Reportage da Cartagena e dintorni
Il fascino e la vitalità di Cartagena non riescono a nascondere le sue contraddizioni. A pochi chilometri dalle sue storiche mura, la comunità di Arjona non si rassegna al destino dettato dalla violenza delle armi, che da 40 anni insanguinano la Colombia, ma è impegnata a costruire il proprio futuro, lottando contro la prepotenza e riscoprendo le proprie radici culturali, con l’aiuto dei missionari carmelitani.
Vista dall’alto, Bogotà sembra una città svizzera, distesa su una valle circondata da rilievi brulli e regolari; si scorgono serre, fattorie, mucche al pascolo e abitazioni basse, sul cui tetto è installato il contenitore dell’acqua. Le nuvole formano un coperchio viola sopra il verde della distesa; la temperatura è di 17 gradi e un’atmosfera placida intorno ai quartieri mitiga la fatiscenza delle palazzine di periferia.
Entrati in aeroporto, si incontra la tipica confusione sudamericana, alla quale si aggiunge la sensazione di essere atterrati nello scalo di una città di provincia e non in quello della capitale. Al check-in per imbarcarmi sul volo diretto a Cartagena de Indias, due giovanissimi poliziotti mi fanno mille storie per un tagliaunghie, frugano dentro il mio bagaglio: sono interminabili minuti di confusione e, da parte mia, di nervosismo dovuto alla stanchezza del viaggio.
Alla fine della discussione con i poliziotti sono costretto a lasciare a terra il tagliaunghie; li saluto e cerco di dare una sistemata al bagaglio, visto che mi hanno fatto tirare fuori tutto quanto, e mi avvio verso la porta d’imbarco. Dopo aver riposto il passaporto e il biglietto al sicuro, mi accorgo che mi manca la cintura dei pantaloni che avevo dovuto deporre sul banco del check-in.
Nella sala d’attesa una buffa signora sulla sessantina, vestita da infermiera, si intrufola tra i viaggiatori domandando se vogliono farsi misurare la pressione. La mia attenzione è attratta da due indios, due facce arrostite dal sole e da un passato antichissimo: sguardo fiero e mento pronunciato, zigomi accentuati e guance solcate da due rughe come segni di coltelli. Portano capelli lunghi che si adagiano su una tunica bianca; indossano cappelli a forma di feluca e mostrano a tracolla l’immancabile borsa di lana.
Dall’altra parte della sala alcuni professionisti stanno lavorando al loro computer portatile parlando d’affari al cellulare; vestono informali e lanciano sguardi circoscritti, come se non vedessero l’ora di essere su un aereo per la prossima destinazione.
Ancora alquanto disorientato, mi guardo intorno e scruto la buffa infermiera che si dilegua in tutta fretta e scompare nel fiume indistinto di giacche e bagagli. Finalmente arriva il momento dell’imbarco per la mia finale destinazione: Cartagena.
VECCHI E NUOVI PIRATI
È già notte quando l’aereo atterra a Cartagena, che appare in tutta la sua suggestiva bellezza, carica di storia secolare.
Cartagena venne fondata nel 1533 dallo spagnolo Pedro de Heredia, sulla costa del Mar dei Caraibi, nella zona settentrionale del paese. Nel luogo in cui ora sorge la città, viveva una popolazione chiamata calamarì, descritta dalle cronache dell’epoca come gente feroce e amante della guerra, al punto che anche le donne combattevano al pari degli uomini.
Sin dalle sue origini, Cartagena fu un attivissimo porto dedito al commercio degli schiavi: vi operavano, tra gli altri, gli agenti della compagnia portoghese Cacheu, la quale distribuiva i carichi umani provenienti dall’Africa per tutta l’America del sud.
Per preservare la città dagli attacchi dei pirati inglesi, olandesi e francesi, la corona spagnola assoldò abili ingegneri militari europei, i quali dotarono Cartagena di quelle strutture difensive che ancora oggi la rendono unica. Il centro storico, infatti, è stato dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco nel 1984, proprio per l’imponente e storica bellezza delle mura che circondano la città vecchia, la ciudad amurallada. Più in alto, su una collina si erge il castello di San Filipe, un’altra costruzione militare a protezione della città. Mura e castello sono splendidamente illuminati.
Sulla medesima collina, nell’oscurità del cielo si staglia, fisso e sospeso, il convento della Popa, antica residenza dei gesuiti, che ancora oggi emana un forte senso di autorità, come se sorvegliasse la città distesa ai suoi piedi.
Le luci inondano di polvere d’oro l’aria densa di calore; la salsedine attacca l’antica pietra di questa città eroica, accarezzata dalle onde placide dei Caraibi. Ma se ora, come quella notte di quasi cinque secoli fa, spuntasse un’altra volta con la sua flotta il corsaro inglese Francis Drake, che gli spagnoli soprannominarono «el draque» (il dragone), non ci sarebbero più a fronteggiarlo il sangue degli schiavi, né gli aggressivi calamarì e neppure i cannoni del governatore spagnolo. Troverebbe, al contrario, una straripante gioia di vivere, una innata cultura fatta di balli e musica, e poi donne bellissime e dai vestiti sgargianti; tutte cose che allontanano per il momento dalla mente del visitatore l’immagine reale del paese, cioè, l’idea dominante nelle cronache inteazionali di una nazione martoriata da una guerra civile che perdura da quarant’anni.
Malgrado queste suggestioni, condivisibili ma parziali, al posto degli spagnoli Drake troverebbe la polizia locale, impegnata ogni giorno a infondere sicurezza ai turisti, uomini d’affari e politici che affollano la città custodita all’interno delle mura: oggi come allora il pericolo si trova all’esterno: in passato i nemici venivano dal mare, adesso ciò che fa paura e che non deve interferire con la vita di coloro che godono della bellezza imperitura di Cartagena è la miseria, la violenza e il degrado sociale e umano che regnano nei quartieri periferici.
L’ECONOMIA DEL SUCCO
Nelle strade di una domenica mattina, a Cartagena, non trovo tracce né di poliziotti né di malviventi, solo pochi passanti lenti e addormentati che percorrono le vie del centro storico, costeggiate dalle tipiche abitazioni in stile coloniale, con i muri azzurri, verdi e arancione; vie che si aprono in piccole piazze accoglienti, con comode panchine, dove siedono alcuni signori silenziosi.
Agli angoli delle piazzette e sui balconi si vedono tanti fiori, orchidee rosse e celesti. Con il passare delle ore, la città si sveglia e già sulla spiaggia di Bocagrande, dove si concentrano gli alberghi e i sollazzi dei turisti, i bagnanti si crogiolano al sole e i venditori ambulanti fanno la spola a destra e a manca per racimolare qualche pesos. Offrono ogni sorta di mercanzia: bibite, frutta, collanine, schede telefoniche o mettono a disposizione addirittura il proprio cellulare per chiamare direttamente. Ci si imbatte pure con massaggiatrici ambulanti, misteriose cartomanti e furbi ometti, impegnati a piazzare i loro intrugli spacciati come soluzioni più potenti del viagra.
E poi si incontra il tipico taxista, l’abile conoscitore dei vizi insiti nella natura umana, nonché di tutti i postriboli della città, che offre piaceri e cocaina in paradisi artificiali.
Ma sul molo del porticciolo turistico della Bodeguita, da dove si salpa per raggiungere le isole da favola antistanti la città, la vita non appare paradisiaca; eppure si percepisce una certa effervescenza nell’aria; dal ponte del battello si può ammirare tutta la baia che si dischiude come un fiore dai petali cristallini e marini; sullo sfondo la cupola della cattedrale e altre strutture di rilevanza architettonica sembrano formare gli elementi di un arazzo; in mezzo ai flutti spunta la statua della Madonna che protegge la città, guarda le navi ancorate, le eroiche fortificazioni spagnole e i grattacieli dei nuovi ricchi, costruiti dalla speculazione selvaggia su una striscia della baia.
Ma lontano dalla brezza inebriante dell’oceano, nella periferia della città, dove si trova la zona industriale, tira tutta un’altra aria. Qui la mano d’opera arriva dalle depresse cittadine dell’interno e dai quartieri come quello chiamato Daniel Lemaitre: qui scorrazzano agguerrite bande di ragazzini che, oltre a rappresentare una seria emergenza delinquenziale, sono il coltello nella piaga di un sistema scolastico con molte falle e di un tessuto familiare sfibrato da disoccupazione e violenza domestica.
Malgrado il futuro sia macchiato da molte incognite, la notte si distende noncurante sui mendicanti, che sonnecchiano sotto i cartelloni pubblicitari con le facce dei candidati alle prossime elezioni amministrative; al tempo stesso, un fremito di vita, come una lunga scossa elettrica, pervade tutta la città, dai bassifondi al centro storico fino ai viali del benessere, dove fluisce una coda di auto costosissime.
Sul pullman che mi riporta alla mia abitazione sale un giovanotto che, con abilità da giocoliere, versa da una caraffa succo di frutta a un gruppo di studenti festanti e seminudi che hanno trascorso la domenica al mare. In una danza di sobbalzi e strategie da equilibrista, l’uomo del succo non ne lascia cadere neppure una goccia. Sembra posseduto da un fantasma, da uno spirito temerario e ghignante, quasi fosse la reincarnazione di qualche pirata, nuovamente alla conquista di Cartagena de Indias, spirito di un corsaro il cui eroismo oggi si dibatte tra l’immondizia lasciata ai bordi delle strade e il divertimento che si acquista nelle sfrenate notti sotto la Luna dei Caraibi.
SOGNI DI LIBERTÀ
Una volta svincolatomi dai movimenti esuberanti di Cartagena, mi dirigo verso Arjona, una cittadina nell’interno del dipartimento di Bolivar, per incontrare la comunità dei carmelitani in cui padre Lauro Negri, in Colombia da un trentennio, opera insieme a sacerdoti, laici e postulanti: una quindicina di giovani, tutti colombiani, che frequentano i corsi di filosofia nel seminario di Turbaco, in vista di continuare la loro preparazione al sacerdozio frequentando gli studi teologici a Roma.
Oltre a gobbare sui libri di filosofia, i giovani aspiranti carmelitani sono impegnati nell’animare la comunità parrocchiale e nelle sue varie attività pastorali indirizzate ai giovani, agli anziani, alle donne e agli indigenti, che ogni giorno si presentano nelle varie mense della città allestite da padre Lauro con l’aiuto del Piano mondiale dell’alimentazione.
Tutti i venerdì pomeriggio si recano nei quartieri che circondano la parrocchia, visitano le case di alcune famiglie dove si riuniscono con altre persone per leggere e commentare passi scelti del vangelo. Un pomeriggio accompagno due postulanti nel quartiere Limonal; l’appuntamento è nella casa di una famiglia originaria di una regione del sud della Colombia, trasferitasi ad Arjona per motivi di salute della signora, malata di cuore e bisognosa di un clima meno rigido. L’abitazione è semplice, con pochissime suppellettili, qualche elettrodomestico scassato e un tetto di lamiera che moltiplica minacciosamente il rumore prodotto da un forte e prolungato acquazzone.
La signora ha un’espressione dolente; mi racconta che va e viene dall’ospedale per sottoporsi a varie visite cardiologiche. Il marito mostra un misto di rassegnazione e di ironia, forse si tratta semplicemente di devozione per il proprio mestiere. Infatti tutte le notti lavora e impasta la farina per fare i panini, che al mattino presto inizia a consegnare nelle varie panetterie della città, spostandosi sempre in bicicletta.
I tre figli della coppia, finiti i compiti, un po’ al buio e un po’ con la luce – poiché l’elettricità a volte manca – contemplano seduti la superficie del tavolo completamente coperta dai panini del padre e forse i loro sogni non andranno più in là di quei pezzi affusolati di pane. Per tirare avanti in queste condizioni e mantenere alta la dignità e viva l’umanità ci vuole davvero un massiccio slancio di fede e di speranza nel futuro.
Si trova sempre la speranza nel fardello che appesantisce le spalle di coloro che lasciano la terra, come la famiglia del pane e come le tante famiglie che hanno raggiunto Arjona per sfuggire dalle nefandezze del conflitto armato. Li chiamano desplazados (sfollati), perché scappano dalle zone meridionali del paese dove le unità dell’esercito regolare, le squadre dei paramilitari e i guerriglieri si contendono il dominio del territorio e a farci le spese sono sempre e solo i civili, che in massa sono costretti ad abbandonare le loro case.
Nel giugno del 1995, 215 famiglie di sfollati giunsero ad Arjona, impaurite e, bisognose di tutto, presero possesso di un terreno incolto; da quel momento iniziò un duro contenzioso legale tra gli occupanti, supportati dalla comunità carmelitana, e il proprietario del latifondo, che lottò con ogni mezzo per conservare intatta la sua proprietà. La battaglia si risolse a favore della gente, che vide così la nascita di un nuovo quartiere con il nome Sueños de Libertad (sogni di libertà).
Da quei giorni incandescenti sono passati più di 12 anni; grazie a quel riconoscimento giuridico sono state costruite molte casupole di mattoni, lamiere e terriccio; ma l’amministrazione comunale non interviene per umanizzare e organizzare il quartiere. Qui la disoccupazione è cronica, la delinquenza morde soprattutto al calar del sole, la violenza familiare produce irreparabili disagi ai soggetti più deboli come i bambini e le donne, molti non possono usufruire dell’acqua e della luce; altre famiglie continuano ad arrivare, generando nuovi problemi che inevitabilmente si intrecciano con quelli ancora da affrontare.
Due signore arrivate da pochi mesi nel quartiere, mi raccontano dei loro figli uccisi dalla polizia, perché sospettati di collusione con la guerriglia, e dei loro villaggi saccheggiati sia dai paramilitari che dai ribelli. È gente che si è trovata tra l’incudine e il martello, cioè, tra lo stato che cerca di imporre la sua legge in tutti i modi e i rivoluzionari che tentano di rovesciare un ordine costituito, considerato illegittimo; gente che in Sueños de Libertad trovano almeno un po’ di pace per riprendere fiato; anche se si tratta di un respiro sempre affannato, a causa delle precarie condizioni socio-economiche.
A SCUOLA DI UMANITÀ
In tale contesto scoraggiante, l’unica possibilità di riscatto per questa comunità, nata dalla guerra e risorta dalle ceneri della lotta per la terra, è la scuola voluta e fondata dai carmelitani, a partire dalle classi dell’asilo fino a quelle superiori. Si chiama Centro educativo «Maria Eugenia Velandia», in memoria di una suora francescana venuta a mancare qualche anno fa, il cui impegno per gli altri rappresenta il fondamento dell’istituzione scolastica.
Da quando ha aperto i battenti nel 2001, la scuola ha visto crescere costantemente il numero degli alunni, passando dai 120 dell’inizio ai quasi 600 di oggi. Il Centro educativo è veramente il cuore pulsante della comunità: i genitori partecipano attivamente agli incontri in cui si illustrano e rinnovano i progetti didattici e alle feste organizzate per rafforzare l’identità della scuola.
Agli studenti più grandi, oltre alle materie tradizionali il Centro propone programmi concreti di educazione al rispetto reciproco, al riconoscimento dei valori delle diversità e presa di coscienza delle proprie capacità. Inoltre, è attiva la cattedra di cultura afro, al fine di riscoprire le antiche radici culturali di molti di questi ragazzi e valorizzae le attuali potenzialità.
Nonostante i problemi materiali e finanziari che ogni giorno i carmelitani devono affrontare, rimane altissima l’attenzione verso questi ragazzi, che soffrono le condizioni di precarietà in cui versano molte famiglie e le terribili conseguenze del conflitto interno: una guerra che nessuno riesce a spiegare e che nelle parole degli sfollati appare sempre di più come un’insensata lotta per il potere.
Ai margini di tale cinico gioco al massacro, perpetrato sulla pelle dei più indifesi, la scuola si fa carico dei loro problemi e con amore cerca di rendere meno dure e amare le difficoltà della crescita e della maturità. Un amore rivolto soprattutto ai più piccoli che frequentano l’asilo. Sono questi, infatti, le vittime più vulnerabili, che assorbono come spugne la violenza che incontrano in famiglia e nelle strade. Al loro fianco, come scudo per ripararli dalla crudeltà dei giochi dei potenti, ci sono le maestre che sotto un sole terribile o in mezzo al fango lavorano quotidianamente con dignità insuperabile, inflessibile e bella.
RADICI
Ad Arjona manca il lavoro, non esistono né una vera e propria imprenditoria né la cosiddetta classe media dei colletti bianchi. I commerci e gli affari girano intorno alla «bomba de gasolina», la pompa di benzina, situata sulla strada per Cartagena battuta incessantemente da auto, moto e pullman stracarichi di gente.
Chi resta in città si arrangia attraverso piccole attività commerciali, lavoretti saltuari e non specializzati; oppure si ingegna per aggraziarsi le simpatie di qualche politico locale, specialmente nel periodo elettorale: affidarsi a un potente potrebbe risultare un’azione vincente per conseguire un’occupazione.
Altre persone invece si riversano su Cartagena; pochi, però, riescono a usufruire di uno stipendio fisso. Di conseguenza solo un gruppo ristretto si può permettere l’automobile o il computer a casa. La maggior parte si ritiene fortunata se riesce a tornare dalla grande città portando a casa il ricavato di un lavoro saltuario, che non si trova tutti i giorni. La fame, invece, non va a corrente alternata.
Ad Arjona gli spazi di aggregazioni sono un miraggio. Oltre alla bomba de gasolina, unico punto d’incontro è il piazzale che circonda la chiesa. I giovani soprattutto, vi passeggiano il sabato sera e per divertirsi si accontentano di poco: basta un po’ di musica che da queste parti spopola da sempre.
Mentre i ragazzi intessono le loro storie d’amore in questo ampio e lento girotondo, all’interno della chiesa si prega e, alla fine di ogni celebrazione, mi sembra quasi di percepire un sospiro di sollievo e di liberazione, come se la preghiera, carica di aspettative e di speranze, colmasse uno spazio irrazionale, ancestrale, legato al passato e all’anima africana di questa gente.
Tutto questo non è casuale. A pochi chilometri da Arjona, infatti, si può visitare un pezzo di continente nero: un villaggio interamente abitato da discendenti degli schiavi che orgogliosamente difendono le loro origini africane; vivono un po’ isolati, fuori dal mondo, anche se la televisione domina in quasi tutte le case; in una di queste abitazioni sorprendo una signora anziana mentre guarda distrattamente i Simpson, in una stanza piena di fotografie degli antenati. Sono prevalentemente agricoltori: ciò che riescono a produrre, lo vanno a vendere a Cartagena.
Il villaggio si chiama Palenque e gli abitanti parlano il palenquero, un idioma nato dall’innesto dello spagnolo su una base di dialetti africani mescolati tra loro. Attraverso la biblioteca della scuola, lo sport e attività artigianali, sono impegnati tutti i giorni a conservare con fierezza le radici del grande albero della cultura africana. Durante la dominazione spagnola, un gruppo di ribelli trovò la forza e il coraggio di fuggire trovando rifugio in una zona ben protetta, dove continuarono a lottare contro i loro aguzzini che ovviamente cercavano di rimetterli in catena. La resistenza fu così difficile da sedare, che gli spagnoli dovettero cedere, concedendo la libertà ai fuggiaschi che fondarono il nuovo villaggio. Era il 1603, così recita il monumento celebrativo davanti alla chiesetta del villaggio, sotto un cielo di enormi e rapide nuvole nere.
Paolo Brunacci