Quando gli elefanti lottano (è l’erba a essere calpestata)
C’era una volta … un paese ricco di gente povera
La locomotiva dell’Africa orientale è in ginocchio. Le elezioni (tranquille) del 27 dicembre 2007 hanno scatenato un conflitto fratricida. Politica, economia e tribalismo: tre ingredienti micidiali che hanno dato fuoco alle polveri. Tutta la regione sta facendo un balzo indietro. Mentre la comunità internazionale tenta una timida mediazione.
«Non è una lotta tribale. Si tratta di mancanza di giustizia e di vendette» ne è convinto padre Quattrocchio, missionario della Consolata, 44 anni di Kenya, conoscitore delle etnie. Eppure il «tribalismo» (meglio l’«etnicismo») è uno degli ingredienti della profonda crisi che sta attraversando il paese. Ma, come ricorda il sociologo Fabrizio Floris (autore di un saggio sulle baraccopoli di Nairobi), una legge della sociologia recita che a forza di parlare di qualcosa le conseguenze possono diventare reali. Cosa ha portato il gigante dell’economia dell’Africa orientale a crollare? Con un tasso di crescita del Pil superiore al 6% il Kenya è (o meglio era, perché oggi le previsioni sono al 3 – 4%) il motore economico della regione, nonché il principale porto per Uganda, Rwanda, Burundi, Nord Congo e Sud Sudan. Un paese politicamente stabile da molti anni, che consuma in poche settimane quasi 1.000 vite umane e produce 260.000 sfollati (secondo le stime del momento in cui si scrive). È la maggiore crisi della sua storia, dicono gli esperti.
«I segnali erano nell’aria» ricorda un altro missionario italiano «ma non abbiamo saputo leggerli. Abbiamo voluto essere ottimisti. Sembrava che la gente avesse raggiunto un certo grado di maturità democratica». E invece, tutto è precipitato dopo le elezioni del 27 dicembre scorso. Ordinate e con grande affluenza (80%), la gente faceva lunghe code alle ue. E poi la Commissione elettorale che farfuglia nel conteggio dei voti, dando vincente prima l’opposizione, poi un improbabile sorpasso e la vittoria di misura (230.000 voti su un elettorato di 4 milioni) del presidente uscente Mwai Kibaki. Questi si affretta, quasi di nascosto, a prestare giuramento e a costituire un governo con i suoi. Anche se in parlamento è l’opposizione di Raila Odinga a vincere, con 99 seggi su 210 (solo 43 al partito di Kibaki). E infatti è Kenneth Marende fedele a Odinga a essere eletto presidente dell’assemblea.
Blocchi contrapposti
Due blocchi che si arroccano sulle loro posizioni e mettono a ferro e fuoco il paese. Dalle baraccopoli di Nairobi alla città costiera (e importante porto) di Mombasa, alle città dell’Ovest: Kisumi, Eldoret, Nukuru. Case bruciate, gente cacciata dalla propria terra, ammazzata a colpi di machete o arsa viva.
Da un lato il presidente Kibaki e il suo partito Pnu (Partito di unità nazionale), assieme a un’élite economica di privilegiati che lo circonda. Raila Odinga e il suo Odm (Orange democratic muvement) dall’altro. Raila è anche figlio di Oginga Odinga, già primo vicepresidente della storia ai tempi di Kenyatta, poi oppositore durante il «regno», durato 24 anni, di Daniel Arap Moi.
Alleati nelle elezioni 2002, per cacciare Moi dal potere, Odinga e altri si dissociano dopo il referendum del 2004 e il fallimento della riforma costituzionale promessa da Kibaki. Riforma con la quale ci sarebbe stato un trasferimento di poteri dal presidente al primo ministro.
Due leader associati a due gruppi etnici. I kikuyu, a cui appartiene Kibaki, etnia maggioritaria delle oltre 50 (circa il 20%). Da sempre favoriti, fin dal tempo della colonia inglese (ad esempio nella distribuzione delle terre), e poi dal primo presidente e padre della patria Jomo Kenyatta (al potere dal ’64 al ’78). E i luo (circa 13%), a cui appartiene Odinga.
Pasticcio elettorale
«I brogli ci sono stati da entrambe le parti» assicura un testimone «voti sono stati rubati, oltre che comprati, naturalmente».
Già durante la campagna elettorale, non solo folle di giovani venivano pagate dai due campi per manifestare, ma un mercato del voto soprattutto a livello locale, era diffusissimo. «Molti si sono buttati a capofitto nella gara di spillare soldi ai candidati nazionali e locali, perché tutti erano nello spirito di dare. Alcuni hanno pensato che sarebbe stato da stupidi non approfittare» spiega un missionario italiano. «La miopia del volere tutto e subito senza una visione a lungo termine, senza preoccuparsi per il futuro. È impossibile per un politico onesto e senza soldi fare una campagna elettorale in Kenya».
Ma non basta. Una volta capito che Kibaki non arretrava davanti alle proteste sono cominciate le violenze. Luo (appoggiati da kalenjin) ad ammazzare kikuyu, a cacciarli e bruciare le loro case. E viceversa. La polizia a reprimere duramente. E così gli scontri sono diventati «etnici», prima per i mass media e poi per la gente. Esiste anche un macabro tariffario, denuncia padre Quattrocchio: «10-15 euro per bruciare una casa e 15-20 euro per uccidere un kikuyu».
«La questione etnica non è la ragione principale. Il tribalismo è usato, alimentato, fomentato, manipolato senza scrupoli come strumento politico. È vero, esistono antichissimi pregiudizi e diffidenze tra le varie tribù, soprattutto tra allevatori e agricoltori». Spiega Gigi Anataloni, missionario della Consolata e direttore della rivista «The Seed» a Nairobi.
Profonde disuguaglianze
«È un conflitto economico – sociale, mascherato da quello etnico» sostiene il sociologo Floris. Le sue radici stanno nelle profonde disuguaglianze che regnano in Kenya. Nella sola Nairobi, città modea dove si trova di tutto, due milioni di persone sono accatastate nelle baraccopoli, occupando solo il 5% della terra. «È facile assoldare giovani degli slum – continua Floris – per loro il futuro è una minaccia, non una prospettiva». Così sono migliaia i giovani pagati e armati per seminare disordini.
Della stessa idea è Gigi Anataloni: «Questi diseredati sono strumenti micidiali nelle mani di politici assetati di potere». E continua: «Alcune fonti parlano di 5.000 giovani pagati regolarmente ogni mese dal 2005 nella sola Kibera (la più grande baraccopoli di Nairobi, ndr). Le bande di vigilantes o di cosiddetti guerrieri, gli “eserciti privati”, armati e finanziati da pezzi grossi, che tante uccisioni fecero nel 1992 e più tardi, praticamente non sono mai state smantellate».
«Molti giovani degli slum volevano il cambiamento e subito», ricorda padre Bartolomeu, prete diocesano del Meru «e sono rimasti delusi. Da qui la rabbia e la violenza».
Difficili mediazioni
«La situazione si stabilizzerà perché ci sono troppi interessi economici estei – ricorda Floris – non faranno sprofondare il Kenya». Ma la mediazione internazionale ha mosso piccoli passi.
Luis Michel, commissario europeo alla cooperazione e il premio Nobel per la pace Desmond Tutu, sono stati tra i primi a intervenire, ma senza effetto. Così anche John Kufur, presidente del Ghana e presidente di tuo dell’Unione Africana. L’Ua ha quindi inviato l’ex segretario generale dell’Onu, Koffi Annan, che è riuscito a far incontrare per la prima volta i due contendenti, il 24 gennaio e a fare revocare le manifestazioni indette dall’Odm e proibite dal governo. Ma i disordini sono continuati, soprattutto nelle città dell’ovest Nakuru, Naivasha, Eldoret nella provincia Rift Valley, dove circa 140 civili sono stati vittime di massacri tra il 25 e il 27 gennaio. Alcune decine arse vive nelle proprie abitazioni. Annan denuncia «gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani».
«La polizia ha ricevuto ordini di sparare sui manifestanti» dichiara un testimone che chiede l’anonimato «chi brucia case, attacca persone o crea blocchi stradali può essere abbattuto».
La violenza è tale che il presidente della commissione dell’Ua, Alpha Oumar Konaré, all’apertura del summit di Addis Abeba (31 gennaio), parla di rischio genocidio e di «nuovo Rwanda». E chiama tutti i leader africani a intervenire per la pace.
Chi appoggia chi
Kibaki gode del sostegno dell’Uganda, infatti Yoweri Museveni è tra i pochi capi di stato a essersi complimentati con lui per la rielezione e subito a incontrarlo. Testimoni dalle province occidentali dichiarano che «soldati ugandesi attraversano il lago Vittoria di notte per venire in Kenya e dare man forte ai governativi» contro i dimostranti dell’opposizione. Veicoli per il trasporto merci dal porto di Mombasa all’Uganda sono bloccati e distrutti dai giovani dell’Odm.
Kibaki è invece malvisto dalla Gran Bretagna per aver interrotto cospicui contratti di foiture di automezzi Land Rover all’esercito ed essersi orientato al Giappone. Peggio ancora, il presidente ha rifiutato agli Usa di installare una base militare a Mombasa, sull’Oceano Indiano, strategica per il Golfo Persico. Questo ha scatenato reazioni come sconsigliare ai cittadini statunitensi di recarsi in Kenya.
Oltre Usa e Gran Bretagna ad appoggiare Odinga ci sono anche molti keniani (influenti) della diaspora. Raila avrebbe promesso di istituire la doppia nazionalità (attualmente non prevista) che favorirebbe interessi economici degli emigrati che hanno fatto fortuna all’estero. Odinga avrebbe inoltre potuto contare sul sostegno dei musulmani del Kenya. Il National muslim leaders council avrebbe ricevuto promesse dal candidato dell’opposizione sull’istituzione di leggi che favoriscono l’Islam.
Quali prospettive?
Mentre scriviamo le posizioni dei due leader keniani sono molto ferme. L’Odm chiede l’annullamento delle elezioni e un nuovo scrutinio. Cosa piuttosto difficile, sia perché i brogli non sono stati riconosciuti ufficialmente, sia per lo stato di caos che regna e rende impossibile organizzare alcunché. Kibaki, dal canto suo non vuole sentire dire che non è lui il presidente legittimo.
Anche il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon arriva a Nairobi il 2 febbraio. Il lavoro della mediazione è estremamente delicato, ma anche urgente. Le violenze, che ormai hanno assunto una chiara connotazione etnica, rischiano di andare lontano.
Marco Bello