Donne in frantumi

Nigeria-Italia: storie di ragazze abusate e rimpatriate

Sono partite con un sogno; sono tornate svuotate del loro essere donna, rifiutate, giudicate, condannate…
con ferite profondissime, difficili da rimarginare. 

Joy lo ripete senza tregua. Con veemenza e desolazione. Con violenza, ma anche con le lacrime che le si affacciano agli occhi. «Mi dovete risarcire di tutto il male che mi avete fatto!». Sempre la stessa frase, ossessionante, che esonda dalla palude di sofferenza, paura, rabbia e dolore, che si porta dentro. Una ragazza spezzata. Come le altre. Ma lei continua a urlarlo fuori.
È stata rimpatriata a Lagos dall’Oim. Lo ha scelto lei quando forse non aveva più altra scelta. Prima era passata da Brescia e da Roma; l’hanno ospitata le suore di Nostra Signora degli Apostoli a Roma e l’hanno seguita al centro di ascolto Caritas della capitale. Aveva ottenuto il permesso di soggiorno a Brescia, ma non aveva futuro in Italia.
A suor Erma Marinelli, delle suore di Maria Riparatrice, non pare vero di rivederla lì, a Lagos. L’ha seguita per quasi sei mesi alla Caritas Roma. Una ragazza particolarmente problematica. Ha fatto impazzire tutti. «Quando veniva da noi, urlava, faceva scenate incredibili. L’abbiamo mandata da un medico e da uno psicologo. Ma lei ripeteva: “Non sono matta”. E già allora continuava a ripetere: “Mi dovete risarcire di tutto il male che mi avete fatto!”. Pensavamo che avesse subìto abusi e violenze in strada. Ma non sapevamo ancora tutto».
Joy racconta di aver fatto qualche lavoretto, la badante soprattutto. Ma non dice che resisteva a malapena un mese o poco più. Racconta di essere stata ospitata dalle suore e poi in un ostello Caritas. Ma non dice che anche lì aveva sempre problemi. Non dice soprattutto il dramma che ha rovinato la sua esistenza, ancor più della sua vita in strada, la vergogna che l’ha marchiata per sempre. «È probabile che le abbiano fatto girare un film poografico – racconta suor Erma -. Ogni tanto vi faceva allusione, urlando con rabbia frasi oscene, sbattendoci in faccia con violenza la peggiore delle violenze che aveva subìto. Un dramma da cui non si è più ripresa».
L’hanno convinta a rientrare in Nigeria, con un rimpatrio organizzato dall’Oim. Prima, però, ha chiesto alla famiglia se i soldi che le avrebbero dato (1.500 euro) erano sufficienti per essere di nuovo accettata a casa. «Hanno detto di sì – ricorda suor Erma -. E per lei è stata come una liberazione. Ha cambiato atteggiamento. Ha riacquisito un po’ di dignità. Non rientrava a mani vuote e sapeva che c’era qualcuno ad attenderla. Ma niente sarà mai abbastanza per risarcirla davvero di tutto il male che ha subìto».

Anche in Blessed si intuisce che c’è qualcosa di inesorabilmente infranto. Ha 37 anni ed è ancora una bella donna, alta e slanciata, avvolta in un elegante abito tradizionale. Ha un viso dolce, ma gli occhi sono spenti, persi.
È rientrata in Nigeria quattro anni fa, dopo avee passati undici in Italia. È tornata dai suoi figli, dice, che oggi hanno 23, 22 e 18 anni. Li aveva lasciati in Nigeria per andare in Italia a «lavorare». «Pensavo di andare a fare la cameriera o la parrucchiera – racconta – e invece…».
Della vita in strada non vuole ricordare nulla. Parla, con un italiano stentatissimo e lo sguardo un po’ assente, dei luoghi dove è stata e dei luoghi comuni: la gente che è simpatica, la pasta e la pizza che ora non mangia più. «Era un po’ dura in Italia – dice quasi scheendosi -, ma anche qui non è facile».
Da quando è tornata non ha più relazioni con i genitori. Le suore di Nostra Signora degli Apostoli hanno cercato di metterli in contatto, ma i suoi parenti non vogliono più sapee di lei. Neppure la figlia maggiore. Gli altri due le sono vicini e le suore l’hanno assunta per fare le pulizie in una biblioteca. Ma non è del tutto lucida e ha bisogno continuo di medicine.
«Quando vedo la disumanizzazione che comporta il fatto di vendere se stesse per sopravvivere dico che tutto questo non è giusto, e che dobbiamo lottare per mettere fine a questo traffico vergognoso». Eric Okoje, avvocato, è tra i fondatori del Cosodow, il Comitato per il sostegno della dignità della donna, creato dalle religiose nigeriane. E anche se da quasi dieci anni lavora in questo settore non smette di provare rabbia e indignazione.
«È un’ingiustizia intollerabile quella di ridurre una persona in schiavitù – denuncia -. Quando vedi che tante famiglie sono toccate direttamente o indirettamente da questo dramma, inevitabilmente ti interroghi. Sul loro futuro e sul futuro di questo paese. Perché dobbiamo permettere di rendere schiava una generazione di nostri giovani? È una generazione persa. Per questo dobbiamo lottare con tutti i mezzi per impedire che questo continui. Ma non è facile. Perché c’è un problema di povertà, di impunità e anche di perdita dei valori. Se non ci sono fondamenti non si può costruire nulla. Ma è difficile far passare un messaggio a una persona che ha fame. Non ascolta: ascolta il suo stomaco».

Faith viene da un villaggio poverissimo di Ondo State ed è tra quelle che ha ascoltato questo grido. Suo e della sua famiglia. E si è fidata, come molte, di un cugino, uno zio, un parente, che faceva promesse che non si potevano rifiutare.
Nel suo caso è stato lo zio che le ha detto che l’avrebbe portata in Europa. Erano un gruppo di 85 ragazze e 72 ragazzi; sono partiti via terra, attraversando il Niger e poi tutto il deserto del Sahara sino all’Algeria. Da qui in Marocco. «Non c’era niente da mangiare né da bere – ricorda Faith -. Siamo rimasti quattro mesi nel deserto e nove in Marocco. Tre di noi sono morte attraversando il Sahara, uno in Marocco. A quel punto sono voluta tornare indietro, ma so che altri tre sono morti nel Mediterraneo».
In Marocco, racconta, erano stati tutti rinchiusi in due stanze, una per i ragazzi e una per le ragazze.
«Non volevo fare la prostituta – dice -; ho detto che volevo tornare, ma non volevano lasciarmi andare. Sono riuscita a scappare e sono andata dalla polizia. Quelli mi hanno picchiata, ma poi mi hanno portata all’aeroporto e rispedita in Nigeria. Quando sono tornata ho trovato mio zio che stava preparando un altro viaggio. E voleva che partissi di nuovo. Ma questa volta ho detto di no».
Ora Faith è a Benin City dove sta cercando un lavoro. Ha conosciuto le suore che si occupano del problema della tratta e che la stanno aiutando a continuare gli studi. «Vorrei diplomarmi in business administration, trovare un buon lavoro e guadagnare un po’ di soldi per me e la mia famiglia che è rimasta al villaggio».
R ose, invece, è tornata ad Akure, ed è ospite di un convento, ma porta ancora addosso uno dei segni della vita che si è lasciata alle spalle in Italia: due lenti a contatto blu, che spiccano come due fanali sul suo volto scuro e un po’ triste. Voltare pagina non è facile, dicono le suore che l’hanno in custodia. Ha 21 anni ed è una ragazza alquanto problematica. I segni di quello che ha subìto non sono così evidenti come quelle lenti a contatto, ma sono scolpiti indelebilmente nella sua anima.
Rose è giovane e può ancora farcela. Soprattutto se le sarà offerta una qualche chance di riscatto. Come è successo a Kathy.

Kathy, oggi, ha 26 anni. È stata tra le prime a tornare a Benin City, nel 2000. Lei però la strada l’ha solo «sfiorata». Alla famiglia avevano detto che l’avrebbero portata in Europa. In Italia ci è arrivata passando dalla Francia. Poi è finita a Roma, ma lei non sapeva neppure dove fosse.
«Mi tenevano rinchiusa nella casa di una maman – racconta -. Poi, un giorno, mi hanno affidata a un’altra ragazza perché mi portasse al lavoro. Non mi avevano detto di cosa si trattasse esattamente, ma lo avevo intuito. E così, mentre eravamo sull’autobus, sono scappata e sono salita su un altro bus. Non sapevo dove stessi andando. Quando ho sentito una campana, sono scesa e ho cercato la chiesa e un prete. Due donne mi hanno aiutata a trovarlo. È stato gentile e mi ha accompagnata in ambasciata, ma era già chiusa. Allora mi ha portata in una casa di accoglienza delle suore. Io non parlavo italiano. Loro non parlavano inglese. Hanno chiamato suor Eugenia Bonetti». Da lì è partita tutta una serie di contatti e collegamenti che hanno riportato Kathy in Nigeria e che le hanno permesso di tornare a Benin City dove sister Florence e le sue consorelle l’hanno accolta. Kathy è una ragazza intelligente e volonterosa. Ha ripreso gli studi e si è diplomata in business economy. Lo scorso anno, poi, è riuscita a prendere una laurea in psicologia. «Ora vorrei aiutare le altre ragazze che hanno vissuto l’esperienza della tratta e che sono state meno fortunate di me». Il suo, almeno, non è stato un viaggio a senso unico.

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi