Periferia della periferia

Qui Milano: reportage dalla capitale del «mercato»

Nella capitale economica e finanziaria italiana anche le nigeriane non sfuggono alla legge del mercato, che le relega in un ghetto di vessazioni e umiliazioni. La complessa organizzazione mafiosa che le gestisce rende difficile alle forze dell’ordine di comprendere il fenomeno e alle organizzazioni impegnate nella lotta al racket di aiutarle a liberarsi.

La Binasca di notte è il girone infeale delle ragazze nigeriane. Specialmente nel tratto Carpiano-Siziano, periferia sud di Milano. In gruppo, mezze nude, o nude del tutto, accanto a focherelli per strappare un po’ di calore nelle gelide notti d’inverno. Stanno alla periferia della periferia, ai margini di un mondo spietato, che seleziona e marginalizza anche gli ultimi tra gli ultimi. Anche chi è già così disperato da essere costretto a vendere il proprio corpo.
VECCHIE NUOVE MAFIE
La gerarchia della strada è crudele e spietata. Nella capitale economica e finanziaria italiana, neppure le ragazze sfuggono alla ferrea legge della domanda e della offerta. Al centro le più «redditizie», brasiliane soprattutto, ma anche italiane, est-europee, addirittura giapponesi, gestite da mafie potentissime. Lavorano sempre più negli appartamenti e nei club e prendono appuntamenti tramite siti specializzati. Lo scorso anno sono stati calcolati almeno 15 mila annunci del genere.
Poi, uscendo dalla città, lungo le strade provinciali che a raggiera si allontanano dal centro, si incontrano via via quelle più a «buon mercato»: moltissime est-europee e, sempre più lontane, le nigeriane. Tutte oggetto di violenza e mercificazione del corpo. Spesso in condizioni di vera e propria schiavitù.
A Milano, la mafia storica era quella sudamericana, scalzata poi da quella albanese e dell’Est europeo. Anche perché gestire i giri di prostituzione in città costa: richiede «investimenti» (soprattutto in appartamenti) che i nigeriani non fanno. In strada, tutto costa meno: il joint (il posto) come pure la ragazza. Una nigeriana è costretta a svendere il proprio corpo al massimo per 20 euro, spesso anche meno. Il debito che devono rimborsare, però, raggiunge cifre spaventose: mediamente dai 50 ai 60 mila euro, a volte anche di più. E inoltre devono pagare alla maman l’affitto, il cibo, gli abiti «da lavoro», nonché offrirle regali costosi, in cambio di un trattamento più umano. Altrimenti, finiscono col subire anche in casa i soprusi e violenze che già sopportano in strada.
E anche se la mafia nigeriana è ritenuta meno violenta di quella albanese o est-europea, non sono rari i racconti di stupri a opera dei trafficanti, di torture e violenze fisiche e verbali. Spesso le ragazze vengono obbligate a lavorare anche quando sono malate o in gravidanza o ad avere rapporti sessuali non protetti; se rimangono incinte vengono costrette ad abortire (alcune parlano addirittura di una dozzina di aborti!) o vengono sottratti loro i figli e usati come strumenti di ricatto.
«PICCOLE NIGERIE» ITALIANE
C hiuse in questo mondo di vessazioni e umiliazioni, vivono in Italia, ma per certi versi potrebbero essere ovunque. Sanno a malapena qualche parola di italiano; fuori dalla strada, vivono in una sorta di ghetto, mangiano il loro cibo, usano i loro prodotti per l’igiene, si procurano le medicine tradizionali, vanno persino nelle loro chiese… In alcune trovano conforto, in altre incontrano pastori, o sedicenti tali, coinvolti nella tratta, che danno giustificazioni «mistiche» o «spirituali» all’incubo che stanno vivendo. «È Dio che lo vuole!» si convincono.
Rinchiuse nelle loro «piccole Nigerie» italiane, non si mischiano, fanno vita a parte. L’unico fine sono i soldi: money, money, money. Un chiodo fisso, the big issue!
«Agli inizi degli anni Novanta – spiega Palma Felina, responsabile del settore donne vittime di tratta di Caritas ambrosiana -, era possibile trovare le ragazze nigeriane sulla circonvallazione intea di Milano. Ora sono sempre più fuori città. Questo per un insieme di fattori: per gli interventi della polizia, ma soprattutto in seguito alle lotte tra le diverse mafie che gestiscono le ragazze. Così le nigeriane sono state sempre più allontanate dal centro. Ora è possibile trovarle nelle zone industriali periferiche o in provincia. Sono lì soprattutto di notte, ma nell’hinterland sono costrette a lavorare anche di giorno. Alcune sono in strada da più anni, nonostante il tu-over. Oggi le spostano con più frequenza, per evitare che possano legare tra di loro o cercare rapporti particolari con qualche cliente».
La gestione del territorio è cruciale per chi sfrutta questo traffico aberrante. Soprattutto da quando è in atto un processo di «diversificazione» negli appartamenti e nei night-club. Le nigeriane, però, sono rimaste sempre in strada, in alcuni posti «storici» fuori città e sempre più nelle periferie e in provincia.
Secondo le ultime statistiche disponibili dell’Osservatorio permanente sulla prostituzione, risalenti al 2006, nelle case di accoglienza lombarde, il 35,2% delle ragazze ospitate sono rumene, il 33,3% nigeriane. In percentuali molto minori moldave, albanesi, uzbeke, ukraine e russe. Oltre la metà non ha alcun titolo di studio formale o ha il diploma di scuola elementare. Nei loro paesi d’origine erano disoccupate o svolgevano lavori saltuari in condizioni di grande precarietà. Il 70% è nubile, mentre il 30% ha uno o più figli.
«Circa l’80% – aggiunge suor Claudia Biondi, cornordinatrice del settore Aree di bisogno di Caritas ambrosiana – dice di non aver saputo che una volta in Italia sarebbe stata costretta a prostituirsi. Quasi tutte sono state ingannate o aggirate, mentre un 10% è stata vittima di violenza o rapimento. Negli ultimi anni è aumentato il numero delle ragazze nigeriane sempre più giovani, sia perché soddisfano le esigenze dei clienti sia perché sono più facilmente controllabili e manipolabili dai loro sfruttatori».

SEMPRE PIù GIOVANI,
PER BATTERE LA CONCORRENZA
In Lombardia la presenza delle nigeriane è piuttosto significativa e numericamente stabile, mentre è cresciuto negli ultimi anni il numero delle ragazze provenienti dall’Europa dell’Est e in particolar modo dalla Romania. Recentemente, è aumentata, sia sulla strada che in appartamento, la presenza di ragazze latinoamericane (e in particolare brasiliane). E, negli ultimi mesi, si cominciano a vedere in strada ragazze orientali e in particolare cinesi.
«Le ragazze nigeriane dicono tutte di avere 18 anni, ma moltissime hanno l’aria di ragazzine» fa notare Valerio Pedroni, responsabile del settore donne in condizioni di fragilità sociale di Segnavia, una struttura legate ai padri Somaschi. Gestisce cinque unità di strada, un drop in, un progetto in-door, case di prima e seconda accoglienza. Il tutto finalizzato a togliere le ragazze dalla strada e offrire percorsi di recupero che diano loro una nuova chance di vita.
«Molte di loro vivono tra Milano e Torino – continua – e si riversano la sera sulle strade della periferia milanese. È difficile stabilire un contatto con loro. Spesso sono in gruppo e non si riesce ad avere un rapporto personale; sono diffidenti, ed è difficile andare al di là di un contatto superficiale che può essere facilitato dalla loro esuberanza, ma che spesso non va molto in profondità. Inoltre, alcune maman che le gestiscono e le controllano, a volte sono in strada pure loro; le minacciano e le scoraggiano dall’avere contatti con persone che non siano i clienti. E poi loro stesse, essendo numerose e dunque dovendo lottare con una vasta “concorrenza”, non sono molto disponibili a “perdere tempo” con degli sconosciuti».

VINCERE LA DIFFIDENZA
«In passato – aggiunge Palma Felina -, a fronte di una presenza in strada significativa, erano poche le nigeriane nelle case di accoglienza. Avevano paura a denunciare, specialmente se non avevano ancora finito di pagare il loro debito. Quelle che decidevano di scappare non andavano nelle strutture di accoglienza, si aiutavano tra di loro. Non si fidavano di altri. Negli ultimi anni, invece, arrivano più numerose. Molte sono seguite in progetti territoriali. Alcune scappano, perché non ce la fanno più, prima di aver finito di pagare il debito. Dopo la denuncia, vengono portate lontano dai luoghi in cui hanno vissuto e lavorato. Ma spesso non dormono e si ammalano. Mostrano segni visibili di malessere e di traumi non solo fisici, ma anche psicologici».
In alcuni casi si allontanano dalla strada grazie a un ex-cliente che si è affezionato loro e che le aiuta. Ma i matrimoni di comodo non rappresentano la principale via d’uscita delle nigeriane; è molto più diffuso tra ragazze di altre nazionalità. In Italia molte sono state regolarizzate attraverso le sanatorie (comprese alcune madame!). Sempre di più sono quelle che denunciano i loro sfruttatori e che in base all’articolo 18 ottengono il permesso di soggiorno umanitario (cfr. p. 40).

STRUMENTI INADEGUATI
Tuttavia, gli strumenti legali paiono ancora inadeguati per combattere il problema alla radice. Sia perché in Italia le forze dell’ordine e le procure non hanno abbastanza mezzi per far fronte alla complessità della tratta, sia perché a livello nigeriano c’è una totale impunità.
«La mafia nigeriana – spiega Gianluca Epicoco, sostituto commissario della squadra mobile di Cremona, che da 12 anni svolge indagini e ricerche in questo ambito – è complessa e stratificata. Al livello più basso si trovano le maman, che rappresentano l’ultimo nodo di una rete che si dipana tra l’Italia e la Nigeria. A un livello intermedio, il potere passa agli uomini che gestiscono la logistica del traffico da Benin City a Lagos e da lì all’Europa, soprattutto Parigi, ma anche Amsterdam e Madrid per poi arrivare a Torino. Poi, a un livello più alto, troviamo i veri e propri trafficanti, che stanno in Nigeria: una struttura ben organizzata, potente, ramificata, con molti contatti, capace di corrompere ad alti livelli, con legami con governi e ambasciate, e addentellati in tutta Europa. Una vera e propria associazione a delinquere, in grado di trafficare documenti e visti, oltre che ragazze, su scala trans-nazionale. Di fronte a una simile organizzazione, spesso noi non abbiamo né le risorse umane né i mezzi necessari per fronteggiarla e combatterla adeguatamente». 
Un nuovo escamotage escogitato da qualche anno è quello della richiesta di asilo politico all’arrivo in Italia, magari spacciandosi per sierralionesi, liberiane o avoriane. Le ragazze vengono allora portate in appositi centri di prima accoglienza, da dove alcune scappano subito. Altre presentano la domanda alle questure, dove ottengono un foglio per richiedente asilo e da quel momento, sino al termine della valutazione della loro richiesta, non possono essere espulse.
Sempre di più, tuttavia, queste ragazze arrivano con storie molto plausibili, ma tutte uguali, che imparano a memoria e recitano davanti alle forze dell’ordine, facilmente smascherabili da chi ha un po’ di esperienza e conoscenza del problema, nonché dei luoghi di origine.

In Lombardia sono 34 le associazioni, i gruppi, gli enti che si occupano di queste donne e di tutte quelle che subiscono umiliazioni e violenze, vendendo il loro corpo. Oggi lavorano sempre più in rete per provare a restituire loro la dignità e riconsegnare il destino nelle loro mani.

di Anna Pozzi

Anna Pozzi