionali farmaceutiche impedendo la concorrenza dei farmaci generici. Il Tlc, inoltre, aggrava la situazione e i diritti del lavoro e censura le organizzazioni sindacali attraverso la pressione del licenziamento. Infine, con questo trattato si accentua la frattura sociale che in Perú va unita alle altre di carattere etnico e geografico» (30/04/07).

Sull’Amazzonia e le multinazionali minerarie – «Da tempo i media lanciano l’allarme sulle mafie che operano nel settore del taglio illegale del legno.  (…) I grandi trafficanti hanno addirittura invaso riserve naturali e terre riservate a comunità native allo scopo di estrarre e commercializzare, con documenti falsi, il ricercatissimo mogano (…). Come per il narcotraffico, il profitto ottenibile è in media 170 volte più del costo di estrazione, profitto condiviso con funzionari statali corrotti»  (21/05/07). «Per consolidare lo sviluppo del settore minerario non solo si aprì il mercato, ma si offrirono incentivi per dare impulso agli investimenti (…). Questi benefici hanno fatto in modo che le imprese minerarie godano di privilegi e guadagnino molto denaro a fronte dello sfruttamento delle nostre risorse non rinnovabili e di una manodopera poco costosa, oltre agli alti prezzi delle materie prime sul mercato internazionale. Il Perú di oggi non è quello di prima, con un contesto politico violento e in recessione. Perché dunque si mantengono  le agevolazioni fiscali per le grandi imprese generando perdite di entrate per le casse statali? (…) Occorre riequilibrare la relazione tra i sovraprofitti del settore minerario e i tributi che esso genera. (…) Il governo deve cambiare questa situazione. In un contesto stabile, non è necessario che un’attività con una redditività tanto alta mantenga le agevolazioni fiscali e con ciò danneggi l’economia del paese che la ospita» (12/11/07).

Sulle foglie di coca e la politica antinarcotica – «Lontani da ogni sciovinismo, la foglia di coca non ha però incontrato alcuna difesa da parte dei nostri governi anche se costituisce elemento della nostra identità originaria (…). Questa mancanza di identificazione ha permesso la proscrizione della foglia all’Onu, frenando la ricerca sulle sue proprietà.  (…) Se si vuole agire senza ipocrisia, occorre impegnarsi nell’investigare e penalizzare i commercianti di prodotti chimici (con i quali si trasforma la foglia di coca in cacaina, ndr) e gli organizzatori  del business della droga, prima di attaccare i coltivatori di coca. La realtà dimostra che la eradicazione non funziona;  insistere su quella potrebbe sollevare ancora di più il sospetto di una pressione statunitense per giustificare certe loro presenze periferiche (le basi).  La proposta di coltivazioni alternative, accettata dai cocaleros, deve essere redditizia  e lo può essere se gli Stati Uniti reindirizzeranno i loro fondi per la commercializzazione di questi prodotti alternativi sul proprio mercato. Non esiste un problema della foglia di coca, esiste un problema di narcotraffico»  (19/03/07).

Paolo Moiola

Paolo Moiola




In paradiso si gioca a rugby

All Blacks: quando il rugby diventa una fede. Tra business, spettacolo e tradizione

Gioco di squadra, agonismo, disciplina, rispetto delle regole e degli avversari… sono valori fondamentali del rugby,
fino a diventare un modello educativo e stile di vita.
In Nuova Zelanda, famosa anche per la sua prestigiosa squadra nazionale, gli All Blacks, tale sport
rispecchia storia, tradizioni, fede e cultura della composita popolazione del paese; ma i suoi riti e slogan vengono
banalizzati negli spot pubblicitari del mondo occidentale.

Sono stati gli attori indiscussi di uno degli spot pubblicitari di maggiore effetto. «Built the same way» (costruiti nello stesso modo) come recita il costoso slogan che Iveco, la casa italiana costruttrice di veicoli commerciali e pesanti, ha scelto per celebrare la partnership con gli All Blacks, i temutissimi nazionali neozelandesi di rugby. Un sodalizio di «peso» che, al di là di ogni connotazione commerciale, rafforza di riflesso anche l’immagine «d.o.c.», già insita nel corredo cromosomico di questi talentuosi campioni.
E se di cromosomi o di «dna sportivo» si vuole parlare certamente non è passata inosservata la nuova, più recente, trovata mediatica che ha visto come sempre protagonisti i campioni di rugby dell’emisfero australe. «Bonded by blod» (legati col sangue), questo è il titolo di una discutibile campagna pubblicitaria di abbigliamento sportivo, che Craig Waugh, marketing manager dell’Adidas in Nuova Zelanda, ha lanciato insieme alla nazionale di rugby del suo paese lo scorso 31 maggio. In vendita la maglietta degli All Blacks con in dono il poster, a tiratura limitata, realizzato con il sangue di 39 campioni della palla ovale. Sì, proprio così, perché il dna dei temutissimi All Blacks, è stato aggiunto all’inchiostro che è servito a stampare i manifesti pubblicitari della multinazionale tedesca. 
Un autentico «patto di sangue» per questo discutibile sodalizio: «Una firma è personale – spiega Mark Cochrane, della Tbwa-Whybin, la società pubblicitaria che ha curato la campagna della multinazionale tedesca – ma con il dna della squadra la rende ancora più personale».
Ma al di là di ogni connotazione morale, il rugby è effettivamente il dna della Nuova Zelanda, lo sport per eccellenza praticato tra gli atolli del Pacifico, dove i valori etici e spirituali di questa disciplina sono forse già connaturati nella «struttura biologica» dei grandi campioni.

Rugby e fede: sport come lezione di stile e di vita

Di recente, in Italia, sull’entusiasmo dell’ultima fortunata partecipazione della nostra nazionale al toeo delle Sei nazioni, la più importante competizione internazionale di rugby giocata in Europa, questo sport torna più che mai alla ribalta. Anche e soprattutto come modello educativo e sociale, che sottolinea i valori cristiani dello sport, anche agli occhi dell’opinione pubblica, dopo i vergognosi esempi di «calciopoli» e gli inconsulti atti di delinquenza che hanno infangato il miliardario passatempo delle folle del bel paese.
Lealtà sportiva e rispetto dentro e fuori dal campo di gioco: sono questi i soli modelli di comportamento che trovano nella palla ovale forse il più onesto esempio di educazione alla socialità da insegnare ai giovani, non solo quelli che si avviano all’attività sportiva. Proprio come avviene da almeno due secoli in Nuova Zelanda, il paese dove il rugby resta il gioco più praticato a livello scolastico, e che riveste altresì un ruolo di formazione al pari delle altre discipline d’insegnamento.
Anche per questa sua importantissima funzione il rugby è seguito con sguardo consenziente dalla congregazione anglicana del paese, perché diviene un veicolo di spiritualità, che si esprime come scuola di autocontrollo, di autodisciplina, di rispetto per sé e per gli avversari. Una «dimensione» cristiana dello sport che, al di là dei differenti costumi, usanze, riti, razze e schemi di gioco, è capace di mettere tutti d’accordo dentro e fuori dal campo.
Sono queste le prime norme di chi pratica ad altissimo livello agonistico il sano, vecchio rugby, lo «sport giocato in paradiso», come recita in modo provocatorio e un po’ irriverente un antico proverbio anglosassone. La violenza, l’offesa e l’esasperazione esacerbata degli animi non fanno parte dell’etica di questa disciplina, che impedisce di trasformare gli avversari in nemici, il proprio vigore fisico in una scorrettezza, l’abilità in una frode.
Il primo dei tanti perché è senza dubbio legato allo sviluppo della socialità: da sempre, il rugby nell’emisfero australe è inteso come massima espressione di un collettivo perfettamente integrato, dove è cristianamente del tutto assente l’egoismo individualista.
Dunque rugby anche come una confrateita, una religione, forse un modo di vivere, una battaglia sociale, un fatto educativo. Secondo Davis Storey, scrittore britannico di Wakefield, in una delle sue celebri novelle, This Sporting Life, a proposito del rugby scrive : «… è il solo sport per uomini che sia rimasto». Fuori dell’enfasi, il rugby neozelandese non è tutto questo, ma è certo paradossalmente un po’ di tutto ciò. Una disciplina diversa, romantica, genuina, ancora legata come nessun altro sport alla tradizione, alla storia, alla fede e alla cultura in cui è nata.

La Haka: tradizione e spettacolo

Per tradizione e poi sul campo sono i più bravi. Divisa tutta nera, maglietta della salute compresa, la felce argentea sul petto: ecco gli All Blacks, il dream team della palla ovale. Per loro il rugby è un modo di concepire la vita, ma anche una forma di arte e di spettacolo. Il resto poi lo fanno i media, con grande arguzia e dedizione, che sottolineano spesso le suggestioni che la dimensione religiosa  gioca in questo sport.
Sull’isola, dove convivono il passato e il presente etnico di un paese meticcio, il rugby assume maggiormente i connotati della disciplina romantica, ancora legata, come nessun altro sport, alla tradizione antropologica e alla cultura religiosa da cui trae origine la storia di un popolo. Significati riconducibili alle origini dei miti maori, al retaggio sacrale dei defunti, al rispetto dei riti e della religione a cui si affidano gli atleti prima di ogni match.
Dietro a ogni gesto preparatorio c’è una ritualità, una tradizione ancestrale che affonda le sue radici proprio nel valore più intimo e spirituale dell’uomo: la religione degli antenati. Tipica degli All Blacks è la Ka mate, un modello di Haka, la danza propiziatoria di guerra, che ha lo scopo di intimorire gli avversari prima di ogni partita, ma anche una manifestazione di gioia, di dolore, una libera via di espressione. Il rituale è ormai divenuto celebre in tutto il mondo e fa parte dello show offerto dalla squadra neozelandese prima ancora del calcio d’inizio. Una cerimonia a dire il vero impressionante: si roteano e si spalancano gli occhi, si digrignano i denti, si mostra la lingua, ci si batte violentemente il petto e gli avambracci, si dà quindi un saggio di potenza e coraggio, che si ricollega allo spirito guerriero. Dal punto di vista agonistico-sportivo, si può anche identificare nella danza tradizionale maori una vera tecnica di attivazione mentale che anticipa la psicologia dello sport e scava dentro rituali ancestrali. Un metodo che oltre a sottintendere passione, vigore e identità della razza, consente di arrivare alla gara in uno stato psico-fisico ottimale, dimostrando sicurezza di sé e nella squadra.
La fede dunque che rende nobile lo sport. Tutto questo è l’haka: comunicazione non verbale, mediante gesti rituali e guardi di sfida all’avversario, e comunicazione verbale per confermare le proprie origini, l’orgoglio di appartenenza a un popolo e la certezza nell’obiettivo.
Ma poi in campo, 15 campioni di eleganza, di stile, di disciplina, gli attori indiscussi di uno spettacolo dell’anima, quella bella. Gesti semplici che racchiudono la tradizione e il professionismo di chi è «ricco» anche di valori. Da Joe Rokocoko a Rodney So’oialo, da Neemia Tialata a Jonah Lomu, la leggenda maori continua. E l’ovale passa ai nuovi testimonial di una fede sportiva, quella in cui attraverso i media si concretizzano, come all’ultima meta, i modelli di sviluppo sociale e i più elevati ideali di educazione alla convivenza civile.

Copyright culturale a rischio

Certamente la danza rituale è l’aspetto che sembra penetrare, seppur superficialmente, più di tutti gli altri complessi elementi che compongono la cultura maori, nell’immaginario collettivo dei media occidentali. Molti sono gli spot che negli ultimi mesi si sono serviti, forse in modo un po’ troppo disinvolto e irriverente, dell’immagine della cultura dei nativi maori a fini promozionali. In Italia, ad esempio, non è passato inosservato il lancio commerciale di un modello di auto Fiat che ha suscitato accese polemiche in Nuova Zelanda. Creato dalla Leo Buett Italia, nella pubblicità alcune donne si esibiscono nella haka, accompagnata dalle tipiche sonorità, mentre alla fine dello spot, una donna sale sull’auto pubblicizzata, dove un neonato mostra la lingua: azione che conclude, anche nella realtà, il rituale di danza.
Secondo i diplomatici neozelandesi lo spot è «culturalmente insensibile» e, nonostante le proteste ufficiali, è stato comunque prodotto e mandato in onda da diverse emittenti televisive. Brad Tattersfield, portavoce del New Zealand Ministry of Foreign Affairs and Trade (Mfat, Ministero degli esteri e del commercio), ha dichiarato che il Ministero era stato avvertito dall’ufficio del New Zealand Trade and Enterprise (Nzte) di Milano dell’utilizzo della haka in uno spot pubblicitario. In alternativa, era possibile utilizzare un gruppo maori che avrebbe danzato un altro tipo di haka composto appositamente per il gruppo di donne; ma l’agenzia di pubblicità ha ignorato la proposta.
Tuttavia, secondo Garry Nicholas, general manager della Te Toi Aoteroa, associazione che promuove e protegge l’arte e la cultura maori, nello spot non viene danzato propriamente una haka, sebbene ne sia evidente la radice culturale. Il contesto dello spot è alquanto giocoso e il bambino che mostra la lingua alla fine della pubblicità sottolinea l’approccio ironico, sebbene abbia riconosciuto un’insensibilità di fondo verso la cultura maori.
Ma la Fiat non è l’unica realtà industriale ad aver utilizzato riferimenti della cultura maori. La pubblicità di una famosa marca di whisky, la William Lawson, apparsa in Belgio (dove una squadra di rugby si esibisce in un haka davanti a una squadra scozzese i cui componenti, per tutta risposta, sollevano il kilt) è stato oggetto della protesta ufficiale dell’ambasciatore neozelandese. La Philip Morris si è invece dovuta scusare con i maori, nell’aprile scorso, per aver stampato le loro immagini sui pacchetti di sigarette in vendita in Israele, mentre sei anni fa la Lego ha perso una causa legale contro il popolo maori per aver «plagiato» la loro cultura nelle storie legate a una sua popolarissima linea di giocattoli.

All Blacks oggi: sindrome da mondiale

Nello sport, diceva il barone De Coubertin, l’importante è «partecipare». Ma questo spirito pionieristico e dilettantistico che ha fatto del rugby la disciplina dilettantistica per eccellenza, oggi non va più bene. Gli All Blacks invece a vincere sono condannati. Ai mondiali però, dopo il mitico ‘87, anno della prima e unica vittoria, hanno sempre fallito per sfortuna, presunzione e orgoglio dei paesi ospitanti o, soprattutto, per l’enorme «pressione» non solo della stampa amica e avversaria e tifosi, ma di un’intera nazione, che provoca brutti scherzi a livello mentale e condiziona forse troppo le prestazioni sportive di questi grandi campioni.
La sesta edizione della Webb Ellis Cup, la coppa del Mondo 2007, conclusasi in Francia lo scorso ottobre, ha visto per la seconda volta il trionfo degli Springboks, le gazzelle sudafricane. Eppure anche in questo mondiale gli All Blacks, guidati dal c.t. Graham Henry, sembravano aver finalmente acquisito quel cinismo tipicamente «europeo», che, affiancato alle loro enormi abilità individuali e tattiche, avrebbe potuto portarli alla vittoria mondiale.
Quest’ultima eliminazione – conferma la stampa neozelandese – è forse stata la più incredibile della serie, perché negli ultimi quattro anni la Nuova Zelanda aveva dominato contro tutte le squadre, perfino sui Lions, la selezione che raccoglie i migliori giocatori delle isole britanniche, perdendo solo 5 test match sui 41 disputati prima del quarto di finale contro i padroni di casa della Francia.

E la storia delle sconfitte neozelandesi, però, ha sempre riservato particolari conseguenze con singolari ricadute anche a livello sociale. Ma se nel lontano 1991, eliminati dagli odiatissimi australiani, molti giocatori non tornarono nemmeno in patria, nel 1999 (ancora la Francia sul cammino degli All Blacks) appena atterrati si trovarono di fronte un’enorme scritta: «Loser» (perdenti).

Diverso fu il destino del capitano vincitore David Kirk, che fece però parte nel ruolo di consigliere del premier nell’esecutivo guidato da Jim Bolger e fu vicino ad essere eletto deputato. Questa volta i giocatori non hanno subito particolari «trattamenti»; l’intera nazione è precipitata, però, nel totale sconforto: un intero popolo sull’orlo di una crisi di nervi, con psicologi invitati a sollevare il morale della popolazione; il capo degli arbitri della federazione rugbistica internazionale Paddy O’Brien, neozelandese per ironia della sorte, minacciato per aver preso le difese «istituzionali» dell’arbitro inglese, il debuttante Wayne Baes, che ha diretto la sconfitta contro i transalpini, finito per alcune sue decisioni discutibili sotto il tiro incrociato dei tabloid neozelandesi. Ma ancora borse che crollano e governo sull’orlo della crisi istituzionale. Addirittura alla vigilia della coppa del mondo, l’equivalente del nostro ministro delle Attività produttive neozelandese aveva espresso timori per via del fuso orario che obbligava i lavoratori a stare svegli di notte, limitandone quindi presenze e produttività.
Due giorni dopo la sconfitta della nazionale kiwi di rugby, il lunedì mattina, in apertura di contrattazioni, la seduta della Borsa di Wellington ha risentito del verdetto del campo di gioco. Oltre ai tifosi anche gli investitori non sembrano aver preso bene la sconfitta. Pur seguendo l’andamento positivo di Wall Street, l’attività del mercato è stata giudicata assolutamente piatta. Il lunedì è tradizionalmente una giornata tranquilla per il mercato neozelandese, ma la calma per l’occasione era apparsa eccessiva: da stato di shock hanno detto i brokers.
Che il rugby in Nuova Zelanda non sia solo un gioco lo dimostra anche il fatto che dopo l’incontro, i giornalisti hanno chiesto al primo ministro Helen Clark, allo stadio vicino al presidente francese, Nicolas Sarkozy, se la sconfitta avrebbe avuto ripercussioni negative sul governo. «Ne sarei sorpresa» ha risposto la Clark, cercando forse di scongiurare con astuta diplomazia su una possibile, annunciata crisi istituzionale.
Nel 2011 i mondiali si giocheranno in casa e molti, fin d’ora, sono pronti a scommettere che sarà la volta buona. 
Di Massimo Ruggero

Massimo Ruggero




«Hai mutato la mia veste di sacco in abito di gioia»

la parabola del «figliol prodigo» (17)

22 Presto, portate qui il vestito più bello
e fateglielo indossare, mettetegli l’anello
al dito e i sandali ai piedi.

Presto
Alcuni codici, sia maiuscoli che minuscoli, eliminano l’avverbio iniziale «presto» (gr. «tachý»), che dà il senso del precipitare degli eventi, della frenesia del padre e di tutta la casa coinvolta nell’accoglienza del figlio ritornato. Con tale eliminazione si vuole ritardare il perdono del padre in attesa che il figlio faccia il suo atto di dolore. È disdicevole per un padre cedere all’emozione di fronte al figlio. Nella mentalità orientale solo dopo che il figlio si umilia il padre può «benignamente» concedere la sua benevolenza. Se lo fa prima, mette in discussione la sua autorità.
Il testo greco, invece, accettato e riportato dai codici più antichi, compreso il papiro 75 del sec. iii, mette l’avverbio «tachý, presto/veloce/subito» in principio di frase, conferendogli così importanza dal punto di vista sintattico, perché lo pone in posizione enfatica. Nello stesso tempo sottolinea la successione simultanea delle azioni e degli oggetti, perché mette in evidenza la fretta che il padre ha di dimostrare il suo amore sconfinato, capace di mettere in movimento tutto l’ambiente circostante.
«Presto… portate… rivestite… mettete… prendete» danno il senso plastico di un ritmo che crea un clima e rivela una verità: il padre non si cura della sua dignità di fronte al mondo, ma si occupa e preoccupa soltanto di suo figlio. Il perdono del padre è contagioso fino al punto da riuscire a trasformare l’immobilità precedente in una gioia senza fine dalla quale nessuno si può dispensare. Il padre fa sue le parole del salmista che esprimono molto bene la sua condizione e la sua gioia: «Hai mutato il mio lamento in danza, la mia veste di sacco in abito di gioia perché io possa cantare senza posa» (Sal 130/129,12-13).
Il padre con questo comportamento condivide la stessa gioia degli altri due personaggi della parabola precedente nello stesso capitolo: del pastore che ha ritrovato la pecora: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta» (Lc 15,6); e quella della donna che ha ritrovato la moneta: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduta» (Lc 15,9). Gli atteggiamenti e le parole sono identiche:

v.6    (pastore)    Rallegratevi con me    perché ho trovato la mia pecora
v.9    (donna)    Rallegratevi con me    perché ho trovato la moneta
vv.23-24    (padre)    Facciamo festa    perché questo mio figlio è stato ritrovato

Padre, pastore e donna manifestano il sentimento profondo del Dio Padre/Madre che Gesù è venuto a «mostrare»: il Dio che mette in gioco se stesso pur di trarre in salvo i figli. Le tre figure delle parabole di Lc 15 sono veramente «il sacramento» del Dio di cui capovolge l’immagine abituale, diffusa dalla religione: «Il Signore è lento all’ira e grande in bontà, perdona la colpa e la ribellione, ma non lascia senza punizione; castiga la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione» (Nm 15,18). 
Il Dio di Gesù, al contrario, si rallegra e fa festa, senza chiedere in cambio nulla, felice che il figlio perduto è ritrovato. Il padre della parabola lucana, infatti, non permette al figlio di finire la sua confessione, ma lo precede con il suo amore generante per rigenerarlo nuovamente. Egli è il vero erede del profeta Osea che continua ad amare la moglie Gomer, nonostante sia scappata tre volte per fare la prostituta (cf Os 1,1-9; 3,1-5). Dopo averla rincorsa e trovata, circondata dai suoi amanti, aveva il diritto di applicare la toràh e comminare una sentenza di morte (Lv 20,10). Secondo la tradizione giudaica «grande è la misericordia del Signore e il suo perdono per quanti si convertono a lui» (Sir 17,24), che è l’atteggiamento fatto proprio dalla religione per gestire la mediazione tra il peccatore e Dio. Il profeta Osea, invece, si pone su un altro piano e travolge di tenerezza la moglie/prostituta, assetata di amore, prima ancora che lei apra bocca o esprima il suo pentimento, offrendole un viaggio nuziale nei luoghi del loro primo amore: il deserto di Dio (cf Os 2,16-18).
Sulla scia del profeta Osea, anche Gesù offre il perdono di Dio prima della conversione, prima della stessa richiesta: «Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rom 5,8.10). Lc insiste su questo aspetto, che costituisce il cuore del vangelo e la novità apportata da Cristo. Spesso anche per noi cristiani, Gesù è uno dei tanti profeti (Lc 9,19), il cui messaggio è un ideale di vita, tanto grande da essere irraggiungibile e finiamo per farci da noi una immagine di Dio su nostra misura che rispecchi le nostre esigenze e miseria. Dio diventa ìdolo.
Il comportamento del padre rispecchia lo stesso comportamento di Gesù nei confronti della prostituta che entra in casa del fariseo Simone (Lc 7,36-50). Lo scandalo è enorme: in un consesso di uomini perbene di giorno e frequentatori di prostitute di notte, l’ingresso della donna è un insulto. La donna che rende impuro tutto ciò che tocca si accucciola ai piedi di Gesù, glieli lava con le sue lacrime e glieli asciuga con i suoi capelli (Lc 7,36-50). Nata per fare la prostituta, non ha altri gesti che quelli di una prostituta per dimostrare il suo interesse e attenzione all’uomo che la guarda con occhi nuovi e non giudicanti. Di fronte a una tale donna, da cui ogni uomo perbene deve stare lontano almeno due metri, Gesù si lascia toccare e baciare e, in contrasto con l’ambiente circostante, perdona la donna senza nemmeno chiederle di cambiare mestiere: «I tuoi peccati sono perdonati… La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!» (Lc 7,48.50).

Il vestito
Il primo ordine del padre riguarda il «vestito più bello» (in greco «il vestito, il primo»), non un vestito qualsiasi, ma quello della festa, quello importante. E non si tratta di liberare il figlio dagli stracci che addossa e dargli una sistemazione dignitosa. «Il vestito» ha un significato preciso. Il padre veste il figlio restituendogli la dignità, come Dio veste Adam ed Eva, liberandoli dalla loro nudità (Gen 3,21) che offuscava la loro trasparenza di figli del Creatore. Da notare che è il padre a vestire il figlio: la dignità di figlio nessuno può darsela da solo, ma può solo essere accolta o rifiutata. Andando via di casa il figlio ripudiò, insieme al padre, la sua identità umana e filiale, ora la riceve di nuovo dal padre, l’unico a potergliela restituire.
Per il vestito nel vangelo di Lc si usano due parole: «imàtion», che vi ricorre 11 volte (Lc 5,36; 7,25; 8,35, ecc.), e «stolê», che si trova solo qui: è una di quelle parole «esclusive» e per questo hanno una importanza particolare.
Il primo termine indica un vestito generico, comune, senza alcuna connotazione particolare. Il secondo invece è il vestito «della dignità», riservato ai ministri, autorità, a chi esercita una funzione pubblica di rilievo. In questi casi la «veste-stolê» indica la dignità della persona che la indossa. Nell’Apocalisse la veste è il segno di riconoscimento dei martiri (Ap 6,11), ma è anche il distintivo della folla immensa che nessuno poteva contare (Ap 7,9.13-14) e l’abito di coloro che vogliono mangiare dell’albero della vita (Ap 22,14). Nell’Apocalisse la «veste-stolê» è il segno visibile del popolo del regno di Dio, in cui ora è riammesso il figlio ritornato da «un paese lontano» (Lc 15,13) alla casa del padre che ancora lo ama e lo amerà per sempre.
La qualifica del vestito, in italiano, è «il più bello». Il testo greco dice esattamente: «portate il vestito, il primo». Il padre non chiede di rivestire il figlio con un vestito qualsiasi, ma chiede che venga portato «quello che è primo».
L’aggettivo «prôtos-primo» ha tre significati: a) può avere valore temporale per cui significa «quello che aveva prima di andarsene» e che è stato conservato; b) può indicare la qualità del vestito, nel senso di «migliore/splendente» e quindi «il più bello»; c) nella bibbia è usato anche per definire «gli aromi migliori/preziosi», «olii raffinati» (cf Ez 27,22; Ct 4,14; Am 6,6); per cui, qualunque sia il significato, Lc nella parabola si riferisce a qualcosa di non usuale, ma di prezioso.
Per capire il comando del padre che ordina di portare il «vestito, quello migliore», bisogna tener presente che nella cultura mediorientale il «vestito» indica una dignità totale, anzi, moltiplicata: il vestito non solo era il migliore, ma è stato anche conservato per questa occasione, segno che il padre non si è mai rassegnato alla partenza del figlio. I tre significati sono intrecciati perché hanno il medesimo senso: reintegrare il figlio nella dignità filiale che il figlio aveva perduto, ma che il padre mai aveva rinnegato; il vestito è il simbolo della dignità filiale, anzi, della pienezza della dignità. Di più: è il segno della personalità, perché il vestito è prolungamento del corpo, estensione dell’anima. Nonostante la partenza, la dignità del figlio, simboleggiata dal vestito, è sempre rimasta in custodia presso il padre: il figlio dilapidava la vita in una terra impura e il padre custodiva la dignità del figlio, conservando gelosamente «il vestito, il primo».
In tutte le religioni e culture, il «rito dell’investitura» è il riconoscimento ufficiale di un servizio o incarico. Giacobbe per dimostrare l’amore di predilezione che provava per Giuseppe, figlio insperato avuto da Rachele, «gli aveva fatto una tunica dalle maniche larghe» (Gen 37,3). Il faraone per onorare di fronte a tutto l’Egitto Giuseppe, che aveva interpretato i suoi sogni e salvato l’Egitto dalla carestia, «lo rivestì di abiti di lino finissimo» (Gen 41,42).
Per affermare la dignità di Eliakìm, che Dio sceglie al posto del maggiordomo Scebnà, Isaia ci informa che è lo stesso Dio a fae l’investitura ufficiale, per bocca del profeta: «Ti toglierò la carica, ti rovescerò dal tuo posto… Chiamerò il mio servo Eliakìm… lo rivestirò con la tua tunica lo cingerò della tua sciarpa e metterò il tuo potere nelle sue mani» (Is 22,19-21). Nel libro di Ester, quando viene scoperto l’inganno di Amàn contro Mardocheo, il re chiama il primo e chiede: «Che si deve fare a un uomo che il re voglia onorare? Amàn rispose al re: “Si prenda la veste (gr. stolê) regale che suole indossare il re… si rivesta di quella veste l’uomo che il re vuole onorare….”» (Est 6,6-9). Qui la veste è un’onorificenza che attesta la benevolenza del re e riconoscimento pubblico a un uomo che agì con giustizia, anche a rischio della vita. Dai testi emerge con chiarezza che il vestito e la sciarpa sono simboli visibili di un’autorità trasmessa e ricevuta, segno di un onore tolto all’uno e concesso all’altro in forza della magnanimità di Dio.
Il figlio della parabola non si trova in nessuno dei casi biblici citati: egli non merita alcun riconoscimento o protezione; al contrario, egli merita solo disprezzo o, al limite, pena e compassione. Nulla è a suo favore, tutto è contro di lui. Possiamo meravigliarci che il padre della parabola lucana imiti il Dio di cui la scrittura descrive il comportamento? Togliendo gli stracci al figlio e rivestendolo della veste della dignità, il figlio giovane rappresenta Gerusalemme che finalmente depone «la veste del lutto e afflizione» per rivestirsi «dello splendore della gloria» di Dio (cf Bar 5,1). Il figlio che ha ricevuto la veste nuziale della dignità ora può entrare a pieno titolo nella sala di nozze e partecipare al banchetto dell’alleanza (cf Mt 22,11-12).

L’anello
Ancora oggi il sigillo dei re e dei papi è racchiuso nel simbolo di un anello. Quando un papa muore, il primo atto ufficiale, dopo la constatazione della morte, è la rottura dell’anello del pescatore, simbolo del potere e della autorità conclusi del defunto pontefice.
Nella bibbia vi sono 3 tipi di anello: a) anello-pendente (gr. hènōdrion) che si mette alle orecchie o al naso (cf Is 3,21). Il servo di Abramo, in cerca della sposa per Isacco, quando incontra Rebecca, le mette al naso un anello-pendente di «mezzo siclo» (circa 6 grammi d’oro) (Gen 24,22.47); b) anello-amo (gr.: ànkistron) che si mette alle narici delle bestie, ma anche al naso dei prigionieri di guerra come simbolo di sottomissione e schiavitù (2Re 19,28; Is 37,29; cf Am 4,2; Ez 19,4.9); c) anello da dito (daktýlios), oggetto prezioso che distingue la persona che lo indossa, come si legge nella Lettera di Giacomo: «Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro…» (Gc 2,2).
Qui l’anello è ostentazione di ricchezza, sbattuta in faccia ai poveri, ma anche segno del degrado di una comunità che si adegua ai costumi del mondo. Luca usa questo termine che prende dalla bibbia greca della Lxx e lo usa soltanto qui, per cui diventa anch’essa una parola «esclusiva» con un significato proprio e profondo.
L’anello al dito è segno di distinzione sociale, simbolo di autorità e reputazione di alto rango, un sigillo di potere. Prima ancora di dargli la veste di plenipotenziario, «il faraone disse a Giuseppe: “Ecco, io ti metto a capo di tutto il paese d’Egitto”. Il faraone si tolse di mano l’anello e lo pose sulla mano di Giuseppe» (Gen 41,41-42). Portare l’anello del faraone significa rappresentarlo in tutto il suo regno: «Io ti metto a capo di tutto il paese d’Egitto». Mettere l’anello nella mano di Giuseppe è conferirgli l’autorità del faraone che così prolunga la sua persona in colui che porta il suo anello, è la stessa cosa: ogni decisione che Giuseppe prenderà e sigillerà con l’anello ricevuto, è la decisione del faraone stesso.
L’antenata di Gesù, Tamar, che si finse prostituta per esercitare il suo diritto di madre, al suocero Giuda che la mette incinta chiede come pegno del loro incontro «l’anello (daktýlion), il cordone e il bastone» (Gen 38,18.25).
Il padre che mette l’anello al dito del figlio, non solo gli riconosce la dignità di figlio, ma gli affida nuovamente l’amministrazione della casa, come suo fiduciario. Mettendo l’anello al dito, il padre di fatto e di diritto reintegra il figlio anche nell’eredità per cui significa che questo figlio, alla morte del padre, può ereditare di nuovo. È un comportamento scandaloso, perché ancora il figlio non dà alcuna garanzia, ma il padre gli affida la cassaforte di casa. Oggi è come se un padre desse il libretto degli assegni o carta di credito sulla parola e sulla fiducia. L’amministratore di casa conserva l’anello/sigillo con cui compra quanto è necessario alla famiglia: tutti fanno credito perché egli appone il sigillo dell’anello, una garanzia sicura.
Qualcuno potrebbe obiettare: il padre è ingiusto, perché reintegra il figlio che ha sperperato tutto; ereditando di nuovo, ci rimette il figlio maggiore. Teoricamente, alla luce dei comportamenti umani, l’obiezione ha un suo fondamento, ma nulla sul piano di Dio. È la stessa situazione del padrone che chiama gli operai per lavorare nella sua vigna: pattuisce un contratto e alla fine a quelli delle 5 della sera dà la stessa paga di quelli delle 6 del mattino; accusato d’ingiustizia, risponde che egli è libero di disporre dei suoi beni con generosità «o forse tu sei invidioso perché io sono buono?» (Mt 20,1-15).
L’anello al dito ha anche un risvolto pubblico: tutti devono vedere che è il padre a reintegrare il figlio, perché d’ora in poi tutti devono riconoscere che quel figlio fuggito senza dignità, con quell’anello rappresenta il padre, e tutti gli devono tributare il rispetto che il padre merita ed esige. Questa investitura nella dignità e nella eredità si completa con la consegna dei «sandali».

I sandali
Nelle case dei nobili, solo gli schiavi vanno scalzi, mentre i padroni portano i sandali ai piedi, segno della loro autorità sulle proprietà. Camminare con i sandali significa dominare su ciò che si calpesta, perché essi sono il simbolo della persona libera e non schiava, che esercita il possesso legittimo sui propri averi. Mettere i sandali ai piedi del figlio equivale a restituirgli la libertà totale su tutta quanta la proprietà. Voleva chiedere di essere trattato come un «dipendente», il figlio perduto e ritrovato riceve la dignità di figlio (tunica), l’autorità dell’erede (anello) e la libertà di persona (sandali).
Colui che era diventato «dipendente» dei porci ora si ritrova senza sforzo a essere figlio a tutti gli effetti, uomo a cui il padre ha restituito la dignità, piena fiducia su ogni cosa e totale libertà senza condizioni. Non basta vivere in qualche modo, non è sufficiente vivacchiare, per vivere da figli sono necessarie alcune condizioni: si deve essere figli, avere la dignità, possedere la responsabilità dell’autorità. Il padre non vuole un figlio a mezzo servizio, dimezzato, tollerato: vuole un figlio nella pienezza umana e ufficiale della sua identità e quindi dei suoi affetti.
Nessuno può trattenere qualcun altro a forza o per bisogno: prima o poi scappa da dove è venuto. Il padre lo sa e, se offre al figlio la possibilità di riscattarsi, lo fa senza condizioni, ma con l’amore sconfinato che solo un padre sa nutrire. Gesù è venuto per questo: ci ha portato un vangelo che è «scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani» (1Cor 1,23), perché impariamo a pensare e vivere secondo la mentalità di Dio. Se ci scandalizziamo del suo modo di essere e agire, siamo lontani dal regno e navighiamo in un confuso mare di religiosità che esprime più i nostri bisogni che il senso della nostra fede nel Dio di Gesù Cristo, «perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8). Tutto ciò ci conduce nel NT dove Gesù «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1), senza condizioni, senza contropartita. (continua – 17)

di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Protocolli. convenzioni, decreti …

Nazioni Unite – Unione Europea – Italia

Dalla dichiarazione dei diritti dell’uomo (1948), le iniziative legislative per combattere
la tratta di persone si sono moltiplicate a livello mondiale e di singole nazioni. Ma le normative sono spesso disattese, lasciando ampi margini alle organizzazioni criminali.

Sono almeno 4 milioni, secondo le Nazioni Unite, le donne che ogni anno vengono vendute nel mondo ai fini della prostituzione, della schiavitù o del matrimonio e circa la metà sono bambine tra i 5 e i 15 anni, che vengono introdotte nel mercato del sesso. Di queste donne e ragazzine circa 2 milioni arrivano in Europa occidentale; la metà proviene dai paesi dell’Est.
Si tratta tuttavia di dati approssimativi e incerti, vista la natura clandestina e illegale del traffico e la mancanza, in molti paesi, di legislazioni adeguate contro la tratta delle persone. Del resto, molti governi ancora non dedicano abbastanza risorse alla prevenzione e alla repressione del fenomeno e le vittime stesse, dal canto loro, sono restie a denunciare i propri sfruttatori alle autorità, anche in presenza di legislazioni che potrebbero tutelarle.
Il fenomeno ha conosciuto un vero e proprio boom a partire dagli anni ‘80, quando migliaia di donne straniere hanno cominciato a riversarsi in Europa in fuga da condizioni di povertà, miseria, guerra… E ha continuato a crescere negli anni ‘90, assumendo proporzioni mondiali. In particolare il traffico delle ragazze nigeriane si è consolidato su nuove rotte, che le ha portate sempre più in Italia, con base e centro di smistamento a Torino. Ma il fenomeno in Africa non riguarda unicamente la Nigeria, anche se in questo paese la tratta mantiene le proporzioni più vaste e drammatiche.
Secondo l’Oim, l’incremento del traffico di donne nel continente si fa sempre più preoccupante e coinvolge circa 500 mila donne l’anno.

Nel 2000, le Nazioni Unite hanno pubblicato un nuovo Protocollo  per prevenire, reprimere e sanzionare la tratta di persone, specialmente di donne e bambini, a integrazione della Convenzione Onu contro la delinquenza organizzata transnazionale  (http://www.hrlawgroup.org/initiatives/trafficking persons/).
Ma già nel 1949 era stata promulgata una Convenzione (entrata in vigore nel 1951) per la soppressione del Traffico di persone e dello sfruttamento di altre persone ai fini della prostituzione. Per la prima volta, in un documento internazionale, si dichiarava che la prostituzione e il traffico di persone sono incompatibili con il valore e la dignità dell’essere umano, in quanto pongono in pericolo il benessere dell’individuo, della famiglia e della comunità.
L’articolo 3 del Protocollo del 2000 definisce la tratta di persone come «la captazione, il trasporto, l’accoglienza o la ricezione di persone, facendo ricorso alla minaccia, all’uso della forza o ad altre forme di coazione, al rapimento, alla frode, all’inganno, all’abuso di potere o di una situazione di vulnerabilità, o alla concessione o al ricevimento di pagamenti o benefici, per ottenere il consenso di una persona che abbia autorità su di un’altra ai fini dello sfruttamento di quest’ultima».
Nel marzo dello scorso anno, sempre le Nazioni Unite hanno lanciato la Global Iniziative to Fight Human Trafficking (Iniziativa globale per combattere il traffico di esseri umani, Un.Gift – www.ungift.org), che cornordina varie agenzie dell’Onu, al fine di prevenire e combattere la tratta, e assistere e riabilitare le vittime del traffico di esseri umani non solo finalizzato allo sfruttamento sessuale.
Lo scorso febbraio, Un.Gift ha organizzato a Vienna il primo Forum globale sul tema, al fine di creare maggior consapevolezza del problema e promuovere partnership e collaborazione tra i vari soggetti che lavorano in questo ambito.
Sempre a livello di Onu, oltre alla Dichiarazione universale dei diritti umani, diverse Dichiarazioni e Programmi di azione delle principali Conferenze mondiali contengono principi e normative di riferimento, a cui i diversi governi sono chiamati ad adeguarsi, senza tuttavia creare obblighi dal punto di vista giuridico. È così che vengono spesso disattesi e lasciano ampio margine alle organizzazioni criminali per i loro traffici.

Anche l’Unione Europea si è mossa per combattere il fenomeno della tratta e il primo febbraio 2007 è entrata in vigore la Convenzione del Consiglio d’Europa, in seguito alla ratifica da parte di Cipro, decimo stato a siglarla. Secondo Terry Davis, segretario generale del Consiglio, «la Convenzione usa intenzionalmente la mano forte nei confronti dei trafficanti e fa la differenza per le vittime, che beneficeranno di un grande aiuto a tutela dei loro diritti fondamentali».

Per quanto riguarda l’Italia, esistono due leggi di riferimento: l’articolo 18 del Decreto legislativo 286/98 – strumento di lotta a forme di violenza e di sfruttamento nei confronti degli immigrati – e l’articolo 13 della legge n. 228/2003, che riguarda la tratta di esseri umani e la riduzione in schiavitù. Entrambi prevedono l’avvio di un percorso di protezione sociale, qualora la persona oggetto di violenza o reato denunci il fatto. L’articolo 18, inoltre, prevede – sia in seguito alla denuncia che in situazioni di particolare rischio – il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Spesso, però, là dove non esiste una buona collaborazione tra le associazioni del privato sociale e le questure, quest’ultime tendono a rilasciare il permesso di soggiorno solo in seguito a una denuncia. Cosa che molte ragazze non vogliono o non possono fare per paura o perché minacciate. I trafficanti hanno un enorme potere di ricatto, non solo sulla ragazza in Italia, ma sulla sua famiglia nel paese d’origine.
Anche per questa ragione il percorso di uscita dalla strada e di ri-socializzazione delle ragazze con il coinvolgimento di comuni, associazioni e case di accoglienza è sempre lungo, complesso e articolato e incontra molte difficoltà di attuazione, spesso per mancanza di volontà, mezzi e cornordinamento tra coloro che lavorano in questo campo. Intanto, i trafficanti perfezionano le vie e gli strumenti della tratta.
Il Dipartimento per i diritti e le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha bandito dal 2000 al 2007 il progetto «Avvisi», finalizzato alla realizzazione di programmi di protezione sociale. Complessivamente sono stati finanziati, su base nazionale, 490 progetti che hanno assistito 11.541 persone, di cui 748 minori. Secondo il rapporto Caritas/Migrantes 2007, «le persone che nel corso di questi anni sono entrate complessivamente nell’ambito di operatività dei progetti e hanno ricevuto una prima assistenza, raggiungono le 45.331 unità e sono per la quasi totalità donne vittime di sfruttamento sessuale».
L’Osservatorio sulla prostituzione e sui fenomeni delittuosi ad essa connessi del Ministero dell’interno – di cui fanno parte molte espressioni della società civile, dalla Caritas al Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca) – ha pubblicato il suo primo rapporto il 2 ottobre 2007: una fotografia della situazione, degli interventi e una serie di proposte per fronteggiare il fenomeno (www.interno.it, sala stampa, documenti). «Lo sfruttamento della prostituzione, anche minorile – vi si legge -, è l’attività principale dei gruppi criminali nigeriani e rappresenta il maggiore strumento di autofinanziamento per lo sviluppo di altri traffici o di attività commerciali, quali “African market”, beauty center, ristoranti, discoteche e altri luoghi di ritrovo…».
Infine, è stata promossa una Campagna informativa nazionale dal titolo: «Tratta no!… Ora lo sai», una collaborazione tra il progetto europeo «Tratta no!», in partnership con il Ministero per i diritti e le pari opportunità (www.trattano.it).

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi




Nuovi «samaritani»… in rete

Religiose in campo contro il traffico di donne e minori

Impegnata nella lotta alla tratta dal 1993, Suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata, dal 2000 è responsabile nazionale del settore «Tratta donne e minori» dell’Usmi (Unione superiore maggiori d’Italia), con il compito di  cornordinare il lavoro di altre religiose, organizzare incontri formativi, creare reti di collaborazione con forze pubbliche e private, per meglio conoscere il problema e delineare strategie per contrastarlo.

La tratta di esseri umani a fini di sfruttamento sessuale, gravissima violazione dei diritti della persona umana, costituisce un problema di portata mondiale che coinvolge, sprona e stimola tutte le forze, laiche e religiose che operano in questo campo, a unirsi per individuare strategie adeguate a salvaguardia della dignità e della sacralità di ogni persona.
L’impegno, in questo campo, delle religiose italiane appartenenti alla Usmi (Unione superiore maggiori d’Italia, che raccoglie 627 congregazioni femminili, in Italia e all’estero, e contano 83 mila membri) è cresciuto negli ultimi anni, di pari passo con l’impegno della società civile e delle istituzioni.
Nel 2000 è stato creato un apposito ufficio «Tratta di donne e minori», per cornordinare il servizio di moltissime religiose – attualmente circa 250 in Italia che lavorano in 110 strutture – che, cogliendo la sfida di una nuova forma di schiavitù, avevano dato risposte immediate in questo settore. Infatti, le congregazioni religiose, insieme alle Caritas diocesane e a gruppi di volontariato, furono tra le prime a leggere il fenomeno negli anni ‘90 e a offrire a queste donne, in buona parte albanesi e nigeriane, soluzioni alternative allo sfruttamento sessuale sulle strade.
Quasi subito, le congregazioni hanno messo a disposizione di queste giovani vittime, che si ribellavano contro gli sfruttatori, alcune delle loro strutture, per accoglierle e per offrire protezione e aiuto per un nuovo progetto di vita.
In questi ultimi anni il fenomeno ha cambiato volti, rotte, modalità, così come sono cambiati gli interventi di contrasto e di recupero delle vittime, ma rimane costante il rischio di sfruttamento della donna e la conseguente riduzione in schiavitù a causa della sua vulnerabilità. Per questo, il lavoro dell’Usmi in Italia è diventato alquanto ampio e articolato.
C omincia dalla strada, dove apposite unità, insieme a gruppi parrocchiali, prendono un primo contatto con le vittime. Sono stati inoltre creati centri di ascolto, predisposti ad accogliere i problemi delle donne in cerca di aiuto. Numerose sono le comunità di prima e seconda accoglienza per progetti di reintegrazione sociale; complessivamente, sono un centinaio le case-famiglia gestite da religiose per programmi di reintegrazione umana, sociale e legale.
Molte strutture accolgono anche madri con bimbi o donne incinte, per proteggerle e salvaguardare il dono della vita nascente. Generalmente il numero delle ospiti non è mai superiore a sette e la permanenza varia dai 12 ai 24 mesi, il tempo necessario per un reinserimento sociale adeguato e in piena autonomia. Vengono, inoltre, proposti corsi di lingua, di formazione professionale e avviamento lavorativo.
Spesso viene foita anche un’assistenza legale, per permettere a queste donne di reperire tutta la documentazione necessaria per uscire dalla clandestinità e ottenere il permesso di soggiorno. Questo lavoro è svolto in collaborazione con le ambasciate per ottenere i dovuti documenti di identificazione.
Dall’inizio della nostra collaborazione in questo settore, oltre 2 mila passaporti sono stati rilasciati alle nostre organizzazioni dalla sola ambasciata della Nigeria.
Infine, viene offerta assistenza umana, psicologica e spirituale alle donne che si trovano in attesa di espulsione nel Centro di permanenza temporanea di Roma (Ponte Galeria), dove si alternano, ogni sabato pomeriggio, 14 religiose di 8 nazionalità e 11 diverse congregazioni.

Da parecchi anni l’Usmi lavora in collaborazione con alcune Conferenze delle religiose dei paesi di origine delle ragazze trafficate, specie in Nigeria, Romania, Albania e Polonia, per rafforzare la rete già esistente in tutto il mondo grazie alla presenza capillare di tante comunità religiose, che cercano di informare del rischio, contrastare il fenomeno e gestire l’emergenza attuale.
Diversi corsi di formazione professionale per religiose sono stati organizzati in questi paesi, in collaborazione con l’Uisg (Unione internazionale superiore maggiori), l’Oim (Organizzazione internazionale delle migrazioni) e l’Icmc (Commissione internazionale delle migrazioni cattoliche).
Lo scorso ottobre è stato organizzato a Roma un importante convegno internazionale, a cui hanno partecipato 33 religiose provenienti da 26 paesi, con lo scopo di allargare la rete e la collaborazione tra quelle che vivono nei paesi di origine e quelle che sono nei paesi di destinazione delle ragazze trafficate.

Il ruolo delle religiose, in un ambito così delicato, è quello di offrire a tante giovani la possibilità di essere aiutate a ritrovare la voglia di vivere e di ricominciare anche un percorso spirituale e di fede più approfondito, che le aiuti a liberarsi dalle catene dei pregiudizi e della superstizione.
Nonostante la terribile esperienza vissuta, possono ancora recuperare un ruolo attivo nella famiglia e nella società, testimoniare della possibilità di rinascita in ogni situazione e collaborare alla creazione di un mondo più umano e rispettoso della dignità di ogni persona.

Di Eugenia Bonetti

Eugenia Bonetti




Periferia della periferia

Qui Milano: reportage dalla capitale del «mercato»

Nella capitale economica e finanziaria italiana anche le nigeriane non sfuggono alla legge del mercato, che le relega in un ghetto di vessazioni e umiliazioni. La complessa organizzazione mafiosa che le gestisce rende difficile alle forze dell’ordine di comprendere il fenomeno e alle organizzazioni impegnate nella lotta al racket di aiutarle a liberarsi.

La Binasca di notte è il girone infeale delle ragazze nigeriane. Specialmente nel tratto Carpiano-Siziano, periferia sud di Milano. In gruppo, mezze nude, o nude del tutto, accanto a focherelli per strappare un po’ di calore nelle gelide notti d’inverno. Stanno alla periferia della periferia, ai margini di un mondo spietato, che seleziona e marginalizza anche gli ultimi tra gli ultimi. Anche chi è già così disperato da essere costretto a vendere il proprio corpo.
VECCHIE NUOVE MAFIE
La gerarchia della strada è crudele e spietata. Nella capitale economica e finanziaria italiana, neppure le ragazze sfuggono alla ferrea legge della domanda e della offerta. Al centro le più «redditizie», brasiliane soprattutto, ma anche italiane, est-europee, addirittura giapponesi, gestite da mafie potentissime. Lavorano sempre più negli appartamenti e nei club e prendono appuntamenti tramite siti specializzati. Lo scorso anno sono stati calcolati almeno 15 mila annunci del genere.
Poi, uscendo dalla città, lungo le strade provinciali che a raggiera si allontanano dal centro, si incontrano via via quelle più a «buon mercato»: moltissime est-europee e, sempre più lontane, le nigeriane. Tutte oggetto di violenza e mercificazione del corpo. Spesso in condizioni di vera e propria schiavitù.
A Milano, la mafia storica era quella sudamericana, scalzata poi da quella albanese e dell’Est europeo. Anche perché gestire i giri di prostituzione in città costa: richiede «investimenti» (soprattutto in appartamenti) che i nigeriani non fanno. In strada, tutto costa meno: il joint (il posto) come pure la ragazza. Una nigeriana è costretta a svendere il proprio corpo al massimo per 20 euro, spesso anche meno. Il debito che devono rimborsare, però, raggiunge cifre spaventose: mediamente dai 50 ai 60 mila euro, a volte anche di più. E inoltre devono pagare alla maman l’affitto, il cibo, gli abiti «da lavoro», nonché offrirle regali costosi, in cambio di un trattamento più umano. Altrimenti, finiscono col subire anche in casa i soprusi e violenze che già sopportano in strada.
E anche se la mafia nigeriana è ritenuta meno violenta di quella albanese o est-europea, non sono rari i racconti di stupri a opera dei trafficanti, di torture e violenze fisiche e verbali. Spesso le ragazze vengono obbligate a lavorare anche quando sono malate o in gravidanza o ad avere rapporti sessuali non protetti; se rimangono incinte vengono costrette ad abortire (alcune parlano addirittura di una dozzina di aborti!) o vengono sottratti loro i figli e usati come strumenti di ricatto.
«PICCOLE NIGERIE» ITALIANE
C hiuse in questo mondo di vessazioni e umiliazioni, vivono in Italia, ma per certi versi potrebbero essere ovunque. Sanno a malapena qualche parola di italiano; fuori dalla strada, vivono in una sorta di ghetto, mangiano il loro cibo, usano i loro prodotti per l’igiene, si procurano le medicine tradizionali, vanno persino nelle loro chiese… In alcune trovano conforto, in altre incontrano pastori, o sedicenti tali, coinvolti nella tratta, che danno giustificazioni «mistiche» o «spirituali» all’incubo che stanno vivendo. «È Dio che lo vuole!» si convincono.
Rinchiuse nelle loro «piccole Nigerie» italiane, non si mischiano, fanno vita a parte. L’unico fine sono i soldi: money, money, money. Un chiodo fisso, the big issue!
«Agli inizi degli anni Novanta – spiega Palma Felina, responsabile del settore donne vittime di tratta di Caritas ambrosiana -, era possibile trovare le ragazze nigeriane sulla circonvallazione intea di Milano. Ora sono sempre più fuori città. Questo per un insieme di fattori: per gli interventi della polizia, ma soprattutto in seguito alle lotte tra le diverse mafie che gestiscono le ragazze. Così le nigeriane sono state sempre più allontanate dal centro. Ora è possibile trovarle nelle zone industriali periferiche o in provincia. Sono lì soprattutto di notte, ma nell’hinterland sono costrette a lavorare anche di giorno. Alcune sono in strada da più anni, nonostante il tu-over. Oggi le spostano con più frequenza, per evitare che possano legare tra di loro o cercare rapporti particolari con qualche cliente».
La gestione del territorio è cruciale per chi sfrutta questo traffico aberrante. Soprattutto da quando è in atto un processo di «diversificazione» negli appartamenti e nei night-club. Le nigeriane, però, sono rimaste sempre in strada, in alcuni posti «storici» fuori città e sempre più nelle periferie e in provincia.
Secondo le ultime statistiche disponibili dell’Osservatorio permanente sulla prostituzione, risalenti al 2006, nelle case di accoglienza lombarde, il 35,2% delle ragazze ospitate sono rumene, il 33,3% nigeriane. In percentuali molto minori moldave, albanesi, uzbeke, ukraine e russe. Oltre la metà non ha alcun titolo di studio formale o ha il diploma di scuola elementare. Nei loro paesi d’origine erano disoccupate o svolgevano lavori saltuari in condizioni di grande precarietà. Il 70% è nubile, mentre il 30% ha uno o più figli.
«Circa l’80% – aggiunge suor Claudia Biondi, cornordinatrice del settore Aree di bisogno di Caritas ambrosiana – dice di non aver saputo che una volta in Italia sarebbe stata costretta a prostituirsi. Quasi tutte sono state ingannate o aggirate, mentre un 10% è stata vittima di violenza o rapimento. Negli ultimi anni è aumentato il numero delle ragazze nigeriane sempre più giovani, sia perché soddisfano le esigenze dei clienti sia perché sono più facilmente controllabili e manipolabili dai loro sfruttatori».

SEMPRE PIù GIOVANI,
PER BATTERE LA CONCORRENZA
In Lombardia la presenza delle nigeriane è piuttosto significativa e numericamente stabile, mentre è cresciuto negli ultimi anni il numero delle ragazze provenienti dall’Europa dell’Est e in particolar modo dalla Romania. Recentemente, è aumentata, sia sulla strada che in appartamento, la presenza di ragazze latinoamericane (e in particolare brasiliane). E, negli ultimi mesi, si cominciano a vedere in strada ragazze orientali e in particolare cinesi.
«Le ragazze nigeriane dicono tutte di avere 18 anni, ma moltissime hanno l’aria di ragazzine» fa notare Valerio Pedroni, responsabile del settore donne in condizioni di fragilità sociale di Segnavia, una struttura legate ai padri Somaschi. Gestisce cinque unità di strada, un drop in, un progetto in-door, case di prima e seconda accoglienza. Il tutto finalizzato a togliere le ragazze dalla strada e offrire percorsi di recupero che diano loro una nuova chance di vita.
«Molte di loro vivono tra Milano e Torino – continua – e si riversano la sera sulle strade della periferia milanese. È difficile stabilire un contatto con loro. Spesso sono in gruppo e non si riesce ad avere un rapporto personale; sono diffidenti, ed è difficile andare al di là di un contatto superficiale che può essere facilitato dalla loro esuberanza, ma che spesso non va molto in profondità. Inoltre, alcune maman che le gestiscono e le controllano, a volte sono in strada pure loro; le minacciano e le scoraggiano dall’avere contatti con persone che non siano i clienti. E poi loro stesse, essendo numerose e dunque dovendo lottare con una vasta “concorrenza”, non sono molto disponibili a “perdere tempo” con degli sconosciuti».

VINCERE LA DIFFIDENZA
«In passato – aggiunge Palma Felina -, a fronte di una presenza in strada significativa, erano poche le nigeriane nelle case di accoglienza. Avevano paura a denunciare, specialmente se non avevano ancora finito di pagare il loro debito. Quelle che decidevano di scappare non andavano nelle strutture di accoglienza, si aiutavano tra di loro. Non si fidavano di altri. Negli ultimi anni, invece, arrivano più numerose. Molte sono seguite in progetti territoriali. Alcune scappano, perché non ce la fanno più, prima di aver finito di pagare il debito. Dopo la denuncia, vengono portate lontano dai luoghi in cui hanno vissuto e lavorato. Ma spesso non dormono e si ammalano. Mostrano segni visibili di malessere e di traumi non solo fisici, ma anche psicologici».
In alcuni casi si allontanano dalla strada grazie a un ex-cliente che si è affezionato loro e che le aiuta. Ma i matrimoni di comodo non rappresentano la principale via d’uscita delle nigeriane; è molto più diffuso tra ragazze di altre nazionalità. In Italia molte sono state regolarizzate attraverso le sanatorie (comprese alcune madame!). Sempre di più sono quelle che denunciano i loro sfruttatori e che in base all’articolo 18 ottengono il permesso di soggiorno umanitario (cfr. p. 40).

STRUMENTI INADEGUATI
Tuttavia, gli strumenti legali paiono ancora inadeguati per combattere il problema alla radice. Sia perché in Italia le forze dell’ordine e le procure non hanno abbastanza mezzi per far fronte alla complessità della tratta, sia perché a livello nigeriano c’è una totale impunità.
«La mafia nigeriana – spiega Gianluca Epicoco, sostituto commissario della squadra mobile di Cremona, che da 12 anni svolge indagini e ricerche in questo ambito – è complessa e stratificata. Al livello più basso si trovano le maman, che rappresentano l’ultimo nodo di una rete che si dipana tra l’Italia e la Nigeria. A un livello intermedio, il potere passa agli uomini che gestiscono la logistica del traffico da Benin City a Lagos e da lì all’Europa, soprattutto Parigi, ma anche Amsterdam e Madrid per poi arrivare a Torino. Poi, a un livello più alto, troviamo i veri e propri trafficanti, che stanno in Nigeria: una struttura ben organizzata, potente, ramificata, con molti contatti, capace di corrompere ad alti livelli, con legami con governi e ambasciate, e addentellati in tutta Europa. Una vera e propria associazione a delinquere, in grado di trafficare documenti e visti, oltre che ragazze, su scala trans-nazionale. Di fronte a una simile organizzazione, spesso noi non abbiamo né le risorse umane né i mezzi necessari per fronteggiarla e combatterla adeguatamente». 
Un nuovo escamotage escogitato da qualche anno è quello della richiesta di asilo politico all’arrivo in Italia, magari spacciandosi per sierralionesi, liberiane o avoriane. Le ragazze vengono allora portate in appositi centri di prima accoglienza, da dove alcune scappano subito. Altre presentano la domanda alle questure, dove ottengono un foglio per richiedente asilo e da quel momento, sino al termine della valutazione della loro richiesta, non possono essere espulse.
Sempre di più, tuttavia, queste ragazze arrivano con storie molto plausibili, ma tutte uguali, che imparano a memoria e recitano davanti alle forze dell’ordine, facilmente smascherabili da chi ha un po’ di esperienza e conoscenza del problema, nonché dei luoghi di origine.

In Lombardia sono 34 le associazioni, i gruppi, gli enti che si occupano di queste donne e di tutte quelle che subiscono umiliazioni e violenze, vendendo il loro corpo. Oggi lavorano sempre più in rete per provare a restituire loro la dignità e riconsegnare il destino nelle loro mani.

di Anna Pozzi

Anna Pozzi




Donne in frantumi

Nigeria-Italia: storie di ragazze abusate e rimpatriate

Sono partite con un sogno; sono tornate svuotate del loro essere donna, rifiutate, giudicate, condannate…
con ferite profondissime, difficili da rimarginare. 

Joy lo ripete senza tregua. Con veemenza e desolazione. Con violenza, ma anche con le lacrime che le si affacciano agli occhi. «Mi dovete risarcire di tutto il male che mi avete fatto!». Sempre la stessa frase, ossessionante, che esonda dalla palude di sofferenza, paura, rabbia e dolore, che si porta dentro. Una ragazza spezzata. Come le altre. Ma lei continua a urlarlo fuori.
È stata rimpatriata a Lagos dall’Oim. Lo ha scelto lei quando forse non aveva più altra scelta. Prima era passata da Brescia e da Roma; l’hanno ospitata le suore di Nostra Signora degli Apostoli a Roma e l’hanno seguita al centro di ascolto Caritas della capitale. Aveva ottenuto il permesso di soggiorno a Brescia, ma non aveva futuro in Italia.
A suor Erma Marinelli, delle suore di Maria Riparatrice, non pare vero di rivederla lì, a Lagos. L’ha seguita per quasi sei mesi alla Caritas Roma. Una ragazza particolarmente problematica. Ha fatto impazzire tutti. «Quando veniva da noi, urlava, faceva scenate incredibili. L’abbiamo mandata da un medico e da uno psicologo. Ma lei ripeteva: “Non sono matta”. E già allora continuava a ripetere: “Mi dovete risarcire di tutto il male che mi avete fatto!”. Pensavamo che avesse subìto abusi e violenze in strada. Ma non sapevamo ancora tutto».
Joy racconta di aver fatto qualche lavoretto, la badante soprattutto. Ma non dice che resisteva a malapena un mese o poco più. Racconta di essere stata ospitata dalle suore e poi in un ostello Caritas. Ma non dice che anche lì aveva sempre problemi. Non dice soprattutto il dramma che ha rovinato la sua esistenza, ancor più della sua vita in strada, la vergogna che l’ha marchiata per sempre. «È probabile che le abbiano fatto girare un film poografico – racconta suor Erma -. Ogni tanto vi faceva allusione, urlando con rabbia frasi oscene, sbattendoci in faccia con violenza la peggiore delle violenze che aveva subìto. Un dramma da cui non si è più ripresa».
L’hanno convinta a rientrare in Nigeria, con un rimpatrio organizzato dall’Oim. Prima, però, ha chiesto alla famiglia se i soldi che le avrebbero dato (1.500 euro) erano sufficienti per essere di nuovo accettata a casa. «Hanno detto di sì – ricorda suor Erma -. E per lei è stata come una liberazione. Ha cambiato atteggiamento. Ha riacquisito un po’ di dignità. Non rientrava a mani vuote e sapeva che c’era qualcuno ad attenderla. Ma niente sarà mai abbastanza per risarcirla davvero di tutto il male che ha subìto».

Anche in Blessed si intuisce che c’è qualcosa di inesorabilmente infranto. Ha 37 anni ed è ancora una bella donna, alta e slanciata, avvolta in un elegante abito tradizionale. Ha un viso dolce, ma gli occhi sono spenti, persi.
È rientrata in Nigeria quattro anni fa, dopo avee passati undici in Italia. È tornata dai suoi figli, dice, che oggi hanno 23, 22 e 18 anni. Li aveva lasciati in Nigeria per andare in Italia a «lavorare». «Pensavo di andare a fare la cameriera o la parrucchiera – racconta – e invece…».
Della vita in strada non vuole ricordare nulla. Parla, con un italiano stentatissimo e lo sguardo un po’ assente, dei luoghi dove è stata e dei luoghi comuni: la gente che è simpatica, la pasta e la pizza che ora non mangia più. «Era un po’ dura in Italia – dice quasi scheendosi -, ma anche qui non è facile».
Da quando è tornata non ha più relazioni con i genitori. Le suore di Nostra Signora degli Apostoli hanno cercato di metterli in contatto, ma i suoi parenti non vogliono più sapee di lei. Neppure la figlia maggiore. Gli altri due le sono vicini e le suore l’hanno assunta per fare le pulizie in una biblioteca. Ma non è del tutto lucida e ha bisogno continuo di medicine.
«Quando vedo la disumanizzazione che comporta il fatto di vendere se stesse per sopravvivere dico che tutto questo non è giusto, e che dobbiamo lottare per mettere fine a questo traffico vergognoso». Eric Okoje, avvocato, è tra i fondatori del Cosodow, il Comitato per il sostegno della dignità della donna, creato dalle religiose nigeriane. E anche se da quasi dieci anni lavora in questo settore non smette di provare rabbia e indignazione.
«È un’ingiustizia intollerabile quella di ridurre una persona in schiavitù – denuncia -. Quando vedi che tante famiglie sono toccate direttamente o indirettamente da questo dramma, inevitabilmente ti interroghi. Sul loro futuro e sul futuro di questo paese. Perché dobbiamo permettere di rendere schiava una generazione di nostri giovani? È una generazione persa. Per questo dobbiamo lottare con tutti i mezzi per impedire che questo continui. Ma non è facile. Perché c’è un problema di povertà, di impunità e anche di perdita dei valori. Se non ci sono fondamenti non si può costruire nulla. Ma è difficile far passare un messaggio a una persona che ha fame. Non ascolta: ascolta il suo stomaco».

Faith viene da un villaggio poverissimo di Ondo State ed è tra quelle che ha ascoltato questo grido. Suo e della sua famiglia. E si è fidata, come molte, di un cugino, uno zio, un parente, che faceva promesse che non si potevano rifiutare.
Nel suo caso è stato lo zio che le ha detto che l’avrebbe portata in Europa. Erano un gruppo di 85 ragazze e 72 ragazzi; sono partiti via terra, attraversando il Niger e poi tutto il deserto del Sahara sino all’Algeria. Da qui in Marocco. «Non c’era niente da mangiare né da bere – ricorda Faith -. Siamo rimasti quattro mesi nel deserto e nove in Marocco. Tre di noi sono morte attraversando il Sahara, uno in Marocco. A quel punto sono voluta tornare indietro, ma so che altri tre sono morti nel Mediterraneo».
In Marocco, racconta, erano stati tutti rinchiusi in due stanze, una per i ragazzi e una per le ragazze.
«Non volevo fare la prostituta – dice -; ho detto che volevo tornare, ma non volevano lasciarmi andare. Sono riuscita a scappare e sono andata dalla polizia. Quelli mi hanno picchiata, ma poi mi hanno portata all’aeroporto e rispedita in Nigeria. Quando sono tornata ho trovato mio zio che stava preparando un altro viaggio. E voleva che partissi di nuovo. Ma questa volta ho detto di no».
Ora Faith è a Benin City dove sta cercando un lavoro. Ha conosciuto le suore che si occupano del problema della tratta e che la stanno aiutando a continuare gli studi. «Vorrei diplomarmi in business administration, trovare un buon lavoro e guadagnare un po’ di soldi per me e la mia famiglia che è rimasta al villaggio».
R ose, invece, è tornata ad Akure, ed è ospite di un convento, ma porta ancora addosso uno dei segni della vita che si è lasciata alle spalle in Italia: due lenti a contatto blu, che spiccano come due fanali sul suo volto scuro e un po’ triste. Voltare pagina non è facile, dicono le suore che l’hanno in custodia. Ha 21 anni ed è una ragazza alquanto problematica. I segni di quello che ha subìto non sono così evidenti come quelle lenti a contatto, ma sono scolpiti indelebilmente nella sua anima.
Rose è giovane e può ancora farcela. Soprattutto se le sarà offerta una qualche chance di riscatto. Come è successo a Kathy.

Kathy, oggi, ha 26 anni. È stata tra le prime a tornare a Benin City, nel 2000. Lei però la strada l’ha solo «sfiorata». Alla famiglia avevano detto che l’avrebbero portata in Europa. In Italia ci è arrivata passando dalla Francia. Poi è finita a Roma, ma lei non sapeva neppure dove fosse.
«Mi tenevano rinchiusa nella casa di una maman – racconta -. Poi, un giorno, mi hanno affidata a un’altra ragazza perché mi portasse al lavoro. Non mi avevano detto di cosa si trattasse esattamente, ma lo avevo intuito. E così, mentre eravamo sull’autobus, sono scappata e sono salita su un altro bus. Non sapevo dove stessi andando. Quando ho sentito una campana, sono scesa e ho cercato la chiesa e un prete. Due donne mi hanno aiutata a trovarlo. È stato gentile e mi ha accompagnata in ambasciata, ma era già chiusa. Allora mi ha portata in una casa di accoglienza delle suore. Io non parlavo italiano. Loro non parlavano inglese. Hanno chiamato suor Eugenia Bonetti». Da lì è partita tutta una serie di contatti e collegamenti che hanno riportato Kathy in Nigeria e che le hanno permesso di tornare a Benin City dove sister Florence e le sue consorelle l’hanno accolta. Kathy è una ragazza intelligente e volonterosa. Ha ripreso gli studi e si è diplomata in business economy. Lo scorso anno, poi, è riuscita a prendere una laurea in psicologia. «Ora vorrei aiutare le altre ragazze che hanno vissuto l’esperienza della tratta e che sono state meno fortunate di me». Il suo, almeno, non è stato un viaggio a senso unico.

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi




Si è mosso anche lo stato

A Lagos: un centro di accoglienza governativo

Un gruppo di ragazze si intreccia reciprocamente i capelli. Lo spazio è un po’ angusto, manca luce, ma l’atmosfera non è cupa. Sono tutte giovanissime, certamente hanno meno di 20 anni. Una di loro, solo un poco più grande, cerca di dare qualche consiglio e mantenere un po’ d’ordine. Sono tutte vittime della tratta queste ragazzine che imparano a fare le parrucchiere. Intercettate all’interno della Nigeria o nei paesi limitrofi. La polizia le ha condotte in questo stabile, che assomiglia un po’ a una casa di accoglienza, un po’ a una prigione.
Si trova alla periferia di Lagos ed è stato aperto nel dicembre 2004, grazie alla collaborazione dei governi italiano e statunitense. È gestito dalla National agency for the prohibition of traffic in persons and other related matters (www.naptip.com), l’agenzia del governo nigeriano che opera contro il traffico – interno ed esterno – non solo di donne, ma anche di minori per scopi diversi: prostituzione, lavoro domestico, lavoro agricolo… Ha sei dipartimenti a Lagos, Benin City, Enugu e Sokoto.
Lo scopo è quello di accogliere, reintegrare e riabilitare le vittime, dar loro assistenza legale e sensibilizzare la popolazione sul problema. La grande sfida è quella di perseguire i trafficanti.
«Sono stata rimpatriata dal Burkina Faso – spiega Jessica, la ragazza che insegna alle alunne-parrucchiere. Ero stata portata lì con la promessa di continuare il viaggio, ma intanto ero costretta a lavorare. Io non volevo restare, così sono andata dalla polizia. Poi l’ambasciata mi ha fatta tornare in Nigeria». Dopo il periodo di counceling e riabilitazione, Jessica ha deciso di rimanere nella struttura del Naptip per aiutare le altre ragazze che hanno vissuto un’esperienza simile alla sua. Attualmente ce ne sono una trentina (ma può ospitae sino a 120), la maggior parte sono ragazze, ma c’è anche qualche ragazzino. Sono quasi tutti minorenni. Altre 10 sono state rimpatriate dal Burkina Faso, uno dei paesi-cerniera, lungo le rotte che, spesso via terra, portano verso il Nordafrica.

Dai loro racconti emerge uno spaccato sul mondo della tratta e le sue innumerevoli varianti. Una dice di avere 13 anni e che la mamma sta in Francia e lei stava cercando di raggiungerla. Un’altra racconta di essere partita insieme a un gruppo di amici, senza sapere esattamente per dove. Non aveva niente con sé, solo i vestiti che portava addosso. Sono giovani, sprovvedute, sognatrici. Fuggono da situazioni di miseria verso un vago miraggio, che spesso si trasforma in incubo.
I responsabili del centro raccontano di un altro gruppo di ragazze molto giovani; tutte sono state trafficate all’interno del paese, e portate a Lagos, la maggior parte per essere avviate alla prostituzione.
Ci sono anche tre bambini trafficati in Nigeria dal vicino Benin per lavorare come domestici. Il Naptip sta collaborando con l’ambasciata beninese per ricongiungerli alle loro famiglie. Spesso i genitori sono poverissimi e senza istruzione, e vengono facilmente aggirati e ingannati con promesse di soldi e d’istruzione per i loro figli, che invece si ritrovano rinchiusi dentro le case dei padroni in condizioni di vera e propria schiavitù.
«Da quando siamo aperti, abbiamo accolto circa 700 ragazzi e ragazze – spiega Godwin E. Morka, capo dell’ufficio Naptip di Lagos -. A tutti viene offerta la possibilità di un periodo di riabilitazione e una breve formazione. Per le ragazze si tratta spesso di un corso per parrucchiera. Mediamente restano dalle due alle sei settimane. Chi rimane di più è perché in tribunale ha in corso un processo contro i trafficanti».
«E se hanno problemi di salute – continua – facciamo anche un controllo medico. Se sono malate vengono trasferite al vicino reparto dell’ospedale militare». Morka non ne parla esplicitamente, ma il riferimento è chiaro. Molte, specialmente quelle che rientrano dall’estero, sono sieropositive o con Aids conclamato: una malattia-tabù, da queste parti, di cui si parla troppo poco e non si fa abbastanza per prevenirla e curarla.

Dalla struttura del Naptip le ragazze non possono uscire né ricevere visite, perché in passato si sono presentati trafficanti o madame, spacciandosi per i loro parenti. Una donna è stata scoperta e arrestata. Ma complessivamente l’attività di investigazione e avvio di procedimenti penali contro i trafficanti è alquanto carente. Alcune ragazze, poi, hanno il terrore di essere avvelenate. Sanno che i loro «protettori» temono di essere denunciati e che è gente senza scrupoli, capace di tutto.
Ma le ragazze non si fidano neppure del governo nigeriano né di qualsiasi altra istituzione ad esso legata. E, dunque, anche la vita e gestione di questo centro sono alquanto complesse e problematiche.
Per non parlare poi dei problemi che si pongono quando vengono rimpatriate dall’estero. «I governi europei – spiega Morka – quando espellono le ragazze sono in contatto con l’immigrazione nigeriana, ma non specificano chi sono le vittime e chi i trafficanti. Specie dall’Italia spesso tornano in gruppo, ammanettate come criminali, mischiate a trafficanti di droga, clandestini, delinquenti veri… Sono rimpatriati tutti insieme. Talvolta il volo diventa l’occasione per intrecciare contatti e organizzare nuove partenze».
Gli operatori del Naptip, inoltre, non hanno accesso all’aeroporto per accogliere le ragazze. A volte ci sono le famiglie ad aspettarle, ma è raro, soprattutto se non rientrano con un rimpatrio volontario e sono senza soldi e dunque si vergognano di farsi vedere a mani vuote. Sempre, però, ci sono i trafficanti, pronti a offrire «assistenza» alle ragazze, per poi farle rientrare nel giro.
All’immigrazione – ci dicono – non sempre operano persone preparate e adatte a fare questo lavoro e spesso c’è molta corruzione. Non è raro, poi, che le madame e i trafficanti corrompano i poliziotti per rimettere le mani sulle ragazze. «La situazione non favorisce la collaborazione e la possibilità di avvicinarle per offrire aiuto – continua il responsabile del Naptip -. Il lavoro di cooperazione è estremamente difficile. Anche quando vengono rimpatriate volontariamente dall’Oim, a volte vengono portate nel nostro centro, altre volte vanno direttamente nelle loro città o si disperdono qui a Lagos. Le ragazze non si fidano di nessuno quando tornano, ma spesso non vogliono andare a casa a mani vuote e cercano nuovamente di arrangiarsi come possono. Così diventano estremamente vulnerabili e rischiano di ricadere facilmente nelle reti di gente senza scrupoli».

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi