In paradiso si gioca a rugby
All Blacks: quando il rugby diventa una fede. Tra business, spettacolo e tradizione
Gioco di squadra, agonismo, disciplina, rispetto delle regole e degli avversari… sono valori fondamentali del rugby,
fino a diventare un modello educativo e stile di vita.
In Nuova Zelanda, famosa anche per la sua prestigiosa squadra nazionale, gli All Blacks, tale sport
rispecchia storia, tradizioni, fede e cultura della composita popolazione del paese; ma i suoi riti e slogan vengono
banalizzati negli spot pubblicitari del mondo occidentale.
Sono stati gli attori indiscussi di uno degli spot pubblicitari di maggiore effetto. «Built the same way» (costruiti nello stesso modo) come recita il costoso slogan che Iveco, la casa italiana costruttrice di veicoli commerciali e pesanti, ha scelto per celebrare la partnership con gli All Blacks, i temutissimi nazionali neozelandesi di rugby. Un sodalizio di «peso» che, al di là di ogni connotazione commerciale, rafforza di riflesso anche l’immagine «d.o.c.», già insita nel corredo cromosomico di questi talentuosi campioni.
E se di cromosomi o di «dna sportivo» si vuole parlare certamente non è passata inosservata la nuova, più recente, trovata mediatica che ha visto come sempre protagonisti i campioni di rugby dell’emisfero australe. «Bonded by blod» (legati col sangue), questo è il titolo di una discutibile campagna pubblicitaria di abbigliamento sportivo, che Craig Waugh, marketing manager dell’Adidas in Nuova Zelanda, ha lanciato insieme alla nazionale di rugby del suo paese lo scorso 31 maggio. In vendita la maglietta degli All Blacks con in dono il poster, a tiratura limitata, realizzato con il sangue di 39 campioni della palla ovale. Sì, proprio così, perché il dna dei temutissimi All Blacks, è stato aggiunto all’inchiostro che è servito a stampare i manifesti pubblicitari della multinazionale tedesca.
Un autentico «patto di sangue» per questo discutibile sodalizio: «Una firma è personale – spiega Mark Cochrane, della Tbwa-Whybin, la società pubblicitaria che ha curato la campagna della multinazionale tedesca – ma con il dna della squadra la rende ancora più personale».
Ma al di là di ogni connotazione morale, il rugby è effettivamente il dna della Nuova Zelanda, lo sport per eccellenza praticato tra gli atolli del Pacifico, dove i valori etici e spirituali di questa disciplina sono forse già connaturati nella «struttura biologica» dei grandi campioni.
Rugby e fede: sport come lezione di stile e di vita
Di recente, in Italia, sull’entusiasmo dell’ultima fortunata partecipazione della nostra nazionale al toeo delle Sei nazioni, la più importante competizione internazionale di rugby giocata in Europa, questo sport torna più che mai alla ribalta. Anche e soprattutto come modello educativo e sociale, che sottolinea i valori cristiani dello sport, anche agli occhi dell’opinione pubblica, dopo i vergognosi esempi di «calciopoli» e gli inconsulti atti di delinquenza che hanno infangato il miliardario passatempo delle folle del bel paese.
Lealtà sportiva e rispetto dentro e fuori dal campo di gioco: sono questi i soli modelli di comportamento che trovano nella palla ovale forse il più onesto esempio di educazione alla socialità da insegnare ai giovani, non solo quelli che si avviano all’attività sportiva. Proprio come avviene da almeno due secoli in Nuova Zelanda, il paese dove il rugby resta il gioco più praticato a livello scolastico, e che riveste altresì un ruolo di formazione al pari delle altre discipline d’insegnamento.
Anche per questa sua importantissima funzione il rugby è seguito con sguardo consenziente dalla congregazione anglicana del paese, perché diviene un veicolo di spiritualità, che si esprime come scuola di autocontrollo, di autodisciplina, di rispetto per sé e per gli avversari. Una «dimensione» cristiana dello sport che, al di là dei differenti costumi, usanze, riti, razze e schemi di gioco, è capace di mettere tutti d’accordo dentro e fuori dal campo.
Sono queste le prime norme di chi pratica ad altissimo livello agonistico il sano, vecchio rugby, lo «sport giocato in paradiso», come recita in modo provocatorio e un po’ irriverente un antico proverbio anglosassone. La violenza, l’offesa e l’esasperazione esacerbata degli animi non fanno parte dell’etica di questa disciplina, che impedisce di trasformare gli avversari in nemici, il proprio vigore fisico in una scorrettezza, l’abilità in una frode.
Il primo dei tanti perché è senza dubbio legato allo sviluppo della socialità: da sempre, il rugby nell’emisfero australe è inteso come massima espressione di un collettivo perfettamente integrato, dove è cristianamente del tutto assente l’egoismo individualista.
Dunque rugby anche come una confrateita, una religione, forse un modo di vivere, una battaglia sociale, un fatto educativo. Secondo Davis Storey, scrittore britannico di Wakefield, in una delle sue celebri novelle, This Sporting Life, a proposito del rugby scrive : «… è il solo sport per uomini che sia rimasto». Fuori dell’enfasi, il rugby neozelandese non è tutto questo, ma è certo paradossalmente un po’ di tutto ciò. Una disciplina diversa, romantica, genuina, ancora legata come nessun altro sport alla tradizione, alla storia, alla fede e alla cultura in cui è nata.
La Haka: tradizione e spettacolo
Per tradizione e poi sul campo sono i più bravi. Divisa tutta nera, maglietta della salute compresa, la felce argentea sul petto: ecco gli All Blacks, il dream team della palla ovale. Per loro il rugby è un modo di concepire la vita, ma anche una forma di arte e di spettacolo. Il resto poi lo fanno i media, con grande arguzia e dedizione, che sottolineano spesso le suggestioni che la dimensione religiosa gioca in questo sport.
Sull’isola, dove convivono il passato e il presente etnico di un paese meticcio, il rugby assume maggiormente i connotati della disciplina romantica, ancora legata, come nessun altro sport, alla tradizione antropologica e alla cultura religiosa da cui trae origine la storia di un popolo. Significati riconducibili alle origini dei miti maori, al retaggio sacrale dei defunti, al rispetto dei riti e della religione a cui si affidano gli atleti prima di ogni match.
Dietro a ogni gesto preparatorio c’è una ritualità, una tradizione ancestrale che affonda le sue radici proprio nel valore più intimo e spirituale dell’uomo: la religione degli antenati. Tipica degli All Blacks è la Ka mate, un modello di Haka, la danza propiziatoria di guerra, che ha lo scopo di intimorire gli avversari prima di ogni partita, ma anche una manifestazione di gioia, di dolore, una libera via di espressione. Il rituale è ormai divenuto celebre in tutto il mondo e fa parte dello show offerto dalla squadra neozelandese prima ancora del calcio d’inizio. Una cerimonia a dire il vero impressionante: si roteano e si spalancano gli occhi, si digrignano i denti, si mostra la lingua, ci si batte violentemente il petto e gli avambracci, si dà quindi un saggio di potenza e coraggio, che si ricollega allo spirito guerriero. Dal punto di vista agonistico-sportivo, si può anche identificare nella danza tradizionale maori una vera tecnica di attivazione mentale che anticipa la psicologia dello sport e scava dentro rituali ancestrali. Un metodo che oltre a sottintendere passione, vigore e identità della razza, consente di arrivare alla gara in uno stato psico-fisico ottimale, dimostrando sicurezza di sé e nella squadra.
La fede dunque che rende nobile lo sport. Tutto questo è l’haka: comunicazione non verbale, mediante gesti rituali e guardi di sfida all’avversario, e comunicazione verbale per confermare le proprie origini, l’orgoglio di appartenenza a un popolo e la certezza nell’obiettivo.
Ma poi in campo, 15 campioni di eleganza, di stile, di disciplina, gli attori indiscussi di uno spettacolo dell’anima, quella bella. Gesti semplici che racchiudono la tradizione e il professionismo di chi è «ricco» anche di valori. Da Joe Rokocoko a Rodney So’oialo, da Neemia Tialata a Jonah Lomu, la leggenda maori continua. E l’ovale passa ai nuovi testimonial di una fede sportiva, quella in cui attraverso i media si concretizzano, come all’ultima meta, i modelli di sviluppo sociale e i più elevati ideali di educazione alla convivenza civile.
Copyright culturale a rischio
Certamente la danza rituale è l’aspetto che sembra penetrare, seppur superficialmente, più di tutti gli altri complessi elementi che compongono la cultura maori, nell’immaginario collettivo dei media occidentali. Molti sono gli spot che negli ultimi mesi si sono serviti, forse in modo un po’ troppo disinvolto e irriverente, dell’immagine della cultura dei nativi maori a fini promozionali. In Italia, ad esempio, non è passato inosservato il lancio commerciale di un modello di auto Fiat che ha suscitato accese polemiche in Nuova Zelanda. Creato dalla Leo Buett Italia, nella pubblicità alcune donne si esibiscono nella haka, accompagnata dalle tipiche sonorità, mentre alla fine dello spot, una donna sale sull’auto pubblicizzata, dove un neonato mostra la lingua: azione che conclude, anche nella realtà, il rituale di danza.
Secondo i diplomatici neozelandesi lo spot è «culturalmente insensibile» e, nonostante le proteste ufficiali, è stato comunque prodotto e mandato in onda da diverse emittenti televisive. Brad Tattersfield, portavoce del New Zealand Ministry of Foreign Affairs and Trade (Mfat, Ministero degli esteri e del commercio), ha dichiarato che il Ministero era stato avvertito dall’ufficio del New Zealand Trade and Enterprise (Nzte) di Milano dell’utilizzo della haka in uno spot pubblicitario. In alternativa, era possibile utilizzare un gruppo maori che avrebbe danzato un altro tipo di haka composto appositamente per il gruppo di donne; ma l’agenzia di pubblicità ha ignorato la proposta.
Tuttavia, secondo Garry Nicholas, general manager della Te Toi Aoteroa, associazione che promuove e protegge l’arte e la cultura maori, nello spot non viene danzato propriamente una haka, sebbene ne sia evidente la radice culturale. Il contesto dello spot è alquanto giocoso e il bambino che mostra la lingua alla fine della pubblicità sottolinea l’approccio ironico, sebbene abbia riconosciuto un’insensibilità di fondo verso la cultura maori.
Ma la Fiat non è l’unica realtà industriale ad aver utilizzato riferimenti della cultura maori. La pubblicità di una famosa marca di whisky, la William Lawson, apparsa in Belgio (dove una squadra di rugby si esibisce in un haka davanti a una squadra scozzese i cui componenti, per tutta risposta, sollevano il kilt) è stato oggetto della protesta ufficiale dell’ambasciatore neozelandese. La Philip Morris si è invece dovuta scusare con i maori, nell’aprile scorso, per aver stampato le loro immagini sui pacchetti di sigarette in vendita in Israele, mentre sei anni fa la Lego ha perso una causa legale contro il popolo maori per aver «plagiato» la loro cultura nelle storie legate a una sua popolarissima linea di giocattoli.
All Blacks oggi: sindrome da mondiale
Nello sport, diceva il barone De Coubertin, l’importante è «partecipare». Ma questo spirito pionieristico e dilettantistico che ha fatto del rugby la disciplina dilettantistica per eccellenza, oggi non va più bene. Gli All Blacks invece a vincere sono condannati. Ai mondiali però, dopo il mitico ‘87, anno della prima e unica vittoria, hanno sempre fallito per sfortuna, presunzione e orgoglio dei paesi ospitanti o, soprattutto, per l’enorme «pressione» non solo della stampa amica e avversaria e tifosi, ma di un’intera nazione, che provoca brutti scherzi a livello mentale e condiziona forse troppo le prestazioni sportive di questi grandi campioni.
La sesta edizione della Webb Ellis Cup, la coppa del Mondo 2007, conclusasi in Francia lo scorso ottobre, ha visto per la seconda volta il trionfo degli Springboks, le gazzelle sudafricane. Eppure anche in questo mondiale gli All Blacks, guidati dal c.t. Graham Henry, sembravano aver finalmente acquisito quel cinismo tipicamente «europeo», che, affiancato alle loro enormi abilità individuali e tattiche, avrebbe potuto portarli alla vittoria mondiale.
Quest’ultima eliminazione – conferma la stampa neozelandese – è forse stata la più incredibile della serie, perché negli ultimi quattro anni la Nuova Zelanda aveva dominato contro tutte le squadre, perfino sui Lions, la selezione che raccoglie i migliori giocatori delle isole britanniche, perdendo solo 5 test match sui 41 disputati prima del quarto di finale contro i padroni di casa della Francia.
Diverso fu il destino del capitano vincitore David Kirk, che fece però parte nel ruolo di consigliere del premier nell’esecutivo guidato da Jim Bolger e fu vicino ad essere eletto deputato. Questa volta i giocatori non hanno subito particolari «trattamenti»; l’intera nazione è precipitata, però, nel totale sconforto: un intero popolo sull’orlo di una crisi di nervi, con psicologi invitati a sollevare il morale della popolazione; il capo degli arbitri della federazione rugbistica internazionale Paddy O’Brien, neozelandese per ironia della sorte, minacciato per aver preso le difese «istituzionali» dell’arbitro inglese, il debuttante Wayne Baes, che ha diretto la sconfitta contro i transalpini, finito per alcune sue decisioni discutibili sotto il tiro incrociato dei tabloid neozelandesi. Ma ancora borse che crollano e governo sull’orlo della crisi istituzionale. Addirittura alla vigilia della coppa del mondo, l’equivalente del nostro ministro delle Attività produttive neozelandese aveva espresso timori per via del fuso orario che obbligava i lavoratori a stare svegli di notte, limitandone quindi presenze e produttività.
Due giorni dopo la sconfitta della nazionale kiwi di rugby, il lunedì mattina, in apertura di contrattazioni, la seduta della Borsa di Wellington ha risentito del verdetto del campo di gioco. Oltre ai tifosi anche gli investitori non sembrano aver preso bene la sconfitta. Pur seguendo l’andamento positivo di Wall Street, l’attività del mercato è stata giudicata assolutamente piatta. Il lunedì è tradizionalmente una giornata tranquilla per il mercato neozelandese, ma la calma per l’occasione era apparsa eccessiva: da stato di shock hanno detto i brokers.
Che il rugby in Nuova Zelanda non sia solo un gioco lo dimostra anche il fatto che dopo l’incontro, i giornalisti hanno chiesto al primo ministro Helen Clark, allo stadio vicino al presidente francese, Nicolas Sarkozy, se la sconfitta avrebbe avuto ripercussioni negative sul governo. «Ne sarei sorpresa» ha risposto la Clark, cercando forse di scongiurare con astuta diplomazia su una possibile, annunciata crisi istituzionale.
Nel 2011 i mondiali si giocheranno in casa e molti, fin d’ora, sono pronti a scommettere che sarà la volta buona.
Di Massimo Ruggero
Massimo Ruggero