Casa di accoglienza a Benin City
I loro nomi spesso contengono un messaggio di speranza, un affidarsi a Dio: Blessed (Benedetta), Faith (Fede), ma anche Joy, Destiny… Eppure le loro storie parlano d’inferno. L’inferno della tratta di esseri umani, giovani donne, spesso poco più che bambine, comprate e vendute, sbattute sulle strade d’Italia, dove vengono usate e abusate per pochi euro. Sono loro, adesso, a riempire con le loro voci squillanti, i colori accesi dei loro abiti e un’immancabile e simpatica confusione, le stanze ancora tutte nuove dello shelter inaugurato l’11 luglio dello scorso anno a Benin City.
È qualcosa di più di una casa di accoglienza: è un rifugio e allo stesso tempo qualcosa di dirompente per il contesto di Benin City. Un luogo che dice che le ragazze possono tornare e devono essere accolte. Che quello della tratta non è un viaggio a senso unico. C’è, anche se raramente e spesso drammaticamente, un ritorno. È un luogo bello e difficile questo shelter, perché dice quello che le parole sin qui non hanno detto o hanno detto molto poco: la tratta esiste. Ecco queste ragazze, ecco le prove.
Il potere simbolico, si sa, in Africa è molto forte. E questa casa di accoglienza per donne vittime della tratta – rimpatriate volontariamente o espulse dall’Europa e specialmente dall’Italia – costruita proprio nel cuore della città che ne alimenta più di qualsiasi altra il traffico, ha il sapore intenso di una sfida: ai tabù, all’omertà, anche alla paura.
«Sono anni che lavoriamo a questo progetto e finalmente ne vediamo il compimento» dice suor Eugenia Bonetti, visitando lo shelter appena inaugurato. La religiosa ci ha davvero creduto molto e non si è fermata di fronte a nessun ostacolo. «Ci sono voluti quattro viaggi e una grande determinazione per realizzare questo progetto. Ma soprattutto c’è voluta la collaborazione di molte persone che hanno condiviso questo sogno».
Alcune di loro erano lì anche per l’inaugurazione. Lo scorso anno, infatti, una delegazione italiana si è recata sino a Benin City, per esprimere la propria vicinanza a questo progetto e rinsaldare i legami di cooperazione che già esistono tra Italia e Nigeria. Il gruppo era tutto al femminile (con un’unica eccezione): donne che con le ragazze trafficate hanno condiviso un pezzo di cammino, quello che dalla strada le ha condotte verso una vita nuova. Donne che lottano con coraggio, tenacia e amore per altre donne. Sono le suore delle molte case di accoglienza che in Italia ospitano e aiutano queste giovani nigeriane. Si sono recate sin lì per rendersi conto di persona del contesto da cui vengono le «loro» ragazze e per condividere la gioia dell’apertura di una casa che non è molto diversa da quelle in cui loro stesse operano, ma che è molto più vicina ai luoghi da cui provengono e a cui provano a ritornare.
I
nfatti, uno degli obiettivi fondamentali dello shelter è accogliere temporaneamente le ragazze che rientrano per preparare adeguatamente il loro ritorno in famiglia.
A questo scopo è fondamentale il lavoro che svolgono le suore nigeriane sul posto. «Loro stesse – spiega suor Eugenia – negli anni ‘90, hanno cominciato a rendersi conto del problema. Le abbiamo invitate in Italia, hanno visto con i loro occhi dove finivano le ragazze e si sono confrontate con le suore che lavorano qui da noi. Poi, hanno deciso di fare qualcosa».
«Sino ad ora – spiega sister Florence – accoglievamo le ragazze che tornavano in Nigeria nei nostri conventi. Ma non è facile, né per loro né per noi. Non sono più abituate a rispettare alcuna regola, sono disorientate, spesso disperate. Molte hanno disturbi mentali; alcune vengono rifiutate dalle famiglie. C’era bisogno di un luogo appropriato dove potessero stare per un po’ e che permettesse a noi di accompagnarle nel modo più adeguato».
Non sta ferma un momento sister Florence. È sempre impegnata su più fronti con inesauribile energia. Avvocato di formazione, ha fatto di questa lotta contro la tratta e per il recupero delle vittime la sua ragione di vita. Nel ’99, è stata tra le fondatrici del Cosodow (Comitato per il sostegno della dignità della donne), un’organizzazione voluta dalla Conferenza delle religiose nigeriane. Con lei lavorano altre suore, sia a Benin City che a Lagos (dove le ragazze vengono rimpatriate), oltre a due avvocati e molti volontari.
«Il nostro è un lavoro delicato e rischioso – ammette – perché, da un lato, si tratta di ricostruire la vita e la dignità di persone fortemente traumatizzate, sottoposte a una violenza disumanizzante; dall’altro, perché andiamo contro gli interessi di molte persone che su questa tratta vergognosa hanno costruito un enorme business».
La realizzazione di questo shelter è un passo incoraggiante, innanzitutto perché è il frutto della collaborazione di più enti e istituzioni della chiesa. Il terreno è stato acquistato da Caritas italiana, la costruzione è stata realizzata grazie a un finanziamento della Cei (dell’8 per mille), il cantiere è stato seguito da un salesiano, don Vincenzo Marrone. A ciò va aggiunto tutto il lavoro che è stato fatto sul posto dalle suore nigeriane, che non hanno mai smesso di accogliere le ragazze nei loro conventi, di collaborare con le famiglie e sensibilizzare la popolazione. Ora, questo lavoro di network ha un nuovo fondamentale punto di riferimento: la Casa di accoglienza di Benin City.
La struttura prevede l’ospitalità per un numero massimo di 18 ragazze. «Non di più – spiega sister Florence -, perché vorremmo creare il più possibile un clima di famiglia e perché le ragazze hanno bisogno di molte attenzioni specifiche e di tanto lavoro. Su di loro e sulle loro famiglie».
Molte si trovano davvero in una situazione di emergenza. Anche quelle che rientrano volontariamente (pochissime in verità), grazie ai programmi dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), spesso hanno enormi problemi a reinserirsi. Peggio ancora quelle espulse, che si ritrovano a casa loro senza un soldo e con addosso la vergogna di un fallimento.
Non poche presentano problemi psicologici, alcune vere e proprie patologie. «Spesso – spiega la religiosa -, specialmente all’inizio, vengono rifiutate dalle famiglie, non sanno dove andare, rischiano di finire nuovamente nelle mani di trafficanti o di persone senza scrupoli. Per questo hanno bisogno di una particolare attenzione e protezione».
Tra i primi ospiti dello shelter c’è Jody che segue sister Florence come un’ombra. È da poco rientrata nel suo paese, ma è come se fosse stata catapultata su un altro pianeta. È disorientata, un po’ assente… La sua famiglia, dice, è in un villaggio lì vicino, ma lei non può tornare. Abbassa gli occhi Jody, fatica a raccontare. E allora sister Florence si allontana e spiega: «Non può tornare perché non la vogliono. Sono arrabbiati, delusi. Jody rappresentava la loro unica fonte di reddito. Non so fino a che punto erano coscienti di quello che faceva in Italia. Sta di fatto che per loro significava un guadagno sicuro, ora invece è diventata solo un peso di cui farsi carico».
Sister Florence tuttavia non è pessimista. Sa che ci vuole tempo per tessere di nuovo dei legami. Intanto, aiuta Jody a imparare un mestiere e a cavarsela da sola. Almeno ora ha una casa. In futuro si vedrà…
Anna Pozzi